assaggio - Sillabe

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assaggio - Sillabe
in collaborazione con
Fondazione Teatro della Città di Livorno “Carlo Goldoni”
Teatro di Tradizione
Manifatture Sigaro Toscano
con il patrocinio di
Comitato Promotore Maestro Pietro Mascagni
www.pietromascagni.com
Associazione Accademia degli Avvalorati
Mascagni
forever
l’autore
gli interpreti
la critica
a cura di
Giulia Perni
ISBN 978-88-8347-685-3
© 2013 s i l l a b e s.r.l.
www.sill­­­abe.it
direzione editoriale: Maddalena Paola Winspeare
progetto grafico: Laura Belforte
redazione: Ethel Santacroce
con la consulenza editoriale di
Fulvio Venturi
Nei mesi di preparazione e redazione del volume ho contattato,
incoraggiato e talvolta anche assillato gli Autori che oggi sono
presenti nel libro per dedicarci un po’ del loro Mascagni ed ora
che devo scrivere la premessa non trovo le parole adatte.
Perché questa pubblicazione su Mascagni dopo gli studi di una
vita effettuati da Mario Morini, uno dei più attenti studiosi del
melodramma verista?
Livorno è città di mare, solare, quasi ‘musicale’. A Livorno è nato
e cresciuto musicalmente il giovanissimo Pietro, per poi “perfezionarsi” a Milano e “maturare” a Roma. Tre città tanto diverse,
ma che sono unite da un forte legame, l’amore per la ‘Musica’.
I grandi compositori sono tali non solo grazie alle loro straordinarie composizioni, ma anche grazie a chi li ha amati e interpretati in vita e resi immortali dopo la loro scomparsa. Ecco che
entrano in scena gli interpreti (cantanti e strumentisti), i direttori
d’orchestra, i registi, i giornalisti-critici e i musicologi. Così nasce
questo libro, con la volontà di continuare a percorrere la strada
iniziata da altri studiosi e rendere più familiare e vicino un musicista come Mascagni, compositore e direttore d’orchestra, uomo
di famiglia, ma allo stesso tempo anche uomo alla moda, un vip
a cavallo tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del secolo
scorso. Il suo ritratto completo, sia sull’uomo che sul musicista,
emerge con semplicità e spontaneità dagli scritti – saggi, interviste, dichiarazioni – dei nostri Autori.
Il libro è strutturato in più sezioni: l’autore dove musicologi,
studiosi e familiari di Mascagni tracciano il profilo del compositore soffermandosi sulla vita, le composizioni (dall’opera alla
musica sacra, dalla musica per film alla musica da camera), i
rapporti con i musicisti, gli editori e i musicisti dell’epoca, i viaggi
in Europa e in America; gli interpreti con le loro esperienze sul
palcoscenico, i loro ricordi ed emozioni: dai cantanti agli strumentisti, dai direttori d’orchestra ai registi-scenografi. Non solo
espressioni e sensazioni personali, ma anche un vademecum
sulla tecnica vocale mascagnana e sull’interpretazione delle melodie del compositore; grazie a critici e a giornalisti ci soffermiamo anche sul valore che Mascagni ha avuto e ha nel mondo
musicale. Infine una panoramica su Mascagni nella penna dei
responsabili di alcuni dei grandi teatri italiani con i quali il Maestro ebbe importanti rapporti artistici e che lo resero famoso
in tutta Italia e, di conseguenza, all’estero, fino al Metropolitan
di New York. Un testo importante infine quello sul Progetto
Mascagni della Fondazione Teatro Goldoni di Livorno, che dagli
anni Novanta ha dato grande risalto alla figura e all’opera del
musicista livornese.
Giulia Perni
M’uccide il tedio!
da Zanetto
l’autore
15 Pietro Mascagni.
Percorso artistico e biografico
Fulvio Venturi
64  Le opere liriche
Giulia Perni
73 Mascagni tra Cavalleria rusticana
e Guglielmo Ratcliff:
originalità ed eclettismo creativo
di un musicista del Novecento
Alberto Paloscia
156  Onoranze a Pietro Mascagni
158 Bibliografia citata e monografie
essenziali
160 Didascalie delle tavole a colori
79 Quattro librettisti per Mascagni
Roberto Iovino
I - XVI Tavole a colori
85 Amilcare Ponchielli nei ricordi di
Mascagni
Marta Crippa
91 Incursioni e saccheggi ‘nel e dal’
cinema
Francesca Bianchi
95 Mascagni: non solo
un grandissimo musicista,
ma un grande personaggio
Francesca Albertini Mascagni
111 Mascagni e i suoi ‘amici’ pittori
Guia Farinelli Mascagni
114  Un Mascagni per bisnonno
Guia Farinelli Mascagni
117 Il teatro di Mascagni
Gianandrea Gavazzeni
125 I mutevoli volti di Parisina
Raffaele Monti
133 Il Mascagni “sacro”
Fulvio Venturi
139  Lorenzo Perosi e Mascagni
141 Mascagni, non solo lirica!
Cesare Orselli
le testimonianze
gli interpreti
163 Fabio Armiliato
tenore
165 Carlo Bergonzi
tenore
167 Andrea Bocelli
tenore
168 Vinicio Capossela
cantautore
170 Fiorenza Cossotto
mezzosoprano
171 José Cura
tenore
172 Daniela Dessì
soprano
174 Mirella Freni
soprano
176 Cecilia Gasdia
soprano
178 Luciano Pavarotti
tenore
147 Mascagni e il Verismo
Enrico Fubini
179 Danilo Rea
pianista jazz
151 Un ‘recupero’ possibile
Guido Salvetti
181 Manrico Signorini
basso
i direttori
la critica
183 Daniel Barenboim
direttore
221 Mascagni: una storia nuova
Angelo Foletto
183 Bruno Bartoletti
direttore
225 Ricordando Mascagni
Roman Vlad
184 Carla Delfrate
direttore
227 Attualità di Mascagni:
una testimonianza
Sabino Lenoci, «Opera»
185 Roberto Gabbiani
direttore di coro
187 Gianluigi Gelmetti
direttore
191 Angelo Inglese
direttore
193 Zubin Mehta
direttore
194 Mario Menicagli
direttore
195 Ennio Morricone
direttore
196 Paolo Olmi
direttore
198 Alessandro Pinzauti
direttore
199 Jonathan Webb
direttore
201  Mascagni e Toscanini
i registi
203 Ivan Stefanutti
scenografo, costumista, regista
210 Federico Tiezzi
regista
229 Intervista a Filippo Michelangeli,
«Suonare news»
231 Intervista a Gaetano Santangelo,
«Amadeus»
232 Iris, un sublime ikebana
Paolo Isotta, «Corriere della Sera»
234Una Cavalleria da Premio Abbiati
Andrea Estero, «Classic Voice»
235 Amica (Monte Carlo, 16-03-1905)
Didier Pieri
i teatri
240 Livorno e il Progetto Mascagni:
oltre vent’anni di
“Mascagni-Renaissance”
Alberto Paloscia
269 Mascagni e il Teatro alla Scala
Stéphane Lissner
273 Cavalleria rusticana:
Franco Zeffirelli e il Met
John Pennino
277 Gli “schiaffi al Colonnello”
Francesco Reggiani
285 Mascagni e il
Maggio Musicale Fiorentino
Giovanni Vitali
Pietro Mascagni.
