Salome, magnifica Lolita e la danza dei vecchioni

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GIORGIO PESTELLI
Salome, magnifica Lolita e la danza dei vecchioni
La nota più forte di questa Salome torinese,
sicuramente da non perdere, è forse
CULTURA PATRIMONIO COMUNE
l'interpretazione del soprano tedesco Nicola
Cento film per fare gli italiani
Beller Carbone: al suo esordio italiano nell'opera
di Strauss si è presa dal pubblico del Regio un
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uragano di applausi, rispondendo a ogni chiamata
con serpentinate reverenze in perfetto stile
liberty. Strauss, si sa, pensava alla sedicenne
sottile e viperina di Wilde, ma la voleva con una
voce da Isotta wagneriana: donde lo scoglio della
"Salome" di Struss al Teatro Regio di Torino
danza «dei sette veli», punto decisivo della vicenda, un tempo aggirato sostituendo pingui cantanti con
la controfigura di una ballerina provvista di «physique du rôle». Invece la Beller Carbone fa tutto da
sola e lo fa benissimo: voce espressiva, penetrante e all'occasione capricciosa col suo «air enfantin», e
grande appello fisico in scena: giovane, bella, e danzatrice flessuosa e affascinante.
Lo spettacolo era molto atteso, specie per la regìa in odore di scandalo dell'infaticabile Robert Carsen:
con le scene di Radu Boruzescu l'azione si svolge nel sotterraneo di una banca, fra pareti di cassette di
sicurezza, mentre ai piani superiori si aggirano fra tavoli da gioco tipi di ogni risma, simboli di una
società agli ultimi giorni; a questa corruzione, oltre a Jochanaan, Carsen oppone anche una positività di
Salome, la cui attrazione per l'irsuto profeta non è tanto perversione, quanto richiamo di un nuovo
mondo che sta sorgendo e affascina la donna come l'ignoto. L'idea non è nuova, ma Carsen la spinge
all'estremo con la sua scaltrezza teatrale, l'abilità a muovere i personaggi, l'efficacia delle luci di
Manfred Voss e qualche felice trovata che coglie spunti ironici dello stesso Wilde quando rasenta la
parodia della materia decadentista. Il suo dovere trasgressivo Carsen lo compie in particolari esteriori:
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Salome in tenuta da ginnastica e pedalini, in stile Lolita; lo striptease trasferito agli attempati
frequentatori della banca-bisca, una sorta di pazzo capovolgimento della storia di Susanna e i vecchioni.
Qualche volta il gusto del regista è inferiore alla sua abilità teatrale, come quando si vede giocare a palla
UN LETTORE
AL CINEMA
con la testa mozzata (c'è già in Atta Troll di Heine, ma con altra leggerezza); ma l'unica cosa che è
difficile passargli per buona è quella di far morire Erodiade al posto di Salome: in un'opera che
rappresenta la corsa di una perversione al suo precipizio, se alla fine non si vede Salome schiacciata
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Alla guida della direzione musicale Gianandrea Noseda è molto bravo a non lasciarsi intimidire da tanta
esuberanza visiva: la partitura di Strauss continua a essere il punto di riferimento di ogni suggestione,
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Con i barboni in corsia
con la solennità a largo giro melodico del profeta e la nevrotica irrequietudine del mondo attorno: così
Noseda ha condotto l'orchestra del Regio a precisioni e finezze ragguardevoli, frutto evidente di un
intenso lavoro di preparazione. Resta da dire che la forza unitaria dello spettacolo, accolto con applausi
per tutti, e d'inconsueto calore, si regge ancora sulla scelta perfetta di tutti i personaggi, oltre quello
della protagonista: la coppia regale, Peter Bronder e Dagmar Peckova, con lo straordinario realismo
delle loro risse odiose, l'autorità di Mark S.Doss quale profeta Jochanaan e l'estatico Narraboth di Jörg
Dürmüller; ma in quest'opera i personaggi sono una miriade, e tutti caratterizzati, per cui non possiamo
che elogiarli tutti insieme: e qui bisogna ringraziare ancora il regista, che in questa azione di
fusione-emulsione ha una delle sue facoltà maestre.
