1. I diversi significati di causa

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1. I diversi significati di causa
IV. ALLA RICERCA DELLE CAUSE
Riteniamo di conoscere qualcosa quando ne conosciamo la causa.
(Aristotele Analitici Posteriori II, 11 94a 35seg.)
1. I diversi significati di causa
Quando cerchiamo di controllare l’ambiente nel quale viviamo necessitiamo di una qualche
conoscenza di connessioni causali. Così come nel sillogismo ricaviamo una conclusione dalle
premesse, allo stesso modo, attraverso l’analogia e l’induzione, cerchiamo di prevedere, con
una certa approssimazione, le conseguenze di un evento o di un nostro atto. Se il medico
conosce le cause delle malattie avrà maggiori probabilità di curarle, purché conosca anche
quali sono gli effetti (si spera, anche quelli collaterali) delle medicine che prescrive. È quindi
ovvio che la relazione causa-effetto è della massima importanza, tuttavia la sua comprensione
è complicata dal fatto che la parola ‘causa’ ha diversi significati.
In certe situazioni pratiche la causa va individuata all’interno di una serie o catena causale di
diversi eventi, in cui A causa B, B causa C, C causa D, D causa E, sicché possiamo
considerare E come l’effetto di uno qualsiasi o di tutti gli eventi precedenti. L’evento più
vicino (D) può essere considerato la ‘causa prossima’ di E, tutti gli altri le ‘cause (più o
meno) remote’. Cause vicine nel tempo possono perciò essere considerate remote in
considerazione del numero di passaggi.
•
Gli eventi cominciarono una mattina di giugno di due anni fa, dopo una gelata notturna in
Brasile, quando un funzionario governativo annunciò una sostanziale riduzione della
prevista produzione di caffè. La notizia istantaneamente volò alla Borsa delle merci di
Chicago, dove il prezzo dei contratti per consegna a termine del caffè prese
immediatamente a salire. I venditori di soia e altri prodotti incominciarono a far salire i
loro prezzi, causando un aumento dell’indice generale dei prezzi delle merci. La notizia fu
notata sugli schermi dei computer di circa duecento società specializzate di Wall Street,
che comunicarono questo fremito di inflazione ai loro colleghi della borsa dei titoli, che
diedero inizio a una svendita delle loro obbligazioni, il che causò un crollo dei prezzi delle
obbligazioni stesse e un aumento dell’offerta, con conseguente pressione sui tassi di
interesse e una caduta dei prezzi dei titoli. Tempo trascorso dall’annuncio in Brasile e il
panico a Wall Street: meno di dieci minuti (testo tratto da Copi & Cohen 1999).
Se è vero che gli eventi non si limitano ad accadere, allora possiamo sostenere che si
presentano solo se sono date certe condizioni. In fondo è questa la premessa implicita di ogni
inferenza mirante a ricercare le cause degli eventi. Chiameremo allora ‘condizioni’ le cause
degli eventi. A questo punto occorre però distinguere tra condizioni necessarie e condizioni
sufficienti per l’accadere di un evento.
(1) La parola ‘causa’ può essere usata nel senso di condizione necessaria. Questo avviene
quando il problema consiste nell’eliminare qualcosa di non desiderabile: per eliminarlo basta
trovare una condizione necessaria per la sua esistenza e quindi eliminarla.
CONDIZIONE NECESSARIA PER L’ACCADERE DI UN EVENTO SPECIFICO È
UNA CIRCOSTANZA IN ASSENZA DELLA QUALE L’EVENTO NON PUÒ
ACCADERE.
• Per poter curare una malattia infettiva, il medico cercherà di scoprire quale tipo di virus
o batterio sia la causa della malattia, In seguito, prescriverà una medicina che distrugga o
renda innocui i virus o i batteri suddetti. Essi rappresentano la condizione necessaria della
malattia che, in loro assenza, non può svilupparsi.
•
Perché avvenga la combustione è necessaria la presenza dell’ossigeno: se c’è
combustione, allora deve esserci ossigeno, visto che in sua assenza non può esserci
combustione. Esso è allora la condizione necessaria. La presenza di ossigeno, non è però
una condizione sufficiente per la combustione.
(2) A volte la parola ‘causa’ è usata nel senso di condizione sufficiente quando non ci
interessa eliminare qualcosa di non desiderabile quanto piuttosto produrre qualcosa di
desiderabile. È ovvio che possono esserci diverse condizioni necessarie per l’accadere di un
evento, e tutte devono essere incluse nella condizione sufficiente.
CONDIZIONE SUFFICIENTE PER L’ACCADERE DI UN EVENTO È UNA
CIRCOSTANZA IN PRESENZA DELLA QUALE L’EVENTO NON PUÒ NON
ACCADERE (DEVE ACCADERE).
• Un fonditore che cerca di scoprire la causa della resistenza delle leghe per creare
metalli più resistenti individuerà nel processo di miscelamento, riscaldamento e
raffreddamento la causa della maggiore resistenza nel senso di condizione sufficiente
(basta questo processo per creare leghe resistenti).
• L’ossigeno può essere presente senza che vi sia combustione, anche se in sua assenza è
impossibile che essa avvenga. Ma per quasi ogni sostanza c’è una temperatura tale che il
trovarsi a quella temperatura in presenza di ossigeno è una condizione sufficiente per la
combustione di quella sostanza.
Lo stesso tipo di ragionamento può essere utilizzato anche nel campo della giurisprudenza,
come nell’esempio seguente.
• Un giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti ha sostenuto che quando
finanziamenti statali sono usati per sovvenzionare istituzioni religiose devono rispettare
due condizioni: il finanziamento deve essere: paritario (distribuito con criteri neutrali che
non privilegino alcuna religione) e indiretto, poiché la costituzione vieta la sovvenzione
diretta di istituzioni religiose da parte del governo. [...] Un’università statale aveva
rifiutato di pagare le spese di stampa di un’organizzazione studentesca religiosa, infatti la
sovvenzione, anche se su base paritaria, sarebbe stata diretta. Secondo i criteri adottati dal
giudice della Corte essa sarebbe stata inammissibile, in quanto, delle due condizioni
necessarie, una sola era rispettata, ma da sola non sarebbe stata sufficiente (esempio tratto
da Copi & Cohen 1999).
2. Condizioni e inferenza
Abbiamo detto che (1) una condizione si dice necessaria se venendo meno quella condizione
un evento non ha luogo. Inoltre (2) abbiamo chiarito che è condizione sufficiente quella che,
se si manifesta, determina necessariamente il verificarsi di un determinato evento.
Così, affinché ci sia combustione, occorre ossigeno, mentre in sua assenza non vi è alcuna
combustione, ma da sola la presenza dell’ossigeno non basta a provocarla. È solo in presenza
di ossigeno e allo stesso tempo di una temperatura adeguata che una sostanza non può non
bruciare. Se torniamo alle malattie infettive, inoltre, sappiamo che queste potrebbero essere
causate da un’infezione virale o dalla presenza di batteri. Questo ci porta ad alcune
considerazioni:
•
In presenza della condizione necessaria l’evento può realizzarsi ma può
anche non realizzarsi (la seconda possibilità si avrebbe qualora fossero
necessarie altre condizioni), mentre in sua assenza sicuramente non si realizza;
•
al contrario, in presenza della condizione sufficiente (composta
eventualmente da molteplici condizioni necessarie) l’evento si verifica
sicuramente, mentre in sua assenza può darsi che si realizzi lo stesso, purché
essa non sia l’unica ed esclusiva possibilità di realizzazione di un determinato
effetto.
Perciò è possibile che siano soddisfatte le condizioni necessarie per il verificarsi di un evento
ma che l’evento non si realizzi; non è invece possibile che siano soddisfatte le condizioni
sufficienti e che l’evento non si realizzi (in questo caso, cioè quando sono soddisfatte le
condizioni sufficienti, allora sono soddisfatte anche le condizioni necessarie).
Riflettiamo ora sulle implicazioni di quanto detto per quanto concerne l’individuazione delle
cause e la determinazione degli effetti (cfr. Copi & Cohen 1999: 490; Boniolo & Vidali 2002:
79-81): 1. possiamo inferire legittimamente la causa dall’effetto solo nel senso di ‘condizione
necessaria’ ma (poiché la condizione necessaria per l’accadere di un evento specifico è una
circostanza in assenza della quale l’evento non può accadere) tale inferenza sarà necessaria se
negativa (ovvero escluderà il darsi della causa in assenza dell’effetto) e possibile se
affermativa (ovvero sarà solo possibile la presenza della causa in presenza dell’effetto, in
quanto potrebbero esserci altre cause); possiamo invece legittimamente inferire l’effetto dalla
causa solo nel senso di ‘condizione sufficiente’, mentre in presenza di un effetto è possibile,
ma non necessario, che sia presente la sua causa sufficiente, a meno che non ne esista una
sola, che si identificherebbe così con la causa necessaria.
CAUSA ← EFFETTO (CONDIZIONE NECESSARIA)
EFFETTO ← CAUSA (CONDIZIONE SUFFICIENTE)
Consideriamo la possibilità che un evento si realizzi sempre in presenza di una determinata
causa e non si realizzi mai in sua assenza. La causa si identificherà in tal caso con la
condizione sufficiente e la condizione sufficiente stessa verrà considerata come congiunzione
di tutte le connessioni necessarie (è possibile che la condizione necessaria sia unica, ma
qualora non lo fosse la condizione necessaria e sufficiente richiederebbe un rapporto di
concausa tra diverse condizioni e uno o più effetti). È il terzo tipo di condizione per il
verificarsi di un evento, che chiamiamo condizione necessaria e sufficiente. In questo terzo
modo di intendere la parola ‘causa’ si può legittimamente inferire con necessità sia dalla
causa all’effetto sia dall’effetto alla causa. In presenza della causa avremo l’effetto, in sua
assenza no. Parimenti, dato l’effetto sarà data la causa, e se l’effetto non è dato, nemmeno la
causa lo sarà.
CAUSA ↔ EFFETTO
(CONDIZIONE NECESSARIA E SUFFICIENTE)
3. Fallacie e argomenti causali
Se, in una discussione, supponendo di avere un evento, volessimo indagarne la causa o
sostenere che un determinato evento ne causa un altro e che quindi vanno prese determinate
decisioni al fine di ottenere o di evitare una determinata conseguenza, allora, in tal caso, la
causa ricercata (o presunta) deve essere (o almeno apparire) ragionevole. E dev’essere
accettata almeno come possibile dall’interlocutore nonché suffragata da elementi che
permettano di preferirla ad altre cause altrettanto possibili (rendendola quindi più plausibile
delle altre cause parimenti possibili). Poi, il nostro interlocutore potrà metterla in dubbio o
avanzare una spiegazione alternativa per individuare un’altra causa, ma se queste condizioni
non sono date, allora la disputa non può nemmeno iniziare, altrimenti il nostro tentativo di
persuadere all’azione o all’inazione fa un buco nell’acqua.
