L`incontro con l`esperienza psicotica. Psichiatria e Psicoanalisi

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L`incontro con l`esperienza psicotica. Psichiatria e Psicoanalisi
L’incontro con l’esperienza psicotica. Psichiatria e Psicoanalisi
FRANCESCO BARALE
In un – ormai lontano – congresso1 mi è stato assegnato il compito di ricordare alcune
caratteristiche generali di qualsiasi incontro con l’esperienza psicotica che ambisca ad essere
«psicoterapeutico»; il discorso che ne è nato, se pur riarticolato in questo scritto, si presenta un po’
d’antan, anche nei modi: non vi compariranno dati evidence based, solo alcune riflessioni. Alla fine
delle quali, per dissipare subito gli equivoci, troverà indirettamente risalto la parte importante che
continuo ad attribuire anche a dati, evidenze, protocolli. Da che parte incominciare? La prenderò
dall’alto, con le parole di Jaspers e successivamente dal basso, con un aneddoto evocativo.
Quasi tutti i metodi e gli oggetti di indagine tendono ad assolutizzarsi, come veri,
essenziali, centrali. Tutti i reperti vengono quindi riordinati secondo questo punto
di vista centrale, concepito ora non più in senso metodologico ma ontologico. Si
crede di essere in possesso della realtà in sé e di non doversi più muovere con
indagini di prospettiva, secondo una molteplicità di metodi, ma in realtà si tratta
sempre dell’assolutizzazione di conoscenze parziali [….]. In opposizione a questo
modo di procedere errato occorre servirsi di tutti i metodi e di tutti i punti di vista,
senza contrapporli l’uno all’altro – la biologia contro le scienze dello spirito, o
viceversa l’anima contro il cervello, la nosologia contro la fenomenologia, la
cognizione e gli affetti, la coscienza e l’inconscio. Dalla assolutizzazione nascono
i pregiudizi» (K. Jaspers, Psicopatologia Generale, 1913, Introduzione)
Dal basso, con un aneddoto che mi ha raccontato un amico, psicoanalista e raffinato
psicopatologo (le due cose, sia pure raramente, talvolta convivono). Mentre passeggiava per una
città del Sud, gli capitò di imbattersi in quello che evidentemente era un drappello di ospiti di una
comunità psichiatrica, scortato da alcuni educatori; tra quei pazienti, il mo amico riconobbe uno
schizofrenico colto ed intelligente, con una certa tendenza ad imbarbonirsi, che a lungo aveva
curato. Riconoscimento reciproco… saluti, feste… e come va… e come sta… poi, incuriosito, il mio
amico chiede cosa stavano facendo:
Eh, professore, stiamo andando al Supermercato, sapete, per la riabilitazione
all’uso del denaro…
Ah, bene,bene… bravi… e poi tornate in comunità?
Eh no, professore, poi andiamo tutti in un internet point, dove ci hanno affittato
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Il presente lavoro riprende alcuni temi della relazione tenuta al congresso «Get Up. Programma strategico
internazionale». Verona, 27-28 novembre 2012.
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per 2 ore i computer, diavolerie per me, ma sapete… la riabilitazione cognitiva….
Skill Training!…
Ah, bene…bene… e poi tornate in comunità?
Eh, macché, professore, poi tutti allo stadio, due giri di pista, sapete, per la
riabilitazione psicomotoria…
…. momento di silenzio…il vecchio schizofrenico si accosta con aria un un po’
furtiva e abbassa la voce…
Professò… sentite… volevo dire…, ma non ce la potete mettere voi una buona
parola?…
Le ragioni per cui racconto questo aneddoto (che, con un po’ di pompa, potremmo intitolare
«il soggetto negato») sono evidenti. È possibile una buona psichiatria che ignori il soggetto? Una
buona psichiatria senza una «buona parola», fatta solo di procedure e pacchetti di interventi? E cosa
vuol dire «non ignorare il soggetto»? Quale disposizione e quale formazione ciò implica, perché non
sia un richiamo generico? L’aneddoto riguarda in modo diretto la «riabilitazione»; area nella quale,
come Andrea Ballerini e Rossi Monti (1999) qualche anno fa indicarono, ha trovato terreno
particolarmente fertile una visione protocollare e addestrativa dell’intervento; una visione
«indifferente al chi», in cui gli operatori «conoscono quali obbiettivi porsi e quali tecniche usare ma
non conoscono e non sono interessati a conoscere chi stanno addestrando». E anche «chi» sta
addestrando chi: anche questo versante infatti (mettersi in gioco, pensare su di sé e sugli aspetti
intersoggettivi del proprio operare) rischia di diventare irrilevante.
Molto si potrebbe dire su quanto in realtà sia inadeguata la visione della negatività
schizofrenica come puro deficit da correggere e, in generale, una visione della psicopatologia che
riduce la persona schizofrenica al suo «disturbo» e il fatto psicopatologico a «sintomo» o
comportamento scorretto, avulso dalla sua storia, dalle complesse negoziazioni di cui è il prodotto,
dal «mondo» in cui si inserisce e da quello che esprime, dalla matrice intersoggettiva entro cui
prende forma e dai modi come essa tende a replicarsi (o viceversa a trasformarsi) nelle relazioni
attuali e nei contesti di cura… dal suo organizzarsi, disorganizzarsi e riorganizzarsi lungo un
percorso che non è mai una catena semplice di fatti naturali. Così come, del resto, nessun percorso
riabilitativo può essere pensato come un semplice riadattamento tramite il mero recupero di
competenze cognitive perdute.