«Salome», Torino, Teatro Regio
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"Salome" al cabaret
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Salome
dramma musicale in un atto
di Richard Strauss
Libretto di dal dramma omonimo di Oscar Wilde tradotto da Hedwig Lachmann
Prima rappresentazione: Dresda, Hofoper 9 dicembre 1905
Edizione Fürstner/Schott, Mainz
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REGISTRAZIONE
Nicola Beller Carbone è una Salome bella, sa recitare molto bene l'idea di lolita preparata per lei
dal regista Robert Carsen, e quando deve danzare la danza terribile, il coreografo Philippe
Giraudeau le fa fare poche falcate da vamp scatena feromoni, soprattutto le fa spalancare le
gambe, e mostrare le belle cosce su tacchi alti di scarpissime dorate: questo climax di un regia
ambientata dallo scenografo Radu Boruzescu nell'immenso ma claustrofobico smagliante caveau
di un casinò (geniale che la cisterna del prestante Jochanaan di Mark Doss sia la super
cassaforte!) inventa intorno al magistrale Erode di Peter Bronder (nanetto maniaco sessuale che
riprende la danza clou con la videocamera che proietta sul video-wall dettagli sexy della sbavata
figliastra) e alla pacchiana megera Erodiade di Dagmar Peckova un drappello di vecchiacci e
osceni travestiti che trasforma il capolavoro fulminante di Richard Strauss in una fenomenale
anticipazione dell'espressionismo cabarettistico di Kurt Weill o Alban Berg: è Gianandrea Noseda,
molto brillante a guidare una molto buona Orchestra del Teatro Regio di Torino, ad aver scovato
in partitura ogni corrispondenza con la visione intelligente di Carsen? Com'è e come non è,
quando un capolavoro del repertorio te lo trovi scuoiato e palpitante come cosa contemporanea,
si è di fronte a quanto di meglio si può chiedere al teatro d'opera oggi. Anche se il regista mette
nudi alla danza sei laidi cortigiani, si permette infine di lasciare andar via in sottoveste nel deserto
la impazzita Lolita sbaciucchiante il decapitato capo, fa ammazzare da Erode l'ex cognata madre
della figliastra, pazienza, perché in fondo ci mette anche un po' di Pasolini e Eschilo.
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Daniele Martino
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03.03.2008 22:19
Salome, magnifica Lolita
e la danza dei
vecchioni
GIORGIO PESTELLI
La nota più forte di questa Salome torinese, sicuramente
da non perdere, è forse l'interpretazione del soprano
tedesco Nicola Beller Carbone: al suo esordio italiano
nell'opera di Strauss si è presa dal pubblico del Regio un
uragano di applausi, rispondendo a ogni chiamata con
serpentinate reverenze in perfetto stile liberty. Strauss, si
sa, pensava alla sedicenne sottile e viperina di Wilde, ma la
"Salome" di Struss al Teatro Regio di Torino
voleva con una voce da Isotta wagneriana: donde lo scoglio
della danza «dei sette veli», punto decisivo della vicenda, un tempo aggirato sostituendo pingui cantanti con la
controfigura di una ballerina provvista di «physique du rôle». Invece la Beller Carbone fa tutto da sola e lo fa
benissimo: voce espressiva, penetrante e all'occasione capricciosa col suo «air enfantin», e grande appello fisico
in scena: giovane, bella, e danzatrice flessuosa e affascinante.
