L`emigrazione italiana in Gran Bretagna nel secondo dopoguerra: il

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L`emigrazione italiana in Gran Bretagna nel secondo dopoguerra: il
L’emigrazione italiana in Gran Bretagna
nel secondo dopoguerra:
il caso di Bedford (-)*
di Michele Colucci

Le origini dell’emigrazione
Bedford, città che oggi conta circa novantamila abitanti, è situata a sessanta miglia a nord di Londra ed è capoluogo della circoscrizione del
Bedfordshire. Bedford è considerata una delle città più multietniche della
Gran Bretagna e la comunità straniera più numerosa è quella italiana: la
progressiva stratificazione di gruppi e comunità straniere è avvenuta a
partire dalla fine della seconda guerra mondiale, quando, a causa delle
necessità di ricostruzione postbellica, le industrie produttrici di mattoni
e gli altri gruppi industriali della zona hanno introdotto contingenti
sempre più numerosi di manodopera immigrata. La zona di Bedford
è infatti caratterizzata economicamente dalla fine del XIX secolo dalla
produzione di mattoni.
La scoperta, nei dintorni della città, di enormi depositi d’argilla dava
luogo alla nascita nel  del primo insediamento industriale di fabbricazione di laterizi, cui ne seguivano molti altri nei decenni successivi.
Nel , dopo una serie di fusioni, nasceva la London Brick Company,
la più grande industria di laterizi del mondo, che negli anni del secondo
dopoguerra sarà proprio la principale coordinatrice dei flussi migratori
indirizzati verso Bedford. L’economia della zona è caratterizzata anche da
una discreta presenza dell’orticoltura e di altre attività legate all’agricoltura e all’allevamento. È presente inoltre una antica tradizione di insediamento di industrie produttrici di borse e calzature, mentre, proprio nei
dintorni della città, c’è una concentrazione di aziende metalmeccaniche
ed elettroniche in cui si è diffuso anche il lavoro italiano.
Il paesaggio della contea del Bedfordshire, un tipico paesaggio
naturale della provincia inglese, è stato fortemente condizionato dalla
presenza delle industrie di laterizi. Gli ultimi chilometri della ferrovia
Londra-Bedford testimoniano ancora oggi attraverso le sei enormi fornaci
visibili a sinistra e a destra del tragitto ferroviario il passato industriale
Dimensioni e problemi della ricerca storica, n. /

MICHELE COLUCCI
della zona: Marston Valley, Stewartby, Ridgmont, Kemspston Hardwick,
Calvert e Redland Flettons sono le sei fornaci attorno alle quali nascevano
stabilimenti industriali e veri e propri villaggi operai a partire dall’inizio
del secolo.
Gli italiani iniziarono ad arrivare a Bedford nel , nel mese di
maggio. Il loro arrivo era stato organizzato nei mesi precedenti dalle tre
principali industrie produttrici di mattoni, la London Brick Company, la
Marston Valley Brick Company e la Eastwood Ltd. Come era accaduto,
per quanto riguarda il lavoro nelle miniere, la possibilità di reclutare manodopera italiana era stata segnalata fin dal  dall’ambasciata inglese
a Roma e si era concretizzata dopo una fitta serie di contatti e di accordi
tra il ministero del Lavoro italiano, le aziende inglesi e il governo inglese.
Già dal  le fabbriche di laterizi del Bedfordshire si erano trovate nella
necessità di assumere lavoratori stranieri, indirizzandosi prima verso i prigionieri di guerra e, in un secondo momento, sui profughi e sui numerosi
contingenti di polacchi presenti nel paese. Gli stranieri presenti in Gran
Bretagna non erano però in numero sufficiente per coprire interamente le
carenze di organico e le tre industrie iniziarono dai primi mesi del  a
premere nei confronti del governo per permettere l’arrivo di nuovi gruppi
di immigrati. La situazione sembra molto simile a quella fotografata nello
stesso periodo rispetto all’industria mineraria: il governo cerca soluzioni
alternative all’assunzione di manodopera straniera, temendo ripercussioni
politiche dovute alla diffusa presenza di disoccupati inglesi nelle regioni
centrosettentrionali. Nel  quindi le industrie di mattoni avviano
contatti e assunzioni nel Merseyside, Tyneside, Clydeside e Irlanda del
Nord, evitando di rivolgersi a manodopera straniera, ma i nuovi lavoratori
resistono nel Bedfordshire per poche settimane: il % di loro preferisce
rientrare nelle proprie province d’origine dopo appena due settimane di
lavoro. A questo punto, l’unica soluzione praticabile è quella dell’ingaggio
di operai stranieri, provenienti in particolare dall’Italia, che nel frattempo
si era candidata attraverso l’azione delle autorità diplomatiche come primo paese disponibile all’esportazione di manodopera. Il lavoro italiano
nella zona non era tuttavia una novità, era stato infatti sperimentato negli
anni di guerra:
Questo campo [Kempston Hardwick, a tre miglia da Bedford], quasi totalmente popolato da prigionieri italiani, si rese subito famoso come un’officina
efficientissima. Si preparava materiale parabellico, per il quale i regolamenti
internazionali vietavano di impiegare prigionieri. Ma tutti chiusero un occhio. Gli
italiani ci lavoravano sodo; anzi, molti durante i trasporti si buttavano dai camion
e sparivano in città a far lavori per privati in garages, costruzioni, officine, per
poi ritornare al campo a notte fonda. […] Poco dopo, nel ’, la cooperazione:
si lavorava assieme agli inglesi nelle stesse officine, fianco a fianco, non più ad

L’EMIGRAZIONE ITALIANA IN GRAN BRETAGNA
orario ma a “task” come mi ha ricordato il dottor Motti, e si era trattati più come
operai che come prigionieri.
Gli stessi primi emigrati italiani ricordano come il campo che li ospitava
al loro arrivo nel  non era altro che l’ex campo di prigionia, dove molti
italiani avevano vissuto negli anni di guerra:
Ci misero in un ostello che però era praticamente una baracca, alla sera ci facevamo il fuoco per scaldarci. Era un campo con le baracche in eternit, lamiera,
era proprio quello dove in tempo di guerra avevano messo i prigionieri.
Le tre aziende, individuato quindi il bacino di reclutamento dell’Italia
meridionale come ideale per le loro esigenze, aprono addirittura un ufficio di reclutamento a Napoli, che diventerà per tutti i futuri emigranti
la prima tappa verso l’Inghilterra. I protagonisti della pianificazione del
reclutamento verso Bedford sono quindi il ministero del Lavoro italiano
e inglese, il ministero degli Esteri italiano e inglese, le due rispettive ambasciate a Roma e Londra, l’Home Office e le aziende interessate.
Alla fine del maggio  il primo gruppo (in cui i molisani di Busso
erano la maggioranza) arriva negli ostelli di Kempston Hardwick, tre
chilometri a sud di Bedford. Nel solo  le tre fabbriche (London Brick
Company, Marston Valley Brick Company e la Eastwood Ltd) assumono
. lavoratori italiani, iniziando quel flusso che andrà a formare la comunità italiana di Bedford. Seguendo i dati del ministero del Lavoro inglese
a proposito del reclutamento di questi tre gruppi industriali possiamo
tracciare un primo percorso del flusso italiano verso Bedford (cfr. TAB. ).
Tra il  e il , anno in cui vengono sospesi i reclutamenti collettivi,
sono quindi . gli italiani che giungono a Bedford attraverso gli Schemi
di reclutamento collettivo: a questa cifra occorre aggiungere le rispettive
famiglie degli operai, che iniziano ad affluire dal , gli italiani che
giungono a Bedford non direttamente dall’Italia, ma da altre zone della
Gran Bretagna, gli operai reclutati da aziende minori della contea. Ci
troviamo quindi di fronte a un flusso migratorio di dimensioni piuttosto
notevoli, tenendo presente che gli abitanti di Bedford ammontavano,
negli anni Cinquanta, a circa -. (per la precisione . al censimento del  e . al censimento del ). Queste cifre tuttavia non
sono considerabili come definitive. Infatti, secondo quanto affermato da
diverse fonti, almeno nelle prime fasi annuali di reclutamento, circa il
% degli operai sceglieva di tornare in patria dopo i primi quattro anni
di contratto. Gli italiani transitati da Bedford tra il  e il  sono
quindi sicuramente più di ., mentre quelli stabilitisi nella città poco
più di ., come conferma il censimento inglese del , che indica
. italiani presenti a Bedford (. uomini e . donne) e . in
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tutto il Bedfordshire (. uomini e . donne).
I dati colpiscono per la rapidità e l’intensità della trasformazione avvenuta a Bedford nell’arco del decennio -: se confrontiamo infatti i
dati sulla crescita della presenza italiana con i dati generali sull’incremento
demografico della città nello stesso arco di tempo possiamo constatare
come l’incidenza italiana sulla crescita demografica di Bedford sia stata nel
decennio considerato circa del %. Quali furono le caratteristiche dell’insediamento di un numero così alto di italiani? Quali erano le condizioni
abitative, lavorative, culturali in cui vivevano gli italiani? Quali furono le
risposte della comunità locale a un’immigrazione così massiccia?

Il viaggio
Gli italiani venivano a conoscenza degli Schemi di reclutamento collettivo
negli Uffici provinciali del lavoro, diffusi su tutto il territorio nazionale.
Gli Uffici del lavoro erano, negli anni dell’immediato dopoguerra, letteralmente presi d’assedio da migliaia di disoccupati, soprattutto nelle
regioni meridionali: per molti futuri emigranti il viaggio verso il proprio
capoluogo di provincia era la prima tappa del successivo percorso migratorio:
Allora un giorno decidemmo di andare ad Agrigento, per vedere se all’Ufficio
si poteva avere qualche impiego. Era la prima volta che andavo ad Agrigento.
L’Ufficio era pienissimo e c’erano molti che dicevano che il lavoro c’era in Olanda, Belgio, Germania. Io avevo un cugino che già si trovava in Inghilterra e vidi
che c’era la possibilità di essere assunti lì. Mi fecero la visita, la passai, dopo un
mese partii. Era stata la prima volta che andavo ad Agrigento e ora mi ritrovavo
addirittura in Inghilterra.
Le proposte delle fabbriche di mattoni venivano appunto pubblicizzate
dal ministero del Lavoro italiano e riscuotevano un certo interesse proprio
nelle zone più depresse e disagiate del Sud.
Quando i funzionari della Marston Valley fecero affiggere i bandi del concorso
a Napoli, Agrigento, Avellino quando per presentarsi bisognava essere entro i
limiti di età, quando per essere ammessi all’interview bisognava salire, ignudi,
sulla bilancia, quando durante l’esame l’interprete venuto da Napoli invitava a
mostrare i calli sulle mani ai manager della Marston, chi sceglieva di partire? A
casa le mogli e le madri pregavano che fossero i loro uomini ad essere fra quelli
scelti. La Marston poteva allora permettersi di fare la scelta, dopo la guerra, giù
ad Avellino, a Busso, Montefalcione, non a Bedford.
Bastava leggere i punti del contratto per capire che la prospettiva di lavoro

