Iraq 15 08 2014

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Iraq 15 08 2014
"È con il cuore carico e angosciato che ho seguito i drammatici
eventi di questi ultimi giorni nel nord Iraq". Lo scrive papa
Francesco in una Lettera indirizzata al segretario dell'Onu Ban
Ki-moon. La missiva si inserisce nel quadro delle iniziative che
il Pontefice ha preso per sollecitare la comunità internazionale,
e tutti gli uomini e le donne di buona volontà, a cercare di
fermare la persecuzione dei cristiani iracheni da parte degli
jihadisti dell'autoproclamato Califfato islamico.
"Con lo stesso spirito", scrive Francesco a Ki-moon, "metto
davanti a lei le lacrime, le sofferenze e le grida accorate di
disperazione dei cristiani e di altre minoranze religiose
dell'amata terra dell'Iraq". "Nel rinnovare il mio appello urgente
alla comunità internazionale ad intervenire per porre fine alla
tragedia umanitaria in corso", ribadisce il Pontefice, "incoraggio
tutti gli organi competenti delle Nazioni Unite" a "continuare i
loro sforzi in conformità con il Preambolo e gli Articoli pertinenti
della Carta delle Nazioni Unite.
Al tempo stesso le violenze dilaganti nel nord dell'Iraq "non
possono non risvegliare le coscienze di tutti gli uomini e le
donne di buona volontà ad azioni concrete di solidarietà, per
proteggere quanti sono colpite o minacciati dalla violenza".
Il Papa conclude dicendosi "fiducioso che il mio appello, che
unisco a quelli dei patriarchi orientali e degli altri leader
religiosi, incontrerà una risposta positiva"
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Parrocchia “S. Maria Nascente”
Coccaglio
Per comprendere
la tragedia dell’Iraq
(e delle zone della Siria
cadute in mano ai fondamentalisti)
per risvegliare la nostra attenzione solidale
con i fratelli perseguitati a causa della loro fede in Cristo
e verso le altre minoranze religiose
sottoposte a indicibili sofferenze e vessazioni
nella terra dell’antica Mesopotamia
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Noi non possiamo tacere
Messaggio del Presidente della CEI per la
Giornata di preghiera per i cristiani perseguitati
15 agosto 2014,
Dal 14 al 18 agosto siamo chiamati ad accompagnare spiritualmente
il Santo Padre nella sua visita in Corea del Sud, dove partecipa alla
VI Giornata della Gioventù asiatica. Per le nostre comunità è
un’occasione preziosa per accostare la realtà di quella Chiesa: una
Chiesa giovane, la cui vicenda storica è stata attraversata da una
grave persecuzione, durata quasi un secolo, nella quale circa 10.000
fedeli subirono il martirio: 103 di loro sono stati canonizzati nel 1984,
in occasione del secondo centenario delle origini della comunità
cattolica nel Paese.
In questa luce si coglie la forza del tema che scandisce l’evento:
“Giovani dell’Asia! Svegliatevi! La gloria dei martiri risplende su di voi:
“Se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con
Lui” (Rm 6,8). Sono parole che vorremmo potessero scuotere anche
questa nostra Europa, distratta ed indifferente, cieca e muta davanti
alle persecuzioni di cui oggi sono vittime centinaia di migliaia di
cristiani.
Se la mancanza di libertà religiosa – fondativa delle altre libertà
umane – impoverisce vaste aree del mondo, un autentico Calvario
accomuna i battezzati in Paesi come Iraq e Nigeria, dove sono
marchiati per la loro fede e fatti oggetto di attacchi continui da parte di
gruppi terroristici; scacciati dalle loro case ed esposti a minacce,
vessazioni e violenze, conoscono l’umiliazione gratuita
dell’emarginazione e dell’esilio fino all’uccisione.