Lo spettacolo era molto atteso, specie per la regìa in odore di scandalo dell'infaticabile Robert Carsen: con le
scene di Radu Boruzescu l'azione si svolge nel sotterraneo di una banca, fra pareti di cassette di sicurezza,
mentre ai piani superiori si aggirano fra tavoli da gioco tipi di ogni risma, simboli di una società agli ultimi
giorni; a questa corruzione, oltre a Jochanaan, Carsen oppone anche una positività di Salome, la cui attrazione
per l'irsuto profeta non è tanto perversione, quanto richiamo di un nuovo mondo che sta sorgendo e affascina la
donna come l'ignoto. L'idea non è nuova, ma Carsen la spinge all'estremo con la sua scaltrezza teatrale, l'abilità a
muovere i personaggi, l'efficacia delle luci di Manfred Voss e qualche felice trovata che coglie spunti ironici dello
stesso Wilde quando rasenta la parodia della materia decadentista. Il suo dovere trasgressivo Carsen lo compie
in particolari esteriori: Salome in tenuta da ginnastica e pedalini, in stile Lolita; lo striptease trasferito agli
attempati frequentatori della banca-bisca, una sorta di pazzo capovolgimento della storia di Susanna e i
vecchioni. Qualche volta il gusto del regista è inferiore alla sua abilità teatrale, come quando si vede giocare a
palla con la testa mozzata (c'è già in Atta Troll di Heine, ma con altra leggerezza); ma l'unica cosa che è difficile
passargli per buona è quella di far morire Erodiade al posto di Salome: in un'opera che rappresenta la corsa di
una perversione al suo precipizio, se alla fine non si vede Salome schiacciata dagli scudi, dov'è il senso del tutto?
Alla guida della direzione musicale Gianandrea Noseda è molto bravo a non lasciarsi intimidire da tanta
esuberanza visiva: la partitura di Strauss continua a essere il punto di riferimento di ogni suggestione, con la
solennità a largo giro melodico del profeta e la nevrotica irrequietudine del mondo attorno: così Noseda ha
condotto l'orchestra del Regio a precisioni e finezze ragguardevoli, frutto evidente di un intenso lavoro di
preparazione. Resta da dire che la forza unitaria dello spettacolo, accolto con applausi per tutti, e d'inconsueto
calore, si regge ancora sulla scelta perfetta di tutti i personaggi, oltre quello della protagonista: la coppia regale,
Peter Bronder e Dagmar Peckova, con lo straordinario realismo delle loro risse odiose, l'autorità di Mark S.Doss
quale profeta Jochanaan e l'estatico Narraboth di Jörg Dürmüller; ma in quest'opera i personaggi sono una
miriade, e tutti caratterizzati, per cui non possiamo che elogiarli tutti insieme: e qui bisogna ringraziare ancora il
regista, che in questa azione di fusione-emulsione ha una delle sue facoltà maestre.
«Salome», Torino, Teatro Regio
Richard Strauss
Torino - Teatro Regio: Salome
La recensione
Nel dicembre 1906 Torino e Milano si contesero la
première italiana della Salome: il 22 a dirigere i
complessi del Regio c’era Richard Strauss in
persona, ma Arturo Toscanini aprì al pubblico la
prova generale del giorno prima alla Scala… e così
l’arabesco liberty del clarinetto con il quale principia
l’opera risuonò per la prima volta all’ombra della
Madonnina. Altri tempi: un avvenimento musicale
aveva grande risonanza “mediatica”! Oggi sappiamo
invece come stanno, mestamente, andando le cose…
La nuovissima Salome torinese rappresenta la punta
di diamante della stagione del Teatro Regio: la
presenza contemporanea del direttore musicale
Gianandrea Noseda sul podio e di Robert Carsen
in cabina di regia sembrerebbe sulla carta una
garanzia. Torno quindi senza indugio a quelle otto
biscrome che aprono il primo capolavoro operistico
straussiano.