L’EMIGRAZIONE ITALIANA IN GRAN BRETAGNA
sarebbe stata piuttosto dura, con una serie di decurtazioni salariali (vitto,
alloggio, trasporto) che riducevano lo stipendio a quanto bastava per la
semplice sopravvivenza e che limitavano la possibilità di mandare denaro
nelle proprie terre di origine. Erano comunque in molti ad accettare le
condizioni poste dalle aziende e a sottoporsi agli esami medici per la
selezione. La visita, un momento fondamentale nella memoria di molti
emigranti, avveniva a Bagnoli, Napoli, dove le aziende avevano aperto
l’ufficio di reclutamento. Le autorità italiane si impegnavano a fornire
garanzie sull’integrità politica e morale delle persone selezionate ed entro
poche settimane dalla visita i ragazzi partivano. A partire erano soprattutto giovani non sposati, tra i ventuno e i ventiquattro anni: la famiglia
a carico era una di quelle aggravanti che le aziende inglesi sconsigliavano
già nel contratto di assunzione. Molti emigranti partivano subito dopo
il servizio militare:
Tornato dal militare mi trovavo di nuovo al paese senza nulla da fare. Erano in
molti nella mia stessa situazione: il primo che ci avesse chiamati e saremmo partiti
subito, per andare dappertutto. Io veramente volevo andare in Brasile, ma era
difficile, arrivò l’Inghilterra e non ci pensai un attimo.
Il servizio militare era un’esperienza che colpiva molto i giovani meridionali, soprattutto quelli diretti al Nord. La generazione di ventenni
che emigrò nei primi anni Cinquanta non aveva conosciuto direttamente
la guerra, ne aveva piuttosto pagato il prezzo più duro nei paesi e nelle
province. Partire militare era un’occasione per interrompere almeno
per un po’ la propria situazione di disoccupazione o sottoccupazione,
con in più il fascino di partire e andare anche lontano. Il ritorno a casa
era particolarmente traumatico, era un ritorno alla realtà che molti non
sopportavano e l’attrattiva di un impiego all’estero, anche se duro e sottopagato, diventava una prospettiva eccezionale. Il viaggio avveniva in
treno fino alla Francia, in nave e in pullman fino agli ostelli di Bedford.
La traversata della Manica e l’avvistamento dell’Inghilterra sono tra i
ricordi più forti degli emigrati:
C’era una nebbia fittissima, non si capiva dove stava l’isola. Faceva veramente
molto freddo. In Francia ci avevano regalato qualche cosa da bere e da mangiare.
Quando arrivammo non eravamo abituati a quel freddo, anche se ci avevano
avvertito. Poi verso Bedford la nebbia era sempre di più, vedemmo le fornaci e
arrivammo agli ostelli. Non ce la facevo con quel clima, non volevo scendere e
volevo tornare indietro. Piano piano ci siamo abituati tutti.
A Dover appena sono arrivato qua in Inghilterra – m’ha fatto questo effetto
[…] – intanto ca tutto pareva più grande e poi queste case parevano chiesette
– parevano tutte chiese – sembrano a uno – adesso a me non sembrano niente

MICHELE COLUCCI
perché abituato a vedere – ma uno che viene dall’estero – dall’Italia – da un’altra parte – vede tutte chiese – sembrano chiese – fatte a quel formato – e sono
rimasto così.

Dagli “hostels” alle case: il problema dell’abitazione
La prima sistemazione abitativa degli italiani era, appunto, negli hostels
collettivi. Si trattava di strutture abitative di derivazione militare o sanitaria, con il tetto in lamiera e le pareti in legno, con camerate, bagni
in comune, mensa, spazi ricreativi: in diversi casi erano gli stessi luoghi
in cui pochi anni prima erano stati trasportati i prigionieri di guerra.
Gli hostels erano fuori dalla città, nella zona di Kemspton Hardwick, in
prossimità delle fornaci dove gli italiani avrebbero lavorato. I quattro
ostelli più grandi, capaci di ospitare in tutto un migliaio di persone, erano
Church Farm e Ampthill (situati nel villaggio di Ampthill), Royal House
e Kempston Hardwick Barracks (a Kemspton). La gestione degli ostelli
era direttamente a carico del governo fino al , in seguito fu appaltata
alle singole aziende che assumevano la manodopera straniera. Gli operai venivano trasportati con appositi pullman nei luoghi di lavoro e alla
fine della giornata lavorativa venivano riportati negli hostels. Si trattava
di una forma di segregazione abitativa e sociale che colpì fin dall’inizio
gli operai italiani:
La camerata dove si dorme, sembra una camerata di soldati, ma che almeno fosse
pulita tutta zozza e umida che dalle pareti scorre laqqua è nella terra fangosa e
piena di acqua sporca sembriamo tutti schiavi. [ gennaio ]. Oggi ho trascorso la giornata dentro e mi sentivo carcerato. [ gennaio ]. La branda
dove dovevo dormire – branda militare tutte brande militari – che questi ostelli
erano posti dove c’erano i prigionieri – c’erano i coperti militari regolari – e non
era una casa – come so fatte i case insomma – era brutto proprio […] in questi
ostelli non c’era nienti – ho visto quelle brande andando lì – e le valigie le ho
messe sulla branda – ho fatto un coso di legno – una specie di comodino che mi
sono fatto io – e ci ho messo le valigie – e lì – quello era l’armadio.
Anche nei rapporti delle visite dei funzionari dell’ambasciata italiana
negli hostels riscontriamo alcuni particolari piuttosto rivelatori sulle reali
condizioni dei gruppi di italiani, che nelle comunicazioni dell’ambasciata
vengono in diverse occasioni dipinte con toni esageratamente ottimisti
e acritici:
Coronation Hostel di Bedford. È di proprietà della London Brick Company
(fabbrica di laterizi) e vi alloggiano una settantina di nostri lavoratori. È un hostel
di tipo inferiore. I dormitori sono disposti in piccoli capannoni umidi, piuttosto
sconnessi, riscaldati in inverno con una stufa. Insufficienti ed antiquati i servizi
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L’EMIGRAZIONE ITALIANA IN GRAN BRETAGNA
igienici. Lo stesso si dica del vitto, che è scarso e cattivo, ma la tariffa è più bassa
che altrove e in definitiva è più ricercato che rifuggito.
I problemi che gli italiani riscontravano nella vita negli hostels erano
l’isolamento, il cibo, la mancanza di autonomia, l’impossibilità di poter
richiamare i familiari dall’Italia. Gli hostels erano lontano dalla città, gli
italiani potevano quindi avere qualche contatto esterno al mondo del
lavoro soltanto nei giorni di riposo, quando andavano a Bedford o anche
a Londra in occasione di iniziative organizzate per la comunità italiana.
Si trovavano costretti a trascorrere anche le ore libere dal lavoro in un
contesto di forte isolamento. Un problema che tutti gli italiani riscontravano in questi luoghi era la difficoltà con il cibo che veniva cucinato
nelle mense: pasti tipicamente inglesi, che gli italiani non riuscivano ad
accettare:
All that potato and stuff. I didn’t know how to eat it. I mashed it all up together.
Il problema del cibo negli hostels è uno dei più dibattuti nelle corrispondenze degli operai italiani e nei rapporti delle autorità italiane: venne
risolto in modo parziale nel corso degli anni, dopo una serie di trattative
del consolato italiano. Il problema emerse anche durante una visita del
ministro del Lavoro italiano, Ezio Vigorelli, avvenuta il  ottobre 
a Bedford:
Due sole questioni hanno fatto oggetto di esplicita lagnanza e cioè il modo di
preparazione del cibo negli “hostels” e la grave penuria di alloggi privati.
La grande questione che creava più conflittualità tra gli immigrati e le
aziende era però il problema del costo degli hostels. Se osserviamo i punti
 e  del contratto tipo del , a cui si era arrivati dopo una serie di
modifiche rispetto al primo schema del , possiamo analizzare il peso
che aveva sull’economia personale degli operai il costo degli hostels:
. I salari minimi per un lavoratore di  anni o più per una settimana lavorativa di  ore sono attualmente i seguenti: £ ..d. Paga minima per il turno
settimanale di lavoro diurno £ ..d. Paga minima per il turno settimanale di
lavoro notturno. Il lavoro straordinario, quando è effettuabile, viene retribuito
in ragione del % in più del salario normale per le prime  ore oltre le  ore;
del % in più per le ore successive. […]
. All’arrivo nella zona di lavoro in Gran Bretagna l’alloggio in hostels riconosciuti sarà fornito alle medesime tariffe pagate dai lavoratori inglesi. La tariffa
attuale ammonta a £ .. per settimana comprendente due pasti dal lunedì al
sabato e tre pasti alla domenica, cioè un totale di  pasti principali settimanali.

MICHELE COLUCCI
I panini imbottiti (sandwiches) per il mezzogiorno non sono inclusi ma è possibile acquistare delle merende da portare al lavoro a prezzi ragionevoli. Inoltre
si possono ottenere bibite e merende nel Hostel di ogni sera, per cui la maggior
parte degli uomini spende una media di uno scellino e  pence per ogni sera.
Questi prezzi sono soggetti a revisione di volta in volta, a seconda delle variazioni
del costo della vita.
Il vitto e l’alloggio quindi, per ogni settimana, vanno a incidere quasi
sulla metà del salario normale (.. £ su .. £), escludendo tutte le
altre spese, come il trasporto e il vitto non compreso nei due pasti giornalieri. Si tratta di una trattenuta molto forte sullo stipendio, che, agli
occhi degli emigranti italiani, era decisamente eccessiva, non giustificata
dal tipo di accoglienza ricevuta negli hostels e che, soprattutto, rendeva
molto difficile la possibilità di mandare denaro alle proprie famiglie in
Italia. La protesta italiana è indirizzata alla dirigenza delle aziende della
zona, sotto forma di lettere, di lamentele, di discussioni con i responsabili
degli hostels, ma la risposta che veniva data era che la condizione abitativa degli immigrati era stata concordata negli Schemi di reclutamento
e chiaramente esposta nel contratto, quindi ogni tipo di protesta era del
tutto impropria.
Le autorità italiane furono informate della situazione negli hostels.
Gli italiani iniziarono a rivolgersi al personale dell’ambasciata italiana a
Londra, che aveva seguito l’intero percorso di arrivo e insediamento dei
lavoratori italiani, per cercare di essere ascoltati nelle proprie richieste.
La seguente lettera, scritta presumibilmente da un funzionario dell’ambasciata italiana e indirizzata a Toogood del ministero del Lavoro
inglese, denuncia la situazione in alcuni hostels verificata da alcune visite
di funzionari italiani:
Dear Mr Toogood,
when I last say you, you asked me to let you have the rest of the reports on the
hostels visited by our consular agent in the Bedford area, and I am enclosing
one relative to the “Round house” at Bletchley. Signor Conte has advocated that
no italians be permitted – even they be willing – to go into this hostel which is
definitely below standard. I understand that representations have been made to
Mr Miller for our nationals prevented from going to the Round House Hostel
and for the  already living in it to be made to leave and transfer to the Kempston Hardwick or Church Farm hostels. There is no evidence, so far, to show
that anything has been done in this direction. The Ampthill Hostel, a report on
which has already been sent to you, should similarly be made inaccessible to
our workers or, as it houses only italians, closed down since, being leased by the
Ministry of Works, there is little likelihood of improvements being carried out
there by the Marston Valley Company. The Kempston Hardwick hostel appears
to have vacancies and could probably accommodate the  or so Italians that