Percorso artistico e biografico
Fulvio Venturi
La mia voce vibra nell’aria
da Iris
15
l’autore
Pietro Mascagni, cartolinaPietro
caricaturale.
Mascagni, 1895.
Chi è stato Pietro Mascagni?
L’autore di Cavalleria rusticana…
E poi?
E poi è stato l’autore di altre quattordici opere almeno, ma oggi non se
ne sa più nulla.
Credo che questa sia una risposta verosimile alla domanda con la quale
inizia questo scritto. Eppure pochi altri compositori hanno avuto la popolarità che Mascagni ebbe in vita e bisogna anche dire che di quelle “altre”
quattordici sue opere, tre hanno avuto fino a mezzo secolo fa una diffusione planetaria e una di queste, Iris, sfiora la ragguardevole cifra di ottocento
diverse produzioni in meno di 120 anni di vita teatrale. Le altre due opere
ad aver goduto di popolarità sono L’amico Fritz ed Isabeau.
I collaboratori letterari di Mascagni sono stati all’incirca una dozzina
e fra gli autori dei testi che egli ha messo in musica figurano personaggi
appartenenti alla storia della letteratura come Heine e D’Annunzio, se non
François Coppée. Altri, come Luigi Illica, sono famosi nello specifico dei
“librettisti” d’opera.
Ma c’è di più. Ogni opera di Mascagni ha avuto i suoi momenti di notorietà e questa ci sembra la sede opportuna per ricordarlo, anche se certi
tempi sembrano irrimediabilmente trascorsi e la volontà che anima questo
scritto non è quella saggistica bensì quella informativa.
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Un aspetto fondamentale per la conoscenza di Mascagni è quello dell’interpretazione. Pochi altri autori si reggono su un filo tanto sottile quanto
tenace dato dalla risultante fra esecuzione ed interpretazione. Mascagni
non scrisse per interpreti preordinati come molti dei suoi predecessori
ottocenteschi, ma, da uomo di teatro, ebbe sempre presente la questione
interpretativa affidandosi talvolta ad artisti molto qualificati e in altre occasioni forgiando giovani di talento, funzionali al proprio progetto artistico.
Presto, appena dopo l’insorgere di Cavalleria rusticana, s’iniziò a parlare di
cantanti specializzati e già all’inizio del Novecento fu coniato il termine “stile
mascagnano” a proposito dell’insieme delle loro caratteristiche. Tale stile era
dato non tanto dalle qualità vocali, quanto da quelle attitudinali e non poteva
prescindere da temperamento vibrante, resistenza, musicalità sopraffina –
richiesta dai molteplici cambiamenti di “tempo” e di modulazione – valenza
tecnica – poiché le tessiture cui si è fatto cenno impegnano in modo essenziale il cosiddetto “passaggio di registro” – e non escludeva – neppure ai
tempi in cui verso il “tonnellaggio” dei cantanti lirici non si guardava per il
“sottile” – un adeguato physique du rôle ed abilità scenica che talvolta, seguendo i dettami della moda liberty allora imperante poteva raggiungere certamente una fastidiosa enfasi, ma anche un’eleganza straordinaria.
Ogni opera di Mascagni ha avuto i suoi eroi e questa ci sembra la sede
opportuna per ricordare tali cantanti, anche se qualche nome, almeno per
il pubblico vasto, si è irrimediabilmente perduto nel tempo.
Lo stile “mascagnano” cui si è fatto cenno si è coagulato attorno ai titoli
‘forti’ del Livornese, vale a dire alle opere dove la robustezza strumentale,
così come la dimensione della partitura sia particolarmente marcata, e queste
sono sicuramente Guglielmo Ratcliff (1895), Iris (1898), Amica (1905), Isabeau
(1911), Parisina (1913), Il piccolo Marat (1921) e Nerone (1935). Voci taglienti,
vibranti, accentate, ricche di timbro sono necessarie per tali opere, in altri
termini, per omologarsi ad un termine oggi di moda, “voci grandi”. Sembra
questa anche la giusta dimora per puntualizzare che nel catalogo di Mascagni, accanto a codeste opere, ve ne sono tuttavia altrettante – L’amico Fritz
(1891), I Rantzau (1892), Silvano (1895), Zanetto (1896), Le Maschere (1901),
Lodoletta (1917), Pinotta (1932), e vi aggiungerei anche l’operetta Sì (1919)
– che richiedono caratteristiche più liriche, fantasiose, eleganti, sfumature
che si connotino anche con la tinta delicata, marina, lunare, con le brezze
e i vapori che avvolgono i paesaggi. Come se Mascagni impugnasse – e lo
fa – il cesello dell’incisore piuttosto che lo scalpello dello scultore, o i delicati
acquerelli in luogo della tavolozza crassa. Pare dunque giusto parlare di uno
stile intimistico, elegiaco e di uno eroico, se non tragico.
Fra le due linee estetiche rimane Cavalleria rusticana che, in quanto capolavoro, sembra riunire endemicamente le due tendenze.
Addentriamoci adesso nella conoscenza di questo musicista, bilanciandoci tra la biografia, l’opera e l’interpretazione.
Pietro Mascagni nasce a Livorno in piazza delle Erbe, l’attuale piazza
Cavallotti, il 7 dicembre 1863. Perde presto la madre e quando frequenta ancora il ginnasio (il padre voleva farne un avvocato) inizia a comporre
nella sua città sotto la guida di Alfredo Soffredini,
presso l’Istituto musicale
“L. Cherubini”. In questo
periodo i lavori più rilevanti hanno carattere religioso.
Il 9 febbraio 1881, a Livorno, si esegue la cantata In
filanda, la prima composizione profana di ampie
dimensioni composta da
Pietro Mascagni su testo
Una delle ultime immagini della
casa natale di Pietro Mascagni
prima della demolizione.
Livorno, piazza Cavallotti,
gennaio 1972.
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l’autore
La produzione di Mascagni oltre Cavalleria rusticana è oggi scomparsa in
un mare d’oblìo e solo ogni tanto riemerge come una cattedrale sommersa,
così prima di rivisitare architetture incrostate di calcare e licheni, o evocare
leggende medievali, sarà forse bene soffermarci sulla personalità precipua
di Pietro Mascagni.
Il compositore livornese fu un uomo sanguigno, propenso all’esteriorità
e con aspetti contraddittori. Un ribelle in gioventù, un giovane non troppo attento alle tradizioni e all’autorità precostituita, come dimostrò subito
negli anni dell’alunnato presso il Conservatorio milanese, caratterizzati da
contrasti aspri con alcuni docenti e da improvvise “levate di testa”, che poi
giunse ad un fatalismo stanco e rassegnato, quasi decadente, nell’ultima
parte dell’esistenza.
Un carattere eruttivo, portato ai litigi con direttori, cantanti, impresari,
editori, stampa – alcuni dei quali, come quelli con Toscanini, Mascheroni,
Walter Mocchi, rimasti famosi – ed ai subitanei ripensamenti e pacificazioni, ma anche tenace nelle passioni e negli amori. E tendente a un sentimentalismo non di maniera, ma suffragato dai fatti. Queste poche righe
non sono sufficienti a delineare il tipo psicologico legato a Mascagni, –
dovremmo almeno citare anche l’autoreferenzialità ed una certa tendenza
all’enfasi –, ma talune di queste caratteristiche si ritrovano trasferite nei
personaggi che popolano le opere del Livornese. Oltre ad una certa smania di volersi necessariamente diversificare dai colleghi e persino da quanto
egli stesso avesse fatto in precedenza.