Le loro chiese sono profanate: antiche reliquie, come anche statue
della Madonna e dei Santi, vengono distrutte da un integralismo che,
in definitiva, nulla ha di autenticamente religioso. In queste zone la
presenza cristiana – la sua storia più che millenaria, la varietà delle
sue tradizioni e la ricchezza della sua cultura – è in pericolo: rischia
l’estinzione dagli stessi luoghi in cui è nata, a partire dalla Terra
Santa.
E così oggi guardiamo ai cristiani iracheni, di diverse Chiese, non solo
cattoliche, ma anche ortodosse e evangeliche, che soffrono
enormemente per la persecuzione. Insieme a loro ci sono minoranze
come gli yazidi, di cui molti non hanno mai sentito parlare. Le loro
antiche tradizioni religiose si mischiano con quelle cristiane e
musulmane. Il loro 'essere supremo' è Yasdan, considerato talmente
elevato che non lo si può pregare direttamente.
Ma ci si può rivolgere a uno dei suoi spiriti, il più grande, che è l’angelo
pavone, Malak Taus, esecutore della volontà divina. Malak Taus è
considerato come Dio, inseparabile da lui, e per questo si ritengono
monoteisti. Gli yazidi pregano rivolti a quest’angelo cinque volte al
giorno. Il loro luogo sacro è il monte Sindjar, in Iraq. Si tratta di una
popolazione pacifica di cui è difficile stimare il numero (le cifre oscillano
tra 70.000 e 500.000): piccole comunità sparse tra il nord-ovest
dell’Iraq, il nord-ovest della Siria e il sud-est della Turchia. La storia li
ricorda come protettori degli armeni e degli altri cristiani durante i
massacri della prima guerra mondiale in Turchia. Il loro territorio
divenne rifugio per i cristiani.
Oggi guardiamo a queste sofferenze con la coscienza che si deve fare
di più per loro: protezione, accoglienza, sostegno, aiuto. Tutti siamo
chiamati a fare qualcosa e a pregare, come ci ricorda anche l’iniziativa
della Cei per il 15 agosto. È necessario mobilitarsi perché tanto dolore
finisca al più presto. Non vogliamo che cresca il numero dei 'nuovi
martiri' in questo XXI secolo. Anzi, dobbiamo agire perché questa e
altre tragedie, causate da nuovi totalitarismi, si fermino. Ma dobbiamo
anche sapere che questa sofferenza – come fu quella di chi ci ha
preceduto – è un richiamo a costruire ovunque una società più umana,
più libera, più solidale, dove ci sia posto per tutti nella pace. E la pace
la si costruisce insieme a tutti coloro che credono che nessuna guerra è
santa, ma lo è soltanto la pace.
Marco Impagliazzo
“Avvenire” 12 agosto 2014
A fronte di un simile attacco alle fondamenta della civiltà, della dignità
umana e dei suoi diritti, noi non possiamo tacere. L’Occidente non
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I cristiani sanno che
santa è soltanto la pace
«Ci lasciano increduli e sgomenti le notizie giunte dall’Iraq: migliaia di
persone, tra cui tanti cristiani, cacciati dalle loro case in maniera
brutale; bambini morti di sete e di fame durante la fuga; donne
sequestrate; violenze di ogni tipo; distruzione di patrimoni religiosi,
storici e culturali. Tutto questo offende gravemente Dio e l’umanità».
Sono le parole accorate di papa Francesco domenica all’Angelus. L’ora
è drammatica per migliaia di iracheni: cristiani e yazidi, soprattutto. La
mobilitazione internazionale cresce, anche se sembra sempre troppo
poco. Ma qualcosa, a livello mondiale, si è mosso. È importante. Aver
parlato, supplicato, gridato e soprattutto pregato nei mesi e nei giorni
scorsi ha risvegliato qualcosa. È giunto il momento di fare. E in fretta. È
una crisi che mostra la brutalità e l’insensatezza di un totalitarismo. Ne
abbiamo sperimentati nel XX secolo: oggi in Iraq ce n’è uno nuovo
ammantato di religione. Ma, dice il Papa, «non si porta l’odio in nome di
Dio». Qui c’è un punto di riflessione per tutte le religioni. La Chiesa
cattolica ha aperto una strada con il Concilio e con lo 'spirito di Assisi',
l’incontro voluto da Giovanni Paolo II nell’ottobre 1986 nella città di san
Francesco. Allora il Papa convocò i leader religiosi mondiali per pregare
per la pace. Voleva togliere ogni giustificazione alla violenza religiosa.
