Il disabile adulto e la sua famiglia

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Il disabile adulto e la sua famiglia
Il disabile adulto
e la sua famiglia
DISABILITÀ
ESISTONO MOLTE E DIVERSE DIFFICOLTÀ NELLA DEFINIZIONE
DI CHI È IL DISABILE ADULTO MA SOPRATTUTTO LE DIFFICOLTÀ
SONO INERENTI ALLA DEFINIZIONE DI QUANDO IL RAGAZZO/A
DISABILE VIENE CONSIDERATO ADULTO, IN QUANTO, IL SUO
PASSAGGIO A QUEST’ETÀ È RAPPRESENTATO IN MANIERA
EVIDENTE DAI SENTIMENTI DEI FAMILIARI PIÙ CHE DAI
COMPORTAMENTI DEGLI
Lorenzo Morini *
Psicologo e psicoterapeuta
INTERESSATI.
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Cosa si intende per disabile adulto?
Quando un ragazzo/a disabile diventa
adulto?
Se proviamo a rispondere a queste
domande, ci rendiamo conto che emergono molte e diverse difficoltà nella
definizione di chi è il disabile adulto ma,
soprattutto, le difficoltà sono inerenti
alla definizione di quando il/la ragazzo/
a disabile viene considerato adulto. Ciò
non è tuttavia particolarmente diverso
dalla medesima riflessione concernente
i ragazzi e le ragazze “normali”.
Specialmente oggi e specialmente
nel mondo occidentale, dove la “giovinezza” si è allungata sia per l’allungamento
generale della scolarizzazione, ma anche
a causa di una difficoltà diffusa a entrare
nella fase “adulta” della vita.
Relativamente al/la ragazzo/a disabile c’è, secondo me, un aspetto interessante nel passaggio all’età adulta che è
rappresentato in maniera evidente dai
sentimenti dei familiari, più che dai
comportamenti degli interessati.
Devo aggiungere, a proposito della
definizione di disabile adulto, che mi è
stato fatto notare che in realtà il disabile non diventa mai adulto, se intendiamo per adulto una persona autonoma,
capace di autodeterminazione e di
scelte personali consapevoli e indipendenti. E questo è certamente vero, ma
rappresenta, secondo me, solo una parte
del problema, perchè è altrettanto vero
che vi è una profonda differenza tra un
disabile di 15 o 20 anni e uno di 30 o
40. A questo proposito, vorrei dire che
l’esperienza di vita, anche se estremamente limitata cognitivamente, psicologicamente o sul piano delle autonomie,
è comunque un fatto fondamentale per
tutti. Per quanto mi concerne, penso che
continuare a definire i disabili secondo
una presunta “età mentale” sia profondamente riduttivo.
Anche i familiari, con tutte le difficoltà che possiamo immaginare, si
rendono conto che i loro congiunti sono
ormai adulti. “A un certo punto mi sono
resa conto che mia sorella era diventata
un’adulta, non accettava più di essere
sgridata e trattata come una bambina,
desiderava la sua ‘autonomia’, con
tutti i limiti della sua condizione, e
come tale io ho cominciato a trattarla.
Forse anche questo passaggio l’ha resa
più tranquilla e, mi sembra, serena, in
questa fase della sua vita”.1
Anche per questo sono convinto che
dobbiamo chiederci, anche per i disabili,
quando inizi l’età adulta.
Entrando nel merito del tema,
ritengo che il momento del passaggio
all’età adulta sia molto più chiaro nel
disabile che nel cosiddetto normale. E
anche molto più precoce, almeno sul
piano “ufficiale”. Faccio riferimento ai
soggetti con ritardo mentale, perché è
ovvio che un ragazzo disabile con solo
problemi fisici ha tutte le (o comunque
molte delle) opportunità di studio e di
lavoro di un suo pari età.
Il/la ragazzo/a con ritardo mentale
invece, alla fine della scuola dell’obbligo, che è generalmente rappresentata
dalla scuola secondaria superiore,
termina il suo percorso scolastico e si
aprono davanti a lui scelte che un suo
compagno normodotato può rimandare
di almeno 4, 5 o più anni di formazione
universitaria.
Alla fine della scuola superiore, e
dunque a un’età di circa 19-20 anni, si
chiude per il disabile il ciclo formativo
e la persona, e con lui la sua famiglia,
si trova di fronte alla “vita”. Cioè a cosa
farà nella vita: un lavoro o quali altre
opportunità?
In estrema sintesi, il disabile (ma
soprattutto la sua famiglia) si trova di
fronte a due strade principali:
1. trovare un’occupazione; con assunzione, con borsa lavoro, di tipo stage
formativo, ti tipo ergoterapico, ecc.;
2. non essere in grado, per le sue caratteristiche personali, di accedere a quei
percorsi e avere dunque l’opportunità
di essere accolto in un centro diurno
o laboratorio protetto o altre similari
esperienze.
