6. MASSIMILIANO VAGHI, Dall`indomanie all`Inde des

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6. MASSIMILIANO VAGHI, Dall`indomanie all`Inde des
§
PARAGRAFO
RIVISTA DI LETTERATURA & IMMAGINARI
Paragrafo
Rivista di Letteratura & Immaginari
pubblicazione periodica
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FRANCESCO LO MONACO
Redazione
FABIO CLETO, DANIELE GIGLIOLI, MERCEDES GONZÁLEZ DE SANDE,
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Paragrafo
V (2009)
Sommario
VISIONI
§1. MASSIMILIANO FIERRO, L’intervallo. Cuciture del visibile
7
§2. CHIARA BORRONI, Il loner. Sulla figura dell’eroe nel cinema italiano
degli anni Sessanta e Settanta
33
§3. MAURO GIORI, “Una rivista equilibrata per spettatori intelligenti”.
Appunti per una storia di Films and Filming (1954-1990)
57
SPETTACOLI
§4. GENNARO DI BIASE, Dalla struttura scissa all’inversione. Commento
a Natale in casa Cupiello
91
§5. EMANUELA MARZOLI, Il Casino di campagna di Pietro Ruggeri
da Stabello
115
IMMAGINARI
§6. MASSIMILIANO VAGHI, Dall’indomanie all’Inde des savants. L’idea
dell’India in Francia (secc. XVIII-XIX)
145
I COLLABORATORI DI QUESTO NUMERO
167
NUMERI ARRETRATI
169
§
6
Massimiliano Vaghi
Dall’indomanie all’Inde des savants
L’idea dell’India in Francia (secc. XVIII-XIX)
I rapporti consolidatisi nel XVII secolo fra Europa e India cominciarono a
mutare – lentamente ed in favore di una sempre più marcata ingerenza
degli occidentali negli affari degli stati regionali indiani – nel secolo successivo: assieme ad essi, inevitabilmente, mutò anche la percezione che gli
europei avevano degli indiani. Intorno alla metà del Settecento, infatti, si
assiste al momento cruciale del passaggio dall’esperienza coloniale-mercantile europea in Asia (in cui l’interesse per le acquisizioni territoriali era
del tutto secondario), a quella coloniale-imperialistica, orientata, cioè,
verso un’espansione territoriale finalizzata al controllo di aree importanti
sotto il profilo strategico o economico, fase che raggiungerà il suo culmine in pieno XIX secolo.
Le vicende belliche relative al conflitto europeo del 1740-1748 interruppero nel subcontinente indiano la cooperazione, che durava dalla fine
del secolo XVII, fra i rappresentanti delle compagnie commerciali ivi stanziate. Con l’aumento esponenziale della rivalità anglo-francese – e conseguentemente con la crescita della loro ingerenza nella vita politica indiana
– crebbe anche l’interesse delle due nazioni europee per l’Asia e per le sue
culture. E questo interesse certamente contribuì, prima, al sorgere dell’indomania, poi, alla nascita ed al perfezionamento, in Europa, dei primi
studi di orientalistica.
Anche se l’imperialismo europeo affonda le sue radici in pieno XVIII
secolo, non è comunque così comune trovare chi, fra le élites intellettuali
del Vecchio Continente, accetti incondizionatamente l’importanza politico-economica di vaste acquisizioni territoriali oltremare e del controllo
diretto dei principati asiatici. Anche sull’opportunità di sottomettere popolazioni molto diverse per culture ed abitudini da quelle d’Europa, ma
PARAGRAFO V (2009), pp. 145-66
146 /
MASSIMILIANO VAGHI
alle quali generalmente si attribuiva un grado di civilisation non inferiore
rispetto a quello europeo, si dimostrava più d’una perplessità. Da talune
parti si giungeva a sottolineare che i contatti troppo stretti fra le organizzazioni commerciali europee e i ‘dispotici’ principi indiani avrebbero potuto corrompere i sani costumi dei mercanti occidentali.1
Nel complesso, nella Francia della seconda metà del Settecento (ma, si
potrebbe aggiungere, anche nel resto d’Europa), prevaleva l’idea che le
colonie in Asia dovessero essere fondate (o conquistate) solo se economicamente utili e non per puro prestigio dei sovrani, né tanto meno per
aiutare i propri alleati asiatici o per ‘esportare’ la civiltà ed i costumi europei. A dimostrazione di quanto fosse radicata in gran parte della classe dirigente e dell’opinione pubblica francese – tanto da giungere ad influenzare perfino un fine esprit come Montesquieu – la concezione prettamente utilitaristica delle colonie, Carlo Giglio ricorda che, ancora nel 1765, la
Encyclopédie affermava che le colonie venivano fondate dalla madrepatria
solo per il beneficio della madrepatria:2 la grandeur della Francia era posta
decisamente in secondo piano, così come il suo ruolo di alfiere della cultura europea.
Anche il ‘popolino’ – come sottolineava, quasi cent’anni orsono, Albert Duchêne nella sua bella opera sulla politica coloniale francese – era
complessivamente disinteressato alle avventure nei paesi d’oltremare, viste
spesso come l’ultimo rifugio per i più disperati: “Per la massa, le colonie
si trovavano in paesi avvolti nelle leggende, verso i quali solo lo spirito
d’avventura poteva spingere le persone coraggiose, a meno che non fossero molto povere o molto ingenue”.3
1
Si veda, ad esempio, William Burke, An Enquiry into the Policy of Making Conquest
for the Mahometans in India, by the British Arms; in answer to a pamphlet, intituled Considerations on the Conquest of Tanjore, London, 1779, pp. 122-23. William Burke (17301798), cugino del più celebre Edmund Burke, si impegnò in una campagna di moralizzazione della East India Company, nella lotta al cosiddetto nabobism – vale a dire l’imitazione dello stile di vita ricco, fastoso e dispendioso dei ‘nababbi’ – e contro la ‘orientalizzazione’ ed il lusso ostentato degli amministratori coloniali che, una volta rientrati in
Europa, potevano spendere e sperperare ingenti quantità di denaro grazie alle fortune acquisite in India.
2
Carlo Giglio, “Origine e sviluppo dei grandi Imperi coloniali sino al 1789”, in AAVV,
Nuove questioni di storia moderna, Milano: Marzorati, 1985, vol. I, p. 748.
3
Albert Duchêne, La politique coloniale de la France. Le Ministère des colonies depuis Richelieu, Paris: Payot, 1928, p. 90. Dove non altrimenti specificato, le traduzioni sono mie.
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Indofili e indofobi nel Secolo dei Lumi
L’opinione di Montesquieu relativamente all’utilità delle avventure coloniali è nota e non si discosta di molto da quella dei redattori dell’Encyclopédie. Agli occhi del celebre philosophe, quindi, per il commercio francese sono utili esclusivamente i comptoirs indiani e cinesi – i quali forniscono i prodotti esotici che la moda ha reso indispensabili – e, in America, le colonie di piantagione delle Antille che, inquadrate all’interno del
commercio triangolare, hanno fatto la fortuna dei porti atlantici francesi.