L’EMIGRAZIONE ITALIANA IN GRAN BRETAGNA
we should like to see transferred from the two before-mentioned unsatisfactory
hostels. Apart from the hostels already visited by our consular agent, there are
two others accommodating comparatively small groups of our nationals. I refer
to the Leighton Buzzard and the Calvert Hostels, both situated in the vicinity
of Bletchley. Conditions generally are not bad there and Signor Conte is of the
opinion that our nationals could continue to live there. I hope you will have
too the opportunity of taking up the question of the suggested improvements
with regard to food, transport and medical services in the Kempston Hardwick,
Curch Farm and Drayton Parslow establishments and may be able to give me
some favourable news soon on the subject.
La fuga dagli hostels diventava comunque un passaggio obbligato per
quanti si volessero costruire una vita quotidiana più indipendente e con
radici meno precarie: anche se fossero stati cambiati i termini della permanenza negli hostels collettivi il fenomeno dell’esodo da questi luoghi
non sarebbe stato facilmente arginabile. La dinamica di spostamento degli
italiani dagli hostels dell’hinterland a Bedford è una delle questioni più
delicate che le autorità locali si trovano a gestire per tutto il corso degli
anni Cinquanta. Lo spostamento degli italiani mette in moto infatti un
insieme di conseguenze che provocano le reazioni della popolazione locale
e una serie di situazioni di conflittualità che hanno come protagonista la
nascente comunità italiana.
Fin dalla fine del  tra i primi gruppi di italiani si registrarono casi
di abbandono degli hostels e di insediamento nella periferia della città.
Il fenomeno era tuttavia decisamente minoritario e finché non assunse
proporzioni di massa non provocò praticamente alcun tipo di attrito con
la popolazione residente di Bedford. Gli operai italiani, come abbiamo
già osservato, non erano nella condizione di poter accettare a lungo la
sistemazione collettiva: il loro obiettivo immediato, una volta avviato il
lavoro e risparmiati un po’ di soldi, era il ricongiungimento familiare con
i parenti che ancora si trovavano in Italia.
A famiglia? e dove la mettevo? – il problema era la casa – che se non hai casa non
hai famiglia […] perché co la casa c’è la famiglia e figli (Giuseppe C.).
Eh no – no – alla casa no – non puoi dire no alla casa – perché se c’è la casa
poi viene che fai tutto il resto – ma la casa è na cosa troppo importante – co la
casa ti sei sicuro che i soldi non si perdono e che i figli dopo hanno qualcosa
(Giuseppe C.).
Vivere negli hostels, oltre ad essere umanamente e socialmente degradante, rendeva impossibile qualsiasi progetto di ricongiungimento. La
casa, in un simile contesto di isolamento, inizia a rivestire per gli emigrati
un ruolo fondamentale, sia dal punto di vista materiale che simbolico:

MICHELE COLUCCI
diventa allo stesso tempo una esigenza pratica fondamentale e un’aspirazione irrinunciabile, che poteva rappresentare un primo passo verso
la ricostruzione della propria identità culturale e sociale che l’esperienza
della migrazione aveva scardinato. Renato Cavallaro ha analizzato la
valenza dell’immagine della casa, contrapposta alla vita negli hostels, tra
gli emigrati calabresi:
L’hostel è la negazione della casa. Esso è una non casa. È la negazione dialettica
del luogo delle relazioni familiari. L’hostel è, sostanzialmente, una sorta di caserma nella quale gli individui vengono depauperati progressivamente del ricordo
della propria casa che diverrà sempre più il luogo da “ri-costruire” al più presto.
L’hostel-caserma annulla, infatti, gli spazi dell’intimità di cui ciascun individuo
ha bisogno. […] Anche questo motivo concorre quindi ad individuare nell’acquisto della casa un tema centrale dei calabresi di Bedford. La casa come angolo
chiuso del mondo circostante, come spazio stabile che fissa e comprime il tempo
e che addensa i ricordi personali e quelli del gruppo, affiora continuamente nelle
biografie degli emigrati. […] La casa è, pertanto, uno spazio sociale polisemico. Essa, infatti, racchiude molteplici significati che, per comodità dell’analisi
individuiamo in due punti fondamentali: a) localizzazione del proprio gruppo
primario familiare; b) possesso di un bene economico sicuro.
La prima sistemazione alternativa che molti italiani riuscirono a trovare fu
nelle cosiddette lodging-houses (case alloggio), ville di epoca vittoriana che
i proprietari decidevano di affittare a più nuclei familiari, con frequenti
casi di coabitazione di più famiglie nella stessa casa o, addirittura, nella
stessa stanza. Erano immobili situati nella parte occidentale della città, disposti lungo Midland Road, in prossimità della stazione ferroviaria: la loro
costruzione, datata attorno agli anni Settanta e Ottanta dell’Ottocento,
risaliva al periodo del ritorno di gruppi e famiglie dalle colonie imperiali
e all’esigenza di individuare per questi una sistemazione unitaria e legata
al loro passato. Negli anni del secondo dopoguerra la gran parte di queste
case era stata abbandonata e i proprietari non esitarono a offrirle a prezzi
anche piuttosto alti alle famiglie di immigrati che erano disperatamente
alla ricerca di un affitto, molto difficile da trovare nel resto della città.
Dopo un po’ siamo riusciti tutti a comprarci la casa, anche con gli aiuti del governo. Ma all’inizio fu dura, quando andammo via dagli ostelli ci trovavamo in
tre-quattro famiglie dentro una casa, io vivevo con mia moglie e altre tre famiglie,
per tutti una sola cucina e un solo bagno.
The first places the immigrants could find were near the railway station, to the west
of the town centre. In this area some % of the buildings date from before .
Many were big old houses too inconvenient and too costly for English families to
maintain. These became the first lodging-houses. There the immigrants crammed
together, partly from a need for the security of their own kind but mainly because

L’EMIGRAZIONE ITALIANA IN GRAN BRETAGNA
these houses were all they could get. After months, even years, of searching, they
were glad to get anything, and almost on any terms. The inevitable results were,
on the one hand, overcrowding and poor living conditions; on the other, a rash
of stories of immigrant slum conditions.
Le multiple occupations si diffondevano in tutte le comunità straniere, ma
erano soprattutto gli italiani a incrementare questa forma di coabitazione che iniziava a destare scandalo anche tra le autorità locali. L’iter che
gli stranieri dovevano compiere per trovare un alloggio era comunque
simile per le varie comunità. Brown ha cercato di ricostruirlo con questo
schema:
Slowly emerged a cyclic pattern of immigrant housing. At first, the arduous search.
Then a foothold in an old house; and, as trust was established, more of the same
group admitted to the lodging. There they lived, often hugger-mugger, scrimping
and saving until one or more of them got money enough to buy up a house for
themselves where they could live and which would be a lodging-place for their
own people. As others of the group got money, they left to find rooms on their
own, or married and bought a house where they could effort it – for the most part
in the poorer areas of town. Then, as the group dispersed, the new immigrant
landlords, together with the local landlords, let their rooms to the next wave of
immigrants. These, in turn, re-enacted the original pattern.
Secondo l’autore gli italiani si inseriscono in questo percorso con una
netta differenziazione rispetto agli altri: tendono, cioè, ad accettare la
condizione degradante delle lodging-houses e vi si stabiliscono non temporaneamente, come gli altri immigrati, ma per lungo tempo, anche per
anni. Da qui, quindi, la concentrazione italiana nella zona di Midland
Road e la formazione di quello slum che le autorità cercano di eliminare.
La TAB. n.  ricostruisce la quantità di multiple occupations tra il  e
il , dividendo per nazionalità gli immigrati: la quantità di italiani
coinvolti nel fenomeno è davvero considerevole.
L’arrivo in città degli italiani, stipati in appartamenti di piccole dimensioni in condizioni igieniche e di convivenza decisamente precarie,
provocava però l’indignazione di vasti settori della popolazione locale.
In one gaunt Victorian mansion I found Francesco e Maria living in the old front
parlour with their five children – the youngest five months old. Rent: £ . a week.
Maria shares the downstairs kitchen and wash-house with the mothers of two
other families. She was cooking the evening meal for herself and her husband,
who had just got back from work and for the other to mothers, whose husbands
were on “nights”. Maria was surprised when I asked if it was difficult for three
women to share one kitchen and one wash-house with a single stink. From these
overcrowded houses the children tumble out into the quiet roadway to play their

MICHELE COLUCCI
shrill noisy games. The morning shift at the brickworks  miles away starts at
seven o’clock. So at about . the workers begin to gather in Midland road to
wait for the company bus.
In this house, we took pictures of toilet which we considered, when printed, too
much pleasant to publish. The outside drains were blocked. Dirty water was
swirling in the yeard. The staircases and corridors were bare, or spattered with
torn fragments of linoleum. People living there told us that at one time there
were over forty of them living in the house, sharing one bathroom. In this onceexclusive area there are several such houses, the large, rambling, fourteenroomed
kind, with long corridors, and dark kitchens, built for the days when servants
were cheap and plentiful. Now each room is housing one family, or four single
man – at three pounds a room for families, and twenty-five shillings a head for
single men.
In una corrispondenza tra il ministero del Lavoro inglese e l’Home Office
del febbraio  si paventava il rischio della diffusione di un sentimento
antitaliano: «there has been evidence of a good deal of anti-italian building
up in the neighbourhood». Si trattava di una vera e propria “crisi” nel
rapporto tra la città di Bedford e gli italiani: era tuttavia probabilmente
una crisi inevitabile, visti i modi con cui era stata gestita l’immigrazione
italiana e l’atteggiamento ambiguo delle autorità locali, che avevano
praticamente ignorato la presenza italiana fino a che gli italiani non
erano diventati un “problema”, sotto gli occhi di tutta la popolazione,
mentre fino a pochi mesi prima erano adeguatamente “nascosti” a tre
miglia dal centro.
From the beginning, then, the Italians clung together. Bedford was horrified
by the loud speech, the violent gesticulations, the pungent cooking smells, the
noise of radios at full volume, particularly in the summer months, when Italians
spilled out of their crowded houses to conduct a communal life in the streets.
Through open windows, the radios continued at full blast. What to italians
were normal acts of human interchange were to the people of Bedford acts of
indecent exposure. These people... noisy... smelly... undisciplined... these making
the town a slum.
Abbiamo una testimonianza molto interessante dell’emergenza abitativa
che caratterizzava la comunità italiana anche nei documenti dell’ambasciata a Londra. L’ambasciata viene in diverse occasioni investita del
problema dai funzionari del ministero del Lavoro inglese, che a loro volta
erano pressati dall’amministrazione di Bedford. Addirittura nell’aprile del
 i funzionari diplomatici italiani compilano, con l’aiuto del Council of
Bedford, un elenco delle famiglie italiane occupanti di una stanza e dei
gruppi di uomini che vivono in più di cinque in una stanza, corredando
l’elenco con le foto delle abitazioni e la loro localizzazione geografica.