Il termine del percorso formativo
scolastico assume per la famiglia del
disabile un significato che va al di là
della semplice fine degli studi.
Finisce, infatti, in quel periodo,
il percorso educativo/riabilitativo su
cui spesso la famiglia ha contato per
costruire conoscenze e autonomie che
dessero al proprio congiunto il massimo delle competenze e delle autonomie
possibili. Finisce altresì il periodo della
speranza, dell’illusione e a volte del
sogno. Comunque, di un periodo durante il quale i familiari, pur consapevoli
delle difficoltà e dei limiti del proprio
caro, avevano a volte sospeso il giudizio, considerando quel percorso come un
periodo di tregua.
Arrivati a quel punto, con la fine
della scuola, la famiglia si trova davanti alla decisione di quale percorso far
intraprendere al ragazzo/a ed è costretta
a prendere atto, quasi definitivamente,
delle condizioni del proprio congiunto.
Se per lui si intravede un percorso
lavorativo, le cose si presentano difficili ma più accettabili, se invece le
sue condizioni consigliano un centro
diurno/laboratorio protetto, la cosa rappresenta per la famiglia una condizione
dolorosa e difficile da accettare.
I GENITORI DI FRONTE
AL FUTURO
Spesso le famiglie, molte almeno di
quelle che ho conosciuto io, si trovano a
confrontasi con due sentimenti contrapposti. Questi sentimenti si presentano
indipendentemente da quello che loro
figlio potrà fare, ma sono comprensibilmente più forti quando le opportunità
di lavoro sono precluse.
I sentimenti cui faccio riferimento
sono i seguenti.
• Una sensazione di consapevolezza
e di accettazione (forzata) della realtà,
perché finalmente terminano le illusioni e gli “accanimenti riabilitativi” e si
ha l’obbligo e/o il coraggio di guardare
in faccia la realtà. È come se il genitore
dicesse: “finalmente mi posso riposare”. La realtà, per quanto sgradita, è
IL PROCESSO DI CRESCITA
E dire che è un processo lento il
crescere e il diventare adulto. Ci sono
tappe che indicano questo processo in
modo chiaro. Il camminare, il parlare,
i primi quaderni; ma lì le differenze tra
il bambino disabile e gli altri possono
essere ancora minime. Sono le scuole
medie che danno i primi segnali forti
e poi, durante la frequenza delle superiori, ci si accorge che il tempo passa e
che il ragazzo/a non è più un bambino.
Il genitore se ne accorge per ciò che il
figlio fa e ciò che non fa.
Già a partire dalle scuole medie, la
differenza tra un figlio disabile e la maggior parte degli altri ragazzi comincia a
emergere in modo netto. Il genitore del
ragazzo disabile continua ad accompagnare il/la figlio/a a scuola, mentre qualcuno ci va già da solo; molti cominciano
a uscire e a fare le prime esperienze di
autonomia, di amoreggiamenti e ad
esprimere con le loro richieste (il motorino, per esempio) che sono “grandi”.
Il ragazzo disabile non fa quasi nessuna di queste esperienze e rimanda,
forte, la non sincronia del suo crescere
con le esigenze e le caratteristiche di
quell’età.
Queste situazioni si accentuano alle
scuole superiori e, come ampiamente
detto, la fine delle stesse definisce il percorso: ora si entra nella vita (lavorativa)
o si va all’università. Si è adulti.
Ho parlato tantissime volte con
genitori di questi argomenti. O, per
meglio dire, di cose che volevano dire ciò
che ho raccontato, ma che mi venivano
spesso dette in altri modi.
La più classica delle modalità per
dire a un operatore che non si è pronti, come famiglia, ad accettare questa
nuova realtà è insistere in percorsi
riabilitativi, in esperienze a volte non
scientificamente provate, in ricerche
di soluzioni magiche o irrealistiche, in
opposizioni e arrabbiature con gli operatori e i servizi che non capiscono che
si può ancora fare qualcosa.
Un esempio
La storia di Valerio e, anche, di sua
mamma.
Valerio ha ormai 18 anni. È un
ragazzo con una disabilità neuro-motoria e intellettiva grave. Ha avuto un
grave trauma al momento della nascita.
Sua mamma proviene da una famiglia
benestante. Il papà, pur provenendo da
una famiglia modesta, era un giovane
bello e affascinante corteggiato da
molte ragazze. È stato un matrimonio
d’amore. La storia di questi due giovani genitori parte purtroppo in maniera
severa: nasce Valerio con una grave
disabilità neuro-motoria.
La nascita di Valerio è l’inizio di
una storia difficile, dolorosa, di grande impegno e di non rassegnazione
da parte soprattutto della madre. La
condizione psico-fisica del bambino si
presenta immediatamente nella sua
gravità. Valerio usufruisce di tutte le
opportunità educative e riabilitative
che le attuali conoscenze offrono.