Assumendo la prospettiva dell’interlocutore, quali sono le possibilità di replicare a un
argomento causale? Si risponde a questo argomento innanzitutto verificando la pertinenza
della causa proposta; è inoltre possibile utilizzare sistematicamente metodi induttivi per
proporre spiegazioni causali alternative ed è anche possibile portare contro-esempi, atti a
togliere forza alle nostre argomentazioni (tali esempi dovrebbero mostrare dei casi nei quali la
connessione presunta non c’è). Partiamo da questa seconda ipotesi: la prima sarà analizzata in
seguito.
•
Se qualcuno sostiene che l’uomo è un animale asociale (causa) perché è solo capace di fare
la guerra, rubare, sterminare, usare violenza al suo prossimo (effetti della causa presunta), è
possibile rispondere che, poiché nel mondo sembrano esserci anche casi di altruismo (effetto),
forse abbiamo bisogno di individuare un’altra causa per le guerre.
Questa tecnica di replica può essere esplicitata attraverso la distinzione, esaminata
precedentemente, tra condizione necessaria e condizione sufficiente. Per replicare a un
argomento causale è dunque anche possibile distinguere tra causa come condizione
necessaria e causa come condizione sufficiente: quando si dice che la causa C determina
l’evento E, si può replicare che tale causa è bensì condizioe necessaria ma non sufficiente.
•
Perché un cerino si accenda è necessaria la presenza dello zolfo così come dell’ossigeno,
ma occorre anche un movimento della mia mano. Quindi se tu sostieni che bastano zolfo e
ossigeno ti sbagli.
Oppure si può replicare che, pur essendo la causa individuata (o presupposta) una condizione
sufficiente, in realtà potrebbe esserci un’altra condizione sufficiente (un’altra causa) in grado
di spiegare l’evento E, il che può anche esprimersi in termini probabilistici: è più o meno
statisticamente probabile che la causa C causi l’evento E.
•
Sebbene sia vero che alcuni immigrati commettono crimini, non è vero in generale (cioè
non è vero per tutti), in quanto solo una minima parte di loro lo fa; inoltre, se confrontiamo la
percentuale assoluta e relativa dei crimini commessi da immigrati con quella dei crimini
commessi dagli italiani, possiamo constatare che in realtà, quanto alla prima (assoluta), gli
italiani commettono molti più crimini degli immigrati, il che non sorprende, poiché sono anche
di più, ciò che invece, a prima vista, è particolarmente sorprendente, e che deve portarci a
individuare un’altra causa per l’enorme numero di crimini compiuti, è che anche per quanto
concerne la percentuale relativa gli immigrati compiono meno crimini; su cento italiani e cento
immigrati gli italiani compiono venti volte più crimini degli immigrati.
Potremmo anche replicare sostenendo esserci una differenza tra causa prossima e remota, che
può anche esprimersi con la differenza (usata spesso in medicina e sociologia), tra i sintomi e
la causa.
•
I crimini compiuti non sono causati dall’individuo che li compie (causa prossima), ma dalla
•
sofferenza e dalla disperazione nelle quali si trova (causa remota e “vera” causa).
“Questa medicina le farà passare il dolore durante la minzione”. “Mi scusi dottore, ma qual
è la causa del dolore?” “Una cistite”. “Allora mi dia anche qualcosa che elimini la cistite”.
Possiamo perciò respingere una spiegazione causale osservando che 1) la spiegazione non è
pertinente, o che presuppone ciò che deve invece spiegare, per esempio la criminalità di un
gruppo sociale. In generale, quando si replica che la causa effettiva non è quella che si
suppone che sia, si accusa l’avversario di commettere due diversi tipi di fallacia: 1) post hoc
ergo propter hoc (o più in generale non causa pro causa); 2) petitio principii.
Ritorniamo, seguendo il filo di questo discorso, alle ipotesi e al modello del modus ponens e
del modus tollens. Abbiamo in tal caso due tipi di fallacie legate al concetto di causa: 1. se,
posta una causa, determiniamo l’effetto, dall’effetto non deriviamo necessariamente la causa
(tale effetto potrebbe avere altre spiegazioni) – tentando di affermare la causa ponendo
l’effetto, commettiamo la fallacia dell’affermazione del conseguente; 2. se invece neghiamo
una causa che è all’origine di un effetto, non per questo possiamo necessariamente negare
l’effetto (che può avere un’altra causa, anche se la causa da noi indicata è sufficiente) –
negando l’effetto a partire dalla negazione della causa commettiamo la fallacia della
negazione dell’antecedente.
Come già abbiamo sottolineato, se usiamo questi argomenti restando nel campo della
probabilità le nostre affermazioni sono più o meno attendibili (il che significa che non sono da
sole necessariamente concludenti, benché possano essere trattate alla stregua di ipotesi di
lavoro da sottoporre a verifica), quando, invece, pretendiamo di ricavare delle conseguenze
certe, senza che, però, si abbia a che fare con una condizione necessaria e sufficiente (cioè
con la definizione), allora concludiamo in modo fallace.
Il rischio è, in questo caso, come nel caso dei ragionamenti induttivi a partire da pochi
esempi, che la nostra percezione sia condizionata quando non distorta da un’ipotesi
preconfezionata, che la categorizzazione (e quindi, per esempio, la determinazione
“analogica” di un gruppo come avente determinate caratteristiche “razziali”, “culturali”,
“comportamentali” simili, in una parola l’“essenza” o “natura”) sia cioè imposta a prescindere
dall’individuo reale.
Da un punto di vista psicologico e storico si è potuto verificare che tali ipotesi hanno effetti
pratici, tendendo a trasformare gli individui e i gruppi in ciò che “in teoria” dovrebbero essere
(è la famosa profezia che si autoavvera):
•
•
nel campo dell’istruzione degli allievi considerati “deboli” e “scarsi” riceveranno meno
stimoli da parte dei docenti, diventando davvero scarsi; un gruppo indicato come estraneo e
inaffidabile, se emarginato e trattato di conseguenza, si comporterà di conseguenza;
un gruppo etnico o culturale considerato inferiore inizierà ad avere meno possibilità di
mostrare le proprie capacità, venendo educato coerentemente alla concezione che se ne ha e
diventando “realmente” inferiore, cioè entrando in relazioni di subordinazione nei confronti del
gruppo superiore o dominante.
Con l’argomento dell’effetto si ipotizza la verità di certi eventi o proprietà come
conseguenza di condizioni iniziali date (Boniolo & Vidali 2002: 81). Siccome sappiamo che
da certe condizioni consegue un preciso effetto, allora, date quelle condizioni, si verificherà
l’effetto. In un certo senso si tratta di una conseguenza derivata da una premessa ottenuta per
induzione e considerata come certa (o perlomeno molto probabile). Tale argomento si usa
quando si vogliono sottolineare le conseguenze desiderabili o indesiderabili.
•
Una costituzione che non abbia una netta divisione dei poteri rischia di determinare
sovrapposizioni o conflitti di competenze, e quindi una crisi istituzionale che può portare al
caos, alla guerra civile e infine alla conseguente scomparsa dello Stato.
Come si replica? Negando che tali conseguenze siano necessarie, o negando la premessa, che
presuppone una connessione senza dimostrarla. Ma l’argomento precedente potrebbe essere
salvato se trasformato in un’argomentazione a posteriori (contro-replicando dunque sulla base
della storia delle istituzioni statali):
•
Durante la Rivoluzione francese la divisione dei poteri, pur teorizzata e dichiarata, non era
garantita da un sistema di equilibri e controlli reciproci sul modello nordamericano, e la
costituzione della Germania di Weimar prevedeva la possibilità di una scomparsa dell’equilibrio
tra i poteri; in entrambi i casi l’esito è stato una sanguinosa dittatura; nel caso della Rivoluzione
americana e nel caso delle moderne democrazie, dove la divisione dei poteri e il controllo
reciproco sono assicurati, tale degenerazione non si è (almeno per ora) realizzata, quindi
l’argomento resta almeno induttivamente valido.
Con l’argomento della priorità della causa sull’effetto si sostiene che la causa vale, in tutti
i sensi, di più. Tale argomento presuppone sempre un ordinamento gerarchico.
•
Cartesio, nelle Meditazioni metafisiche (III,3), sostiene che se possiedo l’idea di Dio come
ente perfetto sono possibili due ipotesi: o me la sono data da me (fattizia) oppure viene da altro.
Ma io sono imperfetto, e poiché è impossibile che l’imperfetto generi il perfetto, la causa di
questa idea non posso essere io. per lo stesso motivo, essa non può nemmeno essere derivata dal
mondo esterno (avventizia), fatto di enti imperfetti. Siccome poi tutto ciò che è ha una causa, la
causa di questa idea di ente perfetto (che ho come idea innata) deve essere anch’essa perfetta, e
questa causa è ciò che si può chiamare Dio.
Come si replica? Obiettando che è possibile che cause minime e insignificanti determinino
effetti considerevoli e imprevisti, per esempio un sassolino che cade può provocare una
valanga, quindi l’argomento della priorità della causa sull’effetto è qualcosa che resta da
dimostrare, mentre viene qui solo presupposto (Boniolo & Vidali 2002: 81 seg.)
Una concatenazione di cause può essere disposta gerarchicamente. Come il precedente,
anche l’argomento detto della causa prima viene utilizzato in filosofia e teologia per
giustificare l’esistenza di Dio, e presuppone che non si possa procedere all’infinito nella
individuazione di cause. È analogo all’argomento a priori dell’essenza (Boniolo & Vidali
2002: 84 seg.).
•
Se tra le cause efficienti del mondo sensibile vi è un ordine, e se nessuna causa efficiente
può essere causa di sé stessa, ogni effetto avrebbe una causa, e ogni causa sarebbe a sua volta
causata da altro, e così all’infinito. Così non troveremmo mai una causa prima, il che è
impossibile, perché senza una causa prima non avremmo nemmeno una causa ultima (che è
quella dell’effetto che ci interessa o dal quale partiamo, una volta posto che dalla causa prima si
fanno derivare tutte le altre). Quindi la causa prima ci deve essere, così come ci deve essere una
precisa gerarchia tra le cause.
Come si replica? A un argomento di questo tipo è possibile replicare che si tratta in realtà di
una petitio principii (se viene formulato in questo modo): si presuppone infatti l’esistenza
della causa prima, per poter spiegare l’esistenza della causa ultima; si presuppone che non si
possa andare all’infinito nell’individuare le cause; e, anziché tentare di individuare le cause
prossime e meno prossime (chi ci dice che non troveremmo una causa prima banalissima?), si
dà per scontato che la causa prima sia ciò che sensibile non è (e questo è ciò che è stato
chiamato Dio).