“Wie schön ist die Prinzessin Salome heute nacht!”
canta Narraboth, con la voce chiara e squillante di
Jörg Dürmüller e il paggio di inconsueta presenza
scenica e vocalmente sicuro di Manuela Custer
risponde “Sieh die Mondscheibe, wie sie seltsam
aussieht”. CHOC! Ci troviamo presumibilmente a Las
Vegas, nel caveau di una casa da gioco. Narraboth,
il capo delle guardie del corpo, sta esaminando il
grande monitor sul quale vengono trasmesse le
immagini delle telecamere a circuito chiuso
connesse ai piani superiori dove tra tavoli verdi,
mazzi di carte e roulettes gli invitati si dilettano nel
gioco d’azzardo. Siamo nel Casinò gestito da Erode e
consorte! Salome la vediamo inquadrata di tanto in
tanto sullo schermo: pare svogliata, indifferente,
avulsa dal clima festaiolo che accompagna la brigata
dei debosciati, assorta. Quando scenderà nel caveau
di lì a poco per cercare “aria più respirabile” (“Hier
kann ich atmen”), in un ambiente non propriamente
luminoso e “areato” ma anzi lucidamente metallico,
opprimente, con le pareti completamente rivestite
da cassette di sicurezza e sulla destra una grande
cassaforte aperta piantonata dagli scagnozzi del
patrigno (dinamiche e funzionali le scene di Radu
Boruzescu), intenderemo che disagio e malessere
sono intimi, interiori: ella non appartiene a “quel”
mondo, un mondo corrotto, vacuo, un mondo che le
ha anche sottratto il padre.
Salome si presenta in maglietta nera, fuseaux neri a
tre quarti e anfibi. Una ribelle di oggi! Possiamo così
cogliere anche esteriormente il conflitto profondo
che rode il suo animo. Nicola Beller Carbone inizia
con dedizione una prestazione che non sarà mai al
risparmio, e la notevole presenza scenica –la
fragilità, l’ insicurezza di Salome ma anche la sua
caparbietà, la cocciutaggine, i sentimenti di
ritorsione e rivalsa vengono esaltati dalla sua
performance- compensa ampiamente qualche lieve
insicurezza nel registro più acuto. Il soprano
tedesco, in questo che è il suo debutto italiano
assoluto, si impone subito per intensità, incisività e
temperamento. Davvero una lieta sorpresa!
La voce di Jochanaan proviene dall’interno del
grande oblò, dalle profondità inaccessibili del
forziere, uno spazio misterioso, forse sconosciuto
alla stessa Salome a giudicare dallo sguardo
indagatore verso il monitor sul quale viene
ingrandita l’immagine verdastra di un luogo
impenetrabile e decisamente angosciante. “Jauchze
nicht, du Land Palästina” minaccia il profeta con la
voce stentorea e indubbiamente carismatica di Mark
Doss. Salome ha un sussulto che sembra
risvegliarla dalla persistente apatia. Finalmente
qualcuno osa affermare cose nuove, cose che
nessuno aveva mai osato affermare prima;
finalmente Salome ha qualcosa di importante da
ascoltare; finalmente qualcuno dice ciò che ella
avrebbe da tempo voluto sentirsi dire. E Salome è
talmente “presa” dalla voce di Jochanaan da
mitizzarne, da aureolarne la sua apparizione. La
cassaforte ora si apre completamente per
permettere l’uscita del profeta. Le luci radenti
magistralmente manovrate da Manfred Voss e la
suspence creata senza effettismi o ridondanze da
Gianandrea Noseda ci preparano al colpo di scena.
La cassaforte si spalanca, ma Jochanaan comparirà
sullo sfondo della scena, nel frattempo dischiusasi,
fra dune desertiche sotto un cielo terso. Stiamo
vedendo con gli occhi di Salome! Una Salome
sempre più affascinata, conquistata, sedotta. Lo
desidera, lo brama, lo vuole, cerca di toccarlo, lei
ragazzina viziata che ha sempre avuto tutto. Eppure
questa volta deve fare i conti con un’entità
superiore, una forza imperscrutabile che la attrae
irresistibilmente. “Der in der Wüste und in den
Häusern der Könige gekündet hat”: il motivo delle
quarte discendenti in orchestra è un cumulo di
tensione e Noseda è bravo a restituircelo affilato
come una lama di coltello. Un terribile anatema,
un’apocalisse si abbatte sull’uditorio. Saltiamo dalla
sedia!