Searles (per rimanere nella Psichiatria d’antan) cinquant’anni fa iniziava più o meno così uno
splendido scritto «Lo schizofrenico e l’ineluttabilità della morte»: «Ma avete davvero in mente quali
angosce – angosce di differenziazione basale, relative ai fondamenti del sé e del mondo – si
troverebbe a riaffrontare uno schizofrenico se dovesse rispondere autenticamente (e non solo
meccanicamente) ad una qualsiasi banale domanda volta ad accertare il suo orientamento nel
tempo? … o se fosse stimolato nel suo “sentimento di agentività” (come si direbbe adesso)»?
Per riprendere il discorso dal basso, il rischio segnalato dal sopracitato aneddoto travalica
l’area della riabilitazione: il rischio è quello del consolidarsi di un’idea tutta «esterna» della
psichiatria, una psichiatria della «risposta al «disturbo» (che si tratti di farmaci, procedure
riabilitative o «pacchetti» di interventi psicoterapici ha poca importanza), senza la persona, senza
psicopatologia e senza psicodinamica; in definitiva una sorta di psichiatria sine psichiatria. Tutto
questo non implica che tecniche, manuali, valutazioni evidence based delle pratiche abbiano una
portata relativa. Anzi: ritengo che queste dimensioni della psichiatria siano non solo ineludibili,
perfino necessarie sul piano etico. Tuttavia un’applicazione rigida ed equivoca di questi aspetti
potrebbe essere stata una delle ragioni della debolezza storica degli approcci dinamici. Quando non
addirittura un escamotage opportunistico per il lassez faire e il disimpegno: la «terapia ambientale».
Intendo sottolineare che in una psichiatria che non voglia smarrire le proprie radici antropologiche
tutto lo strumentario che appartiene al momento necessario dell’«obbiettivazione» non può non
essere in continuazione riarticolato con il polo della comprensione.
La questione è ancora più rilevante e complessa nelle situazioni di psicosi all’esordio o di
esordio recente; o ancor più in quei lunghi stati prodromici che precedono gli esordi riconosciuti.
Disponiamo ora di accurati studi empirici e di eccellenti descrizioni sul percorso del divenire
schizofrenico e sulla sua preistoria pre-clinica. Sulla nosodromia delle schizofrenie. Queste
descrizioni forniscono spunti importanti di riflessione. Le evidenze «nosodromiche» di cui
disponiamo evidenziano innanzi tutto che il periodo che precede gli esordi riconosciuti di solito è
molto lungo. Inoltre, che la storia inizia in genere da elementi di vulnerabilità molto aspecifici: i
fenomeni di base. Ancora: ciò che prende avvio da essi, non è una storia lineare e solo «interna» di
fattori processuali, ma un percorso accidentato e reticolare, frutto dell’interazione complessa di
fattori di rischio (a partire certo dal più importante forse di essi: la vulnerabilità schizotipica) e di
protezione. Su entrambi i versanti (quello del rischio e quello della protezione) sono annoverabili
anche le esperienze effettuate e le risposte ricevute.
Cosa accade nella lunga fase pre-clinica? Accade che i fenomeni di base, espressione a livello
soggettivo della vulnerabilità schizotipica, si amplificano sotto la spinta di fattori processuali interni
o di fattori emotivo-situazionali esterni, o di tutti i possibili impasti e interazioni reciproche tra
questi due ordini di fattori (è il modello delle «serie complementari» di Freud); si creano
sfrangiamenti, si aprono brecce sempre più importanti nelle già difettuali e precarie capacità
dell’apparato psichico di legare, organizzare, contenere ed integrare efficacemente l’esperienza. Le
sequenze trasformative, attraverso le quali dal livello minimale dei fenomeni di base si generano
prodromi, sindromi di avamposto, sintomi attenuati, poi più persistenti, sono state ricostruite dalla
scuola di Bonn, in descrizioni oramai classiche.
Queste ricostruzioni sono di enorme impatto teorico e psicopatologico. Innanzitutto sembrano
dar ragione ad una vecchia affermazione di H. Ey (psichiatria d’antan…), il quale ripeteva in
continuazione che la schizofrenia non «c’è» all’inizio; se c’è, semmai c’è alla fine. Vale a dire si
costruisce lungo un itinerario complesso di infiltrazione delirante, di alterazione della struttura
personologica e dei rapporti io-mondo, di progressiva smagliatura della trama basale intersoggettiva
che ne è a fondamento. La nosodromia dunque ci può aiutare intanto a prendere in modi meno
ingenui la nosografia. Non a «cancellare» la nosografia (e la sua necessità), ovviamente, ma a
collocarla in quella prospettiva dialettica che Jaspers ci proponeva. Liberandoci da quell’abbaglio
cosificante che è il rischio di un pensiero categoriale «ontologizzato». Ma essa costringe anche a
ripensare ogni idea «fissista» della psicopatologia della schizofrenia: le configurazioni
psicopatologiche come fotografie dell’«essenza» della schizofrenia e non come punti d’arrivo, anzi
stazioni, di una storia instabile, che la persona schizofrenica non percorre, di solito, in modo
progressivo. La nosodromia schizofrenica, almeno a lungo, procede nei due sensi; anzi, in un
reticolo. Più che ad un percorso lineare assomiglia alla Storia che Montale ci racconta in Satura…
ricordate?:
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la Storia non è una catena di eventi ininterrotta/ in ogni caso/molti anelli
non tengono […] la storia è piena di anfratti, salti, sottopassaggi, cripte, buche e
nascondigli…non procede né recede, si sposta di binario e la sua direzione non è
nell’orario…
.
