Daniele Finzi Pasca: «Sono uno che racconta storie

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Daniele Finzi Pasca: «Sono uno che racconta storie
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N. 2, giugno 2013
LA Rivista per le clienti e i clienti Cornèrcard
Daniele Finzi Pasca:
«Sono uno che racconta storie che curano».
Leggete qui l’intervista integrale con l’artista ticinese Daniele Finzi Pasca tenuta dalla redazione
della rivista you first per i clienti Cornèrcard.
no anche i clown. Per conoscere la filosofia di
un clown e capire cosa si nasconde dietro,
bisogna solo chiedergli che tipo di macchia
egli rappresenta. E dalla risposta del clown si
capisce subito se si vede come una macchia
di sangue, o una macchia di champagne su
una tavola imbandita per un matrimonio, oppure una macchia impregnata di un odore
sgradevole. In fondo si tratta del modo in cui
un clown riesce a rompere i confini e le strutture.
VERSATILE.
Daniele Finzi Pasca, appassionato professionista
del teatro, nonché autore e regista di «La Verità».
you first: Daniele Finzi Pasca, lei è un artista versatile, di fama internazionale e quindi viaggia spesso.
Se in aereo deve compilare un modulo d’immigrazione, quale professione indica: clown, poeta, attore o regista?
Daniele Finzi Pasca: Adesso mi definisco regista. In molti paesi la gente non sa bene cosa
fare della definizione di clown, e con il passare
del tempo, è diventato un po’ complicato darne una spiegazione.
E a un bambino che le chiede per strada: lei chi è e
cosa fa? Cosa gli risponde?
A un bambino dico generalmente che sono
un clown.
Cosa significa essere un clown?
La mia definizione del clown è la seguente: in
un mondo dove tutto è delineato di confini e
geometrie precisi, necessitiamo di macchie,
di taches. E il clown corrisponde un po’ a
queste macchie. Tanto è vero che tradizionalmente nelle società più strutturate vi si trova-
Quando ha sognato per la prima volta di volersi trovare su un palcoscenico o nell’arena di un circo?
Tutto è incominciato con la federazione di ginnastica e con il mentore Fabrizio Arrigoni,
appassionatissimo di circo e del mondo dello
spettacolo. In Ticino Fabrizio aveva creato un
gruppo i cui membri erano affascinati da Parigi. Comprò dei costumi del «Lido de Paris» e
allestì uno spettacolo con piume e paillettes. I
miei genitori mi permisero di partecipare, e
all’età di 11 anni incominciai ad aiutarlo.
Fabrizio Arrigoni era il primo a inscenare degli
spettacoli di questo tipo con delle ballerine, e
alcune di loro erano perfino top­less. Io ero
dietro le quinte e a volte le aiutavo a cambiarsi il costume quando uscivano di scena con i
loro piumaggi. Da undicenne, vedere queste
ballerine sfrecciare davanti a me semivestite,
naturalmente mi affascinava e mi dicevo: questo mestiere è troppo bello e troppo divertente, e la mia passione per il palcoscenico nacque proprio lì.
Ha frequentato una scuola di teatro?
Sì, ma non l’ho mai terminata. Durante il periodo presso la scuola di teatro mi sono deciso ad imboccare un’altra strada, perché volevo lavorare con dei direttori d’orchestra e
degli scenografi. Idealmente il nostro mestiere
s’impara «learning by doing», ossia «a bottega», come avviene in un apprendistato. C’è
chi termina gli studi in accademia e chi come
me, sceglie un percorso diverso, appunto la
bottega.
Si può imparare la professione del clown o bisogna
avere delle basi ben chiare?
Capire Dio in certe cose non è tanto facile.
