“The Ring and the Rings – Wagner vs. Tolkien” di Alex Ross The

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“The Ring and the Rings – Wagner vs. Tolkien” di Alex Ross The
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“The Ring and the Rings – Wagner vs. Tolkien” di Alex Ross
The New Yorker, 22 dicembre 2003
All’inizio de “La compagnia dell’anello”, primo film della monumentale trilogia di Peter
Jackson Il Signore degli anelli, il mago Gandalf si trova solo un una stanza con un piccolo
gioiello che potrebbe decretare la fine del mondo. Sta lì luccicante e Gandalf lo guarda
con un atteggiamento misto di fascino e paura. Il pubblico sente un brivido che né la
vertiginosa inquadratura di Jackson, né le arcuate sopracciglia di Ian Mckellen possono
spiegare pienamente.
Gli amanti di Tolkien hanno a lungo mantenuto una sorta di segreto patto di silenzio su
Wagner, ma non c’è modo di negare la sua influenza, non quando i personaggi
pronunciano battute come “cavalca verso la rovina e la fine del mondo” – Brunilde
condensata in sette parole.
Tolkien si rifiutò di ammettere che il suo anello avesse qualcosa a che fare con quello di
Wagner. “entrambi gi anelli sono dei cerchi, e qui finiscono le somiglianze” diceva. Ma
certamente conosceva Wagner, e aveva anche fatto uno studio informale sulla Valchiria,
non troppo tempo prima di scrivere i suoi romanzi. L’idea dell’anello del potere deriva
direttamente da Wagner; infatti non c’è niente di simile nelle antiche saghe nordiche.
Certo, nella Saga del Volsunghi compare un anello da un tesoro maligno, ma non ha
potere effettivo. Nella saga dei Nibelunghi, c’è una bacchetta magica che potrebbe
essere usata per dominare tutto, ma finisce lì. Wagner combina questi due oggetti in un
amuleto spaventoso che viene forgiato da Alberich dall’oro del Reno. Quando Wotan
ruba l’anello per salvaguardare gli dei, Alberich lancia una maledizione su di esso, tale
per cui, per dirla con le sue parole, “il Signore dell’anello diventa schiavo dell’anello”.
Dettagli come questo rendono difficile credere alle sconfessioni di Tolkien. Ammettilo J.
J. R., correvi brandendo un bastone da passeggio e cantando: “Nothung! Nothung!” (la
spada con cui Sigfrido ucciderà il drago Fafner per recuperare l’anello ndr), come un
qualunque giovanetto esaltato di Oxford.
Sicuramente non è un caso che l’idea di un Anello del potere fosse emersa nel tardo XIX
secolo, quando le tecnologie di distruzione di massa apparivano all’orizzonte. Gli
scrittori pre-moderni non avevano alcuna traccia per queste cose: il potere per loro non
era una bacchetta che può passare da una persona ad un’altra, coloro che avevano il
potere erano nati con il potere, quelli che ne erano privi continuavano ad esserne privi.
Dal tempo di Wagner, fu chiaro che una volontà individuale anche insignificante può
improvvisamente incutere terrore. Oscar Wilde lanciò una memorabile premonizione
della guerra che sarebbe avvenuta in futuro: “un chimico potrebbe avvicinarsi alla
frontiera con una bottiglia”.
E non fu solo l’anello ad essere “letto” in termini di scienza militare. I mass media
adesso ammettono che la distruzione del mondo può avvenire attraverso un’idea, un
sistema di credenze, una cultura. In mille modi diversi, gli uomini stavano creando cose
sulle quali non avrebbero avuto il controllo, e che avrebbero finito per controllare loro.
Tolkien comincia a scrivere Il signore degli anelli all’inizio del primo conflitto mondiale,
la cui carneficina egli aveva sperimentato direttamente, e finisce all’inizio della seconda
guerra mondiale. In entrambe le guerre fu testimone del matrimonio fra la mitologia
teutonica e la potenza militare tedesca. Egli si rammaricava di come i nazisti avessero
alterato “quel nobile spirito nordico”. Potremmo vedere Il signore degli anelli come una
sorta di operazione di riscatto per salvare i miti nordici dalle mistificazioni, forse
persino salvando Wagner da se stesso. Tolkien provò, sembra, a creare un Anello più
gradevole, più gentile, una mitologia priva di malizia. Alla fine gli Elfi rinunciano al loro
dominio, proprio come, in Wagner, gli dei abbandonano il loro. È un pacifico
trasferimento di potere, non apocalittico. La storia finisce non con il crollo del Valhalla
ma con la restaurazione di un mondo distrutto.
E’ probabilmente un’eresia affermare che i film della saga Il signore degli anelli
superino il libro da cui sono tratti. Le pagine raccontano una storia fantastica con uno
stile familiare, ma il film va oltre le apparenti limitazioni del suo mezzo, nello stesso
modo in cui Wagner trascende le limitazioni dell’Opera.
