allegato1 - I.I.S. "MARCO POLO"

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allegato1 - I.I.S. "MARCO POLO"
Franz Schubert
Der Hirt auf dem Felsen
Lara Matteini voce
Giuseppe Grippi pianoforte
Giorgio Levorato clarinetto
Claude Debussy
Sonata n° 2
Pastorale – Interlude – Final
Mauro Fiorin flauto
Barbara Zennaro viola
Alessandra Trentin arpa
Camille Saint-Saëns
Capriccio su arie danesi e russe
Mauro Fiorin flauto
Stefano Marangoni oboe
Giorgio Levorato clarinetto
Irena Ristovic pianoforte
ta e la sesta da uno scritto di Helmina von Chézy, attribuzione quest’ultima considerata dubbia e assegnata da alcuni allo scrittore Karl August Varnhagen von Else (1785-1858).
L’insieme dei versi contribuisce alla realizzazione di un quadretto di carattere amoroso-sentimentale
perfettamente coerente con i più consueti stilemi del canto popolare, ove si narrano i tormenti
dell’amore lontano e inappagato; ma arriverà la primavera, il pastore scenderà dal monte e ogni tristezza svanirà nello sperato incontro con l’innamorata.
Non è il valore del testo ad accompagnare l’ispirazione in Schubert. Coesione e unitarietà sono ricercate nella forma musicale, nella sapienza dell’equilibrio tra le voci, nell’aderenza della musica alle parole e
ancor più alle espressioni intime che esse rappresentano.
Coerentemente con le sezioni narrative della lirica, il Lied trova la sua naturale disposizione in tre diverse sezioni musicalmente caratterizzate, oltre che per la diversa indicazione ritmica (Andantino, Allegretto, Più mosso), per i frequenti cambi di tonalità, per le variate figure melodico-ritmiche assegnate
all’accompagnamento pianistico, e ancora per la particolare funzione solistica del clarinetto.
Su tutto, dopo una breve introduzione strumentale, emerge la voce, in un racconto che passa dai toni
pacatamente introspettivi e descrittivi della propria condizione di solitudine –concezione romantica del
paesaggio sperduto come luogo dell’anima– a quelli della più sofferta espressione delle pene d’amore.
Un Solo del clarinetto, ritmicamente cauto, introduce alla parte finale, dove canto e strumento gareggiano in virtuosismo nel rappresentarsi testimoni di una gioia ritrovata.
Da notare come in questo Lied al clarinetto sia assegnato un compito che solitamente spetta per intero
al pianoforte: quello di “contrapposizione” dialogica alla voce, attraverso interventi melodici variamente finalizzati a sostenere o contrappuntare la melodia principale.
Gli effetti imitativi d’eco e i richiami allo Jodel tirolese sono un’esplicita concessione all’elemento descrittivo e popolare.
Claude Debussy (Saint-Germain-en-Laye, 1862 – Parigi, 1918)
Sonata n. 2 per Flauto, Alto e Arpa, L. 137 (1915)
note al programma a cura di Enrico Folin
Franz Schubert (Vienna, 1797 – Vienna, 1828)
Der Hirt auf dem Felsen, (Il pastore sulla roccia)
per voce con accompagnamento di clarinetto e pianoforte, D. 965, op.129 (1828)
Testi di Wilhelm Müller (1794-1827) e di Helmina von Chezy (1783-1856)
Il Lied Der Hirt auf dem Felsen, cronologicamente l’ultimo di un catalogo che ne conta più di seicento, è un esempio dell’immutata vocazione di Schubert a ritrovare nel Lied, genere da lui stesso consolidato tra le grandi forme dell’arte musicale, il più naturale territorio di sperimentazione.
Innanzitutto l’organico: al consueto abbinamento voce pianoforte è qui aggiunto il clarinetto, con il
risultato di sottrarre la composizione alla specificità della liederistica classica per avvicinarla, d’un tratto, allo stile dell’aria concertata.
Assieme al Lied Auf dem Strome, per voce, pianoforte e corno, (D. 943, op.119, testo di Ludwig Rellstab,1828), è un raro esempio di organico liederistico allargato in tutta la vasta produzione schubertiana.
Poi il testo: assemblato in sette strofe, è insolitamente ricavato da composizioni poetiche di autori diversi. Le prime quattro e l’ultima dalle odi Der Berghirt e Liebesgedanken di Wihlelm Müller, la quin-
La seconda sonata per flauto, viola e arpa appartiene all’ultima stagione compositiva di Debussy ed è
concepita nell’atmosfera di una duplice condizione di afflizione: l’entrata della Francia in guerra, esperienza dichiaratamente vissuta e sofferta dal compositore con angoscia, e le condizioni fisiche per una
malattia della cui gravità egli è pienamente consapevole.
Rimane traccia, pur in aspetti non strettamente musicali, di entrambi gli eventi, nella fiera affermazione
d’appartenenza richiamata già nel titolo «Claude Debussy musicien français» e nella forzata incompletezza dell’originale progetto di Sei sonate per vari strumenti, delle quali soltanto le prime tre sono state
portate a termine.
Definitivamente abbandonato l’assioma romantico che obbligava ad una narrazione, anche musicale,
temporalmente definita, a favore di una rappresentazione che si forma ed esaurisce entro le brevità di
un susseguirsi di istanti; in questa Sonata il passo avanza entro procedimenti che appaiono ancor più
estremi.