Nicola Beller Carbone ha una voce timbricamente
suadente, non voluminosissima - Noseda si è
accollato il difficilissimo compito di alleggerire la
possente e densissima trama sinfonica, mai peraltro
rischiando di venir meno in quanto a tensione
interna e chiarezza- e riesce sempre a trovare un
accento appassionato, fraseggio interessante, e poi
l’intonazione è perfetta (sentire, a metà circa della
terza scena, l’invocazione “Jochanaan” cantata sul
terribile intervallo di undicesima diminuita
discendente); con il prosieguo della recita anche il
registro acuto acquista sicurezza. Quando
Jochanaan torna nella sua buia prigione - Doss è
commosso e anche discretamente morbido in “Er ist
in einem Nachem auf dem See von Galiläa” mentre
descrive la predicazione del Figlio dell’Uomo in
Galilea- Salome prima lo segue con lo sguardo
stranito poi striscia come un rettile curioso ed
impaurito fino al gradino che immette nella grande
cassaforte. Momento di grande emozione e
suggestione! Durante il secondo intermezzo
orchestrale l’Orchestra del Teatro Regio (al gran
completo con quasi cento elementi in buca) è
guidata da Noseda con virtuosismo in un procedere
dal ritmo incalzante, ma comunque sempre ben
definito.
L’idea che Robert Carsen persegue con lucidità e
rigore maniacale, determinata da un’indagine
psicologica finissima e capillare, non senza una certa
dose di ironia (i mille particolari potranno essere
apprezzati soltanto vedendo lo spettacolo dal vivo) è
ormai chiara: Erode ed Erodiade sono due plutocrati,
corrotti e viziosi, circondati da un codazzo di
depravati che vivacchiano senza scopo se non quello
di aumentare il capitale. L’entrata in scena di Erode
e della sua disgustosa compagnia resta
paradigmatica, tutti agghindati (efficaci e curatissimi
i costumi di Miruna Boruzescu) con abiti dai colori
sgargianti in abbinamenti improbabili lussuosamente argentato quello del Tetrarca, un
istrionico e svettante Peter Bronder, viscido,
ambiguo e pusillanime, dalla voce ferma e sonora,
mentre la sua signora, una Dagmar Peckova con
qualche disomogeneità timbrica ma comunque
straordinariamente a suo agio nella parte, era in
abito lungo dorato tutto lustrini e paillettespreceduti dalla servitù acconciata un po’ all’egiziana
e un po’ in stile “antica Roma”, seni al vento e petti
virili palestrati, servitù che in un battibaleno
trasforma il vuoto e freddo caveau in un inquietante
salone delle feste con sedie, poltrone, tavolini di
gusto decisamente kitsch. Ma mai come in questo
caso il kitsch è parso così appropriato!