La colonizzazione dei principati indiani è, al contrario, del tutto improponibile, vuoi per la vastità dei territori e il gran numero dei sudditi – ai
quali viene riconosciuta una civilisation di pari dignità rispetto a quella
europea –, vuoi per il clima, a volte del tutto inadatto alle abitudini e alla
salute degli europei, secondo un classico topos settecentesco: “I principi
dunque non devono pensare a ripopolare grandi paesi con colonie. Non
dico che qualche volta non riescano; ci sono climi così felici che la specie
vi si moltiplica sempre […]. Ma quando pure queste colonie riuscissero,
invece che aumentare la potenza, non farebbero che dividerla, a meno
che non fossero assai poco estese, come quelle che si inviano ad occupare
qualche base per il commercio”.4
Nel caso di territori più ampi, il rischio è quello di imitare la fallimentare violenza che gli spagnoli impiegarono in America: “Gli spagnuoli, disperando di mantenersi fedeli le nazioni vinte, presero il partito di sterminarle
e di inviarvi popolazioni fedeli. Giammai disegno orribile fu più puntualmente eseguito […]: sembrò che scoprendo le Indie essi avessero solo pensato a scoprire agli uomini quale fosse l’estremo limite della crudeltà”.5
Nel De l’Esprit de lois Montesquieu si scaglia contro i presunti benefici
economici che si ricaverebbero dai traffici con le Indie e sottolinea chiaramente come tali traffici abbiano comportato, in ogni epoca, una situazione di bilancia commerciale passiva per i paesi europei che li praticavano,
costretti ad acquistare i prodotti locali mediante transazioni in metalli
preziosi. Montesquieu mette in luce l’inevitabilità di tale squilibrio:
“Quantunque il commercio sia soggetto a grandi rivoluzioni, può avvenire che determinate cause fisiche, la qualità del terreno o del clima, fissino
per sempre la sua natura. Noi facciamo oggi il commercio con le Indie
4
Montesquieu, Lettres persanes (1758), trad. it. di Giuseppina Alfieri Todaro-Faranda,
Lettere persiane, Milano: Rizzoli, 1984, p. 226.
5
Ibidem.
148 /
MASSIMILIANO VAGHI
soltanto per il denaro che vi inviamo. I Romani vi portavano tutti gli anni circa cinquanta milioni di sesterzi. Questo denaro, come il nostro oggi,
era convertito in merci che essi riportavano in Occidente. Tutti i popoli
che hanno commerciato con le Indie, vi hanno sempre portato dei metalli, e ne hanno portato indietro delle merci”.6
A causa dell’immutabilità dei costumi dei popoli indiani e dei loro bisogni totalmente diversi dai nostri – legati strettamente i primi alla religione, i secondi al clima – “[l]e Indie sono state, le indie saranno quello
che sono al presente: e in tutti i tempi, chi commercerà con le Indie vi
porterà del denaro, e non ne riporterà indietro”.7 Così, anche grazie alle
riflessioni di Montesquieu sul commercio, l’immagine di un’India statica,
immutabile ed eternamente uguale a se stessa entra a far parte del ‘bagaglio culturale’ dell’uomo di cultura europeo.
La posizione espressa da Voltaire è, al pari di quella di Montesquieu,
molto critica sulla pratica del commercio con le Indie, ritenuto responsabile – invero con poca originalità – di svuotare le casse dei governi europei con l’acquisto di prodotti di lusso, smodatamente costosi e utili solo a
soddisfare la vanità dei ricchi europei.8
Inoltre, la rapacità e le violenze dei mercanti al servizio delle compagnie mercantili sconvolgono un mondo tradizionalmente pacifico, così
ricco di risorse naturali da poter soddisfare tutta la società: “In questo clima non si è costretti a scuoiare i greggi per difendere i fanciulli dal rigore
delle stagioni: ancor oggi li lasciano crescere nudi fino alla pubertà. In
questo paese non fu mai necessario rischiare la vita per sostentarsi, assalendo gli animali per squartarli e cibarsene, come si è fatto altrove, quasi
dappertutto. In questo clima felice gli uomini si saranno spontaneamente
riuniti in società, non si saranno certo contesi un arido terreno per pasco6
Montesquieu, De l’Esprit de lois (1748), trad. it. di Beatrice Boffitto Serra, Lo spirito
delle leggi, 2 voll., Milano: Rizzoli, 1989, vol. II, p. 667.
7
Ivi, pp. 667-68.
8
Voltaire sottolinea anche come le ingenti quantità di metalli portati in India non servano ad aumentare il benessere della popolazione: “Sulle prime sembra difficile da risolvere il problema che l’oro e l’argento venuti dall’America in Europa vadano a finire continuamente nell’Indostan, per non uscirne più, e che tuttavia il popolo sia povero al punto
da lavorare in cambio di quasi niente; ma la ragione sta nel fatto che quel denaro non va
al popolo, va ai mercanti, che pagano immense tasse ai governatori”. Voltaire, Essai sur les
mœures et l’esprit des nations, et sur les principaux faits de l’histoire, depuis Charlemagne jusqu’à Louis XIII (1771), trad. it. di Marco Minerbi, Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni e sui principali fatti della storia da Carlomagno a Luigi XIII, 4 voll., Milano: Club del
Libro, 1966, vol. IV, p. 375.
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larvi greggi macilente, non si saranno certo mossi guerra per un pozzo,
per una fontana”.9
Sostenendo apertamente che “il fanatismo e le contraddizioni sono la
prerogativa della natura umana”,10 Voltaire sottolinea come in India convivano i più alti esempi di civiltà e cultura, con alcuni riti barbari come
quello del sati:11 “L’India, dedita al commercio e alle industrie in tutti i
tempi conosciuti, aveva necessariamente una grande polizia; e quel popolo, presso il quale Pitagora si era recato per istruirsi, doveva avere buone
leggi, senza le quali le arti non sono mai coltivate; ma gli uomini, con
leggi sagge, hanno sempre avuto usanze insensate. Quella per cui è punto
d’onore e di religione per le donne di bruciarsi sui corpi dei propri mariti
esiste in India da tempo immemorabile”.12
Nonostante l’orrore dei roghi, il Ginevrino resta convinto della dipendenza culturale dell’Europa dall’India, e arriverà a scrivere all’astronomo
Jean-Sylvain Bailly di essere certo che “tutto ci giunge dalle rive del Gange, astronomia, astrologia, metempsicosi”.13 Gli europei dovrebbero essere consapevoli che ogni scienza e sapere, dall’astronomia al gioco degli
scacchi, deriva dalla saggezza indiana: “I Greci prima di Pitagora compivano viaggi di istruzione in India. In quasi tutto il mondo i segni dei sette
pianeti e dei sette metalli sono sempre quelli inventati dagli indiani: da
loro gli Arabi dovettero trarre le cifre. Il giuoco che più onora lo spirito
umano ci viene indubbiamente dall’India; ne sono prova gli elefanti, che
noi abbiamo sostituito con le torri: era naturale che gli Indiani facessero
muovere gli elefanti, ma non lo è che le torri si muovano”.14
9
Ivi, vol. I, p. 77.
Ivi, vol. I, p. 79.
11
Le origini del fenomeno del sati e della sua propagazione nell’India induista sono oscure. Nei testi sacri della tradizione vedica non vi è traccia di alcun indizio che possa spiegare
le ragioni che per lunghissimo tempo spinsero – più o meno volontariamente – le vedove
sul rogo del marito. Questa usanza – contrariamente a quanto in genere si crede – non fu,
comunque, mai particolarmente diffusa nel subcontinente e coinvolse quasi esclusivamente
le vedove di alta casta delle regioni del Deccan occidentale. È possibile che la frequenza dei
sati sia aumentata, nelle aree più lontane dai centri di potere musulmani, fra il XV ed il XIX
secolo. In proposito si veda Catherine Weinberger-Thomas, “Cendres d’immortalité. La
cremation des veuves en Inde”, Archives de sciences sociales des religions, 67:1, 1989, p. 17.
Fra le opere più aggiornate sull’argomento, John Stratton Hawley (a cura di), Sati, the Blessing and the Curse: The Burning of Wives in India, Oxford: Oxford University Press, 1994.
12
Ivi, vol. I, p. 238.
13
Lettera di Voltaire a Jean-Sylvain Bailly (15 dicembre 1775), in Jean-Sylvain Bailly, Lettres sur l’origine des sciences et sur celle des peuples de l’Asie, Paris: Elmesly-Debure, 1777, p. 4.
14
Voltaire, Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni, cit., vol. I, p. 77.
10
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MASSIMILIANO VAGHI
Se Voltaire, assieme a molti altri intellettuali, dava per scontate la
bontà d’animo e la mitezza dei costumi indiani, tali caratteristiche non
erano comunque universalmente riconosciute.