La pace doveva tornare al cuore dell’impegno delle religioni. Nessuna
guerra è santa, soltanto la pace lo è. La Chiesa e i cristiani continuano
a cercare interlocutori in questo cammino.
Lo fanno a partire dalla vicenda del secolo XX, in cui hanno
sperimentato la violenza dei totalitarismi. Nel grande Giubileo del 2000
Giovanni Paolo II volle ricordare i «nuovi martiri». Uno degli aspetti più
significativi di quell’Anno Santo fu proprio la memoria dei 'nuovi martiri'
al Colosseo, il 7 maggio 2000. Una commissione vaticana lavorò per far
emergere le storie, i luoghi, i nomi dei milioni di cristiani che hanno dato
la loro vita per ilVangelo in epoca contemporanea. Il Papa volle che
fosse dedicata a Roma una basilica ai 'nuovi martiri', San Bartolomeo
all’Isola Tiberina. I risultati di quella ricerca furono impressionanti: per il
numero dei martiri e per la forza della loro testimonianza. La fede di
milioni di persone ha fatto sì che il nostro mondo non fosse travolto dal
male.
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può continuare a volgere lo sguardo altrove, illudendosi di poter
ignorare una tragedia umanitaria che distrugge i valori che l’hanno
forgiato e nella quale i cristiani pagano il pregiudizio che li confonde
in modo indiscriminato con un preciso modello di sviluppo.
A nostra volta, vogliamo che la preoccupazione per il futuro di tanti
fratelli e sorelle si traduca in impegno ad informarci sul dramma che
stanno vivendo, puntualmente denunciato dal Papa: “Ci sono più
cristiani perseguitati oggi che nei primi secoli”.
Con questo spirito invitiamo tutte le nostre comunità ecclesiali ad
unirsi in preghiera in occasione della solennità dell’Assunzione della
Beata Vergine Maria
(15 agosto) quale segno concreto di
partecipazione con quanti sono provati dalla dura repressione. Per
intercessione della Vergine Madre, il loro esempio aiuti anche tutti noi
a superare l’aridità spirituale di questo nostro tempo, a riscoprire la
gioia del Vangelo e il coraggio della testimonianza cristiana.
La Presidenza della Conferenza Episcopale Italiana
Sulle case di tutti
‫ن‬
Una «N» per marchiare, per umiliare, per discriminare, per
derubare legalmente. La impongono – in carattere arabo,
lo stesso che sotto il titolo che apre questa pagina – i
fondamentalisti musulmani sunniti dell’Isis a Mosul, in
Iraq. «N» come «nasara», seguace del Nazareno, cioè cristiano. «N»
come marchio di vergogna. Ma vergogna solo e soltanto per coloro che
lo usano, che si proclamano credenti in Dio e si dimostrano feroci
portatori e servi di odio, sopraffazione e violenza.
Quella «N» la portiamo anche noi, con disarmato e dolente orgoglio, con
consapevole partecipazione alla sorte delle donne e degli uomini cristiani
di Mosul e di ogni altro perseguitato a ragione della propria fede. Questo
è il giorno giusto per dirlo, e – speriamo – non da soli. Perché quella «N»
la portiamo nell’anima, nel cuore, sulla pelle, e non come una cicatrice
amara o una bandiera di guerra, ma come l’inizio di una parola di
fraternità e di libertà.