C’è gente che studia molto, che si applica, e
poi arriva una persona – e questo capita
spesso in molti campi – che possiede qualcosa che si chiama talento. Se per esempio
qualcuno non ha la musicalità, può passare
tutta la vita al pianoforte e arrivare a un certo
punto, ma non andrà molto lontano. Si possono imparare tante cose, ma sostanzialmente è proprio così, il motore è questo talento, o
siamo fortunati di avere questo fuoco che
arde dentro di noi, o non lo abbiamo. Se hai
talento, non è solo un peccato nei confronti
dell’umanità, ma è anche uno sbaglio non
usarlo.
Ci sono degli artisti, soprattutto nell’ambito del
disegno, che dicono: «Finché sei un bambino, sei
un artista. Se frequenti un’accademia di belle
arti, non riesci più a disegnare, perché non puoi
più esprimerti liberamente e ti lasci influenzare
troppo dall’esterno». Si può dare libero sfogo al
talento?
Credo che un artista abbia bisogno di un maestro per poter crescere. Tu vai anche a scuola, certo, ma il punto è che il maestro ti guida,
non ti insegna solo, è questa la differenza fra
un insegnante e un maestro. In questo modo
ti aiuta a identificare quello che stai cercando.
Se una tale guida sceglie di guidarti – e questo lo deve fare – allora nasce un rapporto. In
questo gioco succede sempre che un giorno
un maestro si aspetti che l’allievo lo superi.
Questo processo è l’esatto contrario dell’inquadramento, in quanto il maestro dice:
«Adesso tu hai visto tutto quello che so, ora
mi aspetto che tu vada avanti». Questo è il
rapporto giusto. Il percorso con un insegnante – anche se può essere fantastico – non
inizia con la stessa premessa.
Lei ha avuto un maestro così?
Ne ho avuto vari, in modi diversi e per cose
diverse. Per esempio Paul Glass, un compositore americano che vive a Carona, mi ha introdotto nel mondo della forma. Ho imparato
cosa è la forma e come applicarla. Anche se
io non sono musicista, ho imparato moltissimo, perché per vari anni sono andato a mangiare con lui tutti i sabati. Altri mi hanno insegnato a veleggiare, a capire come funziona,
dove sta il vento. Tutte cose che applico alla
mia visione del teatro.
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LA Rivista per le clienti e i clienti Cornèrcard
Nel 1983 all’ età di 19 anni è partito per l’India per
aiutare Madre Teresa di Calcutta ad assistere i malati terminali. Cosa l’ha portata a quell’età a fare
questa scelta?
Sono andato in India perché ho avuto una
crisi d’amore adolescenziale nelle stile di
Werther, un giovane romantico che ha tentato
di sbollire le sue pene sentimentali. Ho preso
una botta che mi ha disarcionato. Forse in
una situazione simile, alcuni miei zii di generazioni precedenti sarebbero partiti per la legione straniera. Sono stato salvato dai miei genitori, che sono per me e i miei fratelli delle
figure chiave.
Ci hanno aiutati a crescere, sviluppando i nostri talenti. Mio papà e mia mamma mi hanno
preso in disparte dicendo:
«Daniele, cosa facciamo? Tu che volevi sempre fare qualcosa in ambito sociale, adesso
sarebbe il momento giusto». Visitammo quindi
un missionario salesiano che aveva in programma di partire per l’India. Mio papà che
aveva studiato dai salesiani, gli chiese: «Quando parti?» «Fra tre giorni», rispose il missionario. «Non potresti portare mio figlio con te?»
Quattro giorni dopo, partimmo per l’India. Inizialmente ho lavorato per un progetto agricolo
a Krishnanagar vicino a Calcutta. Poi nelle bidonville a Bombay e successivamente, anche
per Madre Teresa. Questi sette mesi in India
hanno significato per me l’inizio di un periodo
nuovo e consentito l’accesso ad un mondo del
quale mi sono totalmente innamorato. C’è
sempre un prima e un dopo nella vita. Ho conosciuto luoghi e gente straordinari. E’ un luogo dove ogni tanto ritorno ancora oggi.
Come l’hanno influenzata le esperienze fatte in
India?