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Cavalleria rusticana e il successo, 1890
Dramma lirico in un atto, libretto di Giovanni Targioni Tozzetti
e Guido Menasci, da Giovanni Verga. Editore: Sonzogno. Prima
rappresentazione: Roma, Teatro Costanzi, 17 maggio 1890, direttore
Leopoldo Mugnone.
Nell’ottobre 1888 Pietro Mascagni, dopo aver letto la notizia su un quotidiano, decise di partecipare al concorso indetto dalla casa musicale Sonzogno di Milano, per un’opera in un atto.
Appresa tale notizia Mascagni si rivolse ad un amico livornese, il poeta
Giovanni Targioni Tozzetti, per averne il libretto. Il musicista pensò in un
primo momento di comporre un’opera dal titolo Serafina, tratta da Marito e
sacerdote di Nicola Misasi. Giovanni Targioni Tozzetti suggerì invece la riduzione della novella Cavalleria rusticana di Giovanni Verga, nella sua versione
teatrale, che aveva visto recitare all’Arena “Labronica” dalla compagnia di
Cesare Rossi, dopo che era stata portata all’onore delle cronache teatrali da
Eleonora Duse. Mascagni, che in precedenza aveva vagheggiato quel soggetto, accettò con entusiasmo. Targioni Tozzetti si mise a lavoro coinvolgendo
un altro personaggio livornese, Guido Menasci, insegnante di francese presso il ginnasio. Pittoresco il modo con il quale Mascagni entrò in possesso del
testo da musicare, a lui inviato da Targioni Tozzetti e Menasci su cartoline
postali, per stati di avanzamento del lavoro. Mascagni iniziò la composizione
il 4 gennaio 1889 appena ricevuti per via epistolare i primi versi da Giovanni
Targioni Tozzetti. Il musicista, trovandosi in difficoltà perché avrebbe avuto
bisogno di un buon pianoforte che non poteva acquistare, si rivolse a un familiare. Fu la zia Maria, di San Miniato, a mandargli un vaglia da 150 lire con
il quale Mascagni riuscì nel suo intento. La genesi di Cavalleria rusticana trasse
poi eccezionale vigore nella notte del 3 febbraio 1889 dal lieto evento della
nascita di Domenico, il bambino di Lina e Pietro, subito chiamato affettuosamente Mimì, in onore del sindaco di Cerignola, don Domenico Cannone. A Mimì faranno seguito Edoardo (Dino) nel 1891 ed Emilia (Emy)
nel 1894. La composizione dell’opera, per quanto marciasse speditamente,
soffriva nondimeno delle insicurezze del suo giovane ed inquieto autore, il
quale, una volta ultimato il lavoro, fu assalito da dubbi talmente forti che
quasi lo indussero a desistere dall’inviare la partitura al vaglio della giuria. Fu
la moglie, con una decisione felicissima, a spedire la partitura a Milano in una
giornata terribile di pioggia e di vento.
L’opera fu terminata nel maggio 1889 e posta al vaglio della giuria fu dichiarata finalista del concorso nel marzo successivo, insieme con altre due
opere, Rudello di Vincenzo Ferroni e Labilia di Nicola Spinelli. Due mesi
più tardi le tre opere andarono in scena al Teatro Costanzi di Roma nell’ordine seguente: 8 maggio 1890, Labilia; 17 maggio, Cavalleria rusticana; 28
maggio, Rudello. Le opere di Ferroni e Spinelli ricevettero un’accoglienza
assai tiepida, mentre Cavalleria rusticana ebbe l’esito trionfale che sappiamo
e risultò vincitrice del primo premio. Ne furono interpreti principali due
grandi cantanti, Gemma Bellincioni e Roberto Stagno, e un celebre direttore d’orchestra, il maestro Leopoldo Mugnone. Nell’agosto 1890 l’opera
fu poi rappresentata al Teatro Goldoni di Livorno, città natale di Pietro
Mascagni, dagli stessi interpreti. Fu come un secondo debutto e da quella
data, nel volgere di breve tempo, Cavalleria compì il ‘giro’ delle grandi capitali europee giungendo a Berlino, Londra, Parigi, Vienna per traversare
l’oceano ed andare in scena a Philadelphia, New York e Buenos Aires. Una
cavalcata trionfale che dura tutt’oggi.
Come abbiamo visto dopo la prima rappresentazione romana la seconda
“piazza” di Cavalleria rusticana fu Livorno, dove l’opera andò in scena al
Teatro Goldoni il 14 agosto 1890, ancora con Gemma Bellincioni, Roberto
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l’autore
dello stesso Soffredini. Il successo è vibrante. Alcuni mecenati livornesi, primo fra tutti il conte Florestano de Larderel, decidono di aiutare Mascagni
per completare gli studi. Nell’ottobre 1882 supera l’esame d’ammissione al
Regio Conservatorio di Milano. Subito dopo, pensando di comporre un’opera per un concorso del Conservatorio, s’invaghisce di Guglielmo Ratcliff, la
tragedia di Heinrich Heine, nella traduzione di Andrea Maffei. Frequentando le lezioni conosce Giacomo Puccini, allievo del Conservatorio dal 1880.
L’esperienza in conservatorio, tuttavia, si esaurisce dopo tre anni in seguito
ad un grave diverbio con Antonio Bazzini, e Mascagni sbarca il lunario “lavorando” come direttore d’orchestra presso diverse compagnie di operette
itineranti per la penisola.
Nel 1887, durante i suoi pellegrinaggi artistici, in questo caso al seguito
della compagnia Cirella, Pietro Mascagni raggiunse Cerignola, vasto centro agricolo del Tavoliere di Puglia. In questa cittadina pugliese gli fu offerta da parte del sindaco la possibilità di un lavoro stabile, una posizione
che sarebbe stata retribuita dignitosamente, assumendo la direzione della
filarmonica locale. Mascagni, che nel contempo si era unito ad una ragazza parmigiana, Argenide Marcellina Carbognani (detta Lina), dalla quale
aspettava un figlio, accettò. Il bambino, che nacque nel mese di maggio,
sopravvisse solo quattro mesi. Quel fortissimo dolore tuttavia recò profondi cambiamenti nella vita di Pietro Mascagni.
Il 7 febbraio 1888 si unì in matrimonio con Lina. Nel mese di aprile,
con un’orchestra di giovani da lui formata, fece eseguire una sua Messa nel
duomo di Cerignola. Il lavoro, riproposto anni dopo, quando egli aveva ormai conquistato la celebrità, prese il nome di Messa di Gloria (in fa magg.).
Gemma Bellincioni e Roberto Stagno, la
celebre coppia di artisti che si esibì nella
prima di Cavalleria rusticana al Teatro
Costanzi, Roma, 17 maggio 1890.

20
 Cafiero Filippelli,
Galliano Masini e
Giuseppina Cobelli
in Cavalleria rusticana
al Teatro Colón di
Buenos Aires, olio su
tela, 1932.
 Cavalleria
rusticana,
riduzione
per canto e
piano, edizione
originale, 1890.
21
l’autore
 Emma Calvé,
la Santuzza
prediletta dalla
regina Victoria
al tempo delle
rappresentazioni
di Cavalleria
rusticana a Londra
e al castello di
Windsor.