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Vogliamo che si sappia – e sogniamo che tutto il mondo trovi la passione
e il coraggio necessari per gridarlo – che quella «N» è stata tracciata
anche sulla soglia delle nostre case, sull’uscio delle scuole che
frequentano i nostri figli, davanti alle nostre chiese e ai luoghi di culto di
chi crede diversamente da noi eppure ci è fratello, sui muri di tutti i civili
edifici di città che sogniamo libere, sicure e accoglienti per ogni cittadino,
per ogni ospite, per ogni profugo.
Vogliamo tutto questo. E vorremmo anche riuscire a dire che quella «N»
non è soltanto una ferita profonda. È un’eco dura e potente della Croce
di Cristo in una terra vicina e lontana, come ormai tutte le terre del
mondo, come le tante, troppe terre che per i cristiani continuano a
essere, ma mai prima così intensamente, terre di quotidiano martirio.
Quella «N» è la conferma di una promessa impressionante e difficile, di
una speranza che sfida le logiche e le paure degli uomini e delle donne
di ogni tempo. È una frazione esigente e splendente di ciò che Gesù
annuncia a chi l’incontra e si lascia toccare e cambiare dalla verità
dell’incontro: «Beati voi – sta scritto nel Vangelo di Luca (6,22) – quando
gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e v’insulteranno
e respingeranno il vostro nome come scellerato, a causa del Figlio
dell’uomo».
Quella «N» incisa per infamare e per depredare, per umiliare e per
esiliare può allora aiutare tutti – ma proprio tutti – ad aprire gli occhi, a
ritrovare la voce, ad agire senza esitazioni, per umanità contro la
prevaricazione e la persecuzione degli inermi. Quella «N» vuole essere
e, infatti, sembra un sigillo di dominio e di morte, ma può essere
convertita nel principio di una frase antica e nuova: nessuno aggredisca
il fratello, nessuno su di lui commetta ingiustizia.
Il processo verso la democrazia e la libertà passa attraverso un serio e
pacifico lavoro di dialogo e di ricostruzione dell’uomo e il risveglio
dell’orgoglio della nazione intera che oggi è al limite del collasso. Il
cittadino iracheno ha bisogno di rinascere, di sentirsi libero, di essere
reinserito nella società internazionale, di riavere la sua dignità, di vivere
in pace e soprattutto di godere dei suoi diritti umani e civili.
A cosa giova rapire le persone o sequestrare bambini senza colpa per
poi morire con loro, o sgozzarli? La responsabilità di questi delitti ricade
sui gruppi di estremisti islamici in azione nella mia terra, su chi definisce
kafir, 'miscredente che è lecito uccidere', chi è colpevole di non
pensarla come loro. Questa violenza cieca è anche frutto di fatwe e di
infuocati discorsi che certi imam e autorevoli uomini religiosi diffondono
attraverso canali satellitari per confondere giovani entusiasti o persone
succubi della rabbia e del malcontento che cova nei loro cuori, e fargli
credere che combattere gli 'infedeli' non solo è lecito, ma è un dovere
religioso e in quel caso morire diventa martirio.
Quanto sta accadendo dovrebbe spingere noi musulmani a meditare
sull’enorme danno che sta subendo la nostra fede e la nostra civiltà.
Chi vuole il bene dell’Iraq è invitato a portare pace e benessere in un
Paese imbottito di armi e di odio e dove la maggioranza della
popolazione chiede di poter vivere nella serenità dell’amore e in
sicurezza. Nel segno della pace e della concordia tra le genti che per
secoli ne hanno fatto un mosaico di popoli.