L’EMIGRAZIONE ITALIANA IN GRAN BRETAGNA
Dalle foto si può notare come le case interessate fossero effettivamente
quelle tipiche ville di epoca vittoriana che si incontrano praticamente in
tutta la provincia inglese. Dalla documentazione emerge inoltre anche la
denuncia della presenza di alcune baracche abitate da single men italiani
e situate soprattutto nella zona di Ampthill Road. Le istituzioni locali,
con la collaborazione delle dirigenze delle industrie in cui lavoravano gli
italiani, cercarono di scoraggiare l’abbandono degli hostels. Nel maggio
 compariva questo cartello in tutti gli hostels abitati da italiani:
Questo “hostel” è mantenuto a spese della Ditta appositamente per gli operai
dipendenti. Parecchie centinaia di lavoratori italiani vivono e lavorano in Bedford
e dintorni dove gli alloggi sono molto scarsi e sovraffollati. La situazione va peggiorando perché numerosi italiani lasciano gli “hostels” per andare a vivere in
città riunendosi spesso in una sola stanza in condizioni anti-igieniche, socialmente
poco decorose e pagando affitti esosi ai padroni di casa. Il sovraffollamento delle
abitazioni in Bedford ha dato luogo a inconvenienti di vario genere. L’attuale
situazione preoccupa le autorità locali, le quali ritengono che, almeno per un
certo tempo, la città non possa più ricevere altre persone. Nel vostro interesse
siete esortati a rimanere il più lungo possibile nell’Hostel che la ditta tiene a
vostra disposizione e che vi costerà meno di una abitazione più scomoda in città.
Per qualsiasi consiglio riguardante l’alloggio rivolgetevi all’Agenzia Consolare,
, Victoria Road, Bedford.
Era però un’operazione di difficile riuscita, infatti l’esodo dagli hostels
aumentava progressivamente fino al .
Il ricongiungimento familiare era quindi un passaggio molto importante nel percorso umano e sociale degli emigrati. Non si trattava però
di una semplice formalità burocratica, richiedeva infatti un insieme di
garanzie e di procedure sulle quali in diverse occasioni si registrano
contrasti tra gli emigrati e le autorità italiane ed inglesi. Questa circolare
del  marzo  inviata dalla Direzione generale occupazione interna e
migrazioni del ministero del Lavoro italiano a tutti gli Uffici del lavoro
chiarisce quali fossero le procedure da seguire per il ricongiungimento
familiare in Gran Bretagna:
Allo scopo di facilitare il ricongiungimento del nucleo familiare (moglie e figli
minori di  anni di età) con il capo-famiglia, emigrato ed impiegato al lavoro in
Gran Bretagna, la procedura per ottenere l’ammissione all’espatrio dei familiari
è stata stabilita come segue:
) Il lavoratore emigrato che desideri farsi raggiungere dalla famiglia deve inviare al Console italiano competente territorialmente, una attestazione in duplice
esemplare e nella formula allegata, stabilita dal Ministero degli Interni Britannico,
dalla quale risulta che il lavoratore è in grado di alloggiare e mantenere la propria
famiglia in Gran Bretagna. […]

MICHELE COLUCCI
) L’Ufficio del lavoro cui saranno segnalate da questo Ministero le richieste
in parola sottoporrà i familiari a visita medica […]. Successivamente al Centro
di Emigrazione di Milano e p. c. a questo Ministero i nominativi dei familiari in
possesso del passaporto e pronti per la partenza.
) L’Ufficio del lavoro, appena ricevuto il nulla osta di partenza del Centro
con l’indicazione della data di afflusso a Milano, curerà l’avviamento colà dei
familiari previa consegna ai medesimi dei passaporti, del certificato vistato dal
Console italiano e degli altri documenti di viaggio ordinariamente richiesti per
i viaggi di trasferimento degli emigrati.
) Il Centro Emigrazione di Milano darà comunicazione a questo Ministero
dell’avvenuto espatrio e provvederà alle segnalazioni agli Uffici competenti in
Inghilterra per l’assistenza della famiglia nel viaggio fino a destinazione.
Il problema, per gli emigrati, era la certificazione dell’alloggio e del reddito capace di mantenere la famiglia: due elementi su cui non sempre
si potevano offrire garanzie certe alle autorità. Nel periodo - su
. famiglie italiane che chiedono il ricongiungimento ben  di loro
non lo ottengono: il ,% dei casi, una percentuale decisamente alta
che dipende dalle rigidità imposte dalle autorità locali di Bedford per
impedire l’espansione della comunità italiana. I dati, comunque, segnalano
che il ricongiungimento familiare fu un fenomeno piuttosto costante a
partire dal -: la comunità italiana, anche se tra molte difficoltà, si
andava quindi espandendo e gettava le basi per un insediamento di tipo
intergenerazionale e di forte impatto sul tessuto economico e sociale
della città.
Cercando di sintetizzare gli sviluppi successivi dell’insediamento
residenziale degli italiani occorre ricordare un altro fenomeno, ovvero
l’acquisto delle case da parte degli immigrati. Se infatti nel  gli italiani
in affitto erano l’% del totale, dieci anni dopo, nel , questa cifra
scende al %. Gli italiani avevano infatti iniziato ad acquistare appartamenti grazie ad alcune agevolazioni statali, studiate proprio per superare
il fenomeno delle multiple occupations e della concentrazione residenziale,
che arrivavano a concedere mutui fino al % del costo dell’immobile.
Anche nel caso dell’acquisto di appartamenti si verificavano le dinamiche
di raggruppamento di italiani negli stessi isolati e negli stessi quartieri
della città: gli italiani infatti si rivolgevano a quei settori del mercato
immobiliare più accessibili e chiaramente trovavano un’abitazione nelle
parti più povere della città, come Clapham Road, Queens Park, Ampthill Road. È anche interessante notare come ad attirare gli italiani era
il tipo di abitazioni, che in alcuni casi potevano favorire quelle relazioni
interne alla comunità che, come abbiamo già notato, erano per gli italiani
talmente importanti da rendere accettabile la convivenza nelle precarie
condizioni delle multiple occupations. A questo proposito un esempio

L’EMIGRAZIONE ITALIANA IN GRAN BRETAGNA
molto interessante è l’insieme di case a schiera di Bedford Park, altro
luogo di concentrazione residenziale degli italiani a partire dai primi anni
del decennio Sessanta fino a oggi.

Il lavoro
In fabbrica ero addetto al trasporto dei mattoni, un lavoro molto pesante. Dovevamo praticamente spostare per tutta la giornata lavorativa cumuli di mattoni
che venivano prodotti e immediatamente caricati sui camion. Con noi c’erano
molti indiani e pachistani, con loro ci trovavamo comunque bene. Furono quattro
anni durissimi, al lavoro non ti potevi fermare un attimo, un giorno trovarono
mio fratello che si stava riposando, lo presero, lo licenziarono e lo rimandarono
in Italia. Non è stato appassionante ma non avevamo alternative, al paese.
Il lavoro con i mattoni era tremendo, ci sono stato undici anni. Lavoravamo alle
fornaci, fuori da Bedford e vivevamo negli ostelli, che ci dovevamo pure pagare.
Non avevamo proprio una vita nostra perché era tutto lavoro e riposarsi dal lavoro, lavoro e riposarsi dal lavoro. Alle fornaci italiani eravamo in molti, si parlava
italiano tra noi operai e a noi ci rispettavano perché lavoravamo meglio degli
altri, infatti di italiani ne continuarono a chiamare per tanti anni. Dai mattoni
ci siamo dovuti passare tutti, chi veniva a Bedford poteva fare solo quello, per
quattro anni era proibito cambiare lavoro, se non ce la facevi ti rimandavano
in Italia, ce n’era di gente rimpatriata, anche se poi in un modo o nell’altro
riuscivano a tornare.
Negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale si
registrava una straordinaria richiesta in tutta la Gran Bretagna di materiale edilizio per far fronte alle esigenze della ricostruzione. La London
Brick Company avrebbe dovuto produrre quaranta milioni di mattoni a
settimana per rispettare gli standard di produzione che il governo chiedeva, ma lo sforzo produttivo necessitava di un apporto di manodopera
decisamente superiore a quei . operai che l’azienda contava negli anni
di guerra. Da qui l’esigenza di assumere lavoratori stranieri perché, come
già accennato, i tentativi di assumere ulteriori gruppi di operai inglesi
erano stati decisamente fallimentari. La TAB. n.  mostra come, presso lo
stabilimento di Stewartby, a fianco del serbatoio di manodopera costituito
dai profughi polacchi e dagli European Volunteer Workers (EVWs), si
affianchino, a partire dal , gli italiani.
Gruppi di stranieri erano stati impiegati negli anni di guerra e, come
testimonia la tabella, il lavoro dei prigionieri fu utilizzato fino al .
Già dal  tuttavia si registra l’arrivo dei lavoratori polacchi, inseriti
in quanto profughi di guerra in una serie di Schemi di reclutamento
collettivo, e l’impiego di EVWs che erano tedeschi, austriaci, ungheresi e

MICHELE COLUCCI
altri, contattati nei campi profughi e nelle aree fortemente disagiate di
mezza Europa e trasferiti in Gran Bretagna a lavorare con lo statuto di
“volunteer” in condizioni di forte discriminazione rispetto alla manodopera locale. Secondo i dati questo gruppo di lavoratori, che cresce
numericamente negli anni successivi, viene impiegato anche dopo la fine
degli accordi ufficiali sugli EVWs, infatti risulta regolarmente assunto fino
al , mentre gli accordi governativi ufficiali sugli EVWs terminano nei
primi anni Cinquanta: possiamo ipotizzare che gruppi di EVWs rimasero
a lavorare nelle industrie di mattoni, accordandosi singolarmente con
la dirigenza industriale. Assolutamente marginale sembra il contributo
degli irlandesi, che infatti appartengono a quel tentativo di reclutamento
“interno” di manodopera precedente all’arrivo degli italiani nel  che
si rivelò del tutto fallimentare. La tabella mostra invece come l’apporto
di manodopera italiana, che inizia nel  e aumenta progressivamente
fino al , si rivelò fondamentale e duraturo, fino a rappresentare quasi
un quinto della forza lavoro totale dello stabilimento. Gli altri momenti
importanti nell’evoluzione della composizione della forza-lavoro dello
stabilimento sono il , che segna l’arrivo di immigrati dalle ex colonie
caraibiche, e il , quando vengono assunti gruppi di indiani e pachistani: questi arrivi, come si potrà constatare più avanti, sono molto importanti
per quanto riguarda le conseguenze sull’insieme delle relazioni etniche
all’interno della città e nei luoghi di lavoro.
I dati proposti nella tabella evidenziano il carattere decisamente
multietnico che segna lo sviluppo del dopoguerra della London Brick
Company e mettono in risalto l’uso pianificato e strategico dell’immigrazione da parte dell’azienda. Gli immigrati, infatti, come abbiamo
potuto notare a proposito degli italiani, non venivano scelti a caso, ma
venivano assunti dopo rigide selezioni che in molti casi avevano inizio
nei paesi d’origine.
A proposito del peso della manodopera straniera sulla forza-lavoro
totale, del tutto evidente da questi dati, occorre inoltre fare un’ulteriore
precisazione: la tabella non specifica il tipo di mansione dei lavoratori,
quindi sotto il dato “Totale” vanno considerati tutti gli assunti, compresi
quindi gli impiegati, il personale di vigilanza, i quadri, i quali erano tutti
inglesi. Se gli stranieri in media rappresentano un terzo tra gli on clock
e da questa cifra sottraiamo ipoteticamente l’insieme dei lavoratori non
operai, possiamo concludere che gli stranieri componevano, almeno, la
metà del lavoro operaio dello stabilimento.
È attorno al lavoro che ruotava interamente, almeno nei primi anni,
la vita degli italiani e della comunità italiana. Nella fabbrica gli italiani,
come gli altri immigrati, svolgevano le mansioni più dequalificate, come
prescriveva il contratto di reclutamento, che prevedeva rigorosamente