Mi hanno influenzato molto. Prima, per me lo
spettacolo significava piume, paillettes e
show. Dopo il mio rientro sentivo il bisogno di
raccontare delle storie, degli avvenimenti veri
come, per esempio quando vedi come i
bambini muoiono in determinate condizioni.
L’India mi ha dato tanto. Il viaggio è stato per
me un’iniziazione, come nelle tradizioni sciamaniche.
Cosa l’ha spinta a fondare il Teatro Sunil dopo il suo
rientro dall’ India?
Dopo l’India sentivo il bisogno di raccontare
delle storie che potessero togliere la paura,
aiutare la società o gli individui a non avere
paura. Se qualcuno ha paura, necessita delle storie che lo curino. Il Teatro Sunil in fondo
è nato da un gruppo di amici del mio quartiere, il Molino Nuovo. Dopo il mio rientro ci siamo ritrovati, e solo un anno dopo ho portato
altre quattro persone. Siamo partiti insieme
per l’India, anche per lavorare. Avevamo preso quattro valigie con diversi strumenti da
clown e abbiamo visitato parecchi lebbrosari
fra Bihar e Calcutta. Con quel gruppo desideroso di raccontare delle storie di un certo
tipo, si è creata una sorta di famiglia. Con
alcune persone di questo gruppo lavoro ancora oggi dopo quasi trent’anni.
Come erano gli esordi di questo teatro?
Sono entrato in scena con degli spettacoli
che oggi chiameremmo ricevimenti di gala.
Uno dei miei primi spettacoli era alla Romantica di Melide. Avevo preparato una scena
che iniziava con una valigia ed una scala.
Arrivavo con la valigia e la scala, aprivo la
scala, poi la valigia, facendo finta di cercare
qualcosa che poi non trovavo: un uovo. Poi
salivo sulla scala, cercando di rimanere in
equilibrio per recuperare l’uovo con la bocca. Così avrebbe dovuto svolgersi la scena,
però lo spettacolo è andato diversamente.
La musica iniziava e Yor Milano, il noto attore
e moderatore televisivo ticinese mi annunciò.
Entrai e iniziai il mio show. Cercavo l’uovo
nella valigia, continuavo a cercarlo freneticamente, ma non lo trovavo. Terrorizzato sono
scappato dalla scena, chiudendomi nel bagno del camerino. In quel momento mi sono
detto che non avrei mai più fatto cose del
genere. La cosa tragica e bella era che settimane dopo, aprendo la valigia saltò fuori
l’uovo. Allora ero troppo emozionato, davvero
troppo agitato e così non avevo trovato l'uovo. Questo solo per enfatizzare che la scena
è un luogo che chiede all’attore di spogliarsi,
di stare nudo, con la sensazione che l’anima
lo possa trapassare. Per questo motivo intendo creare il teatro in un modo che aiuti gli
attori a vincere queste paure e stare sulla
scena con leggerezza.
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Questo lavoro le ha assicurato delle entrate
fisse?
Non ho mai esercitato nessun altro mestiere. All’inizio però ho vissuto con pochissimi
mezzi, ma non mi sono mai preoccupato un
granché. Quando il Cirque du Soleil mi ha
proposto un contratto per la prima volta,
ero sbalordito. Una cosa del genere mi
sembrava impensabile. Pensavo che questo mestiere mi avrebbe consentito essenzialmente di sopravvivere.
Al Teatro Sunil ha sviluppato insieme a suo fratello Marco e la compositrice e coreografa Maria
Bonzanigo la tecnica del «Teatro della Carezza»,
una visione di clowneria, danza e gioco. Quando
può essere definito tenero il teatro?