Secondo il meno conosciuto De la Flotte, la violenza era l’unica forma
di governo possibile per un popolo estremamente indocile come quello
indiano: “Il governo di questi popoli è uno dei più arbitrari. I sovrani, soprattutto quelli che sono stranieri come i Mori, trattano i loro sudditi come schiavi. Tutte le terre appartengono al Principe e nessun vassallo possiede personalmente un feudo o un fondo che possa lasciare ai suoi figli.
La maniera con la quale si prelevano le imposte è il massimo del dispotismo […]. Gli ufficiali esigono [dai contadini] che donino al Principe un
terzo, o la metà, in più di quello che essi avevano promesso […]. Tuttavia, per severo che sia il governo indiano, è quello che più conviene, in
qualche modo, al carattere indocile e pigro di questi popoli”.15
Gli indiani – sostiene De la Flotte – sono molto più battaglieri e bellicosi di quanto generalmente si dica in Europa, soprattutto se si considerano le tribù dei maratha (Maratti): “La cavalleria indiana è composta, in
gran parte, da Maratti, nazione guerriera e feroce che abita nelle gole delle montagne che formano una catena a nord del Carnatico. Essi sono,
senza dubbio, i soldati più intrepidi dell’India. Essi sono spesso penetrati
fino alle porte di Delhi e hanno fatto tremare il Mogol”.16
Pericolosi in battaglia, gli indiani lo sono ancora di più quando corrompono il sangue degli europei stanziati in India. L’esempio dei portoghesi di
Goa è, per lui, emblematico: “I portoghesi, per una lunga serie di vizi, sono
giunti a sfigurare i loro discendenti e, fra tutte le famiglie che abitano ancora in questa città, ce ne sono poche che non portano il segno certo del meticciato dei loro padri con il sangue vile delle schiave. Da ciò questo sconvolgimento dei costumi nazionali, la debolezza dei capi, il rilassamento della disciplina, l’annullamento del commercio e la rovina pubblica, conseguenza inevitabile del lusso e della debolezza”.17 L’indiano, quindi, secondo
De la Flotte, non è solo diverso dall’europeo: egli è inferiore, allo stesso
tempo corrotto e corruttore. Un quadro non proprio da Secolo dei Lumi.
15
M. de la Flotte, Essais historiques sur l’Inde, précédés d’un journal de voyages et d’une description géographique de la côte de Coromandel, Paris: Hérissant le fils, 1774 (2ª ed.), pp.
251-52. Nell’affermazione circa la proprietà terriera si nota l’influenza dell’opera del celebre François Bernier (Lettre à Monsieur Colbert, 1665).
16
Ivi, pp. 261-62.
17
Ivi, pp. 125-26.
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/ 151
Se De la Flotte era inequivocabilmente un indofobo, fra i suoi connazionali colti la sua era – come già accennato – una posizione piuttosto minoritaria. Anche fra gli uomini di religione si possono trovare esempi significativi di ‘indomania’, per quanto differenti da quelli dei philosophes per
sensibilità e profondità di analisi; interessante è il caso dell’abate ClaudeMarie Guyon (1699-1771). Guyon sottolinea come le Indie siano una fonte di attrazione per i moderni come lo erano state per gli antichi, non solo
dal punto di vista culturale ma anche da quello naturalistico (e delle ricchezze naturali): “Le Indie non hanno perso per nulla fra i Moderni quella
stima che si aveva per esse presso gli Antichi. I curiosi non esitano a fare più
di seimila leghe per andare ad ammirare le meraviglie di questo paese: le
sue ricchezze fanno dimenticare ai nostri mercanti la noia, la fatica e i pericoli di una lunga e rischiosa navigazione; i Sapienti di tutta l’Europa cercavano con impegno i suoi animali e le sue piante […], le sue bellezze ornano
i palazzi dei Principi, esse decorano il diadema dei Sovrani”.18
La realtà indiana presentata da Guyon è molto ampia, variegata e complessa; egli riconosce che è impossibile penetrarla e descriverla nei dettagli.
L’India non è né statica, né immutabile; è, anzi, un caos di regni, culture e
religioni che si evolvono e si compenetrano: “Non si è potuto che notare,
nelle descrizioni storiche delle Indie, la varietà pressoché infinita di usanze e
costumi che vi regnano. I regni vi si sono moltiplicati senza limiti e, quando si passa dall’uno all’altro, si trovano leggi, pratiche, modi e usanze tutti
differenti. Tante e così grandi diversità non possono ricondursi a principi e
capi comuni […]. Non può che essere la stessa cosa per le Religioni che vi
si praticano. Nonostante la superstizione, l’ignoranza, le novità e il commercio vi hanno introdotto tutte quelle che si osservano nelle altre parti del
mondo […], vi è un caos che non è ancora stato sciolto in maniera completa […]: gli Indiani sono Idolatri, o Giudei, o Maomettani, o Cristiani, e
questi ultimi sono Cattolici o Nestoriani, o cosiddetti Riformati”.19
La nascita dell’Orientalismo francese: Duperron e Cœurdoux
Fra i primi a tentare di mettere ordine fra tante e così grandi diversità di
costumi, di religioni e di lingue, spiccano le figure dell’intellettuale ed av18
Claude-Marie Guyon, Histoire des Indes Orientales anciennes et modernes, 3 voll., Paris: veuve Pierres, 1744, vol. II, pp. 1-2.
19
Ivi, pp. 234-35.
152 /
MASSIMILIANO VAGHI
venturiero Abraham Hyacinthe Anquetil-Duperron (1731-1805) e del
padre gesuita Gaston-Laurent Cœurdoux (1691-1779). Gli interessi linguistici e filologici che stanno – per così dire – alla base della scienza
orientalistica moderna si possono trovare in nuce nei loro lavori e nelle loro riflessioni.
Anquetil-Duperron, più che dalle descrizioni naturalistiche, era incuriosito dalle religioni, dalle lingue e dalla tradizioni dell’India. Sul carattere e sulle usanze degli indiani, Duperron sottolinea come vi sia una grande diversificazione a seconda della casta o della popolazione considerata.
Gli indiani non sono tutti uguali e reputarli un’unica entità – un’unica
Nation, come si legge spesso negli scritti dell’epoca – è certamente un
grande errore: “Le singolari differenze dei costumi e del carattere degli Indiani si basano sulle diverse usanze che sono ammesse nelle loro Caste o
Sette; per abitudini, non vi è niente di più opposto che i Rajput e i Malabari. Tanto è vero che la dottrina influisce sul carattere dei popoli: i fondamenti della Religione sono gli stessi per le due diverse Sette, ma la forma di quella dei Rajput e il loro modo d’essere è del tutto opposto ai Malabari. La stessa differenza esiste in tutte le Caste”.20
Secondo Duperron, insomma, la presunta mitezza dei costumi indiani
– la loro indole pacifica – non è certo una caratteristica di tutti i popoli
del subcontinente: “Fra questi popoli così dolci, così particolarmente attaccati alle regole della bontà e dell’amore per l’umanità, ce ne sono altri
che, pur professando in parte gli stessi dogmi, in particolare quello della
metempsicosi, considerano un gioco la distruzione […]; sono degli animali così feroci che vivono insieme a quelli la cui mitezza li distingue da
tutti gli altri”.21
La ferocia degli indiani non è prerogativa solo della componente turcoafgana della popolazione, anzi, secondo Duperron, le famiglie indù dei
maratha si distinguono per una particolare crudeltà: “Essi sono crudeli in
guerra. Si sono visti Maratti portare nella provincia del Carnatico tutto ciò
che il furore può commettere di terribile per devastare un paese […]. Con
delle sedie di ferro, costoro infliggono una tortura barbara e mille volte
più dolorosa ancora di tutto ciò che si sia mai potuto immaginare”.22
Dal punto di vista della cultura e della ‘sapienza’, Duperron è convin20
Abraham Hyacinthe Anquetil-Duperron, Tableau historique de l’Inde, Bouillon: Société typographique, 1771, p. 172.