L’EMIGRAZIONE ITALIANA IN GRAN BRETAGNA
l’esclusiva assunzione di manodopera non specializzata. Gli italiani erano addetti al trasporto del materiale, alla cottura nei forni ad altissime
temperature, alla prima lavorazione dell’argilla. La vita degli italiani era
interamente regolata e ordinata dai tempi e dalle esigenze della fabbrica:
dalla posizione periferica in cui si trovavano gli ostelli alle possibilità di
socializzazione, dalla scansione quotidiana dei turni all’alimentazione.
L’azienda si occupava di tutto quello che, secondo la dirigenza, sarebbe
dovuto servire agli italiani. Gli operai italiani venivano segnalati per la
loro bravura e l’esperimento dei primi gruppi del maggio  venne
immediatamente seguito da una serie massiccia di assunzioni, come la
TAB. n.  dimostra. Il meccanismo di reclutamento portò immediatamente alla formazione di una catena migratoria tra Bedford e alcuni paesi
dell’Italia meridionale, in particolare Busso (Campobasso), S. Angelo
Muxaro (Agrigento), Montefalcione (Avellino) e Buonvicino (Caserta). Il
reclutamento avveniva in molte occasioni attraverso la combinazione di
un meccanismo informale di contatto tra gli emigrati e i paesani in Italia
e le procedure ufficiali delle aziende. Come abbiamo già potuto sottolineare in precedenza, alle aziende conveniva avere una forza lavoro di
nazionalità e provenienza omogenea e il sistema di reclutamento ufficialeinformale era un’ottima garanzia per mantenere all’interno della fabbrica
un clima di bassa conflittualità. Inoltre, nei periodi in cui le autorità locali
bloccarono la possibilità di effettuare il reclutamento collettivo quel meccanismo informale diventava la fonte primaria di ricerca del personale
per le aziende: gli emigrati in pratica consigliavano all’azienda il nome
di un parente, un amico o un conoscente assumendosene le conseguenti
responsabilità e l’azienda procedeva alla sua chiamata attraverso il labour
permit individuale. Questa procedura divenne la prassi ordinaria a partire
dal , quando, come vedremo più avanti nel dettaglio, il reclutamento
collettivo degli italiani viene definitivamente sospeso.
Secondo quanto abbiamo già avuto modo di segnalare a proposito
della situazione negli hostels, gli italiani erano fortemente penalizzati dal
punto di vista salariale rispetto ai lavoratori inglesi. I progetti di invio
di denaro alle famiglie, di ricongiungimento familiare, di accumulo di
risparmi venivano accantonati nei mesi iniziali di lavoro perché erano
praticamente impossibili da portare avanti. Abbiamo una conferma di
queste difficoltà dalle numerose richieste di mantenimento del sussidio
alle famiglie in patria che giungono dagli emigrati al ministero del Lavoro
italiano e dalle lamentele che a questo proposito vengono indirizzate
all’ambasciata e al ministero stesso:
Gran Bretagna – invio rimesse lavoratori emigrati. ...
Con riferimento alla nota suindicata si comunica che effettivamente questa
Divisione, a seguito di accertamenti preliminari alla decisione in merito a do-

MICHELE COLUCCI
mande di proroga del sussidio straordinario a famiglie di lavoratori emigrati in
paesi europei, ha avuto occasione di apprendere che in taluni casi il mancato
invio di rimesse da parte dei lavoratori ai congiunti rimasti in patria è dovuto
all’insufficienza di salario. […] In risposta alla lettera sopracitata, comunico che
il lavoratore Selvetella Amoroso ha dichiarato che, essendo espatriato nel luglio
 e guadagnando ancora un modesto salario, non ha avuto finora la possibilità
di realizzare alcun risparmio e quindi non ha effettuato rimesse a favore della
famiglia. Il Console.
Il caso di Selvetella, residente a Peterborough e impiegato presso la
London Brick Company, non è certamente isolato; nella documentazione
seguono altri otto casi simili, di cui sei sono relativi a lavoratori residenti
a Bedford o Peterborough.
I primi gruppi di immigrati tendevano a richiamare dopo un certo
periodo dal loro arrivo le proprie famiglie. Il ricongiungimento, oltre a
provocare quelle tensioni e la trasformazione della dinamica residenziale
già accennate, introduceva in molti casi una novità inedita per molte
famiglie meridionali: il lavoro delle donne. Anche per loro funzionava
il meccanismo di reclutamento individuale sulla base di un contratto di
lavoro, anche se la maggior parte di esse arrivò nella zona attraverso il
ricongiungimento con i mariti o i fratelli. Il caso delle aziende produttrici di mattoni come la London Brick Company presenta una analoga
esperienza di concentrazione lavorativa femminile: lo stabilimento della
Meltis sweet factory di Elston Road. L’industria, produttrice di cioccolato,
arrivò a impiegare più di  operaie italiane. Le donne trovavano un
impiego anche in altre aziende della zona, come nelle industrie di calzature
e borse, in piccole aziende tessili, in industrie di lavorazione del ferro.
Le donne italiane si trovavano in una condizione di durissima pressione
lavorativa e familiare: erano infatti impegnate sia nelle diverse mansioni
del lavoro domestico e familiare che gravavano interamente su di loro
che nel lavoro in fabbrica o negli altri settori in cui erano impiegate. Nel
corso degli anni alcune aziende introdussero il part-time, che ebbe molto
successo tra le immigrate italiane.
Al fine di conciliare “famiglia” e “lavoro” in fabbrica, le donne calabresi hanno
preferito in gran parte il lavoro part-time, spesso pubblicizzato dalle stesse ditte,
al fine di fruire anche di un tempo da dedicare alla casa.
Nell’incontro tra la realtà industriale di Bedford – in cui il lavoro femminile era ricercato e in cui, per esigenze economiche familiari, anche le
donne dovevano lavorare – con l’impostazione culturale delle famiglie
emigrate meridionali, che prevedeva la perpetuazione di un modello di
famiglia patriarcale in cui era la donna a dover assumere il carico intero

L’EMIGRAZIONE ITALIANA IN GRAN BRETAGNA
della manutenzione e della gestione materiale della casa e della crescita
dei figli – le donne pagarono un prezzo altissimo.
Un altro aspetto molto interessante dell’insediamento della comunità italiana a Bedford è relativo all’insieme dei rapporti che gli italiani
avevano con le altre comunità di immigrati presenti nella zona. Come è
stato già sottolineato l’arrivo degli italiani a partire dal  coincise con
il progressivo insediamento nella zona di molti altri gruppi di immigrati.
Gli italiani si trovavano quotidianamente, sui posti di lavoro ma anche
fuori dal lavoro, a contatto, fianco a fianco, con immigrati polacchi,
jugoslavi, tedeschi, ma anche con pachistani, caraibici, indiani. Questi
gruppi condividevano le mansioni più dure del lavoro in fabbrica e la
convivenza nei quartieri più abbordabili per le economie degli operai.
Anche questa, per gli italiani, era una novità: molti, come ricordano nelle
interviste, «non avevano mai visto un nero». Nella memoria degli emigrati
italiani non si può individuare un ricordo forte di forme di conflittualità
o di tensione con gli altri gruppi di immigrati. Tuttavia in molte occasioni
si presentavano situazioni di possibile “concorrenza” tra gruppi nazionali
differenti che, vista la disinvoltura che le aziende avevano mostrato nel
privilegiare determinati gruppi in periodi di forte bisogno di manodopera, provocavano tensione e agitazione tra gli operai. È, ad esempio,
il caso che si registra a Peterborough, città a nord di Bedford, quando
tra il dicembre  e il gennaio  si moltiplicano gli interventi degli
operai italiani presso l’ambasciata di Londra per avere rassicurazioni sulla
presunta ondata di immigrazione dalle Indie occidentali che, secondo
voci raccolte dagli operai, avrebbe potuto comportare addirittura il
rimpatrio degli italiani e la loro sostituzione con immigrati giamaicani.
Così si esprime un funzionario dell’ambasciata a questo proposito in un
rapporto del dicembre  che ricostruisce l’intera vicenda:
Da qualche tempo i fornaciari italiani residenti a Peterborough alle dipendenze
della London Brick Company, che occupa in quella zona circa  nostri connazionali, si rivolgono al Console di Londra, manifestando una certa ansietà per le
voci che corrono localmente circa la possibilità di rimpatrio dei lavoratori italiani.
Attraverso informazioni raccolte a Peterborough dal Console e contatti con il
Ministry of labour britannico si è potuto accertare l’origine di tali voci, sulla
quale questa ambasciata ritiene opportuno riferire a codesto ministero. Nessun
provvedimento è stato finora adottato dall’autorità governativa britannica ai
fini di un controllo della immigrazione di sudditi britannici di colore, la quale
è ancora completamente libera e rappresenta una nuova fonte di manodopera
per la Gran Bretagna. […] I sindacati locali di Peterborough hanno, secondo le
notizie avute, preso l’iniziativa di interpellare i propri membri sull’assunzione
di gente di colore nell’industria dei laterizi. Gli interpellati avrebbero votato a
favore motivando il proprio voto sul fatto che trattasi di sudditi britannici. Ma

MICHELE COLUCCI
sono andati oltre, chiedendo che gli italiani fossero rimpatriati alla scadenza del
loro contratto per far posto agli immigrati di colore. […] per quanto la questione non sia stata resa di pubblica ragione, i nostri lavoratori ne avrebbero avuto
sentore. Di qui le loro ansiose richieste al console di Londra.
Il rapporto esclude comunque l’eventualità di un rimpatrio forzato degli
italiani, ma ipotizza un possibile blocco dei reclutamenti collettivi; inoltre
sottolinea come da parte aziendale ci fosse una certa tendenza a proteggere
il lavoro italiano, che si era rivelato fondamentale per la produttività delle
officine. Ci troviamo però di fronte a una nuova situazione per quanto
riguarda la politica nei confronti dei lavoratori italiani: il periodo in cui si
verificano questi episodi di pressione attorno agli italiani (inverno -)
coincide con la scadenza dei primi quattro anni di contratto, al termine
dei quali gli italiani potevano, secondo le parole dello stesso funzionario, «richiedere al Home Office la residenza permanente che li parifica
al lavoratore inglese, godendone la medesima mobilità di lavoro». Gli
stessi dirigenti della London Brick proprio per questo motivo ora non
difendono più gli italiani con quella determinazione che avevano mostrato
negli anni precedenti, non nascondendo il possibile coinvolgimento nelle
assunzioni di altri gruppi di immigrati. La fine del contratto di quattro
anni era effettivamente un passaggio molto importante per i lavoratori
italiani. Come abbiamo già potuto constatare il % di loro sceglieva a
quel punto di tornare in patria e quelli che rimanevano potevano cambiare
impiego o rimanere nelle fornaci con un nuovo tipo, più conveniente,
di trattamento economico. Chi sceglieva di cambiare lavoro, prospettiva
che per i primi quattro anni era assolutamente proibita dal contratto, si
rivolgeva ai numerosi impianti industriali della zona o cercava la strada
del lavoro autonomo, inserendosi nel sistema economico legato alla
comunità italiana. Altri andavano via da Bedford, stabilendosi spesso a
Londra, dove non era difficile trovare un impiego nel settore del catering
o comunque negli spazi economici gestiti dagli italiani. Abbandonare il
lavoro nelle fornaci rappresentava una forma di liberazione per gli italiani,
che manterranno nella memoria un ricordo duro e pionieristico di quei
primi anni nelle fabbriche di mattoni:
Ai mattoni ci sono stato per quattro anni all’inizio. Era una vita durissima e non si
poteva cambiare lavoro, sennò ti rimandavano in Italia. Alla fine dei quattro anni
ho cercato un altro lavoro perché era impossibile continuare e mi sono impiegato
in una fabbrica di ingegneria. I mattoni sono stati il lavoro più duro.
La TAB. n.  riproduce uno schema elaborato il  aprile  dal ministero del Lavoro inglese e fornisce la posizione di sei lavoratori che tra il
febbraio e l’aprile del  avevano terminato il contratto quadriennale e