22
23
l’autore
Stagno, Leopoldo Mugnone ed una sola variante tra le parti principali poiché il baritono Mario Ancona, livornese e promettentissimo (non tradirà
le attese), sostituì il collega Gaudenzio Salassa. Si trattò di un successo addirittura più grande di quello romano, un entusiasmo travolgente. La produzione, organizzata da un comitato cittadino, fu addirittura sospesa per
eccesso di pubblico. Incredibile, ma vero. In occasione della quinta recita il
bagarinaggio raggiunse punte elevatissime e fuori dal teatro si registrarono
tafferugli che il prefetto sedò con la sospensione delle repliche. Si trattò
di “buoni cazzotti toscani” come ebbe a dire Gemma Bellincioni nelle sue
memorie (Bellincioni 1920, p. 106), ma il cammino di Cavalleria rusticana
era ormai diventato inarrestabile. Passando rapidamente di città in città
nel gennaio 1891, la “giovine” opera di Mascagni giunse sul palcoscenico
del Teatro alla Scala, dove fu eseguita per 23 serate trionfali. “Un delirio di
applausi, di acclamazioni, di urli da far rintronare la sala” (Gatti 1964, vol.
1, p. 167), guidato da un cast rinnovato e ugualmente prestigioso, formato
da Romilda Pantaleoni, Fernando Valero, Tito Scipione Terzi, ancora sotto
la bacchetta di Leopoldo Mugnone.
Un livornese, ma non Pietro Mascagni, bensì Augusto Vianesi, pilotò invece l’approdo di Cavalleria al Metropolitan di New York (30 dicembre 1891)
con una compagnia di canto internazionale nella quale spiccò il soprano
Emma Eames (in seguito questa cantante sarà anche un’ottima Iris al fianco di Enrico Caruso).
Negli stessi giorni (gennaio 1892), alla presenza di Mascagni, Cavalleria
rusticana arrivò anche a Vienna dove, in compagnia dell’Amico Fritz, destò
l’interesse di Eduard Hanslick, il “Petronius arbiter” dei critici di lingua
tedesca, al cui Vom Musikalisch-Schönen qualcuno fa riferimento tutt’oggi, e
la sincera ammirazione di Gustav Mahler.
Il definitivo imprimatur internazionale di Cavalleria rusticana avvenne infine
in Inghilterra nell’estate 1893 dove, dopo una serie di rappresentazioni al
Covent Garden di Londra con la direzione dell’autore, l’opera fu eseguita al Castello di Windsor, dietro personale richiesta della regina Victoria.
Dopo la rappresentazione Mascagni fu ricevuto dalla regina stessa che a
lui, agli interpreti – Emma Calvé, Francisco Viñas, Mario Ancona – e al direttore artistico del Covent Garden, Sir Augustus Harris, donò un ritratto
con dedica in segno d’apprezzamento. In occasione del lungo soggiorno
londinese a Mascagni fu anche ascritto un flirt con la celeberrima cantante
australiana Nellie Melba, fonte d’inarrestabile gossip. In quegli anni si assiste anche alla nascita di un fenomeno teatrale fortunatissimo, dato dall’esecuzione in una stessa serata dell’opera mascagnana con Pagliacci di Ruggero
Leoncavallo. Attorno al fin du siècle e nel decennio successivo, poi, si assiste
a un’eccezionale fiorita d’interpreti che diremmo, tout-court, capeggiata da
Enrico Caruso ed Eugenia Burzio. Tanto è vasto il successo di Cavalleria
rusticana che, in uno spazio breve, è possibile ricostruire la storia esecutiva
di quest’opera per ciò che riguarda il Novecento solo per sommi capi,
dunque focalizziamo sugli episodi più popolari, o sugli eventi che sono
rimasti negli annali. Ci soffermiamo così sul vero “bagno di folla” registrato nell’estate 1935 in occasione della prima rappresentazione presso
l’Arena di Verona con una produzione di assoluto pregio diretta da Gino
Marinuzzi, e un travolgente assieme vocale formato dalla grande Santuzza
Cavalleria rusticana, stampa
popolare (1890 ca).
Incursioni e saccheggi ‘nel e dal’ cinema
Francesca Bianchi
Sei tu la danzatrice che morrai
della tua stessa danza folle come
d’un sottile veleno senza nome
da Rapsodia satanica
(Fausto Maria Martini)
90
91
l’autore
Locandina di Melodie immortali di Giacomo Gentilomo, 1952.
La prima vera colonna sonora del cinema italiano. Il primo compositore
professionista che scrive musica da film sincronizzandola con le immagini.
Un “[…] lavoro improbo, lungo e difficilissimo” come dichiarò lo stesso
Pietro Mascagni. L’anno è il 1915, il film Rapsodia satanica di Nino Oxilia. Primo assaggio di quell’affinità elettiva che lega Mascagni e il grande
schermo ancora oggi, fino a contagiare grandi registi che hanno scelto le
note del compositore livornese – e in particolare di Cavalleria rusticana –
per accompagnare pellicole entrate nella storia del cinema internazionale.
Compreso Toro scatenato di Martin Scorsese e il terzo capitolo de Il Padrino
di Francis Ford Coppola.
In origine non fu, però, Rapsodia satanica, perché delle opere di Mascagni
il cinema si era già impossessato qualche anno prima. Enrico Guazzoni
aveva attinto alla sua Amica per una riduzione filmica muta con Leda Gys
e due Cavalleria (firmate da Victorin Jasset e Claude Chautard) avevano già
conquistato il grande schermo tra il 1909 e il 1910. Rapsodia satanica è, però,
qualcosa di più. Una scommessa, un “poema cinema-musicale” in cui per
la prima volta è la musica ad adattarsi alle esigenze della pellicola. Mascagni
cronometrò la durata delle immagini. In una lettera alla moglie Lina del
22 maggio 1914 il compositore scrive: “Trovo i temi e li sviluppo: ma poi
li debbo tagliare, aggiustare, ripetere, allungare ecc. fino a tanto che non
abbia ottenuto la perfezione nel far collimare la musica con la proiezione”.
In questo senso quella composta per Rapsodia satanica è da considerarsi la
prima vera colonna sonora italiana.
Mascagni: non solo un grandissimo musicista,
ma un grande personaggio
Francesca Albertini Mascagni
Vice Presidente
Comitato Promotore Maestro Pietro Mascagni
Ferrea è la tempra del
mio volere
da Guglielmo Ratcliff
94
Mascagni nell’estate 1910 a
Castell’Arquato durante la
composizione di Isabeau.
Gli eleganti si vestivano come lui, le donne correvano a vederlo, le ragazze
ritagliavano le sue fotografie dalle riviste, all’estero era l’italiano più noto.
Ebbe sul costume dell’epoca il peso che avrà in seguito il principe di Galles, i suoi abiti, i suoi capelli (il grande ciuffo fluente ed ondulato), le sue
scarpe, anche il suo vezzo di non farsi crescere barba e baffi (in realtà perché non ne aveva in quantità adeguata) verrà poi imitato in tutto il mondo
per essere à la page. Le sue battute fulminanti correvano per il paese, i
giornali le riportavano e tutti ne ridevano, ammirandolo. Lo cercavano
dovunque. Lo volevano nelle corti reali, nei salotti, nelle città più lontane.