La fallacia post hoc ergo propter hoc considera letteralmente come causa ciò che precede un
determinato evento, per esempio:
•
Siccome prima che l’acqua bollisse ho versato un po’ di sale nella pentola, allora il sale fa
bollire l’acqua.
Questo errore può anche essere interpretato come ‘falsa causa’ o non causa pro causa, per la
quale può valere l’esempio seguente (qualunque sia la nostra convinzione al riguardo):
•
La pena di morte negli Stati Uniti ci ha dato il più alto tasso percentuale di criminalità e il
più alto numero di detenuti fra i paesi industrializzati (Copi & Cohen 1999: 191).
Gli errori legati agli argomenti a posteriori hanno conseguenze assai gravi, se per esempio
individuiamo una connessione causale ingiustificata tra un evento e un altro, basandoci sulla
mera successione temporale o su di una coincidenza a livello statistico. Funziona come la
generalizzazione induttiva: ogni volta che bagno il giardino piove, quindi il fatto che io bagni
il giardino causa la pioggia.
Quando, invece di adottare i rigorosi metodi induttivi per l’individuazione delle cause,
facciamo riferimento a statistiche approssimative o campate per aria, allora, più spesso di
quanto possa farci piacere credere, concludiamo troppo rapidamente. Possiamo spingerci a
ritenere che la causalità sia una struttura necessaria alla nostra conoscenza, una sorta di
potenzialità innata, ma è la statistica che offre le “prove” alle nostre connessioni causali. Non
conoscendo le cause reali cerchiamo di collegare ciò che sembra essere collegabile, e lo
facciamo sulla base di somiglianze tra casi diversi. Tali somiglianze legittimano le statistiche
e quindi le riteniamo connessioni costanti. Tali spiegazioni non servono a eliminare gli errori
causali (sarebbe difficile comportarsi da scienziati in tutte le occasioni della nostra vita
quotidiana), possono però consentirci di riflettere su ciò che facciamo e, talvolta, spingerci a
controllare le presunte connessioni causali e regolarità statistiche, specialmente se le
conseguenze di una connessione sono determinanti per la nostra vita o quella altrui.
Qualsiasi argomento che si sviluppi prendendo come causa di una cosa o di un evento ciò che
non ne costituisce la causa, o è dubbio che lo sia, risulta fallace (Cfr. Perelman & OlbrechtsTyteca 1966: 283, 416; Copi & Cohen 1999: 191-2; Boniolo & Vidali 2002: 110). Spesso
siamo indotti a ritenere che qualcosa sia causa di qualcosa d’altro semplicemente a partire
dalla contiguità o somiglianza, ma la somiglianza può essere illusoria. Talvolta si suppone
che un evento sia causato da un altro semplicemente perché lo segue. Sebbene la mera
successione temporale non dimostri la relazione causale, siamo facilmente tratti in inganno.
Di conseguenza è facile capire come si possa replicare a qualsiasi argomento causale: basta
mostrare che l’evento presentato come causa ha in realtà un effetto diverso. La connessione
causa-effetto fa emergere tutti i problemi dell’argomentazione induttiva nell’ambito
dell’elaborazione di ipotesi scientifiche, ma la presupposizione di una connessione che invece
non sussiste è un errore comune. Del resto, come sostiene è possibile che una connessione
causale basata sul post hoc ergo propter hoc statistico non sia errata (Walton (1989:215).
Può essere un argomento ragionevole, benché vada sottoposto ad alcune domande critiche per
verificare se possa reggere; un errore potrebbe poi non legittimare il rifiuto completo della
connessione causale e un punto debole potrebbe essere rafforzato. L’argomento basato sulla
statistica e sulla connessione causale che ne deriva potrebbe dunque non essere fallace.
Come si replica a un argomento causale basato sulla fallacia post hoc ergo propter hoc? Per
esempio sottolineando che la causa è complessa.
•
Prendiamo il caso della peste del Trecento, che si ritiene abbia decimato la popolazione
europea: a questa tesi lapalissiana si potrebbe obiettare, come in effetti fanno gli storici, che tra
la fine del Duecento e l’inizio del Trecento la crescita demografica in Europa, continuata prima
con ritmi costanti, si scontra con l’insufficienza di risorse alimentari, determinata a sua volta dai
limiti di un’agricoltura che non è in grado di aumentare ulteriormente la produzione, cosicché
nella prima metà del secolo XIV si verificano numerose carestie in diverse regioni europee,
avviando una spirale perversa di sottoalimentazione, la quale produce debolezza fisica,
esposizione alle malattie, abbandono delle terre già coltivate a causa del calo della popolazione.
In questo contesto, verso la metà del Trecento, arriva la peste. La peste pare essere allora non la
causa prima del crollo demografico, quanto piuttosto una conseguenza della crisi economica
avviatasi all’inizio del secolo, mentre il contagio si diffonde grazie allo stato di debolezza e
sottoalimentazione in cui versava gran parte della popolazione europea: la peste aggrava il calo,
che, però, continuerà anche dopo che il morbo si sarà esaurito).
Se la causa non è certa, se si tratta di una concausa o di un elemento causale ma non rilevante
o se non sono stati rispettati i criteri indispensabili per l’individuazione delle cause, ci
troviamo di fronte a un problema. Per risolverlo, dobbiamo tornare sull’induzione illustrando
in che modo la si possa trasformare in un metodo per il controllo e l’individuazione delle
ipotesi causali.
Prima di farlo forniamo alcune domande critiche preliminari che, se correttamente poste,
potrebbero rafforzare una connessione causale che le rispettasse (cf. Boniolo & Vidali 2002:
79-81; Nagel 1981: 80-81; Walton 1989: 213 segg.). Se la correlazione causale dovesse
uscirne rafforzata, andrebbe presa in considerazione come almeno probabile.
CRITERI PER IL CONTROLLO DEGLI ARGOMENTI CAUSALI
I
VERIFICARE SE LA CAUSA È CONDIZIONE NECESSARIA, SUFFICIENTE O NECESSARIA E SUFFICIENTE
PER IL VERIFICARSI DI UN FENOMENO.
Nel primo caso ci possono essere altre cause necessarie (altre “concause”, o una
causa “complessa”), sicché quella individuata o ipotizzata può non essere
sufficiente, sebbene in sua assenza l’effetto non si verifichi. Se la causa è
sufficiente, in sua presenza l’effetto si verifica, e sono presenti anche tutte le
condizioni necessarie (tutte le concause). Ma anche in assenza della causa
sufficiente si potrebbe verificare lo stesso effetto, se, per esempio, avessimo
un’altra causa sufficiente alternativa. Solo se la causa è sia necessaria che
sufficiente non è possibile che l’effetto si realizzi in assenza e non si realizzi in
presenza di essa.
II
TENERE PRESENTE CHE LA CAUSA PUÒ ESSERE UNA SOLA (NECESSARIA E SUFFICIENTE), O
POSSONO ESSERE DIVERSE MA DEVONO ESSERE TUTTE PRESENTI (NECESSARIE), OPPURE TANTE MA
ALTERNATIVE (SUFFICIENTI).
Nel primo caso non è possibile individuare cause diverse, nel secondo la causa
di un evento e potrebbe essere la circostanza C, ma anche la circostanza D, e
l’una senza l’altra non causano l’evento. Nel terzo causo potremmo avere
diverse cause possibili, quindi potremmo non sapere esattamente quale sia la
causa ricercata (per esempio la causa di una malattia che vogliamo eliminare).
III
CONSIDERARE SE LA CAUSA CHE NOI CREDIAMO ESSERE PROSSIMA NON È PER CASO REMOTA.
Tutta la serie di cause potrebbe essere necessaria per il realizzarsi di un effetto.
IV
DISTINGUERE CIÒ CHE È CAUSA DA CIÒ CHE NON LO È.
La distinzione tra causa prossima e causa remota potrebbe permetterci di
effettuare questa distinzione, evitando la fallacia non causa pro causa. Per
controllare qual è la causa di un evento occorrono 5 ulteriori condizioni:
V
LA RELAZIONE TRA UNA CAUSA E UN EFFETTO DEVE ESSERE COSTANTE, INVARIABILE E
UNIFORME (SE CI SONO DELLE VARIAZIONI OCCORRE INDIVIDUARNE LA CAUSA). TUTTAVIA LA
SEMPLICE COSTANTE COMPRESENZA DI DUE EVENTI NON SIGNIFICA CHE ESSI SIANO
CAUSALMENTE CORRELATI.
VI
DA UN PUNTO DI VISTA STATISTICO, I CASI PRESI IN ESAME NON POSSONO ESSERE TROPPO
POCHI, E DEVONO ESSERE SIGNIFICATIVI.
VII
GLI EVENTI DEVONO ESSERE SPAZIALMENTE CONTIGUI, ALTRIMENTI OCCORRE INDIVIDUARE LA
CATENA DELLE CAUSE PROSSIME E REMOTE.
VIII
L’EFFETTO DEVE SEGUIRE LA CAUSA.
Se non sappiamo se è A a seguire B o B a seguire A, è meglio non concludere.
IX
LA RELAZIONE DEVE ESSERE ASIMMETRICA. IN GENERE UN FENOMENO CAUSA UN EFFETTO MA
L’EFFETTO NON DETERMINA A SUA VOLTA LA PROPRIA CAUSA.
(Talvolta, però, l’effetto è a sua volta causa del modificarsi della propria causa.)
X
PRIMA DI CONCLUDERE, PRENDERE IN CONSIDERAZIONE LA POSSIBILITÀ CHE DUE EVENTI CHE
PAIONO ESSERE CAUSALMENTE CORRELATI POTREBBERO ESSERLO SOLO PERCHÉ SONO ENTRAMBI
EFFETTI DI UN TERZO EVENTO (LA VERA CAUSA)
LA PALESTRA DELLA MENTE – LE CAUSE
Riconosci il tipo di causa: condizione necessaria o sufficiente, causa prossima o remota, ,
concausa? Sei in grado di dire se e perché le connessioni causali proposte non sono appropriate o
corrette o certe?
1.* Perché gli attacchi cardiaci sono più frequenti in inverno? La maggior parte degli attacchi
cardiaci iniziano con la formazione di un grumo di sangue in un’arteria coronaria, che blocca il flusso
di sangue nel condotto. Che cosa produce questi grumi? Delle sostanze presenti nel sangue atte a
coadiuvare la formazione di coaguli a protezione di danni alle pareti del condotto. Vene e arterie da che
cosa sono danneggiate? Dalle infezioni. Ora: un aumento delle infezioni respiratorie causa una generale
attivazione del sistema immunitario per combattere le infezioni, stimolando così il sistema coagulante.