Nel primo movimento soprattutto, dove, tra sfumate assonanze con il Prélude à l’après-midi d’un faune, le idee e i temi si creano e dissolvono nel breve spazio della loro intuizione.
Nel continuo gioco di azione e reazione cui nessun parametro del linguaggio è sottratto, vi è quasi il
sapore dell’improvvisazione, come se tutto accadesse per la prima volta in quel momento.
Più formalmente delineato l’Interlude, in Tempo di Minuetto nella sua classica suddivisione in tre sezioni nel quale il richiamo all’originale danza è riconoscibile, oltre che nel carattere complessivo,
nell’insistita presenza del ritmo puntato.
Il Finale traccia, infine, una sintesi delle atmosfere espresse dai due primi tempi, sottraendoli con decisione ad ogni possibile lettura che ne fraintenda il carattere.
Non vi è leggerezza né disincanto, la scrittura è ritmicamente densa; arpa e viola insistono su armonie e
sonorità che inibiscono ogni ritorno all’iniziale atmosfera pastorale invano rievocata dal flauto. E il
tratto complessivo della scrittura ci parla persino della più recente esperienza stravinskiana.
Fa da contraltare alla modernità della scrittura, la scelta di collocare la composizione all’interno di
un’area di riferimento, dato tra i più evidenti nell’ultimo Debussy, che è quella della tradizione settecentesca francese.
Pastorale, Interludio e Finale ricordano i movimenti di un Ballet di Jean-Baptiste Lully e l’organico –in
origine flauto, oboe e arpa– rievoca gli ensembles cameristici di Philippe Rameu e François Couperin.
All’arpa del resto è assegnato un ruolo che sa di tastieristico, e non mancano frequenti passaggi in stile
albertino.
Tutto è compreso nell’arte strabiliante di Debussy, egli sa trarre dall’insolito insieme atmosfere, colori
ed effetti del tutto inusitati e rari anche per chi conosca le sue opere precedenti.
Questa sonata è davvero un capolavoro, per alcuni il capolavoro.
Debussy ne era cosciente, in una lettera al suo editore Durand del 16 settembre 1915 scriveva:
«è
venuta così bella che sento quasi di dovermene scusare».
Camille Saint-Saëns (Parigi, 1835 – Algeri, 1921)
Capriccio su arie Danesi e Russe, per flauto, oboe, clarinetto e pianoforte, op. 79 (1887)
Questo capriccio, quarto dei sei composti tra il 1859 e il 1904, è scritto in occasione dei sette concerti
organizzati dalla Croce Rossa di San Pietroburgo per le festività pasquali del 1887 e pensato per gli
stessi tre solisti che lo accompagnavano in tour: Paul Taffanel (flauto), Georges Gillet (oboe), e Charles
Turban (clarinetto).
La ragione del particolare abbinamento di temi danesi e russi trova motivazione delle origini
della dedicataria Marija Fëdorovna di Russia, nata Dagmar di Schleswig-Holstein-SonderburgGlücksburg, figlia del re di Danimarca, e sposata dal 1866 con lo zar Alessandro III.
I temi sono scritti nello stile popolare, ma interamente ideati dal compositore; nel 1885 aveva conosciuto Čajkovskij e già allora aveva manifestato interesse per la funzione strutturale che i compositori
russi usavano attribuire ai materiali tematici tratti dalla tradizione del canto folclorico. Ma non è quello
il mondo al quale Camille appartiene e del tutto diversi sono gli ideali e le premesse estetiche.
Saint-Saëns fa parte di quella generazione di compositori francesi cui va riconosciuto il merito di aver
rappresentato la più efficace reazione sia alla prepotente affermazione del dramma wagneriano, sia al
disfacimento di ogni residua vitalità propositrice degli ideali romantici.
La sua è un’attiva rinuncia all’impegno intellettuale estremo per una scelta d’arte che favorisca la semplicità dell’ascolto al sovrabbondare di idee e contenuti astratti.
Il Capriccio va ascoltato con questo spirito, cercando in esso anche il diletto del puro sentire, con la
leggerezza, che mai è superficialità, di un approccio curioso e quietamente disposto.
Appariranno allora le tante coloriture strumentali, i repentini inseguimenti e sovrapposizioni delle voci,
le volubili figurazioni del pianoforte: una variabilità continua e una costante richiesta di agilità virtuosistica inseriti in una condotta formale precisa e rigorosa.
Il brano, internamente diviso in quattro sezioni, inizia con un’introduzione nello stile della cadenza
nella quale flauto, oboe e clarinetto si presentano insieme attraverso rapidi passaggi omoritmici.
I tre fiati introducono quindi, alternandosi, le melodie danesi e russe in un’atmosfera d’insieme nostalgica e meditativa.
Il Finale, che sa di galop, accende gli animi in un crescendo cui tutti gli strumenti concorrono fino ai
due accordi finali in fa maggiore nel fortissimo.
La prima esecuzione, avvenuta il 21 aprile 1887 alla presenza dello zar Alessandro, fu accolta –si racconta– con soddisfazione e grande entusiasmo.
La Dirigente Scolastica
dell’Istituto d’Istruzione Superiore
Marco Polo – Liceo Artistico di Venezia
dott.ssa Annavaleria Guazzieri
è lieta di presentare il
Concerto dei docenti
del Liceo Musicale
Marco Polo di Venezia
Palazzo Bollani
giovedì 22 dicembre 2016, ore 18.30
Ingresso libero con offerta responsabile
da destinare alla Croce Rossa Italiana
in aiuto alle persone colpite dal sisma del 24 agosto 2016