Le definizioni psicopatologiche, bleuleriane o schneideriane che siano, entrano, viste da
questa prospettiva, in un’area di tensione. Gli stessi fenomeni di primo rango, percezione delirante
compresa, l’affilato «rasoio psicopatologico» in grado di discriminare ciò che è schizofrenico,
sfumano nel continuum da cui emergono e nel quale si ridiluiscono.
Ma ancor peggio per quanto concerne la ordinata architettura bleuleriana. Le descrizioni di cui
disponiamo mettono infatti in luce non solo il continuum psicopatologico tra dimensione negativa e
positiva (che nei decenni scorsi era capitato perfino di veder indicate come sindromi distinte!), ma il
loro profondo intreccio e alimentarsi reciproco. Certo, si intravede comunque un qualche primato
della negatività: le originarie esperienze dei sintomi di base contengono già in nuce un abbozzo di
dimensione negativa. Tuttavia i sintomi di base, espressione fenomenica e soggettiva della
vulnerabilità schizotipica e dei suoi deficit neuropsicologici, rappresentano solo il livello liminare,
la matrice della dimensione negativa: tra di essi e i sintomi fondamentali bleuleriani c’è una
continuità, certo, ma c’è anche di mezzo il mare di sequenze trasformative complesse. E nell’intrico
di queste sequenze il vettore non è, come pensava Bleuler, solo quello dal «fondamentale» (la
negatività) all’«accessorio» (i fenomeni positivi). Anzi, in larga misura la negatività è essa stessa un
esito della sequenza; è «alimentata» da ciò che succede nella serie trasformativa.
Il dilatarsi, in particolari condizioni, dei fenomeni di base, il cedimento psichico che avviene
da queste smagliature, produce, nelle descrizioni classiche (su cui convergono psicoanalisi e
psicopatologia), quel terreno psichico di intollerabile tensione affettiva, drammatico aumento della
complessità del campo psichico, inquietudine dissolutiva, che potentemente sollecita la produzione
di sintomi positivi: la trama del senso smarrita o andata in pezzi è ricostituita attraverso l’infiltrarsi
della dimensione delirante. Ma tutto ciò non è senza conseguenze sulla dimensione negativa:
spiazza, a sua volta, i pre-esistenti meccanismi di coping ai fenomeni di base ed induce una loro
ulteriore trasformazione, un ulteriore scalino di negatività, qualitativo e formale, verso una
negatività sempre più conclamata, secondaria, possiamo dire; in cui alla fine si smarrisce anche
quella capacità di insight e autorappresentazione che è invece presente, spesso acutamente, nella
negatività dell’inizio, quella dei fenomeni di base.
In questa rappresentazione (che classicamente ci ha consegnato la scuola di Bonn; Huber e
Gross, 1995) l’architettura bleuleriana è dunque sovvertita; la sequenza non è «dal negativo al
positivo», ma diventa: prima sintomi di base (una negatività dunque liminare, quasi solo
potenziale), poi sintomi positivi, poi, più tardi, quelli negativi in senso pienamente clinico. Per la
verità ho l’impressione che anche questa rappresentazione, malgrado il pregio di mettere in luce la
dialettica stretta tra le diverse dimensioni, soffra di un eccesso di schematicità, di un bisogno di
definire un’evoluzione tipo. In molti casi infatti le sequenze appaiono ancor più reticolari. A parte,
all’opposto, quel 10% di casi, che Huber stesso ha descritto, di primary negative schizophrenia, cioè
di evoluzioni precocemente negative, deficitarie e processuali. In ogni caso, non solo l’architettura
bleuleriana viene disarticolata, ma il «negativo” che ne risulta è tutt’altro che un monolite, ma un
palinsesto di trasformazioni, in cui primario e secondario, fondamentale ed accessorio, si
intrecciano ampiamente. In ogni caso, la nosodromia mette in discussione non solo la dicotomia
patogenetica «negativo/positivo» (o, in senso diacronico, tra fasi produttive e disorganizzative), ma
anche altre dicotomie attorno alle quali classicamente si è disposto il dibattito psicopatologico sulla
schizofrenia: «comprensibile/incomprensibile», «demenziale/iperrazionale», «affettivo/cognitivo».
Alcune parole solo su quest’ultima.
L’idea che all’origine dei fenomeni schizofrenici vi sia un deficitario funzionamento
neurocognitivo ha una antica storia in psicopatologia: il primum movens è stato via via indicato nei
fenomeni di flooding, iperinclusione, deragliamento del pensiero, insufficiente integrazione
cognitiva o «coerenza centrale», con riemersione conseguente di schemi cognitivi arcaici, fino al
recente «disconnessionismo funzionale» o ai lavori di Frith sul difetto di monitoraggio interno su
quale sia la fonte dell’esperienza o dell’azione (a «chi» appartengano intenzioni e stati mentali).