Younis Tawfik
da “Avvenire” di sabato 9 agosto 2014
Marco Tarquinio
Da “Avvenire” del 17 luglio 2014
Immaginate che una sera nelle strade della vostra città facciano
irruzione dei rombanti convogli di uomini armati, che con gli altoparlanti
avvertono la popolazione di abbandonare la città entro la notte, pena la
Younis Tawfik è nato nel 1957 a Mosul (Ninive), in Iraq. Fin da giovane ha
pubblicato poesie sulle maggiori riviste del Paese e nel 1978 ha ottenuto il
Premio di Poesia Nazionale conferito dalla Presidenza della Repubblica. Nel
1979 si è trasferito a Torino dove nel 1986 ha conseguito la laurea in lettere. Si
dedica soprattutto alla divulgazione della letteratura araba. La sua opera più
conosciuta è il romanzo "La straniera" edito da Bompiani nel 1999. Il suo
secondo romanzo è "La città di Iram", seguito dal saggio "L’Iraq di Saddam"
2003. Nel 2008 pubblica "La sposa ripudiata" con Bompiani e nel 2012 "La
ragazza di piazza Tahrir" con Barbera. È stato membro della consulta islamica
in Italia, ha insegnato lingua e letteratura araba all’Università di Genova. Dal
2000 è presidente del Centro Culturale Italo-Arabo Dar al Hikma.
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Cristiani perseguitati:
l'ingiustizia non può prevalere
sigillo del profeta, impongono comportamenti e leggi disumani che nulla
hanno a che fare con l’islam. Nella Valle tra i due fiumi la macchina del
tempo inizia a portarci indietro e i primi a pagare un caro prezzo sono i
cristiani, gli antichi abitanti della regione di Ninive, costretti a dover
scegliere tra la conversione all’islam, il pagamento della jizia, (la tassa di
sottomissione) o l’abbandono della terra e dei loro averi. Durante i
califfati veniva imposto il pagamento di imposte aggiuntive ai non
musulmani in cambio di protezione durante i conflitti, ma in uno stato di
diritto, come quello che si voleva, tutti i cittadini sono uguali senza
distinzione religiosa o etnica.
Mi chiedo come si possano cacciare dalla loro terra popolazioni intere
che l’abitavano ancora prima dell’arrivo dell’islam. Lo dico senza mezzi
termini: i cristiani di Mosul hanno più diritti di noi arabi musulmani a stare
in quella terra che li aveva conosciuti già dai tempi degli Assiri, e noi
abbiamo il dovere di fare l’impossibile per aiutarli a tornare alle loro case.
Purtroppo l’ombra nera del fanatismo discrimina e distrugge non soltanto
la comunità cristiana, ma anche altri come gli yazidi, i shabak e i curdi,
devastando statue, monumenti storici, chiese, templi e moschee. Una
ferita lancinante si è aperta nel mio cuore guardando il video
dell’abbattimento della moschea più antica dedicata al profeta Giona,
meta di pellegrinaggi sia dei musulmani sia dei cristiani iracheni - e degli
ebrei – (NdR).
Mio padre appena sposato prestava servizio militare nelle vicinanze di
quel sepolcro, quando gli giunse la notizia che mia madre era stata
ricoverata all’ospedale in attesa che io nascessi. Lui, entusiasta, era
corso a pregare e a fare un voto ad Allah e al profeta Giona, sepolto in
quell’edificio: 'Se avrò un figlio maschio, gli darò il tuo nome, Younis'.
Sono state distrutte la maggior parte delle moschee che contengono
sepolcri, come quella del profeta Seth, del profeta Giargis, la moschea
del figlio di Hasan, nipote di Maometto, monumenti che raffigurano poeti
del nono secolo come Abu Tammam e compositori come Ishaq al
Mausili dell’ottavo, e altri ancora. Il fatto più triste è che il mondo sta a
guardare, tra impotenza e indifferenza, la morte della civiltà nella Valle
delle civiltà.
morte. E che agli annunci si alternino urla e raffiche di mitra, e che sulla
vostra porta una mano nemica col gesso tracci un segno che significa:
qui abitano dei cristiani
Immaginate ora una casa con una madre e tanti bambini, e dei vecchi,
magari non più in grado di camminare. Che fare? Morire tutti, o
abbandonare i vecchi al loro destino? Immaginate cosa sia, lasciare un
padre malato per salvare almeno i ragazzi. E come fa una madre con un
figlio neonato e altri ancora piccoli a scappare, coi bambini avvinghiati
alle gonne? E che significa essere una donna cristiana mentre avanzano
le truppe jihadiste, se non diventare una indifesa preda? Fuggire con
nulla addosso, o con un fagotto di povere cose; l’angoscia come una
tenaglia, la fame che preme, il nulla davanti.