È sempre e regolarmente accompagnato dalla madre, sostenuta dalla
propria famiglia d’origine. Il padre si
mostra più distante, incapace di mantenere una presenza costante. Forse ha
più difficoltà ad accettare e svolgere
questo compito, forse lascia “inconsciamente” questa funzione alla madre.
Valerio frequenta tutte le scuole,
anche le superiori, dove viene anche
bocciato per permettergli un’ulteriore
permanenza in ambiente scolastico.
Usufruisce di un trasporto speciale e di
un insegnante d’appoggio, nonché di un
supporto assistenziale. Alla fine della
scuola superiore, si pone il problema
del futuro. Il servizio di Npi, (neuropsichiatria infantile) che ha in carico la
situazione pensa a un centro diurno. La
madre si oppone fermamente. Non se ne
parla. Si possono ancora fare delle cose.
Per esempio propone un inserimento
lavorativo.
Il caso viene inviato al servizio disabili adulti. Parlo personalmente con la
Note
* Già responsabile del Servizio Tutela minori e
del Servizio Disabili adulti del Distretto di Sassuolo (MO).
1 Testimonianza di una collega.
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cesso e sia accettato aumentano al pensiero che il ragazzo/a ha più difficoltà
di altri, ha meno capacità di capire e di
difendersi e sarà possibile che qualcuno
approfitti di lui.
Questi pensieri e il sentimento di
protezione fanno spesso diventare angosciante constatare i limiti e le difficoltà
di un/a figlio/a. Prima che il lutto sia
elaborato possono passare molti anni,
durante i quali la preoccupazione di
quel genitore sarà massima e vorrà, per
quel suo figlio, tutto ciò che è possibile e
impossibile per ripagarlo del danno che
la vita gli ha inferto. Fortunatamente,
tuttavia, la maggioranza, per non dire
la quasi totalità dei genitori, lasciano le
troppe paure per concentrarsi sul figlio
reale. E su quello lavorano e investono
in affetto, educazione, riabilitazione e
amore, e iniziano a vedere le cose che
egli apprende, il sorriso che appaga, le
autonomie conquistate. Vedono cioè il
figlio oltre alla disabilità.
Ma nel momento cruciale del passaggio all’età adulta molti di quei pensieri e di quelle preoccupazioni tornano
alla mente.
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meglio che l’indefinitezza continua.
Vorrei precisare che sono consapevole
che la famiglia del disabile in realtà non
si rilassa mai, non è mai tranquilla, non
può permettersi di non preoccuparsi.
So che il disabile, anche quello che frequenta uno stage lavorativo o un centro
diurno per 5 giorni la settimana, poi è
a carico della famiglia in tutti gli altri
momenti. Quando rientra a casa la sera,
il fine settimana, quando è ammalato,
ecc. Voglio solo dire che, a volte, è meno
angosciante l’accettazione della realtà e
la consapevolezza delle difficoltà che la
continua speranza e la sua conseguente
frustrazione.
• Un aumento di ansia e di depressione per la presa d’atto o per il rifiuto
della presa d’atto che le condizioni del
proprio figlio sono tali da dover intraprendere un percorso che a volte è visto
come il segno della sua “gravità” e della
perdita della speranza. In questo caso,
si preferisce o non si è in grado di vedere
terminare la fase educativa, riabilitativa e della “sospensione del giudizio”.
In realtà, questi sentimenti sono
spesso molto uniti e intrecciati e non
sono certo nuovi: già dalla nascita e
dai primi anni di vita del figlio disabile
la famiglia si è posta mille problemi,
dubbi, paure, speranze, ecc., pensando
e proiettando nel futuro questi stessi
sentimenti.
Quasi tutti, maschi o femmine,
quando affrontano una gravidanza e
poi la nascita di un figlio, ripercorrono
storie, pensieri, paure, entusiasmi. Su di
sé, sulla propria famiglia, attuale e dei
propri genitori e nonni, sulle condizioni
sociali ed economiche, e pensano alle difficoltà e alle gioie della vita, a chi sarà e
come sarà questo figlio/a e a quello che
farà o non farà. E se assomiglierà a sé
stessi o a chi, e se sarà più felice e se farà
quello che il genitore desidera che faccia
o quello che egli avrebbe voluto fare e non
ha realizzato, e a mille altre cose.
La maggior parte di noi fa dunque
quello che hanno fatto i nostri genitori
e antenati: proiettiamo avanti la nostra
vita perché è noto ed è vero che i nostri
figli sono il nostro prolungamento nel
mondo e nel futuro.
E, a seconda che siamo degli ottimisti o dei pessimisti, indipendentemente
dalle caratteristiche di nostro figlio, le
nostre paure o speranze aumentano o
diminuiscono.