Questa tradizione coesiste con una tradizione opposta, che indica invece la matrice più profonda
dell’esperienza psicotica in un’alterazione dell’affettività, del fondo timico dell’esperienza; o,
usando un altro linguaggio, in una dimensione dell’esperienza del sé e del mondo ante-predicativa,
pre-riflessiva e precognitiva. Questa seconda tradizione è stata espressa in temi celebri: dalla
Wahnstimmung di Jaspers (che fa propria la nozione romantica di Stimmung, «intonazione» musicale
e ritmicità interna della vita psichica), alle diverse Stimmungen o «impostazioni emozionali»
descritte dalla psicopatologia classica come vie di ingresso pre-tematiche in diverse condizioni
psicopatologiche, al trema di Conrad, da cui scaturisce la percezione delirante, alle oscillazioni
dinamiche di Janzarik, instabilità del fondo timico dell’esperienza che anche Mentzos e la scuola di
Amburgo individua come la matrice pre-cognitiva dei fenomeni di primo rango, all’autismo di
Minkowski, perdita del contatto vitale col mondo, trouble générateur primario, alla perdita
dell’evidenza naturale di Blankenburg, fino ai modi in cui recentemente Parnas ha descritto
l’autismo, in una prospettiva debitrice di Merleau-Ponty oltre che di Husserl. Questa seconda
tradizione è prevalente nella psicopatologia europea, dominata dalla convinzione che gli aspetti
cognitivi siano secondari ad un primario che chiama in causa livelli preriflessivi ed incarnati,
«umorali» ed affettivi, dell’intenzionalità. Da questa convinzione discende un certo scetticismo sulla
possibilità di modificare l’esperienza psicotica a partire dagli schemi cognitivi alterati: tentativo
paragonato a quello del barone di Munchausen di risollevarsi tirandosi su per il colletto della
camicia.
La psicoanalisi, ovviamente, è molto vicina a questa seconda tradizione. In realtà, anche in
questo caso, la nosodromia non consente di innalzare stendardi e dirimere nettamente la questione:
ciò che mette in luce infatti è, fin dalle fasi prodromiche, una sovrapposizione di fattori corporei
(del corpo proprio), affettivo-dinamici (stimmungen alterate, sentimenti di smarrimento, deficit
dinamici, irritazione, incremento intollerabile della tensione affettiva) ai quali va forse riconosciuto
(come alla negatività liminare dei fenomeni di base per la dialettica «negativo/positivo») un qualche
primato, ma anche cognitivi (slittamenti, deragliamenti, sfocatezza nei rapporti tra i contenuti del
pensiero, sovraffollamento) che a loro volta alimentano stimmungen alterate, perplessità, sentimenti
di perdita del centro, caos e crisi della presenza… contribuendo a scardinare l’abituale cornice di
riferimento della realtà. La questione che quest’altra dicotomia solleva è dunque tutt’altro che
chiusa. Se prudentemente sospendiamo l’hybris di raggiungere l’essenza della psicosi, ciò che è
«veramente primario», le fonti del Nilo, tuttavia si potrebbe capire come certe alterazioni cognitive,
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forse secondarie ed in parte mitigabili, possano almeno contribuire ad accentuare alcune
configurazioni affettive… e magari anche utilmente partire da lì.
Attraverso frettolosamente questi temi – che richiederebbero ben altro svolgimento – per
pervenire all’argomentazione centrale del discorso: qualunque siano le pratiche che adottiamo,
anche le più semplificate, conviene, come ricordava Searles, «tenere bene nella mente», che cosa è
realmente in causa nelle esperienze che incontriamo. Ciò perché qualunque «intervento»
inevitabilmente attraversa questo sfondo. La locuzione «tenere nella mente» non indica affatto
«svolgere raffinate analisi fenomenologiche o psicoanalitiche». Significa disporsi in modo recettivo
all’esperienza della psicosi, con tutto ciò che essa contiene; essere in grado di farla transitare nello
spazio mentale dell’incontro (spazio personale, gruppale, istituzionale), perché in questo transito
essa possa innanzi tutto trovare la possibilità di dispiegarsi, portando «in campo» tutto lo sgomento,
la paura, i sentimenti radicalmente contraddittori della consensualità lacerata. Questi sentimenti
inevitabilmente si riflettono nelle nostre reazioni controtransferali, alimentando quel disagio
profondo nell’impatto con l’esperienza psicotica, che Rümke aveva indicato addirittura come un
immediato strumento diagnostico (la Praecoxgefhül) e che De Martis ha descritto in passaggi
mirabili:
… dopo oltre 30 anni, chi scrive non sa uscire dall’incontro con un soggetto
schizofrenico da una massa confusa di stati d’animo e di pensieri [….] la persona
che mi sta davanti, col suo comportamento «diverso» induce in primo luogo un
movimento di fascinazione, ove si intrecciano curiosità e simpatia, bisogno di
testimoniare..il mio desiderio di avvicinamento, di comprensione e di aiuto, anche
se so che mi chiederà molto di più di quanto non sia disponibile a dargli.