21
Ivi, p. 175.
22
Ivi, p. 176.
DALL’INDOMANIE ALL’INDE DES SAVANTS
/ 153
to che gli antichi bramani possedessero tutte quelle virtù che spingevano i
filosofi greci e di Roma a compiere lunghi viaggi di istruzione in India;23
in questo caso la sua posizione non è dissimile, come si è visto, da quella
di Voltare. Tuttavia, rispetto al Ginevrino ed alla sua ‘indomania’ un poco
di maniera, egli non può fare a meno di notare come i bramini dei suoi
giorni – la casta dei bramini – siano profondamente cambiati in peggio,
decaduti, rispetto al passato: “Questa casta è quella dei Bramini, che molto spesso vengono confusi con gli antichi Bramani, dei quali essa non ha
né la saggezza, né l’intelligenza. I Bramini, potendo insegnare alle altre
caste, abusano sempre del diritto, che essi stessi si sono arrogati, di essere
gli intermediari fra il popolo e Brama, in modo da far parlare a loro piacimento questo idolo bizzarro”.24
Quel che è peggio è che i bramini, approfittando della loro posizione
di assoluto prestigio presso gli indù, approvino violenze più terribili di
quelle perpetrate dai predoni maratha, sostenendo l’utilità spirituale di
una pratica violenta ed insensata come il sati per giustificare la loro cupidigia: “Se i Maratti sopraggiungono armati a devastare le provincie, essi
lasciano almeno la possibilità della fuga a chi non può difendersi. Ma i
Bramini fanno un male peggiore con più sottigliezza: sono costoro che si
sono inventati queste leggi crudeli che costringono una sfortunata vedova
di uno di loro a bruciarsi sulla pira dello sposo defunto. Se vedono qualche oggetto che stimola la loro naturale cupidigia, immediatamente un
supposto oracolo consente loro di impadronirsene”.25
Quello che accomuna tutti gli indù non sono, dunque, né il carattere,
né i costumi: la loro caratteristica comune, semmai, è di essere incapaci di
darsi uno stato pacifico e dai confini sicuri. Le loro divisioni e la loro litigiosità hanno finito per favorire la conquista da parte dei musulmani: “È
così che l’impero Mogol s’è accresciuto e che molti regni sono passati sotto il suo dominio”.26 Sono stati solo i Mogol, infine, grazie all’audacia ed
alla fortuna di Tamerlano, il ‘padre’ della loro dinastia, che per primi hanno garantito una certa unità politica all’India, portandovi come negativo
23
“L’Asia è una terra desolata che noi [europei] trascuriamo. Essa è, tuttavia, il luogo
dove il genere umano ha avuto la sua origine”. Lettera di Anquetil-Duperron al conte De
Caylus, Surat, 19 giugno 1759, citata in Antoine Sérieys (a cura di), Lettres inédites
d’Henri IV et de plusieurs personnages célèbres, Paris: H. Tardieu, an X (1802), p. 222.
24
Anquetil-Duperron, Tableau historique de l’Inde, cit., pp. 177-78.
25
Ivi, p. 178.
26
Ivi, p. 71.
154 /
MASSIMILIANO VAGHI
corollario “la religione di Maometto, il fanatismo e la schiavitù”,27 ma anche leggi certe e sicure “fra i re che governavano questa parte dell’Asia”.28
Come per Duperron, anche per Cœurdoux29 l’importanza della conoscenza diretta della realtà indiana era fondamentale. A tal proposito,
nella corrispondenza fra i due si trovano interessanti passaggi in cui il padre gesuita canzona gli autori europei che scrivono di India senza conoscerla, commettendo così errori banali e relazionando con imbarazzante
scorrettezza.
Un celebre autore inglese (del quale tace il nome, ma con ogni probabilità Robert Orme),30 scrive Cœurdoux a Duperron, non attribuisce le giuste virtù guerriere agli indiani, “facendo illudere il pubblico europeo rappresentando le truppe dei Mori in maniera differente da quello che sono,
come del tutto disprezzabili sia per il loro coraggio, sia per la loro tattica”.31
Parole ancora più dure, ma con ironia, per l’opera di un erudito abate,
corrispondente suo e di Duperron: “Per quanto riguarda le memorie del
vostro illustre accademico, quelle dell’abate Miguot sulle Indie hanno attirato per prime la mia curiosità. Quale profonda erudizione! È allora
permesso allo spirito umano contenerne così tanta? Di sommarla, e di
collocarla così a proposito? Ché, se questo sapiente abate avesse viaggiato
[…] nelle Indie, egli avrebbe evitato qualcuno degli errori inevitabili
quando si scrive su un paese lontano che conserva ancora le sue antiche
27
Ivi, p. 135.
Ivi, p. 136.
29
Di estremo interesse è la figura del gesuita Gaston-Laurent Cœurdoux, uno dei padri
fondatori dell’indianistica al pari di Anquetil-Duperron. A lui va il merito di aver intuito
per primo le analogie esistenti fra il sanscrito e le lingue europee, analogie che saranno la
base su cui verrà poi costruita la teoria sull’origine comune degli antichi abitanti dell’India e dell’Europa. Si veda, in proposito, la lettera ad Anquetil-Duperron del 10 febbraio
1771, conservata presso la Bibliothèque Nationale de France, manuscrits occidentaux
(BN), nouvelles acquisitions françaises (naf ), cart. 8871, f. 13 e seguenti.
30
Robert Orme, A History of the Military Transactions of the British Nation in Indostan,
from the Year MDCCXLV. To which is prefixed a dissertation on the establishments made by
Mahomedan conquerors in Indostan, 2 vol., London: John Nourse, 1763.
31
BN, naf, 8871, lettera di Cœurdoux a Duperron, Pondichéry, 10 febbraio 1771, f.
13. In altri suoi scritti, il padre gesuita non è molto lusinghiero sul valore delle truppe indiane come insieme. Tuttavia riconosce sempre il coraggio del singolo soldato: “Nonostante queste truppe siano naturalmente molto molli, ci sono tuttavia fra esse alcuni elementi di coraggio, soprattutto fra i Mogol più qualificati. Fuggire durante una battaglia,
anche quando si è più deboli, è per loro una cosa molto disonorevole: bisogna essere uccisi o fatti prigionieri”. Gaston-Laurent Cœurdoux, Mœurs et coutumes des Indiens (1777), a
cura di Sylvia Murr, Paris: Ecole française d’Extrême-Orient, 1987, p. 179.
28
DALL’INDOMANIE ALL’INDE DES SAVANTS
/ 155
superstizioni […]. Sarebbe da sperare che il signor abate Miguot, seguendo le tracce di un altro sapiente [si riferisce a Duperron, al quale è diretta
la lettera], venga a passare qualche anno nelle Indie. Quale piacere per
noi di avere qui un sapiente così profondo, e quali conoscenze acquisterebbe costui per perfezionare quelle che l’Europa ha sulle Indie”.32
Cœurdoux, con un notevole spirito d’osservazione, nota che l’attaccamento alla ritualità ed alle tradizioni che sembra contraddistinguere molti
indiani – i vincoli di usanze che paiono severe e immutabili, codificate da
antichi testi sacri – è sia sostanza, sia in parte apparenza; e le regole di
condotta che sembrano ferree vengono violate anche dagli stessi bramini:
“In verità a volte, fra i Bramini, c’è molta distanza dal dettato della regola
alla pratica, soprattutto quando non c’è nessuno che li osserva”.33 Agli
indù – continua il Gesuita – interessa distinguersi dai mogol, invasori e
musulmani, e dalla loro religione che li considera ingenui e superstiziosi:
“Da questo attaccamento dei Bramini alle loro usanze nasce in parte
l’avversione che essi hanno per la dominazione dei Mori, [i quali] si fanno beffe delle loro tradizioni e dei loro inutili riti”.34
Gli studi di indianistica di Cœurdoux denotano il tentativo di coniugare fede e ragione, dogmi cristiani ed esperienza: le considerazioni sulla
società del subcontinente sono una singolare fusione di elementi caratteristici della tradizionale visione cristiana con un approccio ‘laico’, di una
visione eurocentrica con una sincera indofilia.