Gli piaceva la gente, viaggiare e ritrovare italiani. Era l’uomo del giorno,
il “fenomeno”. Nella fantasia popolare Mascagni s’identificava con ‘l’immagine mitica dell’uomo’ felice che associava in sé la giovinezza e la fama,
un prototipo irresistibile della razza latina, estrosamente calzato, vestito e
95
l’autore
Sono passate tre generazioni dal nostro bisnonno Pietro Mascagni, ma
nella nostra grande famiglia il ricordo è quanto mai vivo, accompagnato
dalla sua musica e dagli aneddoti che i nostri genitori e nonni ci hanno
raccontato.
Mia madre, Maria Teresa, per tutti Mitì, era la più piccola dei nipotini e
mi dice sempre che nonno Pietro è stato un nonno adorabile, molto affettuoso e premuroso verso tutte le necessità delle famiglie, un lavoratore
instancabile e un amministratore preciso.
Ed è per questo che vogliamo ricordarlo nel 2013, anno di celebrazione del
150° dalla nascita, per quello che fu: non solo un grandissimo compositore,
ma un grande personaggio, una moda, il simbolo di un successo travolgente!
Le cronache di quel tempo ci dicono:
Mascagni al
pianoforte, con il suo
amato sigaro toscano.
96
pettinato. Il musicista si confessò ad un suo tardo memorialista (De Carlo 1946): “L’uomo che il mondo conosce in me non è quello reale. Tutti
credono che io sia fatto soltanto per lo spirito e l’allegria, ma non è così: io
sono piuttosto un malinconico e ho sempre fatto uno sforzo enorme per
non mostrarmi quello che sono veramente”.
Lo scopone
Anche quella dello scopone era una vera e propria mania, “croce e delizia” per i familiari, gli amici ed i collaboratori costretti il più delle volte
a doversi sottoporre a lunghe ed estenuanti partite soprattutto notturne.
Il sigaro
Da buon toscanaccio, la sua passione per i sigari arrivava quasi all’ossessione: prima di partire infatti verificava le scorte preparate in specifiche
valigie e valigette fabbricate espressamente per trasportarle. Lo infastidiva
soltanto l’idea di rimanerne sprovvisto, anche perché la dose quotidiana
era di circa 36 “mezzi-Toscani”. Tutti noi abbiamo qualche immagine nella
Copertina della rivista «Time»,
settembre 1926.
97
l’autore
Spontaneo ed immediato, il Livornese ignorò sempre l’arte della diplomazia, non imparò mai l’opportunità di tacere e nonostante questo seppe
conquistarsi simpatie e farsi corteggiare.
Nel 1897 Giulio Ricordi diceva: “Nulla mi stupisce di Mascagni! Non lo
ritengo cattivo, anzi tutt’altro; ma è come una pila elettrica non ancora completa, per modo che se ne hanno scosse, scintille, schioppettate così a casaccio, di sorpresa! […]. Speriamo che platino rame, zinco, acidi ecc. trovino
poi il giusto equilibrio ed allora la pila funzionerà bene (Morini 1964)”.
Come tutti gli uomini passionali, viveva di passioni ed oltre alla musica
adorava il sigaro, il gioco dello scopone, il biliardo, il tamburello, la bicicletta, il collezionismo (quadri, orologi, pipe, penne, scatole per sigari,
cravatte, gilet, bacchette per dirigere, strumenti musicali) e… le donne!
mente di Mascagni con il sigaro saldamente tenuto tra le labbra, mentre
gioca a scopone, compone musica, chiacchiera con gli amici.
È proprio la figlia Emy a raccontarci, nel suo libro autobiografico, che
il papà conservava i suoi sigari nella propria camera, in un enorme armadio nel quale custodiva anche sigarette, cerini e fiammiferi ed un enorme
Avana della lunghezza di 40 centimetri. Lo stesso armadio conteneva poi
cassette con speciali sfiatatoi, atti a far seccare a giusto punto i Toscani.
Senza contare la sua collezione di pipe e bocchini.
Sempre la nipote Mitì (mia mamma) racconta di quando, da bambina,
andava ogni domenica a trovare i nonni all’Hotel Plaza: “Nonno pasteggiava con il Carpano Punt e Mes: come entrée, d’inverno, prendeva sempre
due uova sbattute con il parmigiano e stracciate dentro il brodo, poi degli
spaghetti con olio e parmigiano ed una fettina di vitella in padella espressamente fatta dal suo cameriere Valentino. Subito dopo si accendeva il sigaro e
chiamava ogni nipote. A me, che ero la più piccola, dava uno scudo (5 lire), a
mio fratello Pierino due scudi, al cugino Bubi tre scudi, per le piccole spese
della settimana. Poi un bacio sulla fronte a noi tre, ci salutava e noi tornavamo a casa con il piccolo tesoro, quasi inebriati dal profumo del sigaro”.
Mascagni e i suoi ‘amici’ pittori
Guia Farinelli Mascagni
Direttore artistico
Comitato Promotore Maestro Pietro Mascagni
Ognun pel suo cammino
va spinto dal destino
da Iris
110
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l’autore
Angelo Tommasi, Pietro Mascagni,
olio su tela, 1898, Livorno, Museo
Civico “G. Fattori”.
Durante l’Ottocento e soprattutto tra il 1880 e i primi decenni del Novecento, pittori, letterari e musicisti furono spesso in stretto contatto tra loro
scambiandosi impressioni, creando movimenti, trovando ispirazioni comuni e suggestionandosi a vicenda. Pittura, musica e letteratura affrontarono parallelamente la modernità cercando nuove soluzioni, nuovi stimoli.
Pietro Mascagni è stato, tra i musicisti di quel tempo, un appassionato di
pittura e scultura e amico di alcuni tra i pittori italiani più rappresentativi
del periodo.
Raccolse una collezione notevole, oltre venti Fattori, varie opere di Plinio Nomellini, di Gaetano Previati, Vittorio Matteo Corcos, Francesco
Paolo Michetti, Aleardo Villa, Giuseppe Casciaro, Angiolo Tommasi, Silvestro Lega. Opere che in gran parte furono rubate al Maestro, prima e
durante la guerra.
Il collezionismo è un interesse personale, ma in Mascagni l’amore per le
opere d’arte andò senz’altro oltre. Fu proprio lui a volere la partecipazione
dei pittori che amava per i manifesti e le illustrazioni dei libretti delle sue
opere.
Previati illustrò il libretto di Parisina con cinque dipinti, Nomellini fece il
manifesto sempre per Parisina.
Anche per il Nerone, Nomellini collaborò per il libretto con tre grandi
I mutevoli volti di Parisina
Raffaele Monti
(1932-2008)
Amico mio bello
così di noi è
né tu senza me
né io senza te
da Parisina
(Gabriele D’Annunzio)
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Parisina, atto IV (foto di scena). Livorno, Teatro Goldoni, settembre 1952.
125
l’autore
Gaetano Previati, Decapitazione (IV atto di Parisina). Livorno, Museo Civico “G. Fattori”.
Un nostro vecchio amore per questa straordinaria e sfortunata creatura,
nata dalla spericolata collaborazione fra D’Annunzio e Mascagni, ci ha
spinto ad aprir su questa nuova rivista un singolare e, speriamo, costante
settore “oltre” l’immagine, proponendo un tema non solo di straordinario
e intricato fascino, ma esemplare e pressoché unico tra gli eventi della cultura italiana d’inizio secolo.