Desidererei comunque che si rendesse conto che è possibile avere, nell’incontro
con un altro essere umano, sentimenti di spontaneità e di solidarietà tali da
rompere la stereotipia asimmetrica paziente-esperto. Vorrei garantirgli che sono
dalla parte sua, non da quella degli altri. Sono però respinto, inchiodato al mio
ruolo. Intuisco che la paura e la diffidenza lo inducono a vivermi come nemico,
anche se mi dice «mi aiuti!”. Sento che, al di là di ogni intenzione cosciente, una
parte di me risponde con una paura e una diffidenza simmetrica. Proprio mentre
sto cercando di registrami sull’onda dei suoi bisogni di appoggio e protezione,
sento che mi sta giudicando spietatamente, che sta studiando l’avversario. Da
questa contraddizione si ingenera in me confusione, imbarazzo. In questa vicenda
sento con maggiore intensità il carattere provocatorio dell’esperienza
schizofrenica. Come questa, nella sua fondamentale non con sensualità, laceri
brutalmente il tessuto convenzionale su cui riposa il sentimento di realtà e metta in
crisi quell’insieme di misure cautelative rituali e pacificatorie che la società ha
sancito nel rapporto interindividuale. Tutto ciò è scandaloso. Ed una parte della
mia identità sociale si ribella e si mobilita contro questo attentato, tanto più
radicale in quanto si dà talvolta tutto in uno sguardo, in una espressione mimica.
Ed allora, da questa cesura … patita non tanto a livello cognitivo, ma come
esperienza sensoriale stridente, si animano fantasie di riduzione al silenzio
dell’altro. Mi ritrovo così ad un certo momento nella posizione tradizionale nei
confronti della follia [….] cerco di tranquillizzarmi dicendomi che in fondo è lui
che mi costringe, che non accetta la mia mano tesa, il mio sincero interesse…
(Dario De Martis, 1984)
È qualcosa che dobbiamo attrezzarci sia sentire sia a tollerare, affinché, prima di essere
oggetto di qualsiasi intervento soppressivo, ortopedico o riabilitativo, quell’esperienza possa
trovare, in questo transito, possibilità di contenimento, mitigazione, ri-conoscimento della sua
qualità specificamente umana, ri-collegamento. Qualsiasi incontro con la psicosi che ambisca ad
essere psicoterapeutico presuppone dunque questo sfondo dell’incontro, la tessitura di una tela o
schermo in grado di ricevere la proiezione psicotica e capace di risonanza-circolazione-mitigazionereintegrazione. Questa stessa tessitura richiede tuttavia a sua volta una particolare attrezzatura nei
suoi contenitori (individui, gruppi, istituzioni), frutto di una formazione lunga e complessa, fatta
certo anche di cognizione, ma che trascende qualsiasi apprendimento intellettuale o tecnico: un
lungo, paziente lavoro, una abitudine alla messa in discussione personale e alla riflessione su di sé,
una consuetudine vera non solo con i pazienti, ma anche con i propri aspetti primari. «Il faut y être
passés par là….pour vraiment comprendre», soleva dire Ajuriaguerra. Dove in quel «vraiment
comprendre» c’è tutta la questione del sintonizzarsi sul «chi» del nostro lavoro.
Il contributo principale della formazione psicoanalitica non consiste nello sviluppo di raffinate
capacità di concettualizzazione, tanto meno di attitudini interpretative (quella che Racamier aveva
chiamato «oniromanzia ornamentale dei contenuti della psicosi»), quanto nel facilitare, nei singoli e
nei gruppi, questa disposizione fondamentalmente affettiva, che consente sintonia, tolleranza e
sentimento di co-implicazione verso le aree basali dell’esperienza psichica che la psicosi chiama in
causa. Da questo punto di vista, psicoanalisi e psicopatologia e fenomenologia, sono orientatori
indispensabili. Non sono «tecniche» di intervento. Sono organizzatori di uno sfondo di ricezione e
comprensione che rende «intelligente», rende «psichiatrica» qualsiasi pratica, anche la più
elementare, anche la più manualizzata, anche la più pragmatica, semplificata o cognitivocomportamentale (comportamentista?). Sono orientatori al «chi». Proprio quel «chi», del resto, che è
così messo in causa, nei suoi fondamenti intersoggettivi (o intercorporei), nell’esperienza psicotica.
La psichiatria potrebbe anche fare a meno di questi ingredienti, scivolando tuttavia in una
prospettiva piuttosto riduttiva. Il livello della concettualizzazione psicopatologica o psicodinamica è
solo lo strato più esterno di questa disposizione che consente l’incontro con l’esperienza psicotica.
Ha un’utilità di «secondo ordine» ovvero consente di parlarne, di riflettere, di sistematizzare e
generalizzare l’esperienza. Qualche volta è addirittura un ostacolo.
Annoto, a riguardo, un secondo aneddoto. Siamo nel 1974. De Martis ha appena chiuso la
Clinica Psichiatrica Universitaria, elegante struttura aperta di 40 letti, dove negli anni precedenti
avevamo coltivato, con lui e con Fausto Petrella, una raffinata psichiatria dinamica con selezionati
pazienti, molta attività di gruppo e supervisioni. Aveva deciso di trasformarla in un «settore”,
ospitandovi 40 schizofrenici cronici della Lomellina, provenienti, con i loro stracci e le loro storie
altrettanto stracciate, dal vicino vecchio Ospedale Psichiatrico, iniziando quella esperienza poi
descritta ne Il Paese degli Specchi e contestualmente aprendo l’attività territoriale. Esperienza
coinvolgente e appassionante (partecipavamo pienamente allo spirito dell’epoca), ma anche non del
tutto facile, almeno per alcuni di noi che avevano la testa piena anche di psicoanalisi,
fenomenologia, ermeneutica…: passare bruscamente dall’incontro, la mattina, con Franco Donatoni
o Lucio Mastronardi (per fare il nome di due persone che non ci sono più) a quello con quei cronici
inaccessibili … La passione civile ci aiutava… ma ci difendevamo anche in altri modi. Io ad
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esempio passavo lunghe ore in biblioteca, immerso in studi di estetica e linguistica. Fu lì, un
pomeriggio, che ricevetti la lezione più indimenticabile della mia formazione, più importante di
anni interi di analisi.
