di Ematologia Oncologica - Società Italiana di Ematologia

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di Ematologia Oncologica - Società Italiana di Ematologia
ISSN 2038-2839
Editor in chief
Giorgio Lambertenghi Deliliers
Anno 8
Numero 3
2011
Seminari
di Ematologia
Oncologica
NEL PROSSIMO NUMERO
IL PAZIENTE “UNFIT”
Definizione clinico-biologica •
Leucemia linfatica cronica •
Linfoma non Hodgkin •
Trapianto di cellule staminali emopoietiche •
Terapia
continuativa
EDIZIONI
INTERNAZIONALI srl
Edizioni Medico Scientifiche - Pavia
Terapia
continuativa
Mieloma multiplo
5
Vol. 8 - n. 3 - 2011
Editor in Chief
Giorgio Lambertenghi Deliliers
Fondazione IRCCS Ca’ Granda
Ospedale Maggiore Policlinico di Milano
BARBARA LUPO, STEFANIA OLIVA,
MARIO BOCCADORO
Editorial Board
Sergio Amadori
Università degli Studi Tor Vergata, Roma
Mario Boccadoro
Leucemia mieloide cronica
19
Università degli Studi, Torino
Alberto Bosi
Università degli Studi, Firenze
Federico Caligaris Cappio
ANTONELLA GOZZINI, ALBERTO BOSI
Università Vita e Salute, Istituto San Raffaele, Milano
Antonio Cuneo
Università degli Studi, Ferrara
Marco Gobbi
Sindromi melodisplastiche
37
Università degli Studi, Genova
Fabrizio Pane
Università degli Studi, Napoli
Mario Petrini
PELLEGRINO MUSTO
Università degli Studi, Pisa
Giovanni Pizzolo
Università degli Studi, Verona
Giorgina Specchia
Leucemia mieloide acuta
67
Università degli Studi, Bari
Direttore Responsabile
Paolo E. Zoncada
Registrazione Trib. di Milano n. 532
del 6 settembre 2007
DOMENICO PASTORE, MARIO DELIA,
GIORGINA SPECCHIA
Linfomi non Hodgkin
79
Edizioni Internazionali srl
Divisione EDIMES
Edizioni Medico-Scientifiche - Pavia
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Via Riviera, 39 - 27100 Pavia
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Seminari
2
Periodicità
Quadrimestrale
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di Ematologia
Oncologica
Periodico di aggiornamento
sulla clinica e terapia
delle emopatie neoplastiche
Bibliografia
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il sito “International Committee of Medical Journal Editors Uniform
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Sample References”.
Es. 1 - Articolo standard
1. Bianchi AG, Rossi EV. Immunologic effect of donor lymphocytes in bone marrow transplantation. N Engl J Med. 2004; 232:
284-7.
Es. 2 - Articolo con più di 6 autori (dopo il 6° autore et al.)
1. Bianchi AG, Rossi EV, Rose ME, Huerbin MB, Melick J, Marion
DW, et al. Immunologic effect of donor lymphocytes in bone marrow transplantation. N Engl J Med. 2004; 232: 284-7.
Es. 3 - Letter
1. Bianchi AG, Rossi AV. Immunologic effect of donor lymphocytes
[Letter]. N Engl J Med. 2004; 232: 284-7.
Es. 4 - Capitoli di libri
1. Bianchi AG, Rossi AV. Immunologic effect of donor lymphocytes. In: Caplan RS, Vigna AB, editors. Immunology. Milano:
MacGraw-Hill; 2002; p. 93-113.
Es. 5 - Abstract congressi (non più di 6 autori)
1. Bianchi AG, Rossi AV. Immunologic effect of donor lymphocytes
in bone marrow transplantation [Abstract]. Haematologica.
2002; 19: (Suppl. 1): S178.
Ringraziamenti
Riguarda persone e/o gruppi che, pur non avendo dignità di AA.,
meritano comunque di essere citati per il loro apporto alla realizzazione dell’articolo.
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3
Editoriale
GIORGIO LAMBERTENGHI DELILIERS
Fondazione IRCCS Ca’ Granda,
Ospedale Maggiore Policlinico di Milano
Nell’ultimo decennio notevoli progressi sono stati
ottenuti nella terapia delle neoplasie ematologiche grazie a terapie d’induzione e di consolidamento diversificate a seconda dell’età e delle
caratteristiche biologiche della malattia.
Nonostante l’incremento, a volte significativo,
della sopravvivenza globale, le percentuali di
pazienti che mantengono a lungo la remissione
completa è ancora troppo piccola, per cui è giustificata la necessità di instaurare una terapia
continuativa con gli obiettivi di eradicare la malattia minima residua, evitare la recidiva e prolungare il più possibile la durata delle risposte. A questo proposito diverse opzioni sono oggi disponibili grazie a nuovi farmaci in grado di interferire
con specifici targets molecolari o patogenetici.