In proposito sono significative le considerazione di Cœurdoux in proposito delle caste in cui è divisa la società indù. Esse hanno origine nella
tradizione religiosa dell’India (nei Libri del Paese, scrive), ma sono, in realtà,
una semplice suddivisione delle tribù dei Gentili a seconda delle professioni
svolte: “Il nome Casta non è un termine indiano, ma portoghese, tramite il
quale si identificano principalmente le differenti tribù nelle quali sono divisi i popoli indiani. La divisione più comune nei Libri del Paese è quella che
li divide in quattro tribù principali […]. Queste quattro Caste caratteristiche di tutta l’India si suddividono in altre più particolari”.35
32
BN, naf, 8871, lettera di Cœurdoux a Duperron, Pondichéry, 10 febbraio 1771, ff.
14-15. Cœurdoux non risparmia l’ironia nemmeno per un altro religioso che pretende di
aver scoperto i veri Veda: “D’altra parte padre Mosac, che ugualmente non ha studiato il
sanscrito, pretende di aver scoperto i veri Veda […]. Quale tesoro per voi se costui volesse
trasmetterveli!” (f. 16).
33
Gaston-Laurent Cœurdoux, Mœurs et coutumes des Indiens, cit., p. 67.
34
Ivi, p. 69.
35
Ivi, p. 5.
156 /
MASSIMILIANO VAGHI
Ogni lavoro è tipico di una particolare casta; comunque, in caso di
necessità, esso viene svolto anche da uomini di altre caste e la società indiana non è per nulla ‘ingessata’ come potrebbe apparire agli occhi di un
osservatore disattento: “I lavori sono una sorta di segno distintivo delle
Caste. I bramini sono generalmente adusi alle cose più spirituali […], il
compito dei raja è di fare la guerra. I vaichies si dedicano al commercio, il
lavoro dei campi è lasciato ai choutres: ma non è raro vedere un choutre
scrivano e un bramino manovale”.36
Il fatto che le professioni, generalmente, siano tramandate di padre in
figlio non è, per Cœurdoux, uno svantaggio né una limitazione, anzi permette di migliorare continuamente le arti degli indiani.37 Nel suo complesso, il sistema delle caste è efficiente e tutt’altro che disprezzabile, dato
che – fra l’altro – contribuisce a mantenere l’ordine sociale ed a tramandare i buoni costumi: “Qual è l’utilità, dirà qualcuno, di tutte queste distinzioni di Casta e di Tribù se non quella di ostacolare gli indiani e di
metterli in imbarazzo in mille occasioni? Si risponda di chiedere agli ufficiali dell’esercito quale sia l’utilità della suddivisione delle truppe in reggimenti, in battaglioni, in compagnie; di domandare perché i francesi sono
divisi in tre Stati, simili alle Caste […]; di domandare a Mosé, o piuttosto
a Dio stesso, perché divise gli Israeliti in Tribù, le tribù in Famiglie, le famiglie in Case? Tutto ciò perché più si stabiliscono elementi di distinzione in un paese, più vi è ordine e disciplina, [più] semplicità di governo e
[facilità] di conservarvi i buoni costumi. Ciò è effettivamente quello che
producono le Caste indiane”.38
Le caste, inoltre, contribuiscono a mantenere la nobiltà di sangue in
maniera molto più efficace delle patenti e dei titoli in uso in Europa: “Altro vantaggio delle Caste è la conservazione delle famiglie e della particolare nobiltà degli indiani, che consiste nel non mischiare il loro sangue
con il sangue straniero […]. Un Indiano di buona Casta può far risalire la
sua nobiltà, senza la minima titubanza e senza esibizione di nessun titolo,
fino a due o tremila anni, cosa che non è possibile fare nelle migliori e
più distinte famiglie d’Europa”.39
Tutti questi innegabili vantaggi, conclude Cœurdoux, testimoniano il
36
37
Ivi, p. 7.
“Si potrebbe ancora dimostrare che le Caste conservano le arti e le perfezionano”. Ivi,
p. 9.
38
39
Ivi, p. 8.
Ivi, p. 9.
DALL’INDOMANIE ALL’INDE DES SAVANTS
/ 157
successo del sistema castale e la sua millenaria permanenza nella civiltà
indiana, nonostante le molte dominazioni straniere che essa ha subito:
“Gli antichi legislatori degli indiani, nello stabilire le Caste, […] hanno
una gloria senza uguale nell’universo, e questa loro opera si è conservata
fino ad oggi malgrado il trascorrere del tempo e le rivoluzioni dei governi.
Queste hanno fatto passare gli Indiani sotto dominazioni straniere: i conquistatori avevano usanze molto differenti dalle loro e essi non hanno
portato che una lieve alterazione dei costumi indiani”.40 La calma piatta
sotto l’oceano in tempesta.
Cœurdoux si chiede anche da dove (o da chi) abbiano avuto origine
gli antichi indiani. Oltre a riportare la ben nota leggenda dell’origine delle quattro caste dal corpo di Brama – l’antico progenitore di tutti gli uomini, secondo le favole degli indiani – Cœurdoux rimarca la somiglianza
esistente fra il biblico Noé ed un eroe indiano a cui, secondo un’altra leggenda tamil, si deve il popolamento dell’India: “In aggiunta a questa origine favolosa delle Caste [quella che le identifica con le parti del corpo di
Brama], che è conosciuta da tutti gli Indiani, se ne trova un’altra, nei loro
Libri, che fa risalire l’origine fino al Diluvio, ché non è per nulla sconosciuto agli Indiani. Un grand’uomo fra essi, chiamato Manourou, si salvò
grazie a una nave, assieme ai famosi Sette Penitenti delle Indie. Dopo il
Diluvio, il nuovo restauratore del genere umano distribuì gli uomini […]
fra le diverse Caste. Bisogna sottolineare che questo nome, Manourou, è
composto: MA significa grande e Manourou non indica dunque il grandeNoé, in effetti il più grande fra gli uomini nell’ordine naturale e il più rispettabile dopo Adamo?”41
È interessante notare come Cœurdoux – il quale non abbandona mai il
riferimento biblico che prevede che tutti gli uomini discendano dai figli di
Noé – in qualche modo ‘anticipa’ la nota teoria dell’origine comune di europei ed indiani, ponendo al posto degli arya indoeuropei, tanto cari agli
indologi del Novecento, la discendenza di Japhet. Gli odierni bramini
(Brahmes) sarebbero dunque gli eredi degli antichi e sapienti abitanti dell’India, giunti nel subcontinente “nei primi tempi poco dopo il Diluvio”.42
40
Ivi, p. 10.
Ivi, pp. 14-15. Si tratta di una leggenda Tamil (la leggenda di Manu). I moderni studi di linguistica smentiscono l’interessante ipotesi di Cœurdoux: la ‘a’ di Manourou è breve e non può essere, quindi, la contrazione di maha (grande), che sarebbe invece lunga.
Anche la curatrice dell’opera di Cœurdoux, Sylvia Murr, propende per questa interpretazione (ivi, p. 15).
42
Ivi, p. 18.
41
158 /
MASSIMILIANO VAGHI
Questa è la vera origine degli indiani e le leggende più conosciute,
quelle note a tutti gli indù, non sono che favole: “Dopo aver descritto ciò
che dicono le favole indiane sull’origine dei bramini, dirò quello che, dopo numerose ricerche, mi è parso più probabile […] su questa origine e
sulla loro penetrazione nelle Indie […]. Io credo che essi siano i discendenti di Japhet, che sono penetrati nell’India dal nord attraverso il Caucaso; perché è in effetti là che bisogna cercare la loro origine non dubbia.