Né un pittore, né un architetto o musicista
possono fare questo gesto della carezza. Gli
attori sono gli unici artisti che hanno la possibilità di prendere fisicamente tra le braccia
qualcuno. La fisicità è qualcosa di molto
particolare, perché si può vedere ogni volta
come uno comunica con l’altro, che cosa
tocca, che cosa fa. Quando dirigo uno spettacolo, non sono mai davanti al palcoscenico, ma sempre dietro gli attori. Il tocco provoca, perché spiega qualcosa. Quando si
ha un bambino tra le braccia, farlo addormentare richiede un certo grado di empatia,
e quell’empatia viene trasmessa attraverso il
proprio respiro. E ogni giorno è diverso.
Questo per me è il Teatro della Carezza –
lavorare con degli artisti che sono sostanzialmente empatici. Non intendo stare davanti al pubblico per dire: «io faccio e tu mi
guardi». In questo senso il teatro non è una
carezza, piuttosto un muoversi insieme fra
pubblico e artisti.
EMOZIONANTE.
«La Verità» entusiasma
e commuove il pubblico
con ogni scena.
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LEGGERO COME UNA PIUMA.
Acrobazie e giochi di luce perfetti.
Cosa può o meglio deve ottenere il teatro dal pubblico?
Il teatro non deve ottenere assolutamente nulla. In passato, i Greci parlavano di catarsi, di
purificazione. Noi tutti speriamo che in un determinato momento della nostra vita le circostanze non siano solamente buone, ma talmente ottimali da far nascere una catarsi. E
un tale stato di perfezione ci induce a
pensare che è il momento giusto per lasciare
tutto e partire. Potrebbe essere ad esempio
un tramonto indimenticabile, come visto tante
volte, ma mai veramente vissuto.
Si spera che chi paga il biglietto, chi va in
scena o muove le luci possa almeno una
volta nella vita dire: «Ah wow, perfetto!» La
catarsi ti mette in questo stato. In questo
senso si cerca sempre, senza chiedere nulla al pubblico.
Quindi conta solo il presente?
Sì, credo di sì. Un attore sa che quello che fa
non perdurerà. Il gesto di un interprete è destinato solo al presente. Perciò gli attori sono
delle figure straordinarie. Un architetto o un
compositore lascia una traccia. Noi no, ogni
passo è già cancellato, dici una parola e non
c’è già più.
Quale ruolo giocava «Icaro», il suo testo teatrale,
scritto da giovane per il «Teatro della Carezza»?
«Icaro» è stata proprio la trasformazione sul
palcoscenico dei temi di cui stiamo parlando,
ossia l’iniziazione, la vicinanza con gli spetta-
tori. Di colpo «Icaro» si presenta quasi come
un manifesto: stare sulla scena con uno spettatore e raccontare come se si danzasse un
tango. Effettivamente fu pensato come un
esercizio di stile per spiegare ciò che stavamo
cercando. Erano previsti soltanto quattro
spettacoli. Inaspettatamente abbiamo ricevuto subito un altro invito. Con in tasca un ingaggio per una settimana sono partito per il
Messico, ma poi lo spettacolo è stato sul cartellone per ben nove mesi. Credo di essere
stato in Uruguay dodici volte, l’hanno visto
40.000 spettatori. L’anno prossimo a New
York ci sarà la prima di «Icaro». E’ proprio una
strana storia.
Recita «Icaro» da oltre 20 anni, ha dato 700
spettacoli in tutto il mondo. Come riesce ad
evitare la routine?
Il fatto che racconto le mie storie ogni sera ad
uno spettatore differente e recito «Icaro» in sei
lingue diverse evita la routine, poiché devo
adattarmi ogni volta. «Icaro» è come una
montagna che si scala continuamente. I sentieri che conducono alla vetta sono sempre
uguali, eppure diversi. Facendo «Icaro», mi
rendo conto di cambiare ogni volta.
Come autore e regista del teatro acrobatico, di
spettacoli teatrali e circensi di spicco, dove nota
delle somiglianze con la figura del clown che si trova da solo nell’arena del circo?