In quali ambienti si diffondono maggiormente le infezioni? Negli ambienti chiusi. D’inverno le persone
tendono a restare maggiormente al chiuso, la conseguenza è che si ha un maggior numero di infezioni
respiratorie, le quali provocano una stimolazione del sistema immunitario, una conseguente accresciuta
attività coagulatoria e infine una maggiore presenza di grumi nelle arterie coronarie, con conseguente
aumento del numero di infarti. Quindi l’inverno causa gli attacchi cardiaci.
2.* Il motivo per cui gli immigrati sono in galera è che sono criminali. Il motivo per cui gli
immigrati detenuti sono più numerosi degli italiani è che essi sono incarcerati per qualunque tipo di
reato.
3.* Se il terreno è bagnato è perché ha piovuto.
4*. Se una figura geometrica ha la somma degli angoli interni uguale a 180° è perché si tratta di un
triangolo.
5. Una compagnia di assicurazioni potrebbe inviare degli investigatori a scoprire la causa di un
misterioso incendio. Sappiamo che l’ossigeno è la condizione necessaria per la combustione, ma se gli
investigatori scrivessero nel loro rapporto che l’incendio è stato causato dall’ossigeno presente
nell’atmosfera probabilmente non conserverebbero a lungo il loro posto di lavoro. Con ciò,
naturalmente non avrebbero affatto torto, infatti senza ossigeno non ci sarebbe alcun incendio. Il
problema è che alla compagnia di assicurazioni non interessa affatto la causa necessaria, e, al limite,
nemmeno la causa sufficiente (ossigeno e temperatura). Probabilmente alla compagnia interessa
qualcosa d’altro: l’incendio è stato appiccato dall’assicurato o si è trattato di un incidente? La
compagnia usa la parola causa in modo diverso: vuole scoprire l’incidente o l’azione che, in presenza
di condizioni normali (sia necessarie che sufficienti), ha determinato l’accadere o il non accadere di
quel determinato fatto (l’incendio).
6. Un immigrato senegalese è stato espulso perché scoperto a lavorare in nero, ma la colpa non è
sua, bensì del datore di lavoro, che altrimenti si sarebbe rifiutato di assumerlo.
7. Ho ucciso il mio ricco e avarissimo marito per vivere come si compete a una persona come me.
8. Le premesse di un sillogismo sono causa della conclusione.
9. Le persone di quest’isola hanno notato che le persone che hanno le pulci vivono più a lungo e in
salute. Quindi le pulci fanno bene alla salute.
10. Potrebbe essere vero che “l’incidente è stato causato da quell’albero che, in quel punto del viale,
impedisce una piena visibilità”, ma se il guidatore non fosse stato ubriaco, se il pedone non avesse
attraversato avventatamente la strada, se i freni non fossero stati consumati, forse l’incidente non
sarebbe avvenuto.
V. L’INDUZIONE COME METODO DI CONTROLLO DELLE IPOTESI CAUSALI
Consistenti trasformazioni dobbiamo però introdurre anche nella forma stessa dell’induzione e
nel giudizio che attraverso di essa si ricava.
(Francesco Bacone, Nuovo organo, 2002 p. 39
Ogni uso della parola ‘causa’, sia esso quotidiano o scientifico, presuppone la credenza che
causa ed effetto siano connessi uniformemente. Riconosciamo una particolare circostanza
come causa di un particolare effetto solo se riteniamo che qualunque altra circostanza dello
stesso tipo causerà un effetto dello stesso tipo del primo (Copi & Cohen 1999: 490 segg.).
Considereremo di seguito ogni occorrenza di una causa che produce un effetto come un caso
o un esempio della legge causale generale per cui circostanze di quel tipo sono sempre
accompagnate da fenomeni di quel tipo. Se affermiamo che una particolare circostanza causa
un determinato fenomeno, è perché presupponiamo che ci sia una “legge” causale, in tale
asserzione c’è un elemento di generalità, una legge causale asserisce infatti che una
determinata circostanza è invariabilmente accompagnata dallo stesso identico tipo di
fenomeno, indipendentemente da quando o da dove si presenti. Come arrivare a conoscere tali
verità generali?
Siccome la relazione causale non è meramente logica o deduttiva, non può essere ottenuta
con un ragionamento a priori. Le leggi causali potranno allora essere ottenute solo
empiricamente, a posteriori, attraverso l’esperienza. Le nostre esperienze, però, sono sempre
esperienze di situazioni particolari, fenomeni particolari e serie particolari di fenomeni. Una
volta osservati alcuni casi di una circostanza C è possibile che in ogni caso osservato si sia
presentato un fenomeno F. Ma avendo avuto esperienza solo di alcune occorrenze di C
possiamo dimostrare solo che alcuni casi di C sono casi di F. Se il nostro scopo è quello di
stabilire una relazione causale generale, come possiamo passare da questa evidenza
particolare alla proposizione generale che tutti i casi di C sono casi di F? Come possiamo dire
che C “causa” F?
Evidentemente dobbiamo avere un’ipotesi da sottoporre a controllo. Prima di affrontare
tematicamente il problema dell’ipotesi affrontiamo preliminarmente un’altra domanda, alla
quale possiamo già rispondere. In quale caso saremmo disposti ad abbandonare la credenza
secondo cui una circostanza C ha causato un determinato effetto E in un caso particolare?
Qualora fosse possibile mostrare che una circostanza dello stesso tipo era presente in un’altra
situazione identica alla prima, ma nella quale l’effetto E non si è verificato. Utilizzeremmo
così una contro-analogia, o un esempio a contrario. Questo ci dovrebbe già suggerire, almeno
approssimativamente, il nostro percorso.
Le inferenze induttive ci servono per effettuare delle “generalizzazioni” o, in altri termini, per
individuare le (probabili) cause dei fenomeni. In questo senso sono essenziali non solo alle
nostre decisioni quotidiane (in quanto da un sapere ricaviamo indicazioni per il nostro agire),
ma anche al metodo scientifico: se è vero che la scienza è ricerca delle cause, è però
innanzitutto attraverso l’induzione che tali cause possono essere rintracciate e testate.
Francis Bacon (1561-1626) cercò di riformare i metodi dell’indagine scientifica (The
Advancement of Lerning, 1605), ma la formulazione dei più potenti metodi induttivi che
adottiamo in questo prontuario è dovuta a John Stuart Mill (1806-1873) il quale, in A System
of Logic (1842) formula cinque ‘canoni’ per l’inferenza induttiva, qui chiamati ‘criteri’. La
nostra esposizione deve l’essenziale a Copi & Cohen (1999: 487-524) e Varzi, Nolt &
Rohatyn (2004: 244-257).
I criteri per una corretta applicazione del metodo induttivo funzionano per eliminazione,
come apparirà evidente alla fine del capitolo. Potremmo considerarli anche come strumento
per la scoperta di legami causali, ma solo in quanto servono per il controllo delle ipotesi, i
casi osservati vengono infatti utilizzati non in vista della generalizzazione bensì come criterio
per eliminare ipotesi false, attraverso (Boniolo & Vidali 2002: 82): 1) il controllo dei casi in
cui a un fenomeno è associato un evento, oppure 2) un fenomeno si presenta in assenza di un
determinato evento oppure 3) si presenta con una certa gradualità (in rapporto direttamente o
inversamente proporzionale), oppure, 4) escluse tutte le altre cause, ne resta una sola. Potremo
così sostenere argomenti causali, inferendo una causa da un effetto e viceversa, ma eviteremo
generalizzazioni affrettate. Acquisita la competenza minima richiesta da questo capitolo,
potremo utilizzare tali criteri anche per vagliare le argomentazioni causali, le generalizzazioni
statistiche e le opinioni degli esperti (perizie ecc.).
1. Il criterio della concordanza.
Il metodo induttivo va al di là dell’enumerazione semplice. Non cerca solo di scoprire le
ripetute connessioni di causa ed effetto, ma di identificare la sola circostanza, l’unica che è
invariabilmente associata con l’effetto, o il fenomeno, a cui siamo interessati. Nella ricerca
della causa di qualche epidemia mortale, o di qualche fenomeno geologico, l’epidemiologo o
il geologo cercheranno di individuare le speciali circostanze che in ogni caso accompagnano
quel risultato.
In che modo insiemi apparentemente diversi di condizioni concordano, quando il risultato
viene prodotto?
• Immaginiamo che alcune studentesse italiane in gita scolastica, alloggiate in un certo
ostello inglese, abbiano sofferto di una violenta indisposizione, con dolori allo stomaco,
nausea e diarrea. Quale può essere la causa di questa indisposizione? Partiamo innanzitutto
dai cibi. Quali cibi sono stati assunti da tutti coloro che si sono ammalati? Cibi assunti solo
da alcuni non sono quasi certamente la causa dei dolori. Quale circostanza è comune a tutti
i casi di malore? Naturalmente potrebbe anche non essere un cibo. Potrebbe essere la
vicinanza a una sorgente di infezione, o altro. Solo nel momento in cui avremo trovato una
circostanza rispetto alla quale concordano tutti i casi di malattia saremo sulla strada giusta
per la soluzione del problema.
Ecco lo schema del nostro ragionamento:
A BCD si presentano insieme a w y z.
A E F G si presentano insieme a w t u v
Quindi A è la causa (o l’effetto) di w
Il metodo della concordanza si rivela utile nella identificazione di un tipo di fenomeno, di uno
spettro di circostanze possibili. Ogni volta che troviamo un’unica circostanza comune a tutti i
casi di un dato fenomeno, possiamo ritenere di averne scoperto la causa. Nella genetica
molecolare le possibili cause delle malattie ereditarie possono essere spesso ristrette tramite il
metodo della concordanza. Ecco i risultati ottenuti da un gruppo di ricerca dell’Università di
Washington che ha esaminato pazienti che soffrono del morbo di Alzheimer per individuare
se esiste qualche circostanza comune nel loro patrimonio genetico:
• Abbiamo considerato famiglie in cui l’ereditarietà era chiara. Assumendo che ci fosse
un difetto genetico, il nostro obiettivo era di trovare dove fosse. [...]. Abbiamo trovato una
piccola zona sul cromosoma 14 in cui può esserci un difetto genetico causa del morbo (cit.
in Copi & Cohen: 1999: 494).
Questo metodo ha però dei limiti: cerca infatti soprattutto casi di conferma; risulta perciò
spesso inadeguato per l’identificazione della causa cercata, poiché i dati disponibili
raramente si presentano organizzati abbastanza chiaramente da permetterci di identificare
un’unica circostanza comune a tutti.
Ipotizziamo di avere più circostanze comuni. Come faremo a individuare la causa? Con
questo metodo non siamo in grado. La presenza di una concordanza tra circostanze e
fenomeno può non essere decisiva. L’assenza di concordanza, invece, può aiutare a
determinare quella che non è la causa del fenomeno che ci interessa. Il metodo della
concordanza è eliminativo: indica che circostanze le quali si presentano in alcuni casi ma
non in tutti, non possono essere la causa del fenomeno (cf. Copi & Cohen 1999: 495). Se
vogliamo confutare una ipotesi causale dobbiamo richiamare l’attenzione sull’assenza di
una concordanza uniforme. Concluderemo così che la presunta causa non può essere né
condizione necessaria né condizione sufficiente per il fenomeno.