Se già abbiamo dei timori, ed è difficile non avere nessun timore, di nessun
tipo, questi aumentano a dismisura se
nasce un figlio disabile.
Le paure e il desiderio di cura e di
protezione della prole vengono enfatizzati da un figlio disabile: le normali
paure che un figlio sia felice, abbia suc-
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madre, dice che il figlio ha ancora delle
opportunità di evoluzione e di apprendimento. Confermo senza incertezze
questa sua convinzione, che è anche la
mia, che è di tutti coloro che conoscono
la situazione dei disabili adulti e che
sanno bene che le persone continuano
a evolvere, a maturare, ad autonomizzarsi, a imparare. Ma sappiamo tutti
e due che parliamo di cose diverse. La
mamma insiste nel rifiutare anche solo
di prendere in considerazione l’ingresso
in un centro diurno per disabili. Vuole
proporre un inserimento lavorativo.
Dice che Valerio ha fatto un’esperienza
in un negozio di una sua parente, stava
alla cassa e si trovava bene. Chiedo
alla signora cosa faceva alla cassa.
Senza farla troppo lunga mi dice che, di
fatto, non faceva nulla se non sorridere
ed essere contento quando la commessa
batteva lo scontrino. Anche la mamma
riconosce che non di vero inserimento
lavorativo si trattava, ma di semplice
esperienza socializzante.
Mi rendo conto che più si insiste nel
convincere la signora delle difficoltà del
figlio e più ella si chiude. Rimando la
signora a due possibilità. Intendo dire
due possibilità reali di cui il servizio
dispone:
• restare ancora a scuola e darsi un
altro po’ di tempo (ma su questo non ho
alcun potere);
• fare una prova, sperimentale, di
frequenza al centro diurno; se non si
troverà bene ne riparleremo.
Dico molto onestamente e con tutto il
rispetto di cui sono capace che non me la
sento di proporre un inserimento lavorativo: sarebbe come prenderci in giro.
Debbo dire che la madre capisce
questa sincerità e su questo si potrebbe
aprire una riflessione, che faccio velocemente anche se necessiterebbe di un
approfondimento.
Quante volte i curanti e/o i riabilitatori (specialmente quelli di cultura
medica) non dicono le cose chiaramente,
pur se con rispetto e delicatezza? Perché
rimandano ad altri, magari agli operatori sociali, il dover mettere le famiglie
di fronte alle realtà più difficili?
La relazione di cura è seria quando
dice la verità. Per verità si intende la
verità raccontabile in quel momento
storico. Ma la verità significa non
continuare ad alimentare all’infinito
l’illusione.
Tornando alla situazione di Valerio,
alla fine della scuola dell’obbligo, vista
l’impossibilità di continuare utilmente
quell’esperienza, la madre (come detto
in precedenza il padre è assente e forse
anche per questo questa madre è così
rocciosa: è da sola e sente il peso del
figlio solo sulle sue spalle) decide di
accettare il centro diurno: come prova,
poi si vedrà.
Valerio inizia la frequenza e si trova
bene. È contento, torna a casa contento,
al mattino si alza volentieri. La madre
si mostra più rilassata (così la vedono
le educatrici), è contenta anche lei. Può
finalmente riposarsi un po’ e guardare
il figlio in maniera più reale. Vedere le
cose che fa, il suo sorriso, vedere che
cerca di raccontarle la sua giornata al
centro. Forse per la prima volta lo vede
vivere giorno per giorno, ora per ora,
senza rimandare sempre, al dopo (un
dopo che non arriva mai), la vita. Come
se oggi dovessimo non vivere per prepararci a vivere meglio domani. E così
vivendo sempre in prestito. Sempre in
attesa di qualcosa che non arriva mai.
Essere di fronte a un genitore che
vuole continuare a sperare anche quando la nostra scienza attuale ci dice che le
condizioni sono ormai quelle, certamente sempre migliorabili ma certamente
non risolutive della disabilità e della
non autonomia, è una delle esperienze
più difficili e delicate che un operatore
deve affrontare.
È necessario avere sempre molta
cura e attenzione all’ascolto, a cercare
di capire e di accogliere senza tuttavia, e
questo mi sembra un punto importante,
colludere con i desideri o le speranze non
realizzabili. Aiutare i familiari a fare
essi stessi un normale esame di realtà,
a essere loro stessi i costruttori, con gli
operatori, di percorsi di vita accettati, è
un compito fondamentale.
L’ACCETTAZIONE DELLA REALTÀ
E L’ELABORAZIONE DEL LUTTO
Agganciandomi alla condizione di
maggiore tranquillità della madre di
Valerio quando ha accettato la situazione reale del figlio e, di fatto, ha mostrato
di essere sulla strada per elaborare il
proprio lutto, vorrei tornare all’altro
aspetto di cui si parlava prima, e cioè
alla condizione di consapevolezza e di
accettazione della realtà che progressivamente acquisiscono la maggior parte
dei genitori quando si delinea un’idea
chiara di vita per il figlio. Credo valga
la pena soffermarsi su ciò.