Quel segno d’odio – la "N" araba, di nazareno – avete cominciato a
vederlo sulla prima pagina di questo giornale sin dal 17 luglio, quando le
milizie qaediste del "califfato" avevano preso a imperversare a Mosul,
nell’Iraq del Nord come già facevano nella regione della città martire di
Aleppo in Siria. E avete continuato a vederlo nell’indifferenza politica e
mediatica di troppi altri. E i drammi si sono moltiplicati. Migliaia e
migliaia, dopo la conquista da parte delle milizie dell’Isis di Qaraqosh e
dei villaggi della piana di Ninive. Luoghi cristiani da duemila anni,
annientati; chiese bruciate, crocifissi divelti, reliquie disperse. E ad altre
minoranze religiose non sta toccando sorte migliore. Quest’avanzata
evoca memorie di invasioni barbariche per la spietatezza dei vincitori,
estranei a ogni codice di onore e di pietà; e per la disperata debolezza
dei profughi. Donne, vecchi, bambini rifugiati nelle chiese del Kurdistan
iracheno, nelle foto danno la sensazione che il tempo sia ritornato
oscuramente indietro, a evi sanguinari e bui.
In Iraq si muore tutti i giorni e la maggior parte delle vittime sono tra la
popolazione civile, proprio quella povera gente che aveva già pagato un
caro prezzo per la sciagurata politica di Saddam Hussein, per le
frequenti guerre, per l’embargo e per la situazione venutasi a creare in
seguito alla caduta del regime.
Quella madre che tiene in braccio un bambino talmente sfinito e pallido,
che pare morto; quell’altra che mostra, allucinata, la fotografia di un figlio
perduto; una chiesa gremite di profughi, e, nella navata, la carrozzina di
un bambino - come l’assurdo residuo di un tempo di pace.
Occorre guardarle bene, quelle immagini, per capire quale tragedia si
stia avverando in Iraq. Guardare e immedesimarsi, e quindi com-patire,
e quindi soffrire insieme a quella gente; e quindi davvero pregare per
loro, come il Papa esorta da giorni a fare, come la Chiesa italiana già fa
e di nuovo farà coralmente il 15 agosto. È strano, ma a volte le parole
non bastano, come se oltre a una certa misura di orrore non ce ne
fossero, di pesanti abbastanza. E invece i particolari di una foto gli occhi
di un vecchio, le scarpe sfatte di un profugo, il sonno stremato di chi non
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ce la fa più a fuggire toccano appunto le segrete corde della
immedesimazione, e quindi della partecipazione emotiva e, per chi
crede, della più autentica preghiera.
ancora perché avevano scelto di ammazzare proprio lui il giorno dopo
avere fatto fuori il suo vicino di casa, un medico cristiano appena
sposato.
A oggi, veramente, non pare che l’Europa si sia troppo esercitata in
questa compassione e solidarietà. «Distratta e indifferente, cieca e
muta», l’ha definita l’appello del cardinale Bagnasco. I tg dei Paesi
dell’Unione mostrano l’affanno dei deportati, e noi spesso si sta a
guardare con una sorta di impigrita indifferenza o impotenza. Come se
fossero storie di un altro mondo, e invece il nostro, a quel mondo, fosse
del tutto estraneo. Come se l’Europa fosse cinta da mura invalicabili da
questo rigurgito di barbarie. Il fondamentalismo islamico si allarga come
una lebbra, e gli europei non ne sembrano turbati. Forse perché è una
identità, quella religiosa, da molti avvertita lontana? Ma almeno si
dovrebbe ricordare che il cristianesimo è il fondamento su cui è cresciuto
e si è consolidato un tesoro di grandi valori e di autentici diritti umani che
dovrebbe essere patrimonio della nostra civiltà. Si dovrebbe capire che
libertà di coscienza, inviolabilità della persona, difesa dei deboli, colonne
portanti del "nostro" mondo, sono annientate insieme ai cristiani nei
luoghi in cui il jihadismo si allarga.