La solitudine di un clown nell’arena del circo è
data dalla dimensione, dalla grandezza. Ci
sono momenti rari nei quali uno spettacolo
circense si concentra unicamente sulla luce,
sulla presenza di un clown. Ci sono degli elementi che si ritrovano, si ripetono. Eppure lo
spazio ti permette di creare una sensazione di
enormità – di ricostruire e disegnare quella
fragilità della solitudine.
Nel suo lavoro fa spesso riferimento alla sua infanzia e gioventù, alla sua casa nel quartiere Molino
Nuovo a Lugano, con delle immagini e storie piene
di poesia. Questa base pensa possa essere la sua
fonte artistica?
Assolutamente. Racconto quello che conosco, e conosco il mio quartiere e le sue storie.
Sono di quel luogo e racconto storie di lì.
Quando ho scritto per il progetto Cechov, ho
raccontato la storia del mio quartiere. La
storia di tre persone, nate lo stesso giorno di
Anton Cechov.
Il giovane Daniele Finzi Pasca di Lugano era un
anticonformista?
Quando si è giovani molti vogliono sentirsi un
po’ protetti, fare parte di un gruppo, mentre
altri vogliono esprimere la loro individualità.
Ho frequentato il liceo in pantaloni corti e andavo in giro in sandali nella neve. Ho avuto la
fortuna di avere una famiglia particolare.
Quando la scuola ha chiamato mia mamma
per un colloquio per dirle che trovavano eccessivamente eccentrico che andassi sempre
in giro in pantaloni corti, mia mamma rispose
subito:
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«Mio figlio ha un allergia particolare, cioè un
problema con vari tipi di tessuto, ed è una
cosa che lo imbarazza a tal punto che non ne
parla». La reazione di mia mamma era stata
meravigliosa, e questo l’ho saputo solo tanti
anni dopo dal direttore della scuola. A questo
punto vorrei anche dire qualcosa sulla questione dell’individualità. La Svizzera è un paese straordinario, ma per certi aspetti siamo
purtroppo poco saggi. Si aiuta molto chi è in
difficoltà, ma quando si tratta di creare spazio
per l’eccentricità, del bisogno di essere diversi, di poter dire ai giovani di essere unici e
speciali, lì purtroppo non siamo molto forti.
Lei lavora spesso a Montreal, la patria di Julie
Hamelin, sua moglie e partner artistica. Il Canada è
una base storica significativa delle sue creazioni
artistiche che comprende fra l’altro il successo
mondiale del Cirque Eloize e del Cirque du Soleil.
Per quale motivo, lei e i co-fondatori della Compagnia Finzi-Pasca avete scelto Lugano come sede
principale?
La Compagnia era già a Lugano quando
Inlevitas e Sunil si sono uniti. Abbiamo semplicemente cambiato un po’ il nome. C’è stato
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riflessione, a Natale del 2010, la Fondazione
che possiede il telone di Salvador Dalí ci telefonò, offrendocene l’uso. Noi ci siamo detti:
«Questo è proprio quello che ci mancava, la
ciliegina sulla torta». E questo ci ha permesso
di spostare l’attenzione su elementi diversi e
creare delle altre sinergie interessanti.
Quale legame aveva con l’opera del surrealista
Salvador Dalí prima di confrontarsi intensamente
con il suo maestoso quadro scenografico che ha
Lei è cresciuto in una famiglia di fotografi. In quale
modo questo contesto influenza il suo lavoro ancora oggi?
C’è chi dice che metto in movimento le immagini che mio padre e mio nonno avevano fotografato. Quando penso alla realtà, la vedo
sempre congelata in un fotogramma che poi
metto in movimento. Ho cominciato a fare teatro prima di tutto illuminandolo. Papà mi ha
fatto vedere come ogni oggetto, a seconda di
come lo illumini fotograficamente, può avere
una trasparenza, un volume, una profondità o
dimensione diversa, che non otterrebbe in un
altro modo. Penso come un fotografo quando
immagino una scena.
In generale, che cosa intende per patria?