La finzione cinematografica fa rivivere l’arte della meraviglia romantica, confeziona il
sublime. Io spero che una piccola frazione dell’immenso pubblico mondiale di questi film
sia un giorno tentato dal mondo wagneriano, che potrebbe offrire loro qualcosa di nuovo
e di diverso. Per Tolkien il mito è una finestra su un mondo ideale, più brillante e a
tratti più cupo del nostro, per Wagner è un magnifico specchio per la mediocre,
disperata anima moderna.
Vi è un’idea ampiamente condivisa del ciclo di Wagner come una roboante saga
nazionalistica nella quale eroi dai capelli biondi trionfano su nani, nemici vagamente
ebrei. Indubbiamente Wagner si presta a molteplici interpretazioni, ma l’Anello non è
tutto quel che sembra. Esso è infatti un attacco prolungato all’idea di potere mondiale,
al culto del monumentale – in pratica ad ogni cosa che noi pensiamo come wagneriana.
All’inizio, il dio Wotan cerca di espandere il suo regno, ma ogni passo che lui compie lo
porta a imporsi sugli affari degli altri, per rendere reali i suoi desideri, ciò conduce
inesorabilmente alla sua caduta. Egli è segnato dall’inizio, e l’anello diventa un simbolo
della corruzione della sua autorità. Tolkien crede nelle forze della bontà, nel potere
della ragione. Wagner rifiuta tutto ciò – era un anarchico della prima ora – e vede la
redenzione solo nell’amore.
Quando Tolkien ruba l’anello di Wagner, tralascia la sua caratteristica più importante che esso può essere forgiato solo da colui che ha rinunciato all’amore. L’opacità
sessuale della saga di Tolkien è stata più volte notata, e i film la replicano fedelmente.
Le persone desiderabili sono presenti sullo schermo, ma non è dato capire se a un certo
punto hanno avuto o avranno una relazione, i loro intrighi sentimentali sono ininfluenti
per la trama. E’ il piccolo anello che tira fuori l’avidità degli uomini e degli hobbits. E
cosa fanno le persone che lo desiderano? Sono seguaci dello stile di vita vistoso di Sauron
sulla cima di Barad-dur? L’anello è un incubo infinito, genera avidità e non dà alcuna
soddisfazione.
Wagner, al contrario, usa l’anello per illuminare, con varie intensità, relazioni confuse e
troppo umane. Alberich forgia l’anello solo dopo che le fanciulle del Reno hanno
respinto le sue avances. Wotan è ossessionato dall’anello come conseguenza del suo
matrimonio senza amore con Fricka. Persino dopo che vede attraverso le sue delusioni e
raggiunge una accettazione quasi buddista della sua mancanza di potere, lui non ha
nient’altro da fare che rassegnarsi e vagabondare nella notte. Per Siegfried e Brunilde,
persi nel loro reciproco amore, l’anello è solo un gioiello, un simbolo della loro
devozione. Loro asseriscono la loro passione terrena contro il mondo degli dei di Wotan,
e di conseguenza lo abbattono. L’apparato stesso del mito, la fede nei poteri, nelle
gerarchie, sgretola le mura del Valhalla. Forse quel che più ha irritato Tolkien è il fatto
che Wagner avesse scritto un’opera mitica di 16 ore e poi, alla fine, avesse soffiato sulle
fondamenta del mito.
Chiaramente, la nozione del ciclo dell’anello come una sorta di giardino del sesso può
sembrare forzata quando le opere vengono viste dal vivo. La gente di solito pensa a
Wagner come a un gruppo di persone grasse che cantano forte, e tutto sommato non
hanno torto. Alla Metropolitan Opera non c’è neppure un tenore che somigli a Viggo
Mortensen. Ma se in un teatro dell’opera qualche volta noti una discrepanza fra ciò che
senti nel libretto e la musica e ciò che vedi sul palco questo non è meno confuso che
quando agli spettatori cinematografici viene chiesto di credere che un elfo possa
uccidere un olifante. La stessa cosa succede nell’opera. La premessa è che gli esecutori
sono innanzitutto cantanti d’opera che devono assumere i ruoli di eroi dell’azione.
L’esperienza del film, e in particolare della musica del film – ha probabilmente avuto un
effetto pregiudizievole sul modo in cui la gente vede l’opera dal vivo. Ci si aspetta di
vedere immagini da coordinare con la musica corrispondente – Mickey Mousing,
avrebbero detto i compositori della disney. Howard Shore, nel Signore degli anelli,
pratica l’arte del Mickey Mousing ad un eccellente livello. Ma nell’opera la musica
prende il comando, generando un paesaggio immaginario che registi, direttore e
cantanti si sforzano di realizzare come meglio possono. Neppure Peter Jackson sarebbe
capace di tenere il passo dello schianto roboante di Wagner, misurandosi con immagini
musicali sempre in evoluzione, eppure un giorno un teatro dell’opera certamente gli
chiederà di provarci. Quando vedrò il ciclo al Met, chiuderò gli occhi ed immaginerò il
film e l’opera fuse insieme, come un unico Anello che li governa tutti.