Mi ricordo: sto leggendo un libro di Kris sull’arte… entra De Martis, da un’occhiata di sbieco
a cosa sto facendo, ha l’aria disapprovante e imbronciata (ma ce l’aveva spesso); tiene un foglietto
per un angolo… in alto… un po’ come quel professore di un vecchio spot che ha trovato in classe un
preservativo e si aggira tra i banchi tenendo il reperto in alto, con aria schifiltosa, tra anulare e
pollice e chiede minacciosamente a tutti: «Di chi è questo…!?!?». Mi dice: «Francesco, è arrivata
questa lettera di Lanteri-Laura» (agita per un attimo il foglietto, sempre tenendolo per un angolo). Io
sgrano gli occhi. «Lanteri scrive che ha letto una roba… una di quelle che scrivi tu… su G.
Politzer…, dice che gli interessa…, vorrebbe fare qualcosa insieme…». Io mi illumino: il
riconoscimento!... la gloria!!... Lanteri-Laura! De Martis si guarda le scarpe in silenzio (lo faceva
spesso…), accartoccia lentamente la preziosa lettera, se la caccia appallottolata in tasca, mi fissa,
unisce indice e pollice e scandisce seccamente: «Senti, Francesco… devi stare di più in reparto!!!».
Si gira e se ne va.
L’aneddoto evoca che anche la «cultura» può funzionare da schermo difensivo. È compito del
leader istituzionale mantenere la rotta dell’assetto affettivo, dell’ «atmosfera» di lavoro, magari con
piccoli colpi di timone, per evitare derive controtransferali. Nei gruppi istituzionali ciò è più
difficile, perché le questioni si intrecciano con gli altri piani del «campo istituzionale» e con i
problemi organizzativi (nelle cui pieghe tendono a infiltrarsi e dietro la cui oggettiva e abbagliante
preponderanza talvolta si nascondono: non c’è dubbio che se cambiano tutti i mesi gli infermieri,
nessun contenitore istituzionale può organizzarsi). Nei gruppi istituzionali le derive controtransferali
sollecitate dall’incontro con la psicosi sono costantemente in agguato.
Sul tema del controtransfert nell’incontro con la psicosi, tutto pare essere stato detto, nei
decenni scorsi. Per vincoli affettivi ricorderò solo come Dario De Martis (in Realtà e Fantasma
nella Relazione Terapeutica) ne ha riassunto l’esteso repertorio. La psicosi mette in risonanza, in
interlocutori non troppo schermati (individui e/o gruppi), la crisi della matrice stessa dell’esperienza
del mondo e del sé, nei suoi fondamenti intersoggettivi. La risposta controtransferale si dispone, di
conseguenza, lungo un arco di possibilità che parte da un sentimento inevitabile: la paura. Paura non
solo dei pazienti minacciosi, ma connaturata all’essenza stessa della psicosi, permeata dei timori più
ancestrali dell’uomo. La paura innesca poi risposte proteiformi. Risposte diatrofiche, «riparative», di
«compassione» (in senso etimologico) per il sé minacciato, in cui il terapeuta o il gruppo, attraverso
l’identificazione, si assumono la responsabilità della devastazione. All’opposto, anche risposte di
distanziamento, che bloccano la risonanza e l’elemento di minaccia che essa ha introdotto
ristabilendo in modo fermo la differenza. Le declinazioni di questa strategia sono le più varie:
ipertrofia degli aspetti obiettivanti (diagnosi, protocolli, procedure…) e/o organizzativi, che
funzionano da «sgrigliatori» di ogni perturbante di soggettività; ipertrofia delle varie risposte a
«sintomi» ridotti al silenzio nella loro potenzialità di segnali della vicenda umana da cui originano;
oppure risposte paranoicali, facilitate dalla scarsezza di risorse e dal clima di «assedio» di cui
soffrono spesso i servizi: «Ma cosa diavolo vogliono da noi… andate da un’altra parte!»,
percorrendo quel gioco dell’oca inter-istituzionale delle competenze che stanno sempre da un’altra
parte, descritto da Marco Sarno. Difese ipocondriache (genialmente descritte 30 anni fa da Piero
Leonardi nei gruppi istituzionali). Risposte militarizzate, in cui il nemico è collocato all’esterno, da
qualche parte (società, famiglia…sistema politico…servizi che non funzionano…). Oppure
movimenti di ottundimento, impotenza e caduta delle capacità di pensiero, speculari alla negatività
schizofrenica oppure effetto di quella che Racamier chiamava «l’onnipotenza inanitaria» di certi
schizofrenici, «trionfo del vuoto», attacco radicale alla possibilità di senso e pensiero, prototipi di
quella impossibile dipendenza (ed Edipo) che il narcisismo psicotico sistematicamente distrugge.