Sono convinto, infatti, che la maggior parte dei genitori si rendano conto,
nel corso della crescita, che loro figlio,
pur recuperando in apprendimenti, in
capacità sociali e relazionali, non arriverà a raggiungere sufficienti elementi
di autonomia.
Il continuo rincorrere la riabilitazione, l’invio a varie e diverse attività,
a varie e diverse esperienze al di là
di quanto è comprensibile e doveroso
attuare per dare al proprio figlio tutte le
opportunità cui ha diritto, rappresenta
spesso più un senso del dovere, un desiderio di non lasciare nulla di intentato,
un modo per mettersi al riparo da futuri
dubbi e sensi di colpa (a se avessi fatto,
se lo avessi mandato a quell’attività, a
quella riabilitazione, e così via!) piuttosto che un crederci veramente, un
cercare l’impossibile.
E allora, quando il figlio raggiunge
quel famoso bivio, o l’esperienza lavorativa o il centro diurno, il genitore che ha
maturato e in parte elaborato la propria
sofferenza è sollevato dal trovare, infine, davanti a sé una strada lunga con
alcune cose sicure.
Una strada dunque che non dura
pochi mesi, rappresentata da esperienze sempre diverse, sempre nuove,
sempre fatta di tentativi, ma una strada
che il ragazzo può percorrere per anni,
per molti anni.
In quel momento, il genitore capisce
di aver trovato qualcosa di certo cui fare
riferimento. In una certa misura, si può
finalmente rilassare. Non nel senso di
aver scordato le preoccupazioni, ma nel
senso di avere maggiore consapevolezza
che la realtà è purtroppo quella, ma in
quella realtà egli e il suo ragazzo non
sono soli e possono continuare a trovare
elementi di socializzazione, di cura e di
crescita. Può dirsi di aver fatto quello
che la scienza gli ha messo a disposizione e la sua cura e il suo amore, infinito,
per il proprio figlio disabile, gli hanno
consentito.
Si sente più tranquillo, sa di aver
agito per il meglio, non si rimprovera
nulla.
Questa condizione gli permette di
cominciare a vivere accettando quello
che, in fondo, ha sempre accettato,
anche se cercava altro. Valorizza l’affetto di questo figlio, spesso la sua grande
tenerezza, la voglia di farsi proteggere
e coccolare. Ne coglie le parti affettive e
inconsce e lo riconosce come parte di sé,
come del resto è sempre stato, ma ora lo
è in una situazione in cui si vive il giorno per giorno, accogliendo e godendo di
quello che il giorno per giorno ci da, senza sempre rimandare a domani, quando
andrà meglio, la propria soddisfazione.
E allora potrà concentrarsi sul da
farsi, nella realtà vera e non solo nella
realtà pensata magicamente o fantasticamente.
E si impegnerà ancora di più per
dare al proprio figlio tutte le opportunità
di cui necessita, tutte le esperienze di cui
ha bisogno in una situazione, però, dove
la soddisfazione e la contentezza sono
quotidiane e immediate e non rimandate a un dopo che non arriva mai.
E allora comincia a guardare con
occhi diversi, più profondi e più attenti,
questo proprio figlio trovando che ci
CHI SI OCCUPA DEL DISABILE
ADULTO?
Superati i dubbi e le incertezze di cui
abbiamo ampiamente parlato e inserito
il proprio figlio nell’attività più idonea,
il genitore del giovane disabile resta
tuttavia ancora con un altro problema
essenziale. Ora che non è più in carico
alla Npi, servizio che ha preso in carico
dalla nascita e si è occupato in toto del
bambino disabile offrendo servizi, cure
e consulenze, qual è il servizio che si
occuperà dell’adulto disabile? Chi svolgerà lo stesso servizio della Npi?
Questa è una domanda cui si possono dare alcune risposte non completamente soddisfacenti. Esiste infatti,
in alcune Ausl del nostro Paese, un
servizio “Salute disabili adulti”, che
si occupa prevalentemente di gestione
dei centri diurni, di inserimento lavorativo e formazione professionale, e di
gestione di attività residenziali. Non si
occupa invece di tutta una serie di altre
competenze che, per ora, sono offerte al
disabile e alla sua famiglia dall’insieme degli altri servizi sanitari e sociali
territoriali.
Dal documento inviato dall’Anffas
di Sassuolo alla direzione
del Distretto sanitario
“Con la presente, sollecitati da
numerosissime famiglie di nostri associati, vorremmo richiamare la vostra
attenzione sulla delicatissima fase
che segna il passaggio alla maggiore
età dei ragazzi disabili, perché questa
circostanza è vissuta all’interno delle
nostre famiglie come un momento particolarmente critico, di grande preoccupazione e di grave disagio, spesso con
vero e proprio panico.