Seminari di Ematologia Oncologica ha scelto
come esempio alcune delle neoplasie ematologiche più frequenti, dove attualmente la terapia
continuativa ha un razionale consolidato con
risultati preliminari incoraggianti ed un accettabile profilo di tollerabilità. Nel mieloma multiplo è
consigliabile impostare un trattamento con talidomide, lenalidomide o bortezomid per tenere sotto
controllo la malattia dopo la fase d’induzione sia
chemioterapica che trapiantologica.
Analogamente in alcuni linfomi maligni ad alto
rischio di recidiva, vengono utilizzati anticorpi
monoclonali e terapie immunomodulatorie ed
epigenetiche. Nelle leucemie mieloidi acute e
nelle sindromi mielodisplastiche, dove le recidive refrattarie sono eventi frequenti, è particolarmente sentita la necessità di una terapia continuativa post-remissionale, soprattutto nei pazienti anziani dove l’ipotesi trapiantologica è improponibile. Diversi studi sono in corso per valutare
l’efficacia e la tollerabilità delle citochine, degli
agenti ipometilanti e degli inibitori dell’angiogenesi e delle tirosinochinasi. Questi ultimi, come è
noto, hanno modificato la storia naturale della
leucemia mieloide cronica e rappresentano il
modello ideale di una terapia continuativa gestita secondo determinate linee guida approvate
dalla comunità scientifica. In conclusione, siamo
in attesa di conoscere l’impatto che i trattamenti a lungo termine avranno sulla sopravvivenza e
sulla qualità di vita di pazienti affetti da determinate neoplasie ematologiche.
5
Mieloma multiplo
BARBARA LUPO, STEFANIA OLIVA, MARIO BOCCADORO
Divisione di Ematologia dell’Università di Torino,
Azienda Ospedaliera S. Giovanni Battista, Torino
Mario Boccadoro
n INTRODUZIONE
Il mieloma multiplo (MM) è una discrasia plasmacellulare maligna che rappresenta l’1% di tutti i
tumori e il 10% delle neoplasie ematologiche.
L’incidenza varia da 0,4 a 5 casi per 100.000 abitanti, con una maggiore frequenza nei soggetti
maschi residenti in paesi sviluppati, e tra gli afroamericani. L’incidenza aumenta notevolmente
con l’età, con una età media alla diagnosi di 66
anni (tassi di incidenza corretti in base all’età: 2,1
e 30,1 nei pazienti di età inferiore e superiore a
65 anni, rispettivamente) (1, 2).
Dal punto di vista terapeutico, sono stati ottenuti numerosi progressi negli ultimi 20 anni, in
particolare con l’introduzione del trapianto autologo di cellule staminali periferiche (ASCT) e più
recentemente con l’avvento dei nuovi farmaci,
talidomide, lenalidomide e bortezomib che hanno un ruolo oramai ben definito nell’incremento della sopravvivenza globale (OS) e della progressione libera da malattia (PFS) (3, 4).
Nonostante tali progressi il MM resta comunque
una malattia incurabile e con un’alta probabilità di recidiva; pertanto gli obiettivi principali degli
studi di ricerca attuali sono l’ottenimento della
miglior risposta grazie all’utilizzo di una terapia
citoriduttiva che utilizzi l’associazione di più farParole chiave: mieloma multiplo, mantenimento, talidomide, lenalidomide, bortezomib.
Indirizzo per la corrispondenza
Mario Boccadoro, MD
Divisione di Ematologia dell’Università di Torino,
Azienda Ospedaliera S. Giovanni Battista
Via Genova, 3/E - 10126 Torino
E-mail: [email protected]
maci, e il controllo della malattia con una terapia in continuo e ben tollerata (5).
La terapia di mantenimento intesa come terapia
continuativa rappresenta una delle più recenti
acquisizioni scientifiche ed ha come obiettivo
principale il prolungamento della durata delle
risposte ottenute con le terapie d’attacco.
Tra le prime opzioni terapeutiche nel mantenimento, gli steroidi hanno dimostrato di essere
in grado di prolungare la durata della risposta ma
con effetti limitati sulla sopravvivenza, come evidenziato in alcuni studi (6, 7). Tra i farmaci utilizzati in passato un ruolo importante ha avuto
l’interferone (IFN), come dimostrato in uno studio in cui era somministrato come mantenimento dopo induzione con chemioterapia convenzionale e confrontato con un gruppo di pazienti che non erano avviati a nessuna terapia di
mantenimento, riportando un prolungamento della sopravvivenza con IFN, soprattutto nel gruppo di pazienti che aveva risposto alla precedente terapia di induzione (P=0,0352) (8).