Ma anche viceversa risposte che muovono dalla fascinazione che la psicosi ,malgrado tutto, esercita,
almeno in chi ha scelto di fare questo mestiere, tanto più se psicoanalista (vocazioni spesso mosse
entrambe da un misto di istanze riparative e di inquietudine narcisistica): da cui le derive di
atteggiamenti salvifici onnipotenti, la fantasia «di dare miracolosamente senso all’insensato, di far
risorgere Lazzaro» (De Martis), di ribonificare al senso le terre desolate delle esperienze traumatiche
più originarie, di raggiungere le fonti del Nilo della perdita dell’evidenza naturale psicotica… deriva
onnipotente in cui è spesso evidente, in filigrana, il suo opposto speculare, cioè l’evitamento
controfobico della follia, con lo scacco che essa impone, quotidianamente, a quel precario e parziale
lavoro di Sisifo che è la Psichiatria.
In genere, sia le risposte controtransferali individuali sia quelle istituzionali, pur
organizzandosi attorno ad alcune correnti prevalenti, sono un reticolo composito e instabile, che
contiene ingredienti di tutti i tipi descritti. C’è ovviamente una certa simmetria, descritta da decenni
di letteratura sulla clinica istituzionale, tra questo reticolo dinamico e ciò che accade all’interno
dell’esperienza psicotica, di cui quel reticolo rappresenta, in un certo senso, il transfert. Fausto
Petrella, tra gli altri, per decenni ci ha insegnato a leggere l’esperienza psicotica attraverso di esso.
La cura che viene dedicata alla dinamica di questi movimenti, perché siano sempre meno caotici e a
cortocircuito con le proiezioni immesse nel campo dalla psicosi, è parte essenziale del lavoro di cura
istituzionale, di costruzione di un contenitore trasformativo, in grado di rinforzare istanze autoriparative, sempre presenti, a livello almeno potenziale, nei pazienti. Mi sembra che non siano
possibili equivoci: non sto parlando di psicoanalisi delle psicosi. Con tutta l’ammirazione per i
tentativi di psicoanalisi delle psicosi (quelli pionieristici), non credo alla sua possibilità e neppure
alla sua opportunità; quei tentativi ci hanno molto insegnato, ma il loro bilancio è fallimentare. In
molti di essi si intravvede l’illusione salvifica che la psicoanalisi potesse promuovere una
esperienza correttiva radicale, riportare indietro la freccia del tempo, far ripercorrere le tappe
evolutive fallite. L’idea che la Psicoanalisi potesse essere ad un tempo una teoria complessiva e «la»
cura delle psicosi si basava in realtà su un radicale fraintendimento, anzi, su un
«autofraintendimento scientista» (Habermas): il senso dinamico dei fenomeni psicopatologici, il
modo in cui essi si inscrivevano, prendevano forma, si caricavano di senso nelle storie e nelle
biografie personali, veniva fatto coincidere con le loro «cause» e con la psicopatologia stessa,
generando un cortocircuito tra dinamica, psicopatologia ed etiopatogenesi, in cui la dinamica
mangiava tutto… occludendo ogni proficua dialettica tra questi diversi vertici. A questo
fraintendimento si accompagnava di regola una sottovalutazione della multidimensionalità delle
psicopatologie e delle loro radici nella biologia. Sto in sostanza parlando del contributo della
Psicoanalisi alla Clinica istituzionale.
Giacomo De Marco e Flavio Nosè qualche anno fa ne hanno fatto un bilancio, che però
sembra un po’ malinconico: una serie di opportunità perdute. I decenni seguiti alla riforma del ‘78,
scrivono, hanno dissipato sia ogni illusione strutturale (basta cambiare i contesti di cura per evitare
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il potenziale di cronicizzazione insito nella psicosi stessa) sia ogni illusione tecnicistica (vale a dire
che esista una qualche tecnica o sistema di tecniche in grado in quanto tale di rendere meno difficile
il rapporto col paziente psicotico). Ma il panorama nato da questa disillusione non è eccellente: il
rischio è appunto quello di una deriva verso pratiche stereotipe e «protocollari» (la psichiatria degli
«interventi»), depersonalizzate, staccate dal nucleo di sofferenza dei pazienti. Per rilanciare
realisticamente la «clinica istituzionale” occorre una riflessione autocritica sulle ragioni della sua
sconfitta. Non quelle esterne: processi di aziendalizzazione, scarsità di risorse, trasformazioni
culturali e di climi sociali… ma quelle interne.
Certo, i processi di aziendalizzazione sono intrinsecamente orientati verso una cultura
«protocollare». L’evidence based medicine, nelle sue versioni più schematiche, può essere di non
facile integrazione con l’atteggiamento tipicamente dinamico dell’attenzione a ciò che ancora
evidente non è, della sospensione degli automatismi, dell’attesa, della capacità non solo di
considerare l’evidente, ma anche di metterlo tra parentesi, per consentirne riorganizzazioni, per reintrodurre quel tempo della rielaborazione psichica che è proprio ciò che l’affollamento, l’urgenza
proiettiva psicotica tende a saturare… con un eccesso di «evidenza» …per detossicare atmosfere
affettive soprassature. Certo, i climi sociali sono cambiati, le comunità sono in via di dissoluzione e
riemergono potenti spinte neo-manicomiali e di riattribuzione alla psichiatria di funzioni di
protezione sociale; tutto ciò non può non peggiorare le cose. Certo, la responsabilità dei leader
istituzionali è molto forte: spesso, assorbiti nei compiti aziendali sono venuti meno al compito di
tener saldo, nei gruppi di lavoro, il riferimento all’esperienza soggettiva e personale, a quello di
prendersi cura che i transiti intra e interistituzionali delle esperienze psicopatologiche non si
riducano a quelli burocratici di protocolli di interventi. Ma vi sono state anche ragioni interne di
debolezza della clinica istituzionale. Provo a dirne alcune.