Patria per me è casa, e casa per me è il mio
quartiere. Sono cresciuto in un posto dove
c’erano tante nazionalità, gente di posti diversi. Non ho un’emozione patriottica nel senso
che mi muove qualcosa che appartiene a dei
confini che sento astratti. Lo sappiamo tutti
che per diventare svizzeri, diventi prima di tutto cittadino del comune in cui risiedi. Questo
non succede in tanti altri paesi, è un fenomeno che non si spiega facilmente a chi viene da
fuori. E’ il Consiglio comunale che decide se
tu sei accettato. Anche se la domanda presentata è approvata a livello federale o cantonale, non diventi svizzero se il Comune la
respinge per un motivo qualsiasi. Cosa vuol
dire questo? Vuol dire che siamo svizzeri, perché il posto dove viviamo, si trova in Svizzera.
In questo senso sono profondamente patriottico, perché sono di un quartiere.
un momento in cui ci stavamo veramente domandando perché continuare a mantenere
una sede qui a Lugano, visto che è più difficile rispetto ad altri posti. Ciononostante siamo
rimasti, perché alcuni di noi sono testardi.
Abbiamo fatto di tutto per creare determinate
condizioni, per ottenere l’appoggio concreto
di strutture private. A me piace tanto creare
qui a Lugano. Il Ticino ha qualcosa di particolare. Alla fin fine siamo riusciti a creare delle
sinergie con il mondo privato, e questo ha
avuto una ripercussione fortissima, ha dato
un nuovo slancio al mondo politico.
creato per il balletto «Tristan fou» e che oggi fa da
sfondo a «La Verità»?
Queste battaglie tra surrealisti e dadaisti mi
hanno sempre affascinato, ma Dalí non è un
pittore che mi racconta delle cose profonde.
Affascinato da Sigmund Freud, tutte le sue
analisi del sogno erano orientate in questo
senso. Dalí era molto paranoico con i mostri
da lui creati. Il sogno per me è un trampolino,
un distacco, un volo dentro se stessi. Io sono
molto più vicino a Chagall. In fondo è stato
come se un figlio di Chagall raccontasse la
storia di Dalí.
L’anno scorso ha ricevuto «L’Anello Hans-Rein­hart»,
il massimo riconoscimento conferito in Svizzera
ai professionisti del teatro. Che cosa significa
questo riconoscimento per lei?
Significa essere un po’atterrato a casa. Forse
un po’ più di prima. Il fatto di aver ricevuto
questo riconoscimento da persone che dividono con me la stessa passione e lo stesso
lavoro, è una cosa molto bella.
E il suo ultimo progetto: Com’è nata «La Verità»?
Dal 2008 al 2010 avevamo dedicato troppo
tempo al mondo dell’opera. Secondo Julie
(n.d.r.: Julie Hamelin, compagna artistica
nonché moglie di Daniele Finzi Pasca) era necessario riacquistare una maggiore presenza
a livello internazionale per le nostre creazioni
acrobatiche teatrali. Abbiamo quindi iniziato a
lavorare su «La Verità». Durante questa fase di
E come vede Dalí oggi?
Ho imparato a conoscerlo occupandomi della
sua opera. Umanamente parlando, mi fa molta tenerezza. Mi incuriosisce, ma non suscita
molto in me, contrariamente ad altri. La sua
umanità, la sua teatralità sono affascinanti.
Era un gran conoscitore dell’effetto che poteva dare a certe sue manifestazioni e prese di
posizione. Dalí era un furbastro.
LA TELA ORIGINALE. La tela monumentale di Salvador Dalí ritorna in scena dopo quasi 70 anni –
ma questa volta con un nuovo spettacolo.
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Quando ha visto il telo per la prima volta, che effetto le ha fatto?
Il telo è un’ opera maestosa, anche perché è
stata pensata e costruita per il teatro, non è
stata una trasposizione. Il telone ha una incredibile potenza emotiva e simbolica. Quando
uno spettatore lo vede, si sente invaso.