I risultati preliminari di uno studio randomizzato avevano evidenziato un vantaggio nel mantenimento dopo ASCT con IFN; tali dati, però,
non sono stati confermati da un follow-up più
lungo, che ha mostrato un modesto beneficio
in termini di PFS e OS al prezzo di numerosi
effetti collaterali (9). I risultati finali di uno studio di fase III hanno in seguito decretato il fallimento dell’IFN come terapia di mantenimento, sia dopo ASCT che dopo chemioterapia convenzionale (10).
Negli ultimi anni, l’avvento dei nuovi farmaci ha
permesso di sviluppare ulteriormente la ricerca
nel campo della terapia di mantenimento. Diversi
studi hanno infatti dimostrato il vantaggio di una
terapia in continuo sia alla diagnosi che in reci-
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Seminari di Ematologia Oncologica
diva di malattia, e numerosi sono quelli ancora
in corso che hanno l’obiettivo di valutarne l’efficacia e la tollerabilità a lungo termine, come illustrato nei successivi paragrafi.
n IL RUOLO DELLA TALIDOMIDE
La talidomide, inizialmente usata in Europa come
sedativo ipnotico, tranquillante e antiemetico, è
stata recentemente introdotta nella terapia di alcune patologie neoplastiche, in particolare nel MM,
per le sue proprietà antiangiogenetiche, immunomodulanti e antinfiammatorie, benché il suo preciso meccanismo d’azione rimanga tuttora sconosciuto (11-15).
Risalgono agli anni ’90 i primi studi che hanno
dimostrato la sua efficacia nel trattamento del MM
in recidiva (16). Sulla base di tali risultati, furono
condotti in un secondo momento studi che ne
provarono l’efficacia anche come terapia di prima linea (17, 18).
Inoltre, la possibilità di somministrarla per via orale in maniera continuativa, senza determinare l’effetto mielotossico tipico degli agenti alchilanti, ha
spinto a valutarne l’efficacia come terapia di mantenimento a lungo termine, sia in pazienti giovani sottoposti a ASCT, che in pazienti anziani o non
candidabili alla terapia ad alte dosi.
Studio
Terapia di induzione/ASCT
Schema di mantenimento
TT2
- Induzione: chemioterapia
vs chemioterapia + talidomide
- Doppio ASCT
- Consolidamento: chemioterapia
vs chemioterapia + talidomide
IFM 99-02
La talidomide dopo ASCT
I principali risultati dell’ultilizzo della talidomide
dopo ASCT sono illustrati in tabella 1. Lo studio
di fase III Total Therapy 2 (TT2) ha valutato l’efficacia dell’aggiunta della talidomide durante tutte le fasi del trattamento (dall’induzione al mantenimento), dimostrando una sostanziale superiorità del braccio sperimentale rispetto al braccio
di controllo. Durante il mantenimento la talidomide veniva somministrata in maniera continuativa
fino a progressione di malattia o a sviluppo di tossicità, al dosaggio di 100 mg al giorno durante il
primo anno al dosaggio ridotto di 50 mg a giorni alterni, dal secondo anno in poi.
Sebbene i primi risultati avessero inizialmente
mostrato la superiorità di tale schema rispetto
al controllo solo in termini di PFS (19), una recente revisione dei dati dopo un più lungo followup ha evidenziato il vantaggio dell’utilizzo della
talidomide anche in termini di OS (20).
Un altro studio di fase III (21) ha confrontato il
ruolo del mantenimento con talidomide e pamidronato (braccio C) dopo chemioterapia standard
e ASCT, rispetto al solo pamidronato (braccio B)
o a nessun mantenimento (braccio A). In questo caso i pazienti randomizzati nel braccio C
ricevevano la talidomide al dosaggio iniziale di
400 mg al giorno, riducibile fino ad un minimo
di 50 mg al giorno in caso di tossicità.
PFS/EFS
OS
Referenze
IFN+talidomide (100 mg/d il 1°anno,
50 mg a giorni alterni dal 2° anno in poi)
NA
NA
(20)
Doppio ASCT
No mantenimento vs pamidronato
vs pamidronato + talidomide (50-400 mg/d)
NA
NA
(20, 21)
MRC IX trial
Pazienti giovani:
CTD vs CVAD -> ASCT
Pazienti anziani:
MP vs CTD ridotto
No mantenimento vs talidomide
(50 mg/d aumentati a 100 mg/d
dopo 4 settimane)
HR=1.36;
95% CI1,15-1,61;
p<,001
No di fferenze
(p=,40)
(22)
ALLG trial
Singolo ASCT
Prednisone vs prednisone+talidomide
(200 mg/d per 12 mesi)
PFS a 3 anni 23%
vs 42% (p<,001)
OS: 75%
vs 86% (p,004)
(23)
MY.10 NCIC
ASCT
No mantenimento vs prednisone+talidomide
200 mg/d