• È possibile sostenere che esiste una connessione causale tra il miglioramento delle
prestazioni degli studenti delle scuole statali italiane e la spesa statale per la scuola: più
denaro investito in progetti formativi, migliore apprendimento. La tesi potrebbe venire
incrinata se si riuscisse a mettere in rilievo come, in un certo periodo, nessuna delle scuole
con i più alti finanziamenti statali per progetti formativi fosse tra quelle con maggiori
punteggi nei risultati degli studenti. Questo significherebbe che è meglio non investire in
progetti? No. Solo che le cause potrebbero essere più complesse.
2. Il criterio della differenza
Questo criterio non si riferisce a ciò che è comune a tutti i casi in cui l’effetto si produce, ma a
quello che c’è di differente tra i casi in cui l’effetto si produce e i casi in cui l’effetto non si
produce.
•
Torniamo alle studentesse con la nausea. Se avessimo saputo che tutte le persone che
avevano il mal di stomaco avevano mangiato patatine fritte con la nutella, ma nessuna
di quelle che ne erano state risparmiate le aveva mangiate, saremmo stati abbastanza
sicuri di aver individuato la causa dei disturbi.
Quando possiamo individuare un solo fattore che faccia la differenza a parità di tutte le altre
condizioni – il fattore che elimina il fenomeno in questione quando lo rimuoviamo, o che lo
produce quando lo introduciamo – possiamo essere sicuri di aver individuato la (o una parte
indispensabile della) causa del fenomeno che stiamo indagando.
Lo schema è il seguente:
A B C D si presentano insieme a w x y z
B C D si presentano insieme a x y z
Quindi A è la causa, o l’effetto, o una parte
indispensabile della causa, di w
Nelle indagini scientifiche il criterio della differenza ha un’importanza centrale. Quando si
cerca la causa di determinate malattie, si ipotizza talvolta che essa possa trovarsi in alcune
proteine. L’unico modo per determinare se la sostanza in esame sia realmente la causa (o una
indispensabile parte di essa) è quello di creare un contesto sperimentale nel quale la sostanza
sia stata rimossa.
• Talvolta i ricercatori ci riescono, non però negli esseri umani, bensì nei topi soggetti alla
stessa malattia e a cui è rimosso il gene che si sa produrre la proteina sospetta. Gli animali
così manipolati sono quindi incrociati, e si creano popolazioni di topi chiamati “knockout”,
preziosi nel mondo della ricerca medica contemporanea; in essi il processo rilevante per la
malattia può essere studiato esattamente come in altri animali soggetti alla stessa malattia,
eccetto che per la differenza critica creata dal knockout, l’assenza ipotizzata come causa
(Copi & Cohen 1999: 499).
3. Il criterio congiunto della concordanza e della differenza
Questa tecnica si spiega come un uso combinato del metodo della concordanza e di quello
della differenza nel corso della stessa indagine. Eccone lo schema:
A B C --- x y z
A B C --- x y z
A D E --- x t w
B C --- y z
Quindi A è l’effetto, o la causa, o una parte
indispensabile della causa, di x.
Dato che ciascuno dei due metodi (a sinistra quello della concordanza, quello della differenza
a destra) rende probabile la conclusione in una qualche misura, il loro uso congiunto rende la
conclusione più probabile. Questa combinazione è estremamente efficace nel campo
scientifico.
• L’epatite A è un’infezione del fegato che affligge decine di migliaia di persone. È
ampiamente diffusa tra i bambini e si trasmette principalmente attraverso il cibo o l’acqua e
può portare alla morte. Come si può prevenire? La soluzione ideale sarebbe un vaccino
efficace. In effetti ne è stato trovato uno, sperimentato su una comunità di ebrei hasidici a
Kiryas Joel nella contea dell’Orange, nello stato di New York, una comunità del tutto
atipica in quanto è colpita annualmente da epidemie di questa infezione. Quasi nessuno a
Kiryas Joel sfugge all’epatite A e quasi il 70 % dei membri è già stato infettato prima dei
19 anni. Il dott. Alan Werzberger e i suoi colleghi dell’istituto di medicina di Kiryas Joel
selezionarono, in quella comunità. 1037 bambini di età compresa tra i 2 e i 16 anni che non
ancora erano stati esposti al virus dell’epatite A, e che presentavano una caratteristica
mancanza di anticorpi al virus nel loro sangue. La metà di loro (519) ricevette una dose di
un nuovo vaccino, e tra questi bambini non si verificò in seguito alcun caso di epatite A.
Dei 518 che ricevettero varie altre iniezioni di placebo, 25 furono infettati subito dopo
dall’epatite A. Il vaccino era stato trovato (Copi & Cohen 1999: 503-4).
Qual è il modello di inferenza su cui si basa questo risultato? Sia il metodo della concordanza
che quello della differenza furono tenuti presenti, come è usuale nelle ricerche mediche. Tra
tutti i giovani che in seguito alla somministrazione divennero immuni c’era una sola
circostanza comun: l’aver preso il vaccino. Di per sé questo tende già con forza a indicare nel
vaccino la causa dell’immunità. Il metodo della differenza rafforzò enormemente questa
conclusione: le circostanze di quelli che divennero immuni e di quelli che non lo divennero
erano essenzialmente le stesse sotto ogni aspetto, salvo uno: la somministrazione del vaccino.
La sperimentazione dei nuovi farmaci è spesso eseguita attraverso prove nelle quali un
gruppo che riceve il nuovo trattamento e un altro gruppo (detto “di controllo”) che non lo
riceve. L’applicazione congiunta dei metodi della concordanza e della differenza è alla base
di questa impostazione e della sua efficacia.
4. Il criterio dei residui
I primi tre criteri esaminati sembrano supporre che sia possibile eliminare o trovare la causa
(o l’effetto) di qualche fenomeno nella sua interezza (sono più una logica della scoperta che
un metodo esclusivamente induttivo classico, cioè per enumerazione semplice o analogia). In
molti contesti è solo possibile inferire l’impatto causale di qualche fenomeno
dall’osservazione del cambiamento che produce in un insieme di circostanze la cui causa è
già in parte conosciuta.
Ecco lo schema:
A B C ----x y z
Si sa che B è la causa di y
Si sa che C è la causa di z
Quindi A è la causa di x
Il quarto criterio, che porta l’attenzione sui residui, è bene illustrato dall’artificio usato per la
scoperta di Nettuno. Come si noterà, siamo all’interno della logica dell’ipotesi.
• Nel 1821, Bouvard pubblicò a Parigi delle tavole sui moti di un certo numero di pianeti,
tra cui Urano. Nel preparare quest’ultima tavola egli aveva trovato estremamente difficile
far coincidere l’orbita calcolata sulle posizioni ottenute negli anni successivi al 1800 con
quella calcolata a partire dalle osservazioni fatte negli anni che seguirono immediatamente
la scoperta. Decise infine di non considerare affatto le vecchie osservazioni e di basare le
sue tavole soltanto sulle osservazioni più recenti. Dopo alcuni anni, tuttavia, le posizioni
calcolate sulle tavole non coincidevano con le posizioni osservate del pianeta, finché, nel
1844, la divergenza era arrivata a 2 minuti di arco. Poiché i moti di tutti gli altri pianeti
conosciuti erano in accordo con quelli calcolati, la discrepanza nel caso di Urano sollevò
una grande discussione. Nel 1845 Leverrier [...] affrontò il problema. Controllò i calcoli di
Bouvard e li trovò fondamentalmente esatti. Pensò quindi che la sola spiegazione
soddisfacente della questione consistesse nella presenza di un pianeta da qualche parte al
di là di Urano, che ne disturbava il moto. Entro la metà del 1846, Leverrier aveva
completato i suoi calcoli. In settembre, egli scrisse a Galle, a Berlino, chiedendogli di
cercare un nuovo pianeta in una certa zona del cielo per la quale nuove carte stellari erano
state appena preparate in Germania, ma di cui Leverrier apparentemente non aveva ancora
avuto una copia. Il 23 di settembre, Galle iniziò la ricerca, e in meno di un’ora trovò un
oggetto che non era sulla carta. La notte successiva l’oggetto si era spostato in maniera
apprezzabile e il nuovo pianeta, in seguito chiamato Nettuno, fu scoperto entro 1° di
distanza dal luogo previsto. (E. Arthur Fath, The Elements of Astronomy, cit. in Copi-Cohen
1999: 507-8).
5. Il criterio delle variazioni concomitanti
I quattro criteri discussi sinora sono tutti di natura eliminativa. Grazie all’eliminazione di
una o più possibili cause di un dato fenomeno essi forniscono sostegno all’ipotesi di qualche
altra spiegazione causale:
nel metodo della concordanza si eliminano come possibili cause quelle
circostanze in assenza delle quali il fenomeno può comunque accadere;
nel metodo della differenza si esclude una possibile causa eliminando un
fattore che si è precedentemente rivelato decisivo;
il metodo congiunto è eliminativo in entrambi questi sensi;
il metodo dei residui cerca di eliminare come possibili cause le circostanze i
cui effetti sono già stabiliti con precedenti inferenze induttive.
Ci sono tuttavia situazioni nelle quali nessuno di questi criteri è applicabile, perché vi sono
coinvolte alcune circostanze che non possono essere eliminate. È il caso, frequente in
economia, fisica, medicina, tutte le volte che l’aumento di un fattore o la sua diminuzione ha
come risultato un concomitante aumento o una diminuzione di un altro fattore, l’eliminazione
completa dei due non essendo realizzabile (Copi & Cohen 1999: 511). La variazione
concomitante è fondamentale anche per lo studio dell’effetto causale di alcuni alimenti. Non
possiamo eliminare una malattia con nessuna dieta; è raro che possiamo eliminare alimenti di
un certo tipo dalla dieta di grandi popolazioni, ma possiamo registrare qual è l’effetto
dell’aumento o della diminuzione dell’assorbimento di determinati alimenti sulla frequenza di
determinate malattie in una determinata popolazione.
• Una recente ricerca ha esaminato la frequenza degli attacchi cardiaci in relazione alla
quantità di pesce nella dieta dei soggetti dell’esperimento. La conclusione induttiva è stata
sorprendente: un pranzo a base di pesce alla settimana riduceva il rischio di attacco
cardiaco del 50%, due pasti a base di pesce al mese lo riducevano del 30%. Entro certi
limiti sembra che ci sia una marcata concomitanza di variazione tra arresti cardiaci e
presenza di pesce nella dieta (Copi & Cohen 1999: 511).