Che sensazione prova di poter utilizzare una tela originale di Salvador Dalí per una propria creazione?
Sono tante sensazioni, incominciando con la
felicità, seguita da preoccupazioni, angoscia,
poi di nuovo felicità, e infine mal di testa, perché tutto va strutturato. E poi un senso di
plénitude, completezza, quando ho visto il
telone per la prima volta sulla scena.
Che cosa accomuna maggiormente lei e Dalí?
A tutti e due piacciono i ricci di mare (ride). A
parte quello non ho ancora trovato nulla.
Dinanzi ai fantastici mondi di sogni e visioni
finora da lei creati: lei si vede più surrealista o sognatore?
Né l’uno, né l’altro. Sono uno che racconta
storie che curano.
Come crea le sue figure?
Quando cerco di creare qualcosa, vado in
luoghi a me familiari, ad esempio a cercare
funghi. Però a volte mi rendo conto che non è
il periodo giusto, ma inspiegabilmente ci vado
lo stesso, anche se non so perché.
Il telone di Dalí per il balletto «Tristan fou», ossia
il Tristano folle, messo in scena la prima volta
nel 1944, è piuttosto tetro. Esso si riferisce a sua
volta all’opera di Richard Wagner «Tristano e
Isotta», una storia d’amore appassionata e tragica degli omonimi protagonisti. Quanto è stato
influenzato dall’opera di Wagner nella sua creazione di «La Verità»?
Io, per niente. Dalí era innamoratissimo di
Wagner e quindi lui l’ha completamente
«impregnato». A me interessano molte cose
di «Tristano e Isotta», come per esempio la
fragilità dei caratteri e la sensualità di questa storia.
Come può essere adattato un tema così impegnativo al teatro acrobatico?
«Tristano e Isotta» sono stati danzati e cantati nell’opera. Il gesto acrobatico in questo
senso è un simbolo, si sposa perfettamente
con il mondo del surrealismo di cui Dalí faceva parte. Non essendo mai stato fatto in forma acrobatica, mi consentiva di immaginare
con più facilità e leggerezza «Tristano e
Isotta» in un contesto meno allegorico, meno
simbolico di Dalí, ma più vitale.
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Lei lavora anche come regista operistico. Potrebbe
immaginarsi di mettere in scena anche l’originale
di Wagner?
Ci sono talmente tante opere che mi piacerebbe
mettere in scena prima. Ho diretto Verdi, ma anche musica contemporanea scandinava. Adesso mi piacerebbe tuffarmi nella leggerezza e
follia del barocco. Wagner è stato fondamentale
per essere riuscito a creare un dialogo preciso
tra la scena e la musica. E’ stato una delle figure
chiave, qualcuno che ha costruito, pensando
che anche l’opera dovesse essere un’immagine. Wagner è un personaggio che mi sorprende
enormemente, ma non è la musica che reputo
tra le più adatte da interpretare.
Come incide la tecnica del « Teatro della Carezza»
concretamente su «La Verità»?
Questo enorme telone è appeso sulla scena.
Tuttavia, se davanti o vicino a questa straordinaria e importante opera di Dalí non ci sono
degli interpreti magnifici, c’è il rischio che lo
spettacolo venga completamente schiacciato. Questa leggerezza, questa capacità si riflette anche nel talento di ognuno degli interpreti della Compagnia. Sono attori molto
particolari, musicisti, poeti e acrobati. Questa
tecnica permette di costruire un tipo di attore
capace di stare davanti a questo telone senza
farsi schiacciare - quasi dialogando con esso.
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Mi ha colpito molto il fatto che i critici a
Montreal abbiano parlato poco del telone, ma
piuttosto descritto il gioco degli attori. Il telone
passa in secondo piano grazie alla qualità
dell’interpretazione degli artisti.