Salome accucciata sul bancone all’estrema sinistra
del palcoscenico, testa bassa, un po’ imbronciata,
assente, non vuole farsi coinvolgere da questo
mondo di cartapesta. Lo rinnega. Toccante il
momento in cui Salome in piedi e di spalle fissa la
luna virtuale proiettata sullo schermo, quasi un
soffio di natura, un anelito di libertà in quel mondo
claustrofobico di morti viventi. E nella “Danza dei
sette veli” vediamo come la sempre più strafottente
e trasgressiva figlia di Erodiade, abbigliata
provocatoriamente come l’odiata madre -stesso
vestito e stessa parrucca- saprà tirare le fila di
quella che diventerà a breve una vera e propria
orgia del voyeurismo più dissoluto. Erode infatti si
eccita non tanto perché sta assistendo ad un
“normale” spettacolo di strip-tease, ma la sua
esaltazione sessuale si accende quando inizierà a
riprendere con la videocamera ciò che si sta
svolgendo sotto ai suoi occhi e cioè Salome che
gioca duro provocando sette vecchi depravati (che
alla fine rimarranno “loro” completamente nudi). A
suggellare il tutto ecco, sull’accordo di la minore che
chiude la Danza, il dissacrante bacio stampato dalla
figlia sulle labbra della madre, un’Erodiade sempre
più sbalordita e disorientata! Da vedere! Davvero
geniale la coreografia curata da Philippe
Giraudeau! Noseda ci mette del suo per rendere
credibile la narrazione nel nuovo contesto
drammatico, sottolineando alcuni passaggi e
stringendo in altri -come ad esempio l’inizio della
Danza eseguito quasi meccanicamente, quasi fosse
musica da film muto, a commento dell’esilarante
scena in cui gli ospiti cercano sgomitando di
prendere i posti migliori per assistere allo spettacolo
hard. E il voyeurismo continuerà - siamo o non
siamo nella società dominata dal Grande Fratello? anche nel momento della decapitazione del Battista
con il gruppo degli invitati al completo che si
trasferirà con un che di automatico, come fosse la
cosa più normale di questo mondo, nella zona più
segreta del caveau oltrepassando l’oblò della
cassaforte, dopo aver sfondato il cordone di
sicurezza delle guardie.
E proprio perché tutto si deve “vedere” altrimenti
non esiste, non è reale, Carsen non rinuncia a
mostrarci la testa mozzata di Jochanaan. La tiene
una donna, simbolo atavico del peccato,
rappresentante in questo caso del gruppo degli
ospiti che ormai sembrano essersi compattati in un
corpo unico, una specie di mostro strisciante, feroce
e brutale, e la esibisce crudamente ad una sempre
più smarrita Salome. Robert Carsen parteggia per
la giovane, infantile e incolpevole. Sì, Salome NON
COLPEVOLE! La sua folle richiesta pare situarsi a
metà strada tra la sfida generazionale (ma non
dimentichiamo che Erode ed Erodiade si sono anche
macchiati del ferale delitto per sbarazzarsi di suo
padre) ed un innocente gioco puerile. Non c’è traccia
di perversione alcuna. E quando la giovane si
troverà la testa del Profeta fra le mani si accorgerà
troppo tardi, come succede spesso ai bimbi, che il
giocattolo si è irrimediabilmente rotto! Il lungo
monologo finale di Salome è un banco di prova irto
di difficoltà per la protagonista. Nicola Beller
Carbone termina in crescendo la sua ottima
prestazione. La voce, penetrante, corre con
naturalezza, pare ben appoggiata ed è omogenea
nei complicati passaggi di registro che costellano
questa pagina: si va nel giro di poco dal Si b sopra il
rigo al Sol b sotto.
Dopo il fatidico bacio Salome esce di scena con la
testa di Jochanaan sollevata sulla propria, esce sullo
sfondo che si apre lentamente per accoglierla fra le
dune sabbiose e il cielo terso del suo subconscio, in
una sorta di assoluzione-redenzione finale. Una
catarsi! E quando Erode urla il suo ultimo “Man töte
dieses Weib!” gli astanti, dopo un attimo di
smarrimento, si dirigono minacciosi su una
esterrefatta Erodiade, vera anima nera della
vicenda.
Parti di fianco eccellenti con una menzione
particolare per il primo Nazzareno commosso e
molto musicale di Roberto Abbondanza e il primo
soldato di bella presenza timbrica di Vladimir
Baykov.
Questa Salome è destinata a lasciare il segno, ma
proprio per questo anche a dividere. Complimenti
dunque ad un teatro “italiano” che ha avuto il
coraggio di credere in un’operazione che certamente
qui da noi trova ancora il pubblico un po’
impreparato. Peraltro qui al Teatro Regio di Torino si
è trattato di un trionfo!
Un’ultima riflessione: questa è la prima volta che
Carsen monta un suo nuovo allestimento in Italia e
Robert Carsen è unanimemente considerato dalla
critica mondiale un “numero uno”…
Massimo Viazzo