Avevo abbandonato il mio Paese fuggendo dal regime di Saddam
Hussein alla ricerca di un mondo altro, della conoscenza e del dialogo,
nella segreta speranza che la mia patria, martoriata da conflitti e
persecuzioni, venisse liberata e potesse crescere in un sistema
democratico che garantisca la libertà personale e religiosa.
L’atmosfera a Mosul, la mia città natale, era cupa, immersa in una calma
apparente, ma le anime erano inquiete e la tensione molto alta. Dopo
una settimana passata in casa, con mia madre che mi raccontava gli
anni del terrore e della lenta morte che affliggeva il nostro Paese, chiesi
di essere portato in visita, come un turista, nella città devastata da
bombardamenti americani e autobombe dei terroristi.
Credevo di camminare in un luogo colpito da una bomba nucleare,
svuotato della sua essenza, triste e demoralizzato. Era come se fossi
entrato in una zona terremotata custodita da soldati e poliziotti armati in
tutti gli angoli. Era talmente cambiata che non riconobbi neppure il
quartiere dove ero nato.
[...] Il cancro jihadista sembra, in realtà, puro nichilismo. L’ombra di un
male grande si affaccia sul nostro intorpidito oggi. Quei profughi hanno
bisogno, certo, di aiuto materiale, ma anche, e profondamente, della
nostra preghiera. Di quella, soprattutto, la più antica, che domanda al
Padre di liberarci dal male. Di proteggerci dall’antico nostro oscuro
nemico.
Sollevando lo sguardo a nord dalla mia casa paterna, divenuta un
modesto albergo, vidi il minareto della grande moschea Al Nuri, che
ancora oggi svetta ricurvo dal 1172, anno della sua costruzione. Non
lontano, si innalzava fiera la torre dell’orologio della chiesa latina dei
padri domenicani, costruita nel 1873, devastata dagli attentati e oggi
completamente abbandonata. Immaginavo i due edifici in dialogo tra
loro, eretti verso il cielo come in una sfida contro il tempo.
Marina Corradi
Da “Avvenire” del 12 agosto 2014
«Il mio Iraq ritorni un
mosaico di popoli»
Girava la voce in tutta la città e nel caffè Al Karam – dove incontrai i miei
vecchi maestri e amici: poeti, artisti, scrittori e giornalisti, musulmani e
cristiani – che i jihadisti si preparavano per invadere la regione e che un
giorno sarebbero arrivati in massa per instaurare 'giustizia e libertà'. Era
evidente che la gente soffriva la prepotenza e la tirannia dell’esercito del
premier Al Maliki e sperava in un salvatore. Allora non si parlava dell’Isis,
ma di patrioti che avevano combattuto contro l’invasione americana,
della vera resistenza sunnita.
Erano i primi giorni di agosto del 2012, quattro anni dall’assassinio di mio
fratello Faris ad opera dei miliziani dell’Isis che agiva nell’oscurità del
caos politico iracheno, quando decisi di recarmi in Iraq da cui mancavo
da più di trent’anni. Faris era avvocato civile e fino ad oggi non si sa
Sono passati appena due anni e la regione di Ninive ha conosciuto un
triste destino, proprio come ai tempi della devastante invasione mongola,
quando l’esercito iracheno si era dato alla fuga senza opporre
resistenza. Quelli che si erano spacciati come salvatori della patria si
sono rivelati dei veri criminali che, sotto la bandiera nera con inciso il
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