Senza svelare troppo di «La Verità»: come descriverebbe quest’opera in poche parole?
Una «rivisitazione» di Dalí, un modo tenero di
raccontare «Tristano e Isotta».
Quanto è durato tutto il processo di sviluppo di «La
Verità»?
E’ stata Julie a dare spunto a questo progetto. Dal primo momento in cui ci siamo riuniti
– davanti a noi un foglio bianco sul tavolo –
il processo è durato due anni e mezzo. Le
settimane di prove sono state 14. La produzione è durata 8 mesi.
Dove si svolsero la maggior parte delle prove?
Gran parte delle prove si svolsero a Montreal,
ma ne abbiamo fatte due cicli, in tutto 5 settimane, a Lugano, in modo totalmente illogico
e incoerente dal punto di vista produttivo. Anche per quanto riguarda lo spazio che era totalmente inadeguato. Però per noi era fondamentale che gli attori della nostra compagnia
e i tecnici conoscessero la nostra terra, avessero respirato la sua aria.
Come mai lo spettacolo si chiama «La Verità?»
Perché è uno dei temi che transitano in tutti gli
spettacoli. «Cosa è vero sulla scena?» E’
una delle riflessioni significative degli ultimi
anni. Si sa che ciò che è vero non sembra
tale. Cosa dobbiamo fare per sembrare
veri? Prendiamo per esempio l’immagine
della morte: un cuore strappato dal petto
di un artista non sembrerebbe vero, sarebbe impensabile se non altro per motivi tecnici, ma non solo. Anche se lo facessimo,
gli artisti non sembrerebbero realmente
morti, perché la sofferenza vera non apparirebbe tale. Il sangue vero non sarebbe
adeguato per la scena, perché è di un rosso diverso. La morte andrebbe quindi rappresentata in un altro modo. Allora perché
rappresentare ciò che è vero e che sulla
scena non è così? Nella tradizione orientale la realtà è solo apparenza. Dietro questa
verità si nasconde tutto ciò che in fondo
sono delle riflessioni che toccano filosofi e
mistici, e che noi attori invece dobbiamo
risolvere tutti i giorni.
«La verità è tutto ciò che abbiamo sognato, che
abbiamo vissuto, che abbiamo creato – tutto ciò
che fa parte della nostra memoria. Così la citazione estratta da annotazioni di Julie Hamelin. Come
definirebbe il termine realtà?»
Di cosa sei sicuro? La realtà è così insicura.
Se qualcuno dice: «Questo è reale», non
puoi essere veramente certo. La realtà diventa vera solo quando la racconti. Quando
ti trovi davanti, non è ancora vera.
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Cornèrcard è uno dei tre sponsor principali di
«La Verità». Cosa significa questa collaborazione
per lei?
E’ un viaggio che si sta pensando di fare insieme. Per noi, Cornèrcard ha un ruolo centrale, perché essere Main Sponsor vuol dire
accompagnare qualcuno. Non è solo un giro
di valzer.
La prima europea di «La Verità» si terrà a Losanna
nel mese di ottobre 2013, seguita da spettacoli a
Zurigo, e in autunno 2014 a Lugano. Non vede l’ora
di giocare in casa?
Certo. Mi farà un immenso piacere poter
fare uno spettacolo a Lugano. Poter portare
«La Verità» a Lugano sarà una cosa meravigliosa.
Le produzioni Finzi Pasca durano per diversi anni.
Per quanto tempo le viene concesso dalla fondazione anonima, che è la proprietaria di «Tristan
fou», l’uso di questa tela a scopo teatrale?
Per il momento abbiamo firmato un accordo di 6 anni. Ma nulla ci impedisce di continuare.
Qual è il suo prossimo progetto?
Stiamo lavorando ad alcuni progetti diversi,
uno dei quali è la cerimonia di chiusura dei
Giochi olimpici invernali 2014 a Sochi, in
Russia.
Daniele Finzi Pasca, grazie del tempo dedicatoci!