L’EMIGRAZIONE ITALIANA IN GRAN BRETAGNA
avevano scelto di lasciare le fabbriche di mattoni. Si tratta di un documento molto interessante, perché riguarda uno dei primi gruppi di operai che
conclusero l’esperienza quadriennale: si presuppone infatti che abbiano
iniziato il lavoro nei primi mesi del  e che facessero quindi parte
di uno dei primi gruppi di italiani giunti a Bedford. Tra i sei emigrati,
quattro dei quali occupati alla Marston Valley, risulta evidente, sotto la
voce Reason for leaving, la loro volontà di trovare un impiego diverso
da quello della produzione di laterizi, al punto da accettare, nella nuova
occupazione, paghe più basse di quelle percepite precedentemente. È
inoltre indicativo osservare dove gli emigrati potevano trovare un nuovo
impiego, ben quattro di loro infatti vengono assunti dalla Meltis, la già
citata industria di dolciumi, mentre nessuno di loro si sposta da Bedford.
Un’altra nota importante a proposito della scadenza dei contratti è relativa
alle aspettative che le autorità locali avevano nei confronti di un possibile
ridimensionamento della comunità italiana a Bedford. La speranza era
che gli italiani, lasciato dopo quattro anni il lavoro come brickworkers,
lasciassero anche la zona di Bedford, fenomeno che effettivamente avvenne ma non nelle dimensioni auspicate, come sottolinea questa relazione
del ministero del Lavoro inglese:
According to the brick firms they largely leave the area and go to work elsewhere,
but the Mayor and Town Clerk were certain that the majority remain with their
families in Bedford even though they may take work at some little distance and
travel daily to and from this work.
A proposito del lavoro degli italiani e del rapporto con i lavoratori locali
possiamo individuare ancora degli stimoli interessanti nel rapporto su
Peterborough già citato. Infatti compare anche in questo caso uno dei
grandi problemi del rapporto tra gli italiani e i lavoratori inglesi: la questione delle Trade unions e del comportamento sindacale degli italiani.
Occorre porre in rilievo anche un altro aspetto della questione e cioè l’iscrizione
dei lavoratori italiani alle Trade Unions, che, in base al contratto di assunzione,
non è obbligatoria nel caso dei fornaciai, ma tuttavia consigliata. Secondo indagini effettuate, soltanto poche unità sui  lavoratori della “London Brick
Company” si sono iscritti volontariamente alla “Trade Union” locale, mentre la
quasi totalità se n’è astenuta, per malintesi motivi di economia. Questo estraniarsi
dall’attività sindacale non è gradito ai lavoratori inglesi. Infatti un dirigente
sindacale ha espresso confidenzialmente l’opinione che se gli italiani avessero
aderito in massa all’Unione, avrebbero potuto mediante il loro voto far valere
dall’interno i loro diritti acquisiti, tanto da evitare il determinarsi della situazione
sopra prospettata. […] Purtroppo la manodopera italiana dell’industria inglese
dei laterizi, originariamente formata quasi tutta di manovalanza non qualificata,
non ha alcuna preparazione sindacale. Per esperienza fatta, sarebbe sufficiente

MICHELE COLUCCI
che tra i lavoratori reclutati in Italia vi fosse qualche elemento sindacalmente
maturo, il quale potrebbe svolgere opera di convinzione tra i propri connazionali assumendo di fatto le funzioni di rappresentante del gruppo italiani dopo
l’adesione alla Trade Union.
Le autorità italiane si fanno quindi carico di un compito piuttosto originale: organizzare la sindacalizzazione dei propri lavoratori connazionali. Il
tentativo appare molto interessante ai fini di una indagine sul ruolo delle
agenzie consolari italiane nel rapporto con gli emigrati: come abbiamo
già potuto constatare in diverse altre occasioni (le visite agli hostels, le
cronache dell’arrivo dei primi gruppi di emigrati, le visite dei ministri
italiani) si trattava di un atteggiamento in cui venivano a sovrapporsi
forme di paternalismo e opportunismo politico, che erano ben lontane
dal costruire una reale mobilitazione in difesa dei diritti civili e sociali
degli italiani. Le autorità italiane, nel tentativo di incoraggiare l’iscrizione
sindacale, fanno pubblicare sul numero di aprile  del periodico “La
voce degli italiani”, il più letto tra gli emigrati, il seguente appello:
Avviso importante.
Come è noto, nei contratti di lavoro inglesi l’iscrizione ai Sindacati non è resa
obbligatoria, ma solo raccomandabile. Poiché l’appoggio sindacale è in tutti i
casi utile e, in alcune circostanze, è forse l’unico mezzo col quale possano essere
sistemate favorevolmente vertenze e questioni importanti e di varia natura, rivolgo
un vivo appello a tutti i lavoratori italiani di non rinunziare a questa preziosa
forma di assistenza. È da tener presente che, contro un contributo minimo per
l’iscrizione, essi hanno diritto al patrocinio legale in caso di necessità e ad una
multiforme attività assistenziale in più campi. L’iscrizione è in più un atto, se
non legalmente, moralmente doveroso nei riguardi dei compagni inglesi che
sapranno certo apprezzare al suo giusto valore questo gesto di solidarietà da
parte dei lavoratori italiani. Il Console generale.
Dalla seconda parte del rapporto veniamo inoltre a conoscenza di una
serie di elementi molto interessanti sul tipo di organizzazione del lavoro
degli immigrati che le Brick companies concordavano con il governo
inglese e sui modi in cui veniva giudicato il lavoro degli italiani. Gli
italiani erano decisamente malvisti dai lavoratori inglesi, perché erano
considerati come un gruppo capace di aumentare la produttività degli
stabilimenti a scapito della tutela dei diritti sul posto di lavoro. Il fatto
che gli italiani tendessero a evitare l’iscrizione alle Trade unions, che era
pure caldamente consigliata nel contratto di assunzione quadriennale,
li rendeva ancora più pericolosi agli occhi degli inglesi, che avrebbero
preferito per lo stesso impiego colleghi giamaicani o comunque British
subjects. L’intera questione era tuttavia più complessa, perché le radici
dell’atteggiamento antitaliano di molti gruppi di lavoratori inglesi erano

L’EMIGRAZIONE ITALIANA IN GRAN BRETAGNA
da individuare nell’atteggiamento discriminatorio “a priori” che le Trade unions avevano veicolato fin dai primissimi progetti di emigrazione
italiana organizzata.
Un altro elemento importante che si può ricavare da questo documento è che le istituzioni italiane seguivano con molta attenzione gli
sviluppi delle vicende britanniche legate all’immigrazione dalle ex colonie d’oltreoceano. Nei rapporti inviati periodicamente dall’ambasciata
italiana al ministero del Lavoro e al ministero degli Esteri notiamo che i
funzionari non mancano di dare notizia di tutte le possibili evoluzioni della
legislazione, del trattamento economico, dei flussi di immigrati coloured
in Gran Bretagna, con chiari riferimenti a quella possibile concorrenza
con gli italiani cui abbiamo già fatto riferimento.

La crisi del 
Il  dicembre del  una seduta del Council of Borough di Bedford
confermava ufficialmente la decisione presa nei mesi precedenti a proposito della sospensione del reclutamento collettivo di lavoratori italiani.
Con questa decisione le autorità stabilivano che il gruppo di  italiani
già contattati in patria e selezionati dalle Brick companies, ormai pronto a
partire, non poteva essere assunto e bloccavano definitivamente il sistema
di emigrazione organizzata che era iniziato nel  e aveva via via portato
alla formazione della comunità italiana di Bedford. Il governo locale si
allineava alla decisione presa il  agosto  dal ministero del Lavoro
inglese, a sua volta fortemente condizionato dall’amministrazione di
Bedford, che appunto prevedeva la sospensione del reclutamento collettivo degli italiani. I giornali locali e nazionali si soffermano a lungo sulla
vicenda, che per alcuni giorni diventa un vero e proprio caso nazionale.
Durante il periodo natalizio l’ambasciatore italiano si reca a Bedford per
portare la propria solidarietà alla collettività italiana e la questione assume
anche le dimensioni di un caso diplomatico tra Italia e Gran Bretagna.
Come si era arrivati a una situazione del genere? Quali erano le forze in
campo e i termini del confronto?
Un primo stop all’immigrazione italiana era stato in realtà stabilito
già nel -, quando, in seguito a un’accesa campagna giornalistica
sulle condizioni della comunità italiana di Bedford, le autorità avevano
deciso di fermare il reclutamento collettivo, senza provocare tuttavia le
reazioni del . Come abbiamo potuto osservare precedentemente,
il fenomeno dell’insediamento italiano nelle zone centrali della città e
l’espansione numerica della comunità dovuta ai ricongiungimenti familiari
avevano portato alla formazione di uno slum italiano in piena Bedford,

MICHELE COLUCCI
nel quale le condizioni igieniche e abitative erano decisamente precarie.
Questo articolo del “Bedfordshire Times” del  maggio  documenta
i propositi dell’amministrazione cittadina:
Italian labour in Bedford. Mayor’s Statement on Recruiting. The mayor of Bedford (Coun. R. G. Gale) issued the following statement this week: «The special
committee of the Town Council which deals with foreign nationals decided at the
end of last year that the Home Office should be asked to stop the immigration
of the Italians to the brickworks for six months. This request was passed on
by the Home Office to the Ministry of Labour. Mr C. Soames, C.B.E., M.P., also
communicated the Council’s views to the Ministry and, following an interview
between Ministry of Labour officials and myself on March , the Town Clerk
has now been advised by the Ministry that recruitment of Italians will not be
allowed for the next three months. The Ministry points out that as there has
been little recruitment since the beginning of the year, the position will have to
be reviewed in July. The Town Clerk is asking for further information on one of
the points mentioned by the Ministry and when a reply is received the committee
will consider the matter again».
L’attenzione rivolta nel  da alcune testate giornalistiche locali a questa
situazione aveva fatto esplodere il caso, provocando diverse reazioni.
Innanzitutto la reazione delle istituzioni locali, che iniziano a vagliare la
possibilità di sospendere l’assunzione di italiani e addirittura di rendere
impossibile il ricongiungimento familiare: se la seconda ipotesi viene scartata perché decisamente irrealizzabile (anche se abbiamo potuto verificare
quanto rigide fossero diventate le disposizioni per i ricongiungimenti), la
prima viene messa in pratica su alcuni piccoli contingenti di italiani che
sarebbero dovuti partire tra il  e il . In secondo luogo, la reazione
delle aziende produttrici di laterizi. Queste iniziano, da un lato, un duro
confronto con le autorità locali, sostenendo l’assoluto bisogno di operai
italiani per le proprie fabbriche e fornaci, mentre dall’altro irrigidiscono
le condizioni di reclutamento proposte alle autorità italiane per gli operai, avviando una campagna di dissuasione dall’abbandono degli hostels
e vari tentativi di miglioramento delle loro condizioni; vagliano inoltre
la possibilità di assumere operai ungheresi e giamaicani al posto degli
italiani, possibilità che però viene accantonata, visti i livelli di produttività decisamente superiori che garantivano gli operai italiani. Inoltre,
la reazione delle autorità italiane, che nel  decidono di organizzare
forme di assistenza alla comunità italiana di Bedford e che sembrano voler
riparare i danni di un’immigrazione che avevano fortemente incentivato
ma che si era rivelata un’esperienza decisamente dura per gli operai e
di impatto difficile per il territorio di Bedford. Le autorità italiane rifiutano inoltre nel  – caso piuttosto raro – la proposta britannica che