Se usiamo i segni più e meno per indicare il grado maggiore o minore in cui un fenomeno
variabile è presente in una data situazione, il metodo delle variazioni concomitanti può essere
schematizzato come segue:
A BC----x yz
A + BC---x + yz
A – BC----x-yz
Quindi A e x sono connessi causalmente
È questo il criterio seguito per esempio da un contadino rileva una connessione causale tra
l’applicazione di un fertilizzante al terreno e l’abbondanza del raccolto, utilizzando in misura
diversa il fertilizzante nelle diverse parti di un terreno e osservando che le parti che hanno
ricevuto una maggiore quantità di fertilizzante producono un raccolto più abbondante. Allo
stesso modo, un commerciante verifica l’efficacia della pubblicità, aumentando o diminuendo
diversi annunci pubblicitari in periodi diversi e osservando se l’attività commerciale è
aumentata o diminuita durante i periodi di pubblicità intensa.
Quando l’aumento di un fenomeno accompagna l’aumento di un altro, si dice che i fenomeni
variano in modo direttamente proporzionale l’uno con l’altro. Possiamo però anche inferire
una connessione causale quando i fenomeni variano in modo inversamente proporzionale
(l’aumento dell’uno accompagna la diminuzione dell’altro).
• Gli economisti, ad esempio, dicono spesso che, a parità approssimativa delle altre
condizioni, in un mercato non regolato, una crescita dell’offerta di alcuni beni (petrolio
greggio) risulterà in una concomitante diminuzione del suo prezzo. In effetti, quando le
relazioni internazionali minacciano una riduzione delle forniture disponibili (una guerra
contro l’Iraq, per esempio, o quando l’OPEC decide di produrre meno barili al giorno) si
nota che il prezzo del petrolio, invariabilmente, sale. In economia, il fenomeno è noto come
‘legge della domanda e dell’offerta’.
Naturalmente, alcune variazioni concomitanti sono pure coincidenze. Occorre fare attenzione
e non inferire una connessione causale da occorrenze che sono del tutto fortuite. Al contrario,
variazioni concomitanti che sembrano accidentali o sorprendenti, possono avere una
spiegazione causale.
• Uno studio recente ha mostrato che c’è un alto grado di correlazione tra il numero di cicogne
che fanno il nido nei villaggi inglesi e il numero di bambini nati in ciascuno di quei villaggi.
Sembrerebbe una conferma di una antica credenza popolare. Possibile che...? No, non è
possibile. La spiegazione, però, c’è. Le comunità con un’alta natalità hanno un maggior
numero di coppie sposate da poco, e pertanto hanno un maggior numero di case appena
costruite. E le cicogne preferiscono costruire il nido sui camini che non sono stati usati in
precedenza da altre cicogne (Copi & Cohen 1999: 512).
Risalendo le catene causali dei fenomeni che variano in modo concomitante, possiamo trovare
legami comuni, ovvero ciò che chiamiamo “rapporto di causa ed effetto”. Siccome il criterio
delle variazioni concomitanti permette di prendere in considerazione, come evidenza,
variazioni nel grado in cui circostanze e fenomeni si presentano, esso è un importante
arricchimento del nostro insieme di tecniche induttive. È un criterio quantitativo, mentre
quelli discussi prima erano essenzialmente qualitativi. Il suo uso, pertanto, presuppone
l’esistenza di un metodo di misura o di valutazione – anche solo approssimativo – dei gradi di
variazione dei fenomeni.
Con l’analisi di questo ultimo criterio abbiamo completato l’esame dell’induzione come
metodo sperimentale. Per valutare le connessioni causali dovremo interrogarle chiedendo loro
di rendere conto della relazione tra una causa e un effetto in base ai criteri esaminati. Ma
come arriviamo a formulare ipotesi? Per saperlo, dovremo attendere il prossimo capitolo.
i criteri induttivi per la verifica delle ipotesi causali
I – Concordanza – Se una o più manifestazioni fenomeniche, caratterizzate da
un’unica proprietà in comune evidenziano la presenza di un unico evento comune
allora quella proprietà è la causa o concausa di questo evento.
II – Differenza – Se due manifestazioni fenomeniche, distinte solo da un’unica
proprietà posseduta dalla prima e non dalla seconda, evidenziano un evento nel
primo caso e la sua mancanza nel secondo, allora quella proprietà posseduta dalla
prima è la causa o la concausa dell’evento che solo essa ha evidenziato.
III – Differenza e concordanza – Se più manifestazioni fenomeniche, alcune
caratterizzate da una proprietà in comune e altre dalla mancanza di tale proprietà,
evidenziano le prime la presenza e le seconde la mancanza di un certo evento,
allora la proprietà comune è la causa o la concausa dell’evento evidenziato.
IV – Residui – Data una manifestazione fenomenica caratterizzata da certe
proprietà, delle quali sappiamo che tutte, tranne una, sono causa di altrettanti
eventi concomitanti, se, dopo aver associato le cause agli eventi in base alle
correlazioni causali note, avanza un evento non correlato, quell’unica proprietà
inizialmente non correlata è la causa di quest’evento non correlato.
V – variazioni concomitanti – Se a una manifestazione fenomenica,
caratterizzata da certe proprietà, fanno riscontro eventi concomitanti, di cui uno
varia sistematicamente al variare di una delle proprietà, allora quella proprietà è la
causa di quest’evento.
LA PALESTRA DELLA MENTE: I METODI INDUTTIVI
Concordanza. Analizza i seguenti rapporti scientifici, spiegando come il metodo della concordanza
si manifesti in ciascuno di essi. Discuti i limiti del metodo della concordanza come metodo per la
ricerca di una connessione causale (i seguenti esercizi sono tratti da Copi & Cohen 1999, con qualche
leggera modifica).
1*. Il national Cancer Institute ha annunciato che alcuni suoi ricercatori hanno trovato un certo
numero di marker genetici condivisi da fratelli omosessuali, il che indicherebbe che l’omosessualità ha
radici genetiche. Gli scienziati hanno scritto su “science” del 16 luglio 1993 di aver trovato che su 40
coppie di fratelli omosessuali esaminati per il loro studio, 33 coppie avevano in comune una certa
sequenza di DNA nel loro cromosoma X, quello che i maschi ereditano solo dalle loro madri. Il
ragionamento implicato in questo rapporto è che, se fratelli che hanno specifiche sequenze di DNA in
comune sono entrambi omosessuali, queste sequenze possono essere considerate marker genetici
dell’omosessualità.
2. Il presidente Jimmy Carter, in una lettera al «New York Times» del 21 febbraio 1993, sostenne
che un aumento delle tasse federali sul tabacco, scoraggiando il fumo, avrebbe salvato centinaia di
migliaia di vite. Scriveva: «Conosco l’incalcolabile peso di sofferenze e perdite umane causate dal
consumo di tabacco. Mio padre, mia madre, entrambe le sorelle e mio fratello sono tutti morti di
cancro. Ciascuno di essi fumava sigarette. Ogni anno circa mezzo milione di americani muoiono per il
fumo diretto o passivo».
3. Alcuni ricercatori dell’Università Statale di Milano hanno teorizzato che l’ascolto di musica
pianistica di Mozart aumenta significativamente le prestazioni nelle prove di intelligenza. Il professor
Argomenti e i colleghi dottoressa Ricerca e dottoressa Ipotesi hanno scritto: «Abbiamo eseguito un
esperimento in cui ad alcuni studenti venivano sottoposti tre insiemi di compiti standard di
ragionamento spaziale, ciascuno era preceduto da dieci minuti di a) ascolto della Sonata per due
pianoforti in D maggiore, K 488, di Mozart, oppure b) ascolto di un nastro di rilassamento, oppure c)
silenzio”. Le prestazioni migliori si avevano quando i compiti erano immediatamente preceduti dalla
prima condizione, rispetto alle altre due. I punteggi salivano di 8 o 9 punti dopo la sonata di Mozart.
Alcuni studenti avevano dichiarato di amare Mozart, altri no, ma non ci sono state differenza evidenti
attribuibili alla diversità di gusti. “Stiamo verificando un modello neurobiologico del funzionamento
del cervello – ha scritto la dottoressa Vittoria Galilei – e la nostra ipotesi è che questi schemi siano
comuni ad alcune attività – scacchi, matematica, certi tipi di musica… L’ascolto della musica potrebbe
stimolare i circuiti neurali importanti per la cognizione”. (Francesco Argomenti, Vittoria Ricerca,
Genoveffa Ipotesi, La musica e le prestazioni nei test di intelligenza spaziale, in «Science», 31 febbraio
2025)
4. Nell’anno 2123 della vecchia era uno studio dei dottori Isaac Moses Mohammed e Joshua
Abdullah Levi, pubblicato in «Rivista internazionale di epistemologia», riportò che in tutto il mondo
gli uomini non circoncisi erano da tre a quattro volte più esposti all’infezione da HIV che non quelli
circoncisi. Un’ipotesi suggerita era che il virus fosse trasmesso attraverso lacerazioni del prepuzio
durante il coito. Uno studio citato in «Il mondo scientifico» del marzo dell’anno venti dalla fondazione
degli Stati Uniti d’Europa sosteneva che «un solo fattore sembra essere correlato con la predisposizione
all’infezione da HIV in Africa: l’assenza di circoncisione».
Metodo della differenza. Analizza il modo in cui viene applicato nel caso seguente.
5*. L’infiammazione, con edema, arrossamenti e dolore, gioca un ruolo centrale nell’artrite
reumatica e nel processo che conduce al diabete. Si può identificare il gene che causa l’infiammazione?
Alcuni patologi dell’Universitìa del North Carolina sono stati in grado di farlo usando quelli che sono
chiamati “topi knockout”. Come gli esseri umani, i topi manifestano infiammazioni in conseguenza di
diversi tipi di infezione, e come gli esseri umani essi possiedono il gene MIP-1 alpha, sospettato di
produrre la proteina che inizia il processo di infiammazione. Il dottor Cook e la sua squadra allevarono
topi privati del gene MP-1 alpha, quindi infettarono quei topi, e un gruppo di controllo di topi normali,
con il virus dell’influenza e del coxsakie (che può causare danni cardiaci a bambini e giovani). In
risposta all’infezione, tutti i topi normali svilupparono una forte infiammazione, con edema e
arrossamenti. I topi privi del MIP-1 alpha invece manifestarono solo un infiammazione leggera.
L’esperimento, ha detto il dott. Cook, dimostra che il gene MIP-1 alpha favorisce l’infiammazione
come risposta all’infezione virale. Questa scoperta, secondo il dott. Cook, potrebbe portare allo
sviluppo di farmaci che permettano al fisico di combattere le infezioni virali senza i dannosi effetti
delle infiammazioni.