Parisina, tragedia lirica in quattro atti di Gabriele D’Annunzio musicata
da Pietro Mascagni, andò in scena alla Scala il 15 dicembre del 1913 dopo
un anno di lavoro in stretta collaborazione tra il poeta, che si trovava in
quei tempi costretto “all’esilio” di Arcachon, e Mascagni, che per star vicino al suo eccezionale librettista si era a lungo trasferito in una villa a Bellevue, nei pressi di Parigi. Non vogliamo, d’altra parte, ripercorrere in questa
sede le note vicende di una siffatta collaborazione; ricorderemo solamente
l’ambiguo carattere del testo letterario nato, nella volontà del poeta, come
seconda parta di una trilogia drammatica, I Malatesti, della quale la Francesca
da Rimini, pubblicata nel 1902, costituiva la prima giornata. Esso era stato
sviluppato e steso come libretto d’opera sin da quando nel 1906 Tito Ricordi aveva proposto al poeta la collaborazione con Giacomo Puccini, rivelatasi presto impossibile per la netta e singolarissima coscienza drammaturgica del musicista. Una seconda collaborazione con Alberto Franchetti
andò anch’essa a vuoto e così una terza con Claude Debussy, che proprio
Un ‘recupero’ possibile
Guido Salvetti
Quando volevano ci dividessero
l’odio, il dispetto
da I Rantzau
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151
l’autore
Filiberto Scarpelli, Pietro Mascagni all’attacco, caricatura.
Per tracciare un bilancio della presenza di Mascagni nella vita culturale
dell’Italia di oggi, dobbiamo essere meglio coscienti di due fenomeni che
congiurano nel rendere problematico un giusto apprezzamento di un musicista che, piaccia o non piaccia, è stato uno dei protagonisti dell’opera
italiana nel mondo.
Il primo dato su cui riflettere è l’esistenza di un mondo in sé concluso,
quello dei cultori dell’opera cosiddetta verista: hanno memorizzato i minimi dati biografici; collezionano ogni possibile reperto; vi parlano con
sicurezza del timbro, dell’estensione, delle doti sceniche di mitici cantanti,
basandosi sui giudizi dei contemporanei e su qualche gracchiante rullo
d’epoca. Ricordano a memoria ogni libretto in ogni sua parte. Vi possono
citare all’istante i passi celebri di ogni spartito (non solo le romanze, ma
anche le ruggenti irruzioni delle ‘parole sceniche’). Affrontano ogni disagio per essere presenti ovunque ci sia un nuovo allestimento di opere che
considerano pur sempre non abbastanza riconosciute.
Una simile dedizione a Leoncavallo, Cilea, Giordano e, soprattutto, Mascagni è, naturalmente, benemerita e ammirevole (anche Puccini era della
schiera, ma per lui da qualche decennio ogni ‘esclusiva’ è andata in frantumi con l’irruzione di interessi internazionali, pluri-ramificati nei diversi
livelli della cultura musicale dei nostri anni). Si deve a loro se è rimasta
memoria di titoli un tempo famosi e poi travolti dalla storia; oppure di
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iniziativa culturale) su simili argomenti comportava uno “schierarsi”. Per
fortuna di tutti, il clima è non poco cambiato, almeno da quando sono stati
coinvolti degli outsider, come ad esempio poté essere considerata Fiamma
Nicolodi, la massima autorità sul versante della Generazione dell’Ottanta,
quando fu chiamata a collaborare alla pubblicazione su Mascagni di Electa, nel 1983. Sono stato testimone (in quanto compartecipe all’impresa)
di come quello sconfinamento di campo non sia stato affatto gradito a
Livorno, luogo principe dell’ortodossia mascagnana. A partire da quegli
stessi anni anche Leoncavallo, con la formazione di un Fondo a lui dedicato nella biblioteca di Locarno, fu oggetto di studi e di pubblicazioni
aperti all’apporto di studiosi non appartenenti al “mondo in sé concluso”
da cui abbiamo preso le mosse. Giacomo Puccini, come accennavamo, era
già stato affrancato da quel mondo almeno dal 1958, quando il direttore
d’orchestra e critico musicale Mosco Carner, interessato a un ampio spettro di argomenti del primo Novecento (tra cui Alban Berg), uscì con la
sua capitale biografia critica. Cilea, Giordano e Alfano uscirono dal ghetto
agiografico nel 1999, quando apparve il ponderoso volume (1008 pagine)
curato da Johannes Streicher, con l’apporto di studiosi di tutte le ‘tendenze’, tra cui, per fare un nome, un altro campione della Generazione
dell’Ottanta, il compianto John Waterhouse.
Questo è il contesto favorevole in cui si colloca l’odierno ricordo di Mascagni nel 150° anniversario dalla nascita. È un contesto in cui si registrano alcune indiscutibili riuscite sul piano della rappresentazione di opere
diverse dalla pur sempre vitale Cavalleria rusticana. Ne citerò una per tutte:
l’allestimento di Iris all’Opera di Roma nel 1996 con la regia di Hugo De
Ana e la direzione di Gianluigi Gelmetti. Ma l’attenzione verso il complesso della sua creazione è di attualità, tanto è vero che un musicista come
Roman Vlad, certo non sospetto di mascagnismo, ha dichiarato («La Repubblica», 1° dicembre 2011) che “nella programmazione futura del Teatro dell’Opera dovrebbe essere previsto il recupero di tutta la produzione
di Mascagni”. A questo incoraggia anche la recente ottima monografia di
Cesare Orselli (Orselli 2011), in cui trovano spazio molteplici motivi per
la valorizzazione di opere degne di essere pienamente accolte nel repertorio corrente.
Si tratta, prima di tutto, di porre nella giusta luce Cavalleria rusticana, che
appartiene alla breve fase verista della nostra cultura nazionale al termine del decennio dominato da Giovanni Verga; poco prima che avvenisse
la trasmutazione simbolista e decadente di quegli stessi presupposti, ad
esempio con La figlia di Jorio. Mascagni rischiò e rischia di rimanere prigioniero della fortuna clamorosa, vastissima e duratura, di quest’opera; e
153
l’autore
titoli già subito dimenticati nei loro anni e da loro considerati degni di
essere oggi recuperati e rivendicati. Si deve a loro se sono stati raccolti
e pubblicati epistolari, diari, rassegne critiche, discografie. Si deve a loro
se il campanilismo delle città natali è stato sollecitato a onorare gli illustri
concittadini con tutti i possibili mezzi (lapidi, monumenti, annulli filatelici,
giornate di studio, esecuzioni in concerto o, nei casi più fortunati, con
allestimenti teatrali).
Non c’è chi non veda che le indiscutibili benemerenze di questi cultori
abbiano dovuto scontare da sempre il sospetto che le loro prospettive siano, sostanzialmente, di tipo agiografico. Questo è però un rischio sostanzialmente ingiusto, perché, se la cautela è una delle virtù che si richiedono
allo storico e al critico, è da evitare che essa degeneri in diffidenza, che è,
tra tutti gli atteggiamenti possibili, il meno culturalmente fecondo.