Fino a 18 anni il percorso del bambino con disabilità è generalmente strutturato. Il neuropsichiatra infantile e
la sua equipe diventano nel tempo il
riferimento per la quasi totalità delle
problematiche del ragazzo e della sua
famiglia, non solo per gli aspetti diagnostico-terapeutici
(accertamenti,
invio a consulenze di secondo e terzo
livello, trattamenti farmacologici e riabilitativi, prescrizioni di ausili, monitoraggio nel tempo e nelle varie età dello
sviluppo, ecc.), ma anche per gli aspetti
psico-affettivi e di inserimento extrafamiliare, generalmente scolastico (intervenendo nella formulazione dei progetti
scolastici individuali e nella richiesta di
sostegno, ecc.).
Con l’approssimarsi della maggiore
età, si comincia a percepire l’idea che un
ciclo si sta chiudendo perché, terminata
la fase di sviluppo, spesso crolla la speranza che il ragazzo raggiunga un grado
accettabile di autonomia psico-intellettiva e/o motoria e diventa drammaticamente evidente alla famiglia la cruda
realtà della gravità e della cronicità
di una disabilità che richiederà alla
famiglia un’assistenza e una supervisione continuativa e irrinunciabile e
comporterà al ragazzo incapacità a un
lavoro produttivo e grandi difficoltà di
inserimento sociale.
Il buon senso e la razionalità vorrebbero che il ragazzo disabile divenuto
maggiorenne venisse preso in carico da
un medico specialista e da un’equipe
che, sulla falsariga del Servizio di Neuro-psichiatria infantile e in continuità
con esso, progettasse e proponesse, in
condivisione con la famiglia, un intervento globale e coordinato sulla persona,
sia per gli aspetti sanitari, sia per quelli
lavorativi e di inserimento sociale, sia
per quelli prettamente giuridico amministrativi. Purtroppo, mancando tutto
questo, la ‘dimissione dal servizio di
Npi’ diviene brutale abbandono e un
salto nel buio e, in assenza di un medico
e di un’equipe di riferimento che valuti
nella loro globalità le problematiche e gli
interventi, il disabile e la sua famiglia
si trovano improvvisamente senza riferimenti, nella necessità di affidarsi di
volta in volta per ogni singolo problema
a specialisti diversi (che spesso variano
anche all’interno della stessa branca,
non hanno dimestichezza e consuetudine con le complesse problematiche del
disabile, non hanno disponibilità di spazi, tempi e luoghi idonei) e, in assenza di
una continuità strutturata di rapporto
con il disabile e la sua famiglia, non possono che affrontare il singolo problema
in maniera estemporanea e frammentaria, esclusivamente sotto l’aspetto
clinico, senza alcuna possibilità di rapportarsi con i luoghi e le realtà in cui il
disabile vive. Questa frammentarietà ed
estemporaneità degli interventi si traduce in una frustrante incomprensione
tra lo specialista da un lato e il disabile
e la sua famiglia dall’altro, che spesso
perseguono obiettivi diversi: la cura del
sintomo o la risoluzione del problema
acuto o emergente in quel momento da
parte del primo, il miglioramento delle
condizioni e delle performance nella
quotidianità di tutti i giorni, nella loro
inscindibilità dagli aspetti prettamente
motori, psichici, neurologici e di quelli
affettivi, amicali, relazionali e sociali,
da parte dei secondi.
Questo comporta un enorme spreco
di risorse anche di natura economica,
in quanto vi è una moltiplicazione delle richieste, perché gli specialisti non
soddisfano (non per la preparazione
scientifica e professionale settoriale,
ma per l’assenza di una strutturalità
e continuità dell’intervento e la mancanza di una cultura della globalità
interdisciplinare); comporta il peregrinare continuo in più ambulatori e
in più centri, la prescrizione di terapie
e di ausili che si rivelano spesso inutili
e inutilizzabili, perché, anche seppur
indicati clinicamente, non soddisfano
le esigenze funzionali di quel soggetto
negli ambienti in cui vive”.
DISABILITÀ
Questo significa, per i familiari, non
avere più un solo interlocutore, come il
servizio di Npi, che interfaccia per conto
della famiglia l’insieme degli altri servizi sociali e sanitari, ma trovarsi, quasi
improvvisamente, con un servizio che
offre alcuni interventi specifici e molto
importanti, ma che non è attrezzato a
svolgere anche il ruolo di interlocutore
privilegiato del disabile e della sua famiglia di fronte agli innumerevoli bisogni
di cura di cui essi hanno bisogno.