L’EMIGRAZIONE ITALIANA IN GRAN BRETAGNA
prevede condizioni di impiego e di alloggio più rigide rispetto agli anni
precedenti. Sono questi i tre protagonisti principali della vicenda, che
possiamo ricostruire nella documentazione dei rispettivi ministeri del
Lavoro, i quali ne seguivano passo dopo passo gli sviluppi.
Nel - sono quindi già presenti tutti quegli elementi che tre
anni dopo saranno fondamentali nel periodo di crisi. Queste tre distinte
posizioni delle autorità locali, delle aziende e delle autorità italiane,
che incontriamo di nuovo puntualmente nel , sono sicuramente un
segnale importante del contesto nel quale avveniva in quegli anni l’emigrazione e del modo con cui veniva gestita e percepita. Le istituzioni
inglesi sembrano completamente allineate a un progetto di pianificazione dell’immigrazione e allo stesso tempo di ridimensionamento del
suo impatto a livello locale. Gli immigrati, secondo questa concezione,
erano utili e fondamentali all’economia del paese ma il loro arrivo e la
loro permanenza in Gran Bretagna erano un “danno” da limitare in ogni
modo possibile: evitando quindi la concentrazione in quartieri specifici
delle città, limitando l’arrivo dei familiari attraverso le rigidità nel sistema
del ricongiungimento familiare, inserendoli nel tessuto lavorativo nella
maniera più indolore possibile agli occhi dei sindacati e nel modo meno
visibile per l’opinione pubblica, impedendo loro l’accesso ai diritti civili
e politici fondamentali. L’insediamento degli italiani a Bedford – dal
lavoro nelle fornaci alla vita negli hostels – non può che confermare
questa tendenza esplicita ma sotterranea delle autorità inglesi, destinata
però ad esplodere nel momento in cui viene resa pubblica attraverso le
decisioni del Council.
Già nell’aprile  l’ambasciata dava notizia al ministero del Lavoro
italiano del proposito delle aziende della zona di far nuovamente ricorso
al reclutamento collettivo di italiani bloccato nel , annunciando le
inevitabili polemiche che infatti esplosero a partire dal gennaio ,
quando le Brick companies inoltrarono pubblicamente la loro richiesta
al ministero del Lavoro inglese. Ma “dietro le quinte” la polemica era già
iniziata, perché i contatti informali tra il ministero del Lavoro inglese e le
aziende si erano fatti fitti già nell’estate del . Il tono, e soprattutto le
conclusioni, di questa lettera di Blumer del ⁸ luglio  ci fanno capire
quanto era aspro lo scontro politico sull’immigrazione e quale livello di
conflittualità assumessero a proposito dell’immigrazione italiana i rapporti
tra le istituzioni britanniche di essa responsabili:
You will wish to see the preceding minutes in this file beginning with Mr Ferguson’s minute of  June in connection with the approach made by Mr Bennitt of
the Ministry of Works. Briefly the position is that the London Brick Company
and the Marston Valley Brick Company have asked the Department to reinstitute
the facilities for the Bulk recruitments of unskilled italian labour. They claim that

MICHELE COLUCCI
they have endeavoured to recruit British labour but the workers they engage do
not stay and that West Indians, Pakistanis and Indians are not entirely satisfactory.
The firms already employ a considerable number of italians and they are very
satisfied with them and want so more. Although the level of unemployment
has dropped by one third since the peak at the beginning of the year, it would
I think give rise to considerable political difficulties if we were to facilitate the
recruitment of unskilled Italians while unemployment in this country remains
at the . mark, and certain parts of the country are suffering form high
and persistent unemployment. It seems that there is no difficulty in submitting
workers for employment with these firms, the trouble is that the men leave very
quickly. The wages seem to be reasonable, for the type of work; the trouble
appears to lie in the living conditions in the hostels and the lack of facilities for
entertainment. The hostels are isolated and transport facilities to neighbouring
towns in the evening very limited. If would seem that the men leave because they
are bored with having nothing to do in the evenings. I would suggests that the
firms might well consider trying to reduce their enormous turnover of labour
by taking steps to induce their workers to stay. We certainly should not recruit
Italians, who would stay only because under their landing conditions they are
not allowed to change their employment. It is by no means clear for how long
this extra demand for bricks will last. It seems to me that it might be preferable
to import bricks rather than Italians. Mr Blumer.
«It seems to me that it might be preferable to import bricks rather than
Italians»: è opportuno ripetere ancora una volta questa affermazione per
comprendere quale fosse il clima attorno al quale avveniva l’emigrazione
italiana e quale tipo di reazioni essa provocava in un alto funzionario del
ministero del Lavoro. I problemi indicati da Blumer erano praticamente
gli stessi da quando era iniziata la collaborazione con il governo italiano:
i malumori legati all’alto numero dei disoccupati in Gran Bretagna, per
cui ulteriori forme di immigrazione collettiva sarebbero diventate un caso
politico, ma allo stesso tempo la forte necessità di lavoratori italiani per
le fabbriche di mattoni, visto che gli inglesi, i giamaicani, gli ungheresi o
i pachistani non potevano garantire lo stesso rendimento produttivo degli
italiani, la condizione di isolamento degli hostels collettivi, il conflitto tra
le Brick companies e l’amministrazione locale di Bedford. La reazione di
Blumer è però ora decisamente diversa dal solito: il caso è evidentemente
destinato ad esplodere. È infatti del  agosto , ad un anno dalla
lettera di Blumer, la chiusura del ministero a qualsiasi altro tentativo di
reclutamento collettivo di italiani e del  dicembre , quindi, la decisione delle autorità di Bedford, appoggiata dalla relazione di un comitato
organizzato nei mesi precedenti per verificare lo stato dell’immigrazione
nella città. Erano stati inutili tutti quei tentativi di mediazione intrapresi
nei mesi precedenti dall’ambasciata italiana e dalle Brick companies,
tentativi documentati nel fondo del ministero del Lavoro inglese. Il 

L’EMIGRAZIONE ITALIANA IN GRAN BRETAGNA
dicembre il “Bedfordshire Times” pubblica questo articolo:
Council unanimously against more italians. Discrimination charge refuted. After
an appeal by the Mayor (Iad. A. H. Randall) that they should not allow emotion
or blind prejudice to cloud their views, all  members at Bedford Town Council
meeting on wednesday voted in favour of continued opposition to bring in a
further  italians to the Ridgmont and Marston brickworks.
La presa di posizione era molto chiara: i consiglieri, nei loro interventi, si
mostravano grati nei confronti degli italiani per il loro apporto all’economia di Bedford ma sostenevano all’unanimità che era impossibile continuare qualsiasi forma di reclutamento collettivo. Nella città, nonostante le
immancabili precisazioni del Town Council che escludeva qualsiasi forma
di discriminazione nei confronti degli italiani, la decisione destava molta
preoccupazione tra gli immigrati: la notizia era stata percepita come un
attacco esplicito all’immigrazione italiana e per molti il blocco dell’immigrazione di queste duecento persone significava non poter rivedere un
parente o un amico pronto a raggiungerli. Gli uffici diplomatici italiani
percepirono l’atmosfera di tensione a Bedford (da alcuni anni era stato
aperto un ufficio consolare proprio nella città) e scelsero un gesto ad
effetto per portare la solidarietà alla comunità: la visita dell’ambasciatore
nel periodo delle feste natalizie. Era la prima visita dell’ambasciatore
italiano a Bedford; il “Bedfordshire Times” la racconta così:
Italian ambassador spends Christmas in Bedford. Praise for efforts of local authorities. Christmas day was a busy time for Count Vittorio Zoppi. […].
Le autorità italiane non riuscirono in alcun modo a far ritornare gli amministratori locali sulle proprie decisioni e con il  si apriva una nuova
pagina nella storia dell’emigrazione italiana verso Bedford.

Un possibile bilancio
Il caso di Bedford rappresenta un terreno di verifica molto importante
per quanto riguarda l’insieme delle dinamiche politiche, sociali, culturali
ed economiche che hanno caratterizzato l’emigrazione italiana in Gran
Bretagna nel secondo dopoguerra. L’esperienza dell’emigrazione italiana
a Bedford infatti, se analizzata con gli strumenti della ricerca storica e
sociale, suggerisce una serie di elementi e di spunti stimolanti sull’intero
tipo di percorso migratorio che hanno compiuto gli italiani, aprendo
molte possibilità di analisi, non solo sulla realtà della comunità italiana,
ma anche sul complesso delle reazioni della popolazione locale, sul

MICHELE COLUCCI
comportamento delle istituzioni locali e nazionali, sulla politica seguita
dai gruppi industriali della zona, sulle relazioni tra le diverse comunità
straniere presenti sul territorio.
I due aspetti su cui ci siamo maggiormente soffermati, il problema
abitativo e la realtà del lavoro, hanno effettivamente evidenziato quale
era il contesto in cui gli italiani si inserivano e quale tipo di relazioni
instauravano tra loro e con il resto della popolazione. Analizzando principalmente i primi anni in cui si sviluppava questo flusso migratorio il dato
che emerge con più forza e che sembra legare tra loro le vicende spesso
molto differenti dei migranti è una diffusa aspirazione all’autonomia. Gli
operai che andavano a lavorare nelle industrie di laterizi provenivano da
un sistema sociale, quello delle campagne dell’Italia meridionale, che
aveva negato negli anni del dopoguerra a centinaia di migliaia di loro la
possibilità di costruirsi un presente dignitoso e un futuro meno precario
e meno dipendente dalle clientele o dai cicli della natura. La scelta di
emigrare dipendeva soprattutto – sono le interviste raccolte che ce lo
confermano – da un’esigenza di affrancamento dai vincoli di un’economia che per molti anni non poteva garantire neanche la sopravvivenza
quotidiana e di una società che non sembrava poter offrire le premesse
per la costruzione di una qualche possibilità di riscatto, di realizzazione
dei propri desideri o semplicemente di tutela dei propri bisogni e diritti
fondamentali. Partire diventava quindi un’opportunità decisiva, un’occasione da non perdere: emigrare significava assumersi una responsabilità,
correre dei rischi, iniziare un cammino che poteva anche essere senza
ritorno, ma emigrare significava anche fare un investimento (non solo in
termini metaforici), operare una scelta, tentare una strada. Ecco quindi le
origini e le cause di quella ricerca dell’autonomia, spesso anche disperata,
che segna i primi anni della vita degli emigrati in Gran Bretagna, ecco il
motivo scatenante di quella fuga dagli hostels che sembra contagiare tutti
gli italiani e che gli inglesi non riescono a spiegarsi, ecco cosa spingeva
migliaia di famiglie italiane ad accettare di vivere in due, in tre, in quattro
per ogni appartamento pagando un affitto da capogiro: dopo il lavoro, che
era durissimo e sottopagato ma che per tanti costituiva la prima sicura e
regolare fonte di reddito della propria vita, era nello spazio della casa che
veniva a depositarsi la speranza di una possibile indipendenza.
Un’altra osservazione che emerge dall’analisi dell’esperienza di
Bedford è legata all’atteggiamento istituzionale che regolava l’organizzazione dell’immigrazione. Come abbiamo potuto notare, il percorso
di insediamento italiano nella città è accompagnato fin dall’inizio da un
tentativo piuttosto sistematico di ridimensionamento e, a tratti, di autentico boicottaggio della comunità italiana e della sua espansione. Questa
tendenza è in linea con quanto sostenuto da I. R. G. Spencer a propo-