Tutti i loro Libri collocano colà gli antenati dei bramini […]. È dal nord
che essi si sono espansi nelle province meridionali. Ancora oggi, i bramini
nati nelle regioni settentrionali si considerano più nobili degli altri, essendo meno lontani dal luogo della loro antica origine”.43
Emerge in Cœurdoux la consapevolezza della difficoltà di ricostruire
la storia indiana basandosi sulle fonti del luogo. In risposta all’abbé
Barthelemy – il quale sosteneva che per conoscere la storia e la cultura indiane sarebbe stato sufficiente “raccogliere se possibile quello che può riguardare la storia delle Nazioni e dei Regni dell’India” e farlo tradurre dai
missionari –,44 lo studioso gesuita scrive: “Le Indie sono ancora oggi in
uno stato peggiore di quanto fosse la Grecia nei cosiddetti tempi favolosi.
La semplice verità della storia è troppo scialba per l’indiano. Combattimenti [dove] una sola freccia magica distrugge un’intera armata, Giganti
davanti ai quali quelli che accatastarono Pelion su Ossa non sarebbero
che dei pigmei, ecco cosa piace loro e cosa li incanta. In trentuno anni di
soggiorno nelle Indie, non ho avuto notizia di nessuna storia di questo
paese. I Mogol ne hanno una, in persiano, sulla conquista dell’India settentrionale compiuta sette o ottocento anni fa [sic] dalla loro Nazione.
Un Missionario (il padre De Montjustin) aveva iniziato a tradurla in
francese liberandola dal diluvio di favole dalla quale era inondata. Le
morti, i tradimenti, gli orrori di tutti i generi di cui essa è piena, gli sono
sembrati un quadro tanto spaventoso che non ha creduto di dover presentare agli occhi del pubblico verità tanto orribili: egli ha [dunque] abbandonato il suo lavoro”.45
Proprio perché l’origine degli europei e degli indiani, a dispetto di ciò
43
Ivi, p. 18.
BN, naf, 8871, “Réponse au Mémoire de M. l’Abbé Barthelemy” [Pondichéry],
1763, f. 46v.
45
Ivi., ff. 46v-47r. Si noti il riferimento ai giganti Aloidi della mitologia greca, i quali
misero uno sopra l’altro i monti Pelion e Ossa per raggiungere il cielo e combattere contro
gli dei.
44
DALL’INDOMANIE ALL’INDE DES SAVANTS
/ 159
che sostengono le favolose storie di questi ultimi, è comune ai due popoli, Cœurdoux – a differenza di Voltaire – non può pensare che l’India sia
la culla della civiltà. Critica, anzi, la superstizione e la diffusa ignoranza
degli indiani dei suoi giorni, che si sono corrotti rispetto ai loro antenati,
più ancora che la loro idolatria: “Un paese dove l’ignoranza, la ciarlataneria [e] la superstizione regnano indisturbate non può essere carente di
persone che fanno delle Scienze occulte il loro lavoro […]. E questi sono
soprattutto coloro che si credono in possesso dei diversi Mantram atti a
guarire le malattie e a procurarle, ad invocare il Diavolo ed a scacciarlo, a
scoprire i furti, le cose lontane o future”.46
Cœurdoux, come molti altri prima di lui, non manca di parlare dell’istituzione del matrimonio, della condizione della donna, delle vedove e
del sati, sempre con arguzia e senza risentire troppo dell’influenza della
letteratura che l’ha preceduto. Si percepisce, nelle sue parole, la sua conoscenza ‘di prima mano’ delle cose indiane: “L’affare più grande ed importante per gli Indiani è quello del matrimonio; è quello per il quale si parla
di più e per il quale ci si prepara per più tempo. Un uomo non sposato è
un uomo senza stato e al quale manca qualcosa per essere un uomo nella
sua nazione. Un bramino che diventa vedovo è reputato quasi decaduto
dal suo ordine. Non si trova nulla di più urgente che farlo risposare. Si
pensa tutto il contrario per le vedove […]: il solo nome di vedova è un
insulto. Ma una vedova che si risposasse sarebbe cento volte più odiosa e
non potrebbe mettere piede dalle persone della sua Casta”.47
In fin dei conti, per la donna, anche il matrimonio spesso non è piacevole: sottoposta agli ordini del marito e vessata dalla suocera, “la pace e
l’amicizia sono rare nei ménages indiani”.48 Tuttavia un fiero attaccamento
alle tradizioni porta le donne ad accettare questa condizione di grande subordinazione: “Un marito considera sua moglie come la sua serva e non
come la sua compagna [e] non le parla mai in modo famigliare. Le donne
sono così abituate a ciò che disapproverebbero un comportamento opposto dei loro mariti e lo disprezzerebbero. Io ne vidi una molto alterata nei
confronti del suo, che voleva intrattenere qualche volta un rapporto di
amicizia con lei: Si sono mai viste simili maniere fra noi? – disse lei – [Mio
marito] è forse diventato un Frangui e mi considera come una europea?”.49
46
Gaston-Laurent Cœurdoux, Mœurs et coutumes des Indiens, cit., p. 27.
Ivi, p. 51.
48
Ivi, p. 56.
49
Ivi, p. 88.
47
160 /
MASSIMILIANO VAGHI
Cœurdoux non si dilunga troppo sul sati, considerato come una pratica in forte declino, soprattutto fra le brahmadi, le donne della prima casta: “Non parlerò qui di questa antica e funesta pratica che obbliga le
donne a morire volontariamente con i loro mariti. Essa è abolita fra la
Casta dei bramini delle penisola dell’India [il Deccan] e non so se si permette oggi, come un tempo, a una Brahmadi di accompagnare il suo sposo al rogo. Tuttavia, una lo fece nel 1773 a Naour, città sulla costa del
Coromandel, ma costei e suo marito erano stranieri e della regione del
Gujarat, dove apparentemente questa barbara usanza sopravvive ancora.
La cosa è divenuta molto rare in tutte le Caste”.50
E sull’origine della funesta pratica non ha ipotesi; si limita a formulare
una considerazione di assoluto buon senso: “Riguardo a ciò che scrivono
alcuni autori – che questa pratica fu introdotta per impedire alle donne,
scontente dei loro mariti, di liberarsene procurando segretamente loro la
morte –, io oso assicurare che né dalla lettura dei Libri, né dagli scambi
con gli Indiani, mai ho avuto notizia di quello che questi autori hanno
ipotizzato. Tutto mi porta [invece] a credere il contrario: dopo tutto, è
preferibile per una donna indiana restare con un pessimo marito, piuttosto di diventare vedova senza speranza di trovare una sorte migliore in un
nuovo matrimonio”.51
La descrizione del sati fra pittoresco ed erudizione
Nella seconda metà del Settecento, dunque, nonostante critiche e dubbi,
fra gli uomini di cultura francesi, non era inconsueto un atteggiamento
di ‘indofilia’. Come Voltaire, erano in molti a sottolineare il carattere mite e la dolcezza dei costumi degli indiani, nonché il ruolo fondamentale
dell’India come culla dei saperi.
Se, ad esempio, per l’astronomo Le Gentil de La Galaisière – di passaggio a Pondichéry nel 1769 – l’India è un paese ricco di bellezze naturali ed artistiche, e abitato da un popolo “così dolce e così tranquillo”,52 il
50
Ivi, p. 91.
Ivi, pp. 91-92.
52
Le Gentil de La Galaisière, Voyage dans les mers de l’Inde fait par ordre du Roi à
l’occasion du passage de Vénus sur le disque du soleil (2 voll., 1779-1781), citato in Guy Deleury, Les Indes florissantes, anthologie des voyageurs français (1750-1820), Paris: Laffont,
1991, p. 201.