È un tema sollevato spesso anche
da alcune associazione di familiari di
disabili, come per esempio l’Anffas,
che anche a Sassuolo ha posto questo
problema, con un proprio documento da
cui traggo queste principali domande e
osservazioni.
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n. 13/2008 Prospettive Sociali e Sanitarie
sono aspetti che gli piacciono e altri che
non sopporta, proprio come per gli altri
figli, quelli cosiddetti normali, che un
po’ lo gratificano e un altro po’ lo fanno
arrabbiare.
E così capisce che la realtà è il vero
campo di battaglia e che tante cose possono essere fatte e migliorate. Così a
volte ha voglia di aumentare la propria
partecipazione alla vita del centro diurno e altre invece lascia fare ad altri, non
solo perché magari è stanco, ma anche
perché si fida. Dei servizi, degli operatori, delle istituzioni, degli altri genitori.
E così, guardando i suoi veri bisogni
e i bisogni di suo figlio, chiede delle altre
cose oltre al centro diurno.
Chiede anche qualche momento di
vacanza, le uscite serali, il centro estivo
e qualche esperienza sportiva o culturale. Ma non solo per il figlio, anche per sé
e per gli altri genitori.
Magari chiede anche un centro di
aggregazione per genitori di ragazzi
disabili, dove ci si possa trovare i giorni
di festa quando gli altri, si pensa, si
stanno divertendo e tu, con un figlio di
30 o di 40 anni, la domenica e i giorni
di festa non sai proprio dove andare a
sbattere la testa.
E, come ultimo pensiero, gli viene
anche in mente che deve preoccuparsi
di quando lui, genitore, non ce la farà
più, con le sue sole forze, a occuparsi del
figlio. E allora lotta e vuole che le istituzioni si preoccupino di trovare soluzioni
residenziali sia per ricoveri di sollievo
sia per il cosiddetto “dopo di noi”.
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Il documento continua segnalando
ulteriori inconvenienti di questa situazione di frammentazione delle opportunità di cura, socializzazione e riabilitazione e chiedendo di conseguenza
l’istituzione di un servizio che si faccia
carico globalmente e in collaborazione
con le famiglie di tutte le problematiche
del disabile adulto.
Le famiglie, infatti, a quel punto,
con un familiare ormai adulto a proprio
carico, hanno particolare bisogno di
sostegno concreto sia sul piano delle
opportunità di socializzazione e di
aggregazione, sia su quello psicologico.
Non vogliono e non riescono più a sentirsi sole con questo carico di cura e di
sofferenza da gestire.
“Ed è vero, mi diceva un genitore,
che quando vengono date delle risposte ai bisogni del disabile e della sua
famiglia, superata una prima fase di
apprensione e di ansietà, se vi è un
soddisfacente inserimento in un centro
o in un’attività lavorativa, ancorché
protetta, la famiglia ritrova un proprio
‘equilibrio emozionale’; di qui al fatto
che ‘si rilassi o si riposi’ mi sembra che
la distanza sia abissale. Non solo per la
preoccupazione del dopo di noi, non solo
per gli anni che passano e gli inevitabili
acciacchi, problemi di salute o quantomeno per le energie che si affievoliscono
con il crescere dell’ età dei genitori e/o
dei familiari, ma perché, anche quando
(e non per tutti è così) il disabile sia
inserito socialmente per cinque giorni
la settimana per la mattina e il primo
pomeriggio, questi rimane a carico della
famiglia e privo di inserimento sociale,
aggregativo, ludico, motorio per tutto
il resto del tempo: seconda parte del
pomeriggio e sera, fine settimana, ferie,
festività; quando il ragazzo è ammalato,
ecc.; non è un carico da poco, perché i
genitori non oziano durante gli inserimenti del disabile, ma generalmente
lavorano; al di fuori degli orari di lavoro, con il disabile in casa devono anche
farsi carico di rassettare la casa, aver
cura dell’igiene del disabile, lavare i
suoi indumenti e rassettare le sue cose,
provvedere ad adempimenti per lui.
Ma non è solo la mancanza di spazi
per sè e per la coppia che pesa, ma anche
la tristezza di vedere un ragazzo giovane al quale non si sanno o non si possono
offrire momenti di svago o aggregazione,
quando tutti i coetanei si incontrano e si
svagano. È probabile che alla soluzione
di questi problemi possano e debbano
contribuire le associazioni; rimarranno
comunque per le famiglie grossi carichi
in termini di impegno orario, di carico
emozionale e di insoddisfazione, che
non possono essere misconosciuti né
sottovalutati”.2
L’esigenza che ci sia un servizio
disabili adulti che si occupa globalmente del disabile e della sua famiglia
appare perciò sempre più chiara.
Ho voluto terminare con queste
riflessioni dirette dei genitori perché
mi sono sembrate comprensibili, condivisibili e opportune. Il mondo della
disabilità ha sempre messo in discussione l’organizzazione sociosanitaria.