L’EMIGRAZIONE ITALIANA IN GRAN BRETAGNA
sito della formazione di una società multiculturale in Gran Bretagna:
secondo Spencer infatti la Gran Bretagna sarebbe diventata una società
multiculturale nonostante la politica delle sue classi dirigenti, orientate
fin dagli anni della seconda guerra mondiale a un contenimento dell’immigrazione e a una sua rigida regolamentazione. Questa posizione può
essere verificata seguendo l’esito dell’insediamento italiano a Bedford, che
oggi conta una comunità italo-inglese di circa novemila persone. L’espansione progressiva della comunità è stata oggetto negli anni Cinquanta e
Sessanta di una serie di provvedimenti, in settori diversi, orientati alla sua
limitazione: dal blocco dei reclutamenti collettivi nel  alle difficoltà
per i ricongiungimenti familiari negli anni precedenti ai tentativi di confinare la presenza italiana negli hostels collettivi dell’hinterland della città.
Questi provvedimenti però, pur avendo inciso notevolmente sull’insieme
dei rapporti tra gli italiani e la popolazione locale, hanno impedito solo
in parte la diffusione sul territorio degli italiani, che in breve tempo sono
diventati la più folta minoranza della città.
Un altro aspetto importante che possiamo però solo accennare è
quell’isolamento culturale che ha segnato il progressivo insediamento
degli italiani, strettamente dipendente dai primi due elementi già evidenziati, l’aspirazione all’autonomia e la politica delle istituzioni locali.
La sensazione che si riscontra infatti nelle interviste e nei contatti con
la prima generazione di emigranti è di una loro tendenza all’isolamento
all’interno della comunità italiana, piuttosto visibile da una serie di fattori
molto diversi: la conoscenza essenziale e non approfondita della lingua
inglese, la forte differenza con la seconda e terza generazione, ormai
decisamente inserite nel tessuto sociale e culturale della città, gli scarsi
momenti di socializzazione con gli inglesi o con gli altri immigrati, la
riproduzione di un modello familiare patriarcale ormai ridimensionato
anche nelle regioni di provenienza. È, questa, una caratteristica molto
importante, che ha le sue origini nei modi e nelle dinamiche con cui gli
emigranti si sono inseriti, ma riguarda più gli esiti recenti dell’emigrazione
che i suoi primi anni ed esula quindi dal tipo di approccio che abbiamo
proposto nella ricerca.
Un altro aspetto molto interessante è relativo alla dimensione del
lavoro. Da quanto abbiamo già sottolineato in precedenza il lavoro era il
cardine della vita degli immigrati nei primi anni, ma rimane nella memoria
come il fattore decisivo e fondativo del proprio percorso migratorio. È,
infatti, attraverso il lavoro che gli italiani potevano ottenere quell’autonomia materiale impossibile in patria di cui si è già parlato e con cui
potevano conquistarsi il rispetto della popolazione locale. Al di là delle
tensioni relative alla convivenza, alla durezza del lavoro e alla precarietà
delle condizioni di vita quotidiana, la popolazione locale guardava – e

MICHELE COLUCCI
guarda, oggi, a tanti anni di distanza – agli italiani con rispetto per il lavoro
svolto nelle fornaci e la loro propensione al sacrificio e al risparmio.
Eccoci a un altro elemento che ricorre spesso nella storia dell’emigrazione italiana a Bedford: la dimensione del sacrificio e la propensione al
risparmio. Sono, questi, due aspetti che vengono evidenziati in moltissime
ricerche sull’emigrazione italiana e rappresentano, in estrema sintesi,
quell’universo di valori che condizionava il comportamento quotidiano
degli emigrati, preoccupati di accumulare il denaro necessario per i propri
investimenti futuri e allo stesso tempo per emanciparsi dalla condizione
di dipendenza che gravava su molti di loro nelle terre di provenienza.
Questa propensione al risparmio divenne a Bedford una caratteristica
evidente della comunità italiana, tanto da suscitare attorno agli italiani
l’interesse di agenzie immobiliari e istituti di credito. Lo spazio in cui
venivano messi in pratica questi progetti era esclusivamente quello della
famiglia, l’indiscusso centro della vita sociale ed economica degli emigrati
e della loro identità culturale.
Inoltre, l’analisi proposta ha evidenziato una serie di elementi relativi
al rapporto tra le istituzioni italiane e gli emigrati. Possiamo sottolineare
che sia le scelte degli uffici consolari sia la gestione dei flussi di emigrazione da parte dei ministeri del Lavoro e degli esteri rispondevano, per
tutto il decennio considerato, a quella strategia che, all’indomani della
fine della seconda guerra mondiale, aveva spinto De Gasperi a lanciare
l’appello a «riprendere le vie del mondo», una strategia che vedeva
nell’emigrazione un ottimo elemento per dare nuovi sbocchi all’economia italiana e pertanto puntava ad incentivarla e a promuoverla, anche
attraverso accordi internazionali. Nel momento in cui tuttavia gli italiani
diventavano “immigrati” l’attenzione istituzionale calava vistosamente e
il percorso di insediamento degli emigrati nei territori di destinazione
avveniva, almeno all’inizio, senza un adeguato sostegno da parte di quelle
strutture consolari e governative che erano state invece così presenti nella
fase di preparazione e di pianificazione delle partenze, con conseguenze
molto rilevanti sia sul processo di integrazione nelle zone di arrivo sia sul
rapporto tra gli emigrati e l’Italia.
L’esperienza di Bedford, in conclusione, rappresenta un ottimo terreno di verifica delle dinamiche di formazione e maturazione di una società
multiculturale, con la particolarità dell’eccezionale presenza quantitativa
degli italiani in questo processo. Ripercorrendo quindi le tappe della presenza italiana nella zona si moltiplicano i terreni di ricerca da esplorare,
e le possibili fonti da utilizzare, a proposito della storia e dello sviluppo
dell’emigrazione italiana in Gran Bretagna nel secondo dopoguerra.

L’EMIGRAZIONE ITALIANA IN GRAN BRETAGNA
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di agenzie britanniche da parte generale e da parte di varie ditte, richiesta di manovali
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Note
* Questo articolo è parte di una ricerca più ampia sull’emigrazione italiana in Gran
Bretagna nel secondo dopoguerra, basata sulla consultazione di fonti di archivio (principalmente sui fondi dei ministeri del Lavoro italiano e inglese) e sull’utilizzo delle fonti
orali (interviste a emigrati italiani giunti in Gran Bretagna nei primi anni del secondo
dopoguerra).
. Cfr. R. King, The italian connection, in “Geographical Magazine”, n. , ; T.
Colpi, Origins and campanilismo in Bedford’s italian community, in L. Sponza, A. Tosi (eds.),
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. Cfr. ACS, Ministero del lavoro e della previdenza sociale, b.  (Emigrazione italiana
in Inghilterra: informazioni e notizie; Richieste di lavoratori da parte di varie ditte), b. 
(Emigrazione italiana in Inghilterra: statistiche); PRO, Lab /, .
. A. Tosi, “I matune di Bedford” o le fondamenta di una comunità di italiani in Gran
Bretagna, in A. Tosi, L. Sponza (eds.), Italian immigration to Great Britain, in “Association
of Teachers of Italian Journal”, Autumn , p. .
. Intervista rilasciata all’autore: Anonimo, Bedford, ...
. Cfr. Colpi, Originis and campanilismo, cit.
. Oltre Bedford ci sono nella contea altre zone ad alta concentrazione di italiani,
come Peterborough.
. S. Giacomini, L’emigrazione italiana a Bedford: caratteri e dinamiche, tesi di laurea,
Università degli studi di Pisa, a.a. -.
. Per informazioni sugli Uffici del lavoro cfr. ACS, Ministero del lavoro e della previdenza sociale, b. .
. Intervista rilasciata all’autore, Vincenzo B., Bedford, ...
. Tosi, “I matune di Bedford”, cit., p. .
. Intervista rilasciata all’autore: Michele P., Bedford, ...
. Anonimo, intervista, cit.
. R. Cavallaro, Storie senza storia. Indagine sull’emigrazione calabrese in Gran Bretagna, Edizioni Cser, Roma , p. .
. Cfr. ACS, Ministero del Lavoro e della previdenza sociale, b.  (Emigrazione
italiana in Inghilterra: richieste di lavoratori da parte di varie ditte -).
. Cavallaro, Storie, cit., p. .
. Ivi, p. .
. ACS, Ministero del lavoro e della previdenza sociale, b.  (Emigrazione italiana
in Inghilterra: informazioni e notizie).
. J. Brown, The Un-melting pot. An english town and its immigrants, Macmillan,
London , p. .
. ACS, Ministero del lavoro e della previdenza sociale, b. .
. PRO, Lab / (Italian workers in Bedford: local representations and problems).
. Cfr. PRO, Lab / (Consideration of problems causing form the recruitment of
italians for the bricworking industries, with the special interess to the Bedford area).
. PRO, Lab /.
. Cavallaro, Storie, cit., p. .
. Ivi, p. .
. Cavallaro, Storie, cit., pp. -.
. Anonimo, intervista, cit.
. Brown, The unmelting pot, cit., p. .
. Ivi, pp. -.
. L. Hunter, They’re noisy, gay, big-hearted and a big problem, in “Daily Telegraph”,

MICHELE COLUCCI
...
. T. Philpott, Plight of a new little Italy, in “Picture Post”, ...
. Brown, The Unmelting Pot, cit., p. .
. PRO, Lab /.
. PRO, Lab /.
. PRO, Lab /.
. ACS, Ministero del lavoro e della previdenza sociale, b. .
. Cfr. Giacomini, L’emigrazione, cit.
. Michele P., intervista, cit.
. Anonimo, intervista, cit.
. PRO, Lab /.
. Cavallaro, Storie, cit., p. .
. ACS, Ministero del lavoro e della previdenza sociale, b. .
. ACS, Ministero del lavoro e della previdenza sociale, b. .
. Anonimo, intervista, cit.
. Cfr. PRO, Lab /.
. PRO, Lab /.
. ACS, Ministero del lavoro e della previdenza sociale, b. .
. “La voce degli italiani”, aprile .
. Cfr. PRO, Lab /.
. Ibid.
. Italian labour in Bedford. Major’s Statement on Recruiting, in “Bedfordshire
Times”, ...
. PRO, Lab /.
. Council unanimously against more italians, in “Bedfordshire Times”, ...
. Italian ambassador spends Christmas in Bedford, in “Bedfordshire Times”,
...
. Cfr. Spencer, British immigration policy since , cit.