51
DALL’INDOMANIE ALL’INDE DES SAVANTS
/ 161
naturalista Pierre Sonnerat preferisce evidenziarne il glorioso passato culturale: “Si trovano fra gli Indiani le vestigia dell’Antichità più remota
[…].È risaputo che tutti i popoli vennero qui per apprendere le basi delle
loro conoscenze e che Pitagora lasciò la Grecia per studiare sotto i Bramini, considerati allora come i più illuminati fra gli uomini […]. L’India nel
suo splendore donò religioni e leggi a tutti gli altri popoli; l’Egitto e la
Grecia le debbono allo stesso tempo i loro miti e la loro saggezza”.53
Tuttavia almeno una ‘barbara usanza’ del subcontinente ricorre costantemente nella letteratura settecentesca sull’India: quella del sati. Lungo
tutto il XVIII secolo – come si è visto –, i commenti a riguardo sono numerosissimi e spaziano dalla condanna dei tirannici costumi indiani, come fece nel 1771 Anquetil-Duperron,54 all’orrore – per usare le parole del conte
di Modave – che ogni buon europeo prova alla vista di tale sacrificio, un
orrore tanto grande che non può essere cancellato dalla memoria.55
Nel secolo seguente, il topos orientalistico del sacrificio delle vedove
entra a far parte anche dell’immaginario ‘popolare’ francese, in virtù dei
numerosi compendi di storia delle religioni che cominciavano ad essere
disponibili per un pubblico istruito ma non di élite, come sino ad allora
era stato.
Nel 1816 viene riedita, dall’editore paigino A. Belin, la monumentale
Histoire des religions et des mœurs de tous les peuples du monde di Jean-Frédé53
Pierre Sonnerat, Voyage aux Indes Orientales et à la Chine (1782), citato in Guy Deleury, op. cit., pp. 16-17.
54
Abraham-Hyacinthe Anquetil-Duperron, Zend-Avesta, ristampa anastatica dell’edizione del 1771, New York: Garland, 1984, vol. I, p. 229.
55
Louis Laurent de Féderbe, Comte de Modave, Voyage en Inde du Comte de Modave
(1773-1776). Nouveaux mémoires sur l’état actuel du Bengale et de l’Indoustan, a cura di
Jean Deloche, Paris: Ecole Française d’Extrême-Orient, 1971, p. 174. Pur essendo generalmente caratterizzate da una sincero sdegno, nel panorama delle descrizioni settecentesche del sati non mancarono certo immagini ironiche ed argute: “Una donna che aveva
perduto il marito si recò in pompa magna dal governatore della città per domandargli il
permesso di salire sul rogo; ma siccome nei paesi soggetti ai maomettani si abolisce per
quanto è possibile questa crudele usanza, quegli glielo rifiutò assolutamente. Quando ella
vide impotenti le sue preghiere si abbandonò a una collera furiosa. – Ecco, – diceva, – come siamo oppressi! Non potrà una povera donna neppure bruciarsi quando lo desidera? Si
è mai visto niente di simile?” (Montesquieu, Lettere persiane, cit., p. 231). Paradossalmente, ironizza Montesquieu, sarà proprio un bramino che farà cambiare idea alla vedova, dopo averle annunciato che nell’altra vita potrà rivedere il marito defunto: “Che dite –
esclamò sorpresa la donna. – Ritroverò mio marito? Ah! Non mi voglio bruciare. Era geloso, bisbetico, e inoltre così vecchio che se il dio Brama non ha operato su di lui qualche
riforma, certamente non ha bisogno di me” (ivi, pp. 231-32).
162 /
MASSIMILIANO VAGHI
ric Bernard (1683?-1744). In quest’opera ‘universale’ sulla storia delle religioni ampio spazio viene dedicato ai culti dell’India ed al fenomeno del sati – termine, peraltro, mai utilizzato nel testo. Si racconta che, da tempo
immemorabile, le vedove indù hanno la triste consuetudine di gettarsi nel
rogo del marito defunto o di farsi seppellire con lui. L’origine del fenomeno deriverebbe dall’imitazione del comportamento tenuto dalle mogli del
dio Brama che si sarebbero volontariamente date la morte per il dolore
causato dalla perdita del marito: le vedove, dunque, “vollero beneficiare
dello stesso privilegio e l’entusiasmo si diffuse sino alle caste più basse”.56 I
bramini, successivamente, approvarono il costume del sacrificio, sostenendone le virtù purificatrici e valorizzandolo come uno dei metodi per liberasi dalla schiavitù del ciclo delle rinascite: “Si conviene, aggiunge la legge,
che una donna che agisca in questa maniera, accompagni il suo sposo in
paradiso, dove dimoreranno insieme per l’eternità”.57
L’opera non concede molto spazio alla descrizioni del rituale del sati e
sembra concentrarsi sul tentativo di spiegare l’origine della pratica sacrificale e sul negativo influsso esercitato dai perfidi bramini. Tuttavia i disegni che la completano, ad opera dell’incisore Bernard Picard, sono particolarmente duri ed espliciti, e rendono bene l’idea di estrema violenza e
brutalità che si voleva trasmettere.
Sulau de Lirey, nel 1843, si muove sulla stessa linea e – anche in questo caso senza mai utilizzare la parola sati – si scaglia contro l’orribile
usanza degli indiani di sacrificare le vedove. L’accusa principale è rivolta
ancora ai bramini, colpevoli – ai suoi occhi – di influenzare e di spingere
al fanatismo povere donne ignoranti, sia con una violenta pressione psicologica, sia con l’aiuto delle droghe: “Le vittime erano rese fanatiche da
costoro [si riferisce ai bramini], che le stordivano con l’oppio prima del
sacrificio […]. Quella che avrebbe voluto sottrarsi, si sarebbe votata al disonore e alla miseria; sarebbe stata scacciata dalla sua casta e sarebbe diventa una infame. La scelta era dunque difficile e la maggioranza [delle
vedove] cedeva alle ossessioni dei bramini”.58
Anche per François Clavel l’influenza nefasta degli avidi bramini sulle
menti facilmente influenzabili delle vedove indù è la principale spiegazio56
Jean-Frédéric Bernard, Histoire des religions et des mœurs de tous les peuples du monde,
6 voll., Paris: A. Belin, 1816-1819, vol. I, p. 61.
57
Ivi, p. 72.
58
M. Sulau de Lirey, Histoire des différentes religions depuis leur origine jusqu’à nos jours,
Paris: impr. Belin-Mandar, 1843, p. 42.
DALL’INDOMANIE ALL’INDE DES SAVANTS
/ 163
ne della diffusione del sati (‘sutti’, come egli scrive): “L’impegno che i
bramini mettono per raggiungere lo scopo finale dei suttis, si spiega con
la ragione che la parte maggiore e più preziosa degli oggetti e dei gioielli
che rivestono le vittime spetta loro di diritto quando esse muoiono”.59 E
le mogli dei bramini non mancano di aiutare i loro mariti, occupandosi
del lavoro meramente manuale: una delle loro principali occupazioni, infatti, “è di ammassare lo sterco di vacca che, ridotto in polvere, servirà a
coprirle [le vedove] sulla pira dove verranno bruciate”.60
Clavel – che non manca, con poca originalità, di condannare l’orribile
sacrificio delle povere donne indiane – si rifà ad un racconto anonimo
per dimostrare l’incredibile violenza di un rito per lui tanto barbaro. Ad
un sati a cui assistettero – scrive – anche alcuni soldati britannici, la vedova, appena gettata nelle fiamme dai bramini che la circondavano, tentò di
uscire dal rogo per provare a salvarsi. I bramini, quindi, le scagliarono addosso una catasta di legna per impedirle la fuga, ma la poveretta riuscì comunque a scappare dalla fossa dove si trovava e corse in direzione delle
poche truppe britanniche, che assistevano attonite alla scena. I soldati
tentarono di aiutare la vedova, ma furono costretti ad arretrare perché assaliti da una folla inferocita che la catturò, strappandola ai suoi pochi difensori, e la gettò nuovamente nel rogo. Ma l’orrore non era ancora terminato: la donna terrorizzata, con i vestiti parzialmente in fiamme e ferita dalle percosse ricevute dai malvagi bramini, riuscì a scappare nuovamente e si tuffò nel Gange che scorreva a poca distanza. Nel fiume, raggiunta dai suoi carnefici, fu tenuta con la testa sott’acqua nel tentativo di
farla affogare: solo l’arrivo di un contingente di rinforzi britannici impedì
che si perpetrasse l’orrendo delitto e la donna fu portata in salvo fra le urla e le maledizioni lanciate dalla folla. La sfortunata vedova, conclude
Clavel, morì il giorno seguente a causa delle orrende ferite riportate.61
Generalmente le opere divulgative francesi della seconda metà dell’Ottocento – rispetto a quelle della prima metà – non si soffermano a
lungo sul sati, passando quasi sotto silenzio gli aspetti più crudi della pratica devozionale che maggiormente ha colpito l’immaginazione degli occidentali a partire dagli albori della loro presenza in India.