Pensiamo alle lotte per la chiusura delle istituzioni totali o per l’integrazione
scolastica, sociale e lavorativa o alle
richieste per una struttura urbanistica
delle città a misura di tutti, e ad altre
ancora; così, anche per questo tema del
disabile adulto e dell’organizzazione dei
servizi sociali e sanitari, le istituzioni
competenti sono chiamate a dare risposte nuove e più rispettose dei bisogni
complessivi di questi cittadini e delle
loro famiglie, ma anche, se vediamo la
cosa con gli occhi degli operatori, per
realizzare servizi caratterizzati da un
approccio globale e scientificamente più
corretto rispetto ai bisogni presentati.
Bibliografia
Canevaro A., Educazione e handicappati, La
Nuova Italia, Firenze, 1979.
Palmonari A. (a cura di), Gli handicappati mentali e il lavoro. inserimento, risultati, resistenze,
Giuffrè, Milano, 1987.
Soresi S., Psicologia dell’handicap e della riabilitazione, Il Mulino, Bologna, 1998.
Morini L., “L’occupazione delle fasce deboli”,
Prospettive sociali e sanitarie, 15, 2007.
Morini L., Pedretti P., Manzini G., …E amici
tutti voi… Storie dei centri diurni per disabili del
Distretto di Sassuolo, Ausl di Modena, Cooperativa
Gulliver, Modena, 2004.
Note
2 Testimonianza del dott. Carlo Menozzi, Anffas
di Sassuolo, che ringrazio per i preziosi suggerimenti che mi ha dato leggendo questo articolo e fornendomi una luce particolare su quanto scritto.
SEGNALAZIONI
S. Freeman, L. Drake
S. Amarri, P. Pedrazzi
Erickson, Gardolo (TN), 2007
Il volume è rivolto ai logopedisti, agli
insegnanti di sostegno e ai genitori
che lavorano e vivono con bambini e
ragazzi affetti da autismo, sindrome
di Asperger e altri disturbi pervasivi
dello sviluppo. Attraverso schede, attività e giochi, le autrici presentano un
programma completo per affrontare
le difficoltà del linguaggio verbale più
comuni nei disturbi dello spettro autistico, che contribuiscono a esacerbare
i problemi relazionali e comunicativi
tipici di tali patologie. All’interno di un
approccio comportamentale, il libro
sfrutta e valorizza le peculiari abilità
visive dei bambini con autismo proponendo esercizi per la facilitazione
dell’apprendimento di alcuni aspetti
della grammatica, l’accrescimento del
lessico e della cultura generale, l’affinamento delle competenze verbali e
l’insegnamento di concetti base, tutti
orientati alla conquista di una maggiore autonomia sociale. Chiare indicazioni degli obiettivi da raggiungere,
dei prerequisiti necessari per lavorare
su una determinata competenza, degli
ostacoli che possono nascere, nonché
di come generalizzare ed estendere le
capacità acquisite a contesti più generali, accompagnano le varie attività. Le
schede alla fine del volume possono
essere fotocopiate e facilmente adattate alle esigenze del singolo
bambino.
Carocci Faber, Roma 2007
Pensato e scritto per gli operatori
sanitari (dietisti, nutrizionisti, pediatri,
infermieri) e gli insegnanti di scuola
primaria, ma anche per tutti quei genitori desiderosi di avere informazioni
scientifiche e pratiche sulla gestione
dell’alimentazione del bambino dai 6
agli 11 anni, questo agile manualetto
si propone come uno strumento semplice e pratico per gestire quotidianamente l’alimentazione dei bambini. Ma
vorrebbe anche essere un approfondimento per le figure sanitarie e scolastiche che si occupano dell’educazione
alla salute in età pediatrica. Infatti,
vengono affrontati sia temi nutrizionali
(i fabbisogni, la giornata alimentare,
l’alimentazione per bambini che praticano sport, per quelli vegetariani
eccetera), sia tematiche educativocomportamentali (disturbi dell’alimentazione, influenza della televisione e
della famiglia sulle abitudini alimentari,
educazione alimentare a scuola, ecc.).
Sono trattate dal punto di vista scientifico patologie come obesità, diabete,
dislipidemie, sindrome metabolica,
ormai frequenti in età scolare. La scorretta alimentazione ne è frequentemente la causa, e l’educazione nutrizionale
diviene il cardine della terapia. Terzo
di una serie di volumi sul tema dell’alimentazione in età evolutiva secondo
gli intervalli previsti dalla nuova riforma
scolastica: asilo nido (0-3 anni), scuola
dell’infanzia (3-6 anni) e scuola primaria.
IL LINGUAGGIO VERBALE
NELL’AUTISMO
PICCOLO MANUALE DI
EDUCAZIONE ALIMENTARE