Dell’illusione egemonica della psichiatria psicoanalitica ho già detto. In generale, gli
atteggiamenti egemonici e «psicoanalitico-centrici» hanno contribuito al progressivo isolamento
della psicoanalisi e al declino stesso della prospettiva psicoanalitica in psichiatria. A ciò ha
contribuito anche un’esportazione un po’ rigida al «campo istituzionale di concetti e modi di
pensare della situazione psicoanalitica, come se tra transfert e controtransfert da un lato e «transfert
istituzionale» e «controtransfert istituzionale» ci fosse quasi una equivalenza e non una analogia,
certo importante per la comprensione di fenomeni comunque di ordine ben diverso; se non altro
perché la situazione analitica implica la messa tra parentesi metodica di un «reale» che insiste
invece in maniera del tutto «insospendibile», spesso con drammatica ed indifferibile «urgenza», nel
«campo istituzionale».
Per la verità, perfino per quel che riguarda la specifica situazione analitica, siamo ora lontani
dal considerare il transfert come una sorta di «macchina del tempo e dello spazio», che riattualizza e
dispiega in modo quasi lineare nel «qui ed ora» la patologia del paziente; e lontani dal considerare il
controtransfert come l’utile «rovescio» del transfert, luogo di riconoscimento e di rielaborazione di
ciò che è «trasferito». Figuriamoci poi per quel che riguarda gli «analoghi» fenomeni istituzionali,
con le mille cose che ci sono di mezzo! Ovviamente diverse elaborazioni recenti della tematica
(Petrella, Correale, Rossi Monti, Ferruta, i modelli bioniani in genere…) sono lontane da questi
integralismi. Ma una certa tendenza «psicoanalitico-centrica» e una certa sottovalutazione del peso
ineludibile delle esigenze di realtà dei «servizi», delle esigenze organizzative, di cura e anche di
«risposta», è rimasta una cifra e una debolezza di questo filone. Ultimo ma non meno importante, un
certo ruolo in questo declino l’ha svolto anche lo snobistico rifiuto di «sporcarsi le mani» con dati
ed evidenze. Non sugli aspetti «ineffabili» delle soggettività in gioco, ovviamente, ma sulle ricadute
obbiettivabili degli stili di lavoro che ne tengono conto. Per fare un esempio «istituzionale»: provate
a spiegare alle amministrazioni che vi sono necessarie risorse che consentano momenti quotidiani di
lavoro di gruppo, circolazione e decantazione delle impressioni e dei movimenti emozionali
nell’impatto con la psicosi; sarà difficile convincerle spiegando le dinamiche del «campo
istituzionale» o facendo riferimento alla «atmosfera di reparto» (mi ricordo la faccia del mio
direttore sanitario quando una volta usai questa espressione: credo che la sua mente sia andata
immediatamente alle bombole di ossigeno, al loro costo e ai loro rischi…). Se però gli dimostro che
lavorando in un certo modo si riducono le contenzioni… Oppure: se riesco a dimostrargli che la
rapidità del turn over degli infermieri (e quindi l’impossibilità di costituire un’équipe-contenitore
stabile e pensante) è proporzionale al numero degli incidenti… Insomma, lavorare mantenendo al
centro l’attenzione per l’esperienza soggettiva non è solo una questione «etica», ma consente anche
una psichiatria più efficiente; e questo si può/deve, almeno in parte, dimostrare.
A conclusione: ritorno a Jaspers. Io penso che non tutto sia perduto, che sia possibile
mantenere in tensione integrativa quella dialettica di punti di vista da cui, con la citazione da
Jaspers, siamo partiti. Come scriveva Cargnello, ci muoviamo, come psichiatri, in una continua
oscillazione tra «l’essere-con-qualcuno» e «l’avere-qualcosa-di-fronte», tra il sentire e il
comprendere l’altro nella relazione che instauriamo con lui e il considerare e capire i dati oggettivi
della Psichiatria. Da questa oscillazione non possiamo/dobbiamo uscire.
SINTESI
L'autore propone alcune considerazioni su funzione, valore ruolo della cultura e della formazione
psicoanalitica nel facilitare alcuni «fondamentali» di qualsiasi incontro con la psicosi che voglia proporsi
come incontro di «cura», nei diversi contesti e all'interno delle molteplici prassi in cui esso può avvenire.
Alcuni cenni vengono fatti allo svolgimento storico del complesso rapporto tra psichiatria, psicoanalisi e
psicopatologia e alle diverse forme che tale rapporto ha preso
PAROLE CHIAVE: Incontro con la psicosi, istituzioni, psichiatria, psicoanalisi, psicopatologia, psicosi.
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