Il secondo fenomeno di cui essere coscienti, e di cui rammaricarsi, è che,
a fronte degli agiografi e del loro mondo che dicevamo “in sé concluso”, si
è schierato l’esercito ben altrimenti potente degli strenui nemici della tradizione operistica nazionale, pronti a ingaggiare le loro guerre in nome della
‘nobiltà’ dell’arte. La storia è antica e non riguarda solo i Veristi. Non fu
solo un eccesso giovanile il Brindisi in cui Boito dichiarava che Verdi aveva
lordato l’altare dell’arte. Né si devono a puro malanimo gli articoli orripilati di D’Annunzio nei confronti delle opere di Stanislao Falchi e, poi, le
apostrofi contro il “capobanda” Mascagni. E poi le geremiadi di Torrefranca e di Pizzetti contro Puccini, gli insulti del giovane Casella contro la
musica di Verdi, giù giù sulla china di una diffusa adorniana assimilazione
dell’opera di tradizione ai prodotti di consumo privi di artisticità.
Siamo reduci, quindi, da un contenzioso – tra gli studiosi, tra i critici, tra
gli editori e tra i pubblici – che ha ragioni profonde, molto più di quello
che si possa dire in questo breve spazio; un contenzioso che si complica
e si frammenta, contrapponendo non solo modernisti e antimodernisti,
strumentalisti e operisti, ma anche mascagnani contro pucciniani, gli ammiratori di Leoncavallo contro quelli di Zandonai; e via all’infinito. Questo
lungo e ramificato dibattito, che ha in sostanza attraversato tutti i 150 anni
dell’Italia unita, ha rivelato solo a tratti serie motivazioni culturali (tra cui
le opposte idee su quale sia l’autentico animo della nazione), mostrando
più frequentemente ragioni meno nobili quali lo spirito di campanile, l’innata partigianeria dei loggionisti, le immotivate idiosincrasie di questo o
di quello, e soprattutto la diffusa convinzione che sia un dovere morale
battersi per l’innovazione, contro coloro che si credono custodi della tradizione; e viceversa.
Fino a pochi decenni fa ogni pubblicazione (o anche ogni possibile
Andrea Bocelli
tenore
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le testimonianze: gli interpreti
Connazionale e corregionale, porto Pietro Mascagni
e le sue immortali melodie nel cuore fin da quand’ero
bambino. Ancor prima che la vita adulta rendesse
razionalmente comprensibili quelle dinamiche dei
rapporti umani che l’autore di Cavalleria rusticana
ha esaltato e narrato in musica con il proprio
travolgente talento, posso dire d’aver percepito cosa
sia la passione, negli aspetti finanche più impetuosi e
potenzialmente insalubri, anche attraverso le sue partiture: musica che
si fissa a fuoco nella memoria, grazie alla spontaneità illuminata della
scrittura, alla bellezza ineffabile delle linee melodiche.
Il venerato Maestro toscano esprime una genialità la cui portata
rende il suo profilo artistico degno d’essere posto, senza rossori,
nell’Olimpo della lirica accanto a colleghi del calibro di Giacomo
Puccini e Giuseppe Verdi. Tuttavia, a differenza dei compositori citati,
il musicista livornese chiede ancora ai posteri, ormai ad un secolo e
mezzo dalla nascita, che si compia con la debita dedizione una piena
renaissance del suo corpus compositivo.
Da fruitore, ascoltatore innamorato del melodramma, frequento ed
amo tante sue opere (Iris, Guglielmo Ratcliff, Zanetto, giusto per citarne
alcune). Da cantante lirico, ho affrontato L’amico Fritz e Cavalleria
rusticana.
In particolare, ho interpretato Cavalleria, sia incidendola sia
portandola sulla scena, negli Stati Uniti e presso la Deutsche Oper
di Berlino. Sono molto legato a questa partitura, che chiede tanta
dedizione ed altrettanta cautela: infatti, se è facile calarsi in un ruolo
così ardente come quello di Turiddu, altrettanto facile è perdercisi
dentro, smarrendo quella lucidità dell’atleta che un cantante deve
necessariamente mantenere.
La passione che si percepisce affrontando gli spartiti mascagnani può
portare alla tentazione di oltrepassare i confini consentiti dalla propria
vocalità. Interpretare Mascagni impone di rimanere ligi a quelli che
sono i principi fondamentali della tecnica del canto, considerando
la voce come uno strumento… Strumento che possiede una propria
fisiologica estensione e dinamica, che richiede maggiore o minore
pressione sulla corda in relazione al fatto che si voglia ottenere un
forte o un piano, ma che non deve mai accondiscendere alla tentazione
168
Vinicio Capossela
cantautore
Lo chiamano Verismo, ma per me è solo l’inizio del
grande cinema epico. I grandi temi orchestrati che
ricongiungono al lato epico della nostra vita, quello
dove le scelte sono irreparabili, le conseguenze gigantesche. La gran mareggiata della vita.
Puccini, Mascagni, hanno questa tessitura orchestrale
che porta dritta al “Nutless” nel teatrino per fumatori
di oppio di C’era una volta in America di Sergio Leone.
Come descrivere il miracolo di Cavalleria rusticana? Nella successione di
accordi del miracoloso Intermezzo, è il cromosoma, la bios, dell’altro lato
della vita. Del rovescio della vita, il negativo fotografico. Quello dove
la vita si rivela nella sua interezza, per noi che ne saggiamo continuamente i momenti, brancolandoci dentro come cuccioli ciechi.
Ci sono momenti in cui la vita si mostra per intero, come il Leviatano.
Il suo gran sbuffo.
Il destino, proprio come la balena, si comprende dalla coda, quando è già passato, e l’onda che solleva ha la musica di quell’Intermezzo.
Al grande Martin Scorsese il merito di avercelo rivelato in quell’inizio
magistrale del suo Racing bull, Toro scatenato. Su un bianco e nero alla
Weggie, il fotografo, l’occhio indiscreto, che dormiva sintonizzato sulla
radio della polizia. Su quel bianco e nero l’inizio a rallentatore del riscaldamento sul ring di De Niro-La Motta, avvolto nel suo accappatoio
da leopardo. Metà del film sono le note di quell’Intermezzo. Ognuno di
noi può disporre dei suoi dieci minuti di epica, tirando pugni a vuoto,
avvolto nell’Intermezzo di Mascagni. Apprendere che lo abbia composto
un giovane che aveva abbandonato il conservatorio per “lo spettacolo
delle vanità altrui, di tante nullità che valevano pressappoco la mia”. E
che si dà alla vita del saltimbanco tra le compagnie di operetta, per poi
rimanere senza il becco di un quattrino in Ascoli… ma che si affida
fiducioso al destino perché, come per i bevitori, c’è una Provvidenza
anche per i maestri di musica. E che poi si affranca da questa vita di
nomade, con una famosa fuga notturna, nientemeno che da Cerignola,
nelle Puglia e poi in corsa realizza questa Cavalleria per un concorso
e si precipita nella fama istantanea e continentale. Un avvenimento
senza precedenti il tentativo di un giovane italiano, festeggiato in tutta
Europa, non soltanto come un capolavoro, ma meritevole di venire
rappresentato sulle scene tedesche. Mascagni, il solo che aveva saputo sfuggire al fascino wagneriano creando un’opera libera e sincera.
E in questo ricorda il suo concittadino più alto, Amedeo Modigliani,
che nella Parigi di Picasso, aveva saputo estrarre da se stesso uno stile
unico, stagliato come un cristallo, pur soggetto all’influenza della più
formidabile concentrazione di artisti di tutti i tempi.