Gli esperimenti descritti di seguito furono ideati dai dottori dell’esercito americano W. Reed, J.
Carroll e J.W. Lazear nel novembre 1900. All’inizio dell’anno il dottor Carroll contrasse
deliberatamente la malattia lasciandosi pungere da una zanzara infettata in un altro esperimento;
subito dopo il dottor Lazear morì di febbre gialla.
6. Furono ideati degli esperimenti per dimostrare che la febbre gialla era trasmessa soltanto dalle
zanzare, escludendo ogni altra ragionevole possibilità di contagio. Si costruì una piccola casa, con tutte
le porte, le finestre e ogni altro possibile accesso assolutamente a prova di zanzara. Una zanzariera
metallica divideva l’interno in due stanze. In una di queste stanze furono liberate quindici zanzare che
avevano punto dei malati di febbre gialla. Un volontario non immunizzato fu introdotto nella stanza
con le zanzare e fu punto da sette zanzare. Quattro giorni dopo, egli ebbe un attacco di febbre gialla.
Altre due persone non immunizzate dormirono per tredici notti nella stanza in cui non c’erano zanzare
e non ebbero alcun disturbo. Per dimostrare che la malattia era trasmessa dalle zanzare e non dalle feci
dei malati di febbre gialla o da qualsiasi altra cosa con cui essi fossero stati in contatto, fu costruita
un’altra casa a prova di zanzara. Per venti giorni, questa casa in cui erano stati portati vestiti, lenzuola e
coperte, stoviglie e altri recipienti usati e sporcati da malati di febbre gialla, senza essere state lavate né
sottoposte ad alcun altro trattamento di pulizia. L’esperimento fu ripetuto due volte con altri volontari
non immunizzati. Durante l’intero periodo, tutti gli abitanti della casa furono posti in stretta quarantena
e protetti dalle zanzare. Nessuna delle persone sottoposte a questi esperimenti contrasse la febbre
gialla. Che non fossero immunizzate fu evidente in seguito, dato che quattro di queste persone furono
infettate dalle punture di queste zanzare o dall’iniezione di sangue di malati di febbre gialla.
Analizza il rapporto seguente, spiegando come vi sono stati applicati congiuntamente il metodo
della concordanza e il metodo della differenza, identificando lo speciale contributo, se c’è, della loro
combinazione.
7. La credenza che il peso insufficiente alla nascita sia la causa dell’alta mortalità infantile negli
Stati Uniti è stata contestata da un nuovo studio condotto su più di 7,5 milioni di nascite, e che ha
indicato la causa dell’alta mortalità infantile nelle nascite premature, non nel sottopeso. È il nascere
troppo presto, non troppo piccoli, che sembra essere la causa principale di morti precoci. A parità di
lunghezza della gravidanza, i bambini americani pesano, in media, meno dei bambini norvegesi. Ma a
parità di lunghezza della gravidanza, i bambini americani non hanno una maggiore probabilità di non
sopravvivenza rispetto ai più pesanti bambini norvegesi. Bambini piccoli ma che escono da una
gravidanza completa se la cavano bene. Che sia l’aver terminato la gravidanza il fattore critico è
confermato da un precedente studio dei tassi di sopravvivenza dei bambini sottopeso di madri che
fumavano in gravidanza confrontati con quelli di bambini di ugual peso figli di madri non fumatrici. Il
fumo, come l’alimentazione insufficiente, influenza l’acquisto di peso prenatale. Ma “grammo per
grammo”, riferirono i ricercatori, i “figli di madri fumatrici avevano un tasso di sopravvivenza
maggiore”. Sembra un paradosso, ma si spiega come segue: il fumo interferisce con l’acquisizione di
peso, ma non abbrevia la gravidanza. In un ampio campione di neonati sottopeso, i figli di madri
fumatrici è più probabile che abbiano completato la gravidanza, mentre i bambini sottopeso di madri
non fumatrici è più probabile che siano prematuri. Quindi, concludono i ricercatori, è il loro essere
prematuri, non il loro peso, che spiega l’alto tasso di mortalità infantile tra neonati sottopeso figli di
madri non fumatrici.
Analizza il seguente argomento in termini di “antecedenti” e “fenomeni” mostrando in che modo
esso segua lo schema del metodo dei residui.
8. Che l’aria abbia peso non è più un argomento di discussione. È ben noto che un pallone è più
pesante quando è gonfiato rispetto a quando è vuoto, il che è una prova sufficiente. Poiché se l’aria non
avesse peso, quanto più il pallone venisse gonfiato, tanto più leggero sarebbe il tutto, perché in esso ci
sarebbe più aria. Poiché, al contrario, quanta più aria viene introdotta, tanto più pesante diventa il tutto,
ne segue che ogni parte ha un suo peso proprio, e di conseguenza che l’aria ha un peso (Blaise Pascal,
Pesanteur de la masse de l’air).
Analizzate i seguenti argomenti in termine di variazione di “fenomeni” per mostrare come ciascuno
di essi segua lo schema del metodo delle variazioni concomitanti.
9*. Nel più grande acceleratore di particelle del mondo, il LEP (Large-Electron-Positron Collider),
azionato dal laboratorio di fisica delle particelle di 18 nazioni europee (CERN), uno strano enigma è
rimasto irrisolto per più di un anno. Non si riuscivano a spiegare alcune fastidiose fluttuazioni nei raggi
di elettroni e positroni (i loro gemelli di antimateria) che girano vorticosamente nell’anello di 26, 7 km
dell’acceleratore. Anche se molto piccole, queste fluttuazioni creano seri problemi quando l’energia dei
raggi deve essere misurata con molta precisione. “Avevamo supposto che qualcosa nel nostro apparato
stava causando queste fluttuazioni – l’alimentazione di corrente o qualcos’altro”, disse il dott. Lyn
Evans, il fisico gallese responsabile del LEP. Ma il dott. Gerhard Fischer, del centro dell’acceleratore
lineare di Stanford in California, suggerì che le forze gravitazionali esercitate dalla luna, chiamate
effetti lunari di marea, potevano essere la causa. Il dott. Albert Hofmann del CERN e i suoi colleghi
verificarono questa ipotesi lunare con un esperimento lungo ed estenuante nel novembre del 1992. Essi
registrarono un complesso schema di fluttuazioni nell’energia dei raggi di particelle del LEP che
corrispondeva esattamente alle fluttuazioni della forza di marea esercitata dalla luna. Il problema era
risolto. L’attrazione gravitazionale della luna non influenza direttamente gli elettroni o i positroni che
sfrecciano intorno all’anello sotterraneo presso il LEP. Ma la forza di marea della luna deforma molto
lievemente il vasto tratto di terra in cui è incassato il tunnel circolare, modificando la circonferenza di
26,7 km del tunnel di un solo millimetro. Questo minuscolo cambiamento nelle dimensioni
dell’acceleratore causa fluttuazioni di circa 10 milioni di elettronvolt nelle energie dei raggi. (Malcom
Browne, Moon Is Found to Be the Cause of a Real Puzzle, in “New York Times”, 17 novembre 1992).
10. Sono stati fatti accurati studi sull’incidenza della leucemia nei sopravvissuti delle bombe
atomiche scoppiate su Hiroshima e Nagasaki. Questi sopravvissuti sono stati esposti a radiazioni che
vanno da pochi roentgen a 1.000 e più roentgen. Essi sono divisi in quattro gruppi. Il primo gruppo, A,
è costituito dai 1870 sopravvissuti che, secondo una stima effettuata, si trovavano entro un chilometro
dall’ipocentro (il punto sulla superficie terrestre direttamente sotto la bomba al momento
dell’esplosione). Ci furono pochissimi sopravvissuti in questa zona e furono esposti a una grande
quantità di radiazioni. Il secondo gruppo, B, è costituito dai 13.730 sopravvissuti tra 1,0 e 1,5
chilometri dall’ipocentro. Il terzo, C, dai 23.060 tra 1,5 e 2,0 chilometri. Il quarto, D, dai 156.400 a
oltre 2 chilometri dall’ipocentro. I sopravvissuti delle zone A, B e C sono morti di leucemia durante il
periodo in cui vennero condotti questi studi, cioè gli otto anni dal 1948 al 1955, con una media di circa
9 morti all’anno. Si sono avuti molti più casi di leucemia tra i 15.60 sopravvissuti delle zone A e B, che
tra i 156.400 sopravvissuti della zona D, che ricevettero una quantità molto minore di radiazioni. I
sopravvissuti della zona A rivecettero una media stimata di 650 roentgen, quelli della zona B 250,
quelli della zona C 25 e quelli della zona D 2,5. Nei limiti di attendibilità dei numeri, l’incidenza della
leucemia nelle tre popolazioni A, B e C è proporzionale alla quantità stimata di radiazioni, persino per
la classe C, per la quale la quantità stimata è di solo 25 roentgen.
La ricerca del materiale genetico. Spiega qual è il criterio utilizzato da Griffith per individuare la
sostanza responsabile del trasferimento di informazione genetica dai genitori ai figli. Il testo è tratto
da Peter J. Russell, I-Genetica, Napoli 2002, pp. 35-36.
11. Attorno al 1890, uno scienziato tedesco, August Weismann, sostenne l’idea che nei nuclei delle
cellule ci fosse una sostanza che controllava lo sviluppo cellulare e pertanto le caratteristiche
dell’intero organismo. Nei primi anni del ’900 fu sperimentalmente dimostrato che i cromosomi – le
strutture filamentose presenti nel nucleo – sono i portatori delle caratteristiche ereditarie. L’analisi
chimica dimostrà, nel corso dei 40 anni seguenti, che i cromosomi sono composti di proteine e acidi
nucleici, una classe di composti che comprende il DNA e l’RNA. Dapprima molti scienziati ritenevano
che il materiale ereditario fosse costituito dalle proteine, immaginando che queste ultime dovessero
avere maggiore capacità di contenere informazioni in quanto composte da 20 aminoacici. Il DNA, con i
suoi quattro nucleotidi, sembrava una molecola troppo semplice per rendere conto della variabilità
degli organismi viventi. Tuttavia, a partire dagli anni ’20, una serie di esperimenti portò alla definitiva
identificazione del DNA come il materiale genetico.
Uno dei primi studi fu condotto nel 1928 da Frederick Griffith, un ufficiale medico inglese, che
stava lavorando su Streptococcus pneumoniae (chiamato anche pneumococco), un batterio che causa la
polmonite. Griffith utilizzò due ceppi del batterio: uno, il ceppo liscio (S=smooth) produce colonie
lisce e lucenti ed è altamente infettivo (virulento); l’altro (il ceppo R=rugoso) produce colonie
dall’aspetto rugoso ed è innocuo (avirulento). Nonostante questo nel 1928 non fosse ancora noto, ogni
cellula batterica del tipo S è avvolta da un involucro polisaccaridico, o capsula, che conferisce al ceppo
le sue proprietà infettive e dà luogo all’aspetto lustro e liscio delle colonie S. Il ceppo ruvido, che è una
mutazione del ceppo S, manca dell’involucro saccaridico.