59
François-Timoléon Bègue Clavel, Histoire pittoresque des religions, doctrines, cérémonies et coutumes religieuses de tous les peuples du monde anciens et modernes, 2 vol., Paris: Pagnerre, 1844-1845, vol. I, p. 197.
60
Ivi, p. 146.
61
Ivi, p. 196.
164 /
MASSIMILIANO VAGHI
In effetti, già nell’opera curata da Jean-Alexandre Buchon, apparsa
nello stesso anno dell’ultimo tomo di quella di Clavel, la descrizione del
rito si limitava esclusivamente a qualche breve cenno, accompagnato dalla precisazione di come esso sia oramai circoscritto ad alcune specifiche
aree del subcontinente (il Malabar) e che, fortunatamente, “ai nostri giorni, è un po’ diminuito”.62 Sullo stesso piano, una trentina di anni dopo, le
considerazioni formulate dall’orientalista Julien Vinson, il quale precisa
che i sacrifici delle vedove sono “oggi impietosamente banditi e tuttavia
ancora compiuti qualche volta”.63
Si potrebbe spiegare questo calo di attenzione e di interesse sulla pratica del sati – in maniera semplicistica – come conseguenza della sua progressiva scomparsa, dovuta alla legislazione che impedì definitivamente
tali sacrifici a partire dal 1809-1829 (quando venne messo fuori legge
prima nella regione di Delhi e poi in tutta l’India).
Un siffatto ragionamento, tuttavia, non appare del tutto convincente,
da un lato perché alcune delle opere della prima metà del secolo vennero
comunque pubblicate dopo l’abolizione definitiva del sati (si pensi, ad
esempio, alle Storie di Clavel e di Sulau de Lirey), dall’altro perché anche
dopo tale abolizione il fenomeno non cessò immediatamente, né si ridusse in maniera significativa per ancora molti anni.64
Per meglio comprendere l’improvviso disinteresse in cui cadde il ‘fenomeno sati’ è meglio volgere l’attenzione sia in direzione delle fonti documentarie utilizzate dagli autori nella prima e nella seconda metà del secolo XIX, sia alle trasformazioni di ordine metodologico dovute alla progressiva comparsa di studi scientifici sulla civiltà e sulle culture dell’India.
Nel corso dell’Ottocento le fonti a disposizione degli studiosi cambia62
Jean-Alexandre Buchon (a cura di), Histoire universelle des religions, 5 voll., Paris: Administration de Librairie, 1845, vol. I, p. 288. Il volume dedicato alle religioni indiane è
opera di Eugène Pelletan (1813-1884) – giornalista e uomo politico – e di Alfred Maury
(1817-1892), membro dell’Académie des inscriptions et belles lettres, professore di storia
morale al Collège de France (dal 1862) e direttore generale degli Archives de France
(1868-1888).
63
Julien Vinson, Les Religions actuelles, leurs doctrines, leur évolution, leur histoire, Paris:
Delahaye-Lecrosnier, 1888, p. 83.
64
Alcuni autori ipotizzano addirittura un intensificarsi del fenomeno – anche in regioni
fortemente e da lungo tempo islamizzate – poco prima della sua messa al bando totale. Si
veda, ad esempio: Catherine Weinberger-Thomas, op. cit., p. 14 (“Per la sola Presidency
del Bengala 8134 cremazioni di vedove fra il 1815 e il 1828. È lecito supporre che la cifra
ufficiale sia molto inferiore alla realtà, date le difficoltà incontrate allora sul luogo dagli
intervistatori”).
DALL’INDOMANIE ALL’INDE DES SAVANTS
/ 165
rono in maniera significativa: se durante i primi decenni essi utilizzavano
in maniera pressoché esclusiva le relazioni, i diari e le memorie di quanti
viaggiarono nel subcontinente sin dal XVII secolo, a partire dagli anni
Quaranta si cominciò ad avere a disposizione – per descrivere la religiosità
indù – numerose traduzioni delle opere filosofiche e religiose della tradizione vedica, curate da un congruo numero di eruditi sanscritisti.65 In generale, dunque, cambiando le fonti da cui si attingeva, inevitabilmente
cambiarono anche le immagini e le descrizioni dell’induismo, ridotto ora
alle sue manifestazioni più primitive (legate, cioè, all’epoca vedica, al cosiddetto ‘brâhmanisme’); e poco spazio venne concesso all’analisi della religione induista moderna ed ai suoi legami culturali con la società indù
del tempo, della quale i roghi del sati erano una triste espressione.
Il consistente sviluppo dell’indianistica e dello studio del sanscrito
nella Francia del XIX secolo non è un fenomeno estraneo al suddetto
cambiamento delle fonti privilegiate utilizzate dagli autori delle varie
‘storie delle religioni’. La creazione della prima cattedra di sanscrito in
Europa (Collège de France, 1815), la fondazione della Société Asiatique
(Parigi, 1821) e l’interesse dimostrato dall’Ecole Pratique des Hautes Etudes, tramite la sua sezione “Sciences Historiques et Philologiques” (nata
nel 1868), contribuirono in maniera significativa al mutamento di prospettiva, cioè all’utilizzo dei testi sacri della tradizione vedica come principale fonte di informazione. Gli eruditi e gli specialisti formatesi presso
queste nuove istituzioni, insomma, contribuirono significativamente ad
imporre una certa egemonia culturale ed intellettuale, ponendosi come
punto di riferimento per gli autori che desideravano occuparsi di alta divulgazione: come ha scritto Roger-Pol Droit, all’indomanie si sostituisce
l’Inde des savants.66
Le opere divulgative di storia delle religioni pubblicate nella seconda
metà del XIX secolo risentono, dunque, di questo cambiamento di prospettiva metodologica: in altri termini si passa da una storia aneddotica
ad una ‘positiva’ ed i divulgatori abbandonano le fonti che si basano sul
racconto, sul ‘sentito dire’ (come le relazioni ed i diari di viaggio), per
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Si pensi, per citare solo alcune opere significative pubblicate in Francia, a Eugène
Burnouf, Bhâgavata-Purâna ou Histoire poétique de Krishna, 5 vol., Paris: Collection
Orientale, 1840-1898; Hippolyte Fauche, Ramayana, 9 vol., Paris: A. Frank, 1854-1858;
Hippolyte Fauche, Œuvres completès de Kalidasa, 2 vol., Paris: A. Durand, 1859-1860;
Hippolyte Fauche, Mahabharata, 10 vol., Paris: B. Duprat, 1863-1870.
66
Roger-Pol Droit, L’Oubli de l’Inde. Une amnésie philosophique, Paris: PUF, 1989, p. 139.
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MASSIMILIANO VAGHI
concentrarsi sulle opere filosofiche e religiose classiche messe da poco a
disposizione dalla nuova generazione di sanscritisti.
Se le descrizioni pittoresche e cruente del sati scompaiono non è certamente, quindi, per gli effetti della definitiva messa al bando della crudele
pratica nel 1829 ma, semmai, per il risultato scaturito dal cambio di fonti
utilizzate dagli scrittori, fonti che li indurranno a considerare la narrazione del sacrificio delle vedove come uno scabroso fenomeno di costume,
lontano dal vero induismo ‘classico’ da poco riscoperto dagli studiosi dei
nuovi organismi scientifici europei.