Affacciarsi a Livorno alla terrazza Mascagni è già come prendere il
largo, quel mare da grandi spruzzi di Piroscafo, quell’arrivare del formidabile Novecento, come idea di lume, di elettricità e transatlantico…
C’è già l’America su un fondale, che appare magnificente, e lascia orfani subito dopo. Nostra piccola e semplice tragedia, questo affacciarsi al
più grande di noi, che miracoli come la Cavalleria rusticana ci regalano,
insieme ai fazzoletti, agli ombrelli da sole, ai bagni pubblici, ai palloni
aerostatici. Le grandi invenzioni dell’umanità.
169
le testimonianze: gli interpreti
di forzare i suoni. In questo caso sventurato, il cantante, credendo di
dare qualcosa di più in termini emozionali, viceversa impoverisce la
voce delle sue armoniche.
Personalmente, l’incontro professionale con la musica di Mascagni ha
rappresentato, oltre ad un’avventura foriera di grandi soddisfazioni
sul versante squisitamente artistico, una preziosa palestra dal punto di
vista della tecnica, della gestione del suono… Ho acquisito maggior
consapevolezza del fatto che la voce – mentre l’orchestra verista suona
a pieno regime – non “passa” mai forzandola, bensì mettendola nelle
migliori condizioni per liberarsi, individuando quel confine oltre al
quale il suono anziché correre avanti, rischia persino di tornare indietro.
Poiché appassionato divulgatore dei grandi tesori musicali italiani,
poiché artista orgoglioso d’essere nato e cresciuto nella terra che è
stata culla dell’opera lirica, non posso che auspicare una crescente
consapevolezza del valore eccezionale delle partiture mascagnane,
anche quelle che hanno avuto, quanto a circuitazione nei teatri, una
minor fortuna; il tempo darà loro senz’altro ragione.
Alcuni anni fa, in ambito pop, ho voluto offrire il mio umile omaggio
al genio livornese, attraverso una canzone (nell’album Cieli di Toscana),
proprio in ragione della mia convinzione che Mascagni sia un colosso
della musica lirica la cui arte, tumultuosa e senz’altro rilevante anche
per le generazioni future, non è ancora sufficientemente compresa.
Un compositore la cui eredità musicale, al di là del suo fortunatissimo
incipit operistico, rappresenta un bene comune che può ed anzi deve
arrivare quanto prima al grande pubblico.
Daniel Barenboim
pianista e direttore
Mascagni è stato uno straordinario uomo di teatro, il
calore e l’intensità mediterranea della cui musica hanno pochi simili nell’Italia dell’epoca. Che Mahler abbia
confessato per scritto di avere “molti punti in comune”
col compositore di Livorno è segno del fatto che, anche
per Mascagni, il tempo della giusta rivalutazione presto
verrà. Sono sicuro che, a partire da questo anniversario,
l’Italia saprà far ancor meglio valere uno dei suoi più
illustri compositori.
Bartoletti e l’opera popolare
direttore (1925-2013)
i direttori
182
Leopoldo Mugnone
il primo direttore di Cavalleria rusticana, Roma, 1890, Teatro Costanzi.
C’è sempre una prima volta nella vita, anche quando si
è direttori d’orchestra con una carriera lunga e irresistibile dietro le spalle. Per Bruno Bartoletti, sestese purosangue e anche un po’ americano (dal 1964 è capo del
Lyric Opera di Chicago), quello che andrà in scena il 19
ottobre sarà un vero e proprio debutto. Dirigerà, infatti,
per la prima volta nel “suo” Comunale (sì, dice proprio
così, “mio: che vuole, qui ho fatto di tutto prima di diventare direttore
d’orchestra, persino il suggeritore”) sia Cavalleria rusticana di Mascagni che
Pagliacci di Leoncavallo. “Due opere – spiega Bartoletti – segnate da una
bella differenza. Cavalleria ha una drammaturgia perfetta ma nei Pagliacci ci
sono maggiori rifiniture, soprattutto nell’orchestrazione. Altro che opera
volgare, come ha detto qualcuno: in certe sfumature Leoncavallo ha anticipato l’Espressionismo”.
Anche su Mascagni pesano molti pregiudizi. Per lungo tempo la critica
l’ha considerato con fastidio perché “popolaresco”, e per di più fascista:
“Quando un musicologo raffinato come Vlad e Muti decisero, al Comunale, di mettere in scena Cavalleria, si gridò allo scandalo. Oggi qualcosa sta
cambiando: c’è un recupero di Mascagni al di là delle posizioni politiche
e della sua grande fruibilità, che tanta noia ha dato agli snob. Credo anche
che certe opere siano vittime di cattive esecuzioni, della routine, che non
significa tradizione. Quando Karajan fu chiamato a dirigere Cavalleria alla
183
Ricordando Mascagni
Roman Vlad
225
le testimonianze: la critica
Arrivai a Roma nel 1938 per studiare con Alfredo Casella. Avevo diciannove anni ed ero desideroso di conoscere gli esponenti della vita musicale italiana. Tra
questi, ovviamente, Pietro Mascagni.
Ebbi la fortuna di assistere a un concerto che Mascagni
dirigeva al Teatro Adriano con l’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Il programma comprendeva, tra l’altro, la Quinta Sinfonia di Beethoven. Mascagni non l’eseguiva
con la stereotipata perfezione tecnica di un ‘routinier’ della direzione d’orchestra, ma la interpretava con la profonda comprensione e la libertà di
un compositore.
Ne parlai con i miei colleghi di corso e rimasi stupito della freddezza che
mostravano nei suoi confronti. Mi consigliarono pure di non lodare Mascagni davanti a Casella, perché i due compositori appartenevano a tendenze agonistiche e ostili. Non seguii i loro consigli e ne parlai con Casella,
del quale avevo già intuito l’intelligenza, la saggezza e l’imparziale serenità.
E Casella mi spiegò subito la situazione. Nell’Ottocento il trionfale dilagare dell’operismo aveva interrotto e fatto obliare la grande tradizione
sinfonico-strumentale italiana dei secoli precedenti. Sicché all’inizio del
Novecento l’Italia era totalmente priva di un repertorio sinfonico atto a
reggere il confronto con quello di altri paesi europeo e particolarmente
con la grande tradizione musicale germanica, che va dalla classica scuola
viennese di Haydn, Mozart e Beethoven a quella romantica che da Schubert, Schumann e Mendelssohn porta a Brahms e a Mahler. Ad iniziare la
rinascita di un peculiare sinfonismo italiano furono quattro compositori:
Respighi, Pizzetti, Malipiero, Casella, nati nell’ottavo decennio dell’Ottocento e definiti perciò come la Generazione dell’Ottanta. Ad aiutarli nella
non facile impresa ci fu una schiera di musicologi e critici che seguivano
l’esempio di Fausto Torrefranca, che per parecchi anni fu l’unico titolare
di una cattedra universitaria di Storia della Musica in Italia. Egli pensò che
per far rinascere il sinfonismo bisognava attaccare, svalutare e dichiarare
defunto l’operismo, non solo quello verista di Mascagni, Leoncavallo e
Puccini, ma persino quello di Verdi.
Casella condannava la faziosità di simili giudizi. Stimava Mascagni e mi
spronò ad avvicinarlo.
Riuscii ad avere un appuntamento con l’anziano compositore grazie all’intermediazione del critico musicale del «Il Giornale d’Italia», Fernando
Se mi commuovo
è perché t’amo...
da Zanetto
embre 2013 presso
finito di stampare nel sett
Genesi, Città di Castello
per conto di
sillabe
da un’idea di Giulia Perni e Massimo Signorini

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