Esistono diverse varianti del ceppo S che presentano differenze nella composizione chimica
dell’involucro polisaccaridico. Griffith lavorò su due varietà, i ceppi IIS e IIIS. Occasionalmente,
cellule di tipo S possono mutare in cellule di tipo R e viceversa. Le mutazioni sono tipo-specifiche,
quindi, se una cellula IIS muta in una cellula R, quest’ultima può solo retromutare a IIS e non ad una
cellula IIIS.
Griffith iniettò dei topi con diversi ceppi batterici, verificando se l’animale rimaneva sano oppure
moriva. Quando i topi venivano infettati con batteri IIR, prodotti da mutazioni di natteri di tipo IIS, i
batteri IIR non avevano effetto. Quando i topi venivano infettati con batteri vivi del tipo IIIS,
morivano, e dal loro sangue si potevano isolare batteri vivi del tipo IIIS. Tuttavia i topi sopravvivevano
se, prima di venire iniettati, i batteri IIIS erano uccisi al calore. Questi due esperimenti dimostrarono
che i batteri dovevano essere vivi e possedere l’involucro polisaccaridico per poter essere infettivi.
Nell’esperimento chiave, Griffith infettò dei topi con una miscela di batteri vivi IIR e batteri di tipo
IIIS uccisi al calore. Sorprendentemente, i topi morirono e batteri vivi S erano presenti nel sangue.
Questi batteri erano tutti di tipo IIIS e pertanto non avrebbero potuto originarsi per mutazione dei
batteri R, dal momento che una mutazione di questi ultimi avrebbe prodotto colonie IIS. Griffith
concluse che alcuni batteri IIR erano stati in qualche modo trasformati in cellule lisce e infettive per
interazione con le cellule morte di tipo IIIS. Griffith riteneva che l’agente sconosciuto responsabile per
il cambiamento del materiale genetico fosse una proteina e si riferì a questo agente come al principio
trasformante.
Individua i criteri utilizzati nei seguenti studi per individuare le cause. Se cogli anche argomenti a
te noti, indica quali sono e valuta complessivamente gli studi.
12. Non c’è dubbio che la diffusione della corruzione sia un ostacolo di fondamentale importanza
per lo sviluppo economico. Ma la ricerca sulle cause della corruzione non è ancora pronta a rispondere
alla domanda più importante: perché in alcuni Paesi la corruzione è più diffusa che in altri?
Per qualcuno (ad esempio Gary Becker nel suo fondamentale articolo del 1968 su Crime and
Punishment) la corruzione ha a che vedere semplicemente con la mancata dissuasione derivante
dall’imperfetta applicazione (enforcement) della legge. Un numero crescente di studiosi sostiene invece
che la legge non può nulla contro radicate abitudini culturali e norme sociali molto più potenti di ogni
regola codificata. Se la corruzione è un problema culturale, interventi legislativi volti ad aumentare il
grado di rispetto della legge sono inutili. Quindi, capire l’importanza relativa delle norme sociali e del
grado di attuazione della legge è fondamentale per adottare le misure appropriate per combatterla.
Fisman e Miguel, due economisti, rispettivamente, di Columbia e Berkeley, hanno sfruttato i dati
sulle infrazioni per divieto di sosta commesse dai diplomatici stranieri a New York. Hanno così
effettuato un utile esperimento per quantificare l’importanza dei fattori culturali nel determinare la
diffusione della corruzione.
Come noto, i diplomatici e i loro familiari sono protetti da immunità diplomatica nei Paesi che li
ospitano. Naturalmente la ragione d’essere dell’immunità diplomatica è nobile e ha storicamente
risposto all’esigenza di tutelare i diplomatici da maltrattamenti in contesti ostili. Più recentemente,
però, nella città di New York, l’immunità è stata sempre più vista come il miglior permesso di
parcheggio gratuito disponibile per le zone non consentite. Fino al novembre 2002, infatti, al personale
dei consolati (e alle loro famiglie) che vivevano e lavoravano a New York era consentito il privilegio di
non pagare le multe per sosta vietata. Si tratta di una situazione ideale per chi voglia studiare l’origine
della corruzione: un caso in cui a tante persone provenienti da diversi Paesi (e norme sociali) e tutte
presumibilmente abbienti, è stata offerta la possibilità di scegliere se violare la legge oppure no, senza
costi individuali.
Tale situazione si avvicina a essere un esperimento naturale per valutare l’influenza delle norme
sociali sull’attività di corruzione per varie ragioni. L’azione di parcheggiare in modo illegale da parte
di un diplomatico è un buon esempio di corruzione in senso lato, poiché rappresenta un abuso di potere
volto a ottenere un vantaggio privato. Inoltre, per costruzione, i risultati dell’esperimento in questione
non sono influenzati da differenze tra Paesi nel grado di applicazione della legge (nessun diplomatico o
suo familiare ha dovuto pagare multe per sosta vietata nel periodo preso in esame). In questo modo, le
ragioni d’essere della corruzione à la Becker sono assenti. Inoltre, poiché la maggior parte dei
diplomatici abita nella zona centrale di Manhattan, ci si può aspettare che la loro propensione a lasciare
l’auto in sosta vietata non sia influenzata da una maggiore o minore disponibilità di parcheggi, ma solo
dalla loro propensione a non rispettare le regole.
L’esperimento di New York consente cioè di costruire ciò che in gergo microeconomico è definita
una misura di “preferenza rivelata» per la corruzione. La misura è calcolata per pubblici ufficiali di 146
paesi del mondo e può essere confrontata con i dati sulla diffusione di corruzione negli stessi Paesi
ricostruiti da organizzazioni come Transparency International. Rispetto all’indicatore di Transparency
International, la misura di Fisman e Miguel ha però il vantaggio di essere un indicatore oggettivo,
basato su dati di fatto e non su interviste a imprenditori e altri testimoni privilegiati che potrebbero
essere influenzati nell’espressione delle loro opinioni da articoli di giornale a loro volta determinati
dalle classifiche di istituti come Transparency International. Insomma, l’indicatore di Fisman e Miguel
ha il vantaggio di non soffrire del rischio di circolarità logica di cui sono invece soggetti gli indicatori
soggettivi di corruzione.
A cosa arriva la loro analisi empirica? In breve, condlude che, al contrario di quanto suggerito
dall’analisi di Becker, i diplomatici provenienti da Paesi in cui la corruzione è bassa (i Paesi nordici)
effettivamente parcheggiano raramente in sosta vietata, mentre quelli che provengono da Paesi ad alta
densità di corruzione (come la Nigeria e l’Egitto) si comportano male, commettendo un gran numero di
violazioni. Purtroppo, l’Italia è il Paese dell’Unione Europea con la più elevata incidenza di infrazioni
per diplomatico: circa quindici in un anno, un decimo di quelle commesse da un diplomatico egiziano
nello stesso periodo di tempo, ma il doppio di quelle commesse da un diplomatico francese e quindici
volte di più di quelle commesse da un diplomatico tedesco. La corruzione è quindi strettamente
correlata con la provenienza e, presumibilmente, con le norme sociali che un diplomatico si porta dietro
dal Paese di origine; per questo è così difficile debellarla con una legislazione anti-corruzione. [...]
(«Parcheggi diplomatici», di Francesco Daveri, Il Sole-24 ore del 24 settembre 2006)
13. (Titolo) Il consumo di cannabis aumenta il rischio di psicosi.
(Articolo) Cardiff. I giovani che consumano haschisch o marijuana presentano un rischio fino a 41
volte più elevato di avere in seguito malattie psicologiche. Questo è il risultato di una ricerca condotta
dal gruppo guidato da Stanley Zammit presso la British University e pubblicato sulla rivista medica
Lancet. I ricercatori hanno analizzato 35 studi sulla cannabis, nei quali si è evidenziata una correlazione
piuttosto elevata con le psicosi. Si tratta di disturbi psichici gravi, che possono determinare una eprdita
momentanea della percezione della realtà. Ma anche altre malattie psichiche come depressione, manie
suicide e angoscia erano presenti più frequentemente nei consumatori di cannabis. Zammit ritiene
perciò che i prodotti della cannabis siano considerati a torto delle droghe leggere. Apparentemente,
almeno per quanto riguarda il rischio di psicosi, aggiunge, sono stati sottovalutati nel passato ( cfr.
Lancet, Bd. 370, S. 319).
14. (Titolo) Sono gli olandesi i "giganti" del mondo, seguiti da norvegesi, danesi e tedeschi. Migliori
sistemi sanitari e alimentazione più sana avvantaggiano gli europei. Cibi spazzatura e sanità solo per
ricchi gli Usa perdono il record dei più alti
(Articolo) ROMA - Abituati da duecento anni ad essere considerati il popolo più alto del pianeta, gli
americani si trovano ora scavalcati dagli europei. Non solo il primato gli è stato strappato dagli
olandesi - più alti di ben 4,7 centimetri i maschi e 5,7 le donne - ma sono anche scivolati al quinto
posto, dietro a norvegesi, danesi e tedeschi.
Cosa è successo? La statura ha uno stretto legame con il benessere e con le sane abitudini alimentari,
dicono gli autori dello studio pubblicato sulla rivista Annals of Human Biology. John Komlos,
professore di storia economica all’università di Monaco e Benjamin Lauderdale, politico all'università
di Princeton, imputano alla enorme diffusione del “cibo spazzatura” dei fast food il rallentamento della
crescita dei cittadini statunitensi. Una moda che sta uniformando la scala sociale: per motivi diversi, sia
i milioni di americani al di sotto della soglia della povertà che i ricchi tendono a diventare più larghi
che alti.
Resterebbe da spiegare perché, al contrario, gli olandesi siano oggi i più alti del pianeta, con i loro
184,2 centimetri di media. Il professor Komslos, una delle massime autorità in materia di storia
antropometrica - una disciplina che studia le variazioni della statura in relazione a fattori sociali,
economici e ambientali. - pensa che il fenomeno sia da attribuire agli ottimi sistemi sanitari dei Paesi
del Nord Europa. Al contrario, dice il professore, negli States solo i più ricchi possono permettersi una
sanità migliore.
Dai dati statistici risulta infatti che il ritmo di crescita degli americani nati a partire dagli anni
Cinquanta sia inferiore a quello delle precedenti generazioni. E non solo per i bianchi: anche la
popolazione di colore si è fermata nella crescita. Durante la prima guerra mondiale, il soldato
americano medio era più alto di qualche centimetro del tedesco, ma in un momento imprecisato intorno
al 1955 la situazione ha cominciato a capovolgersi. (Corriere della sera del 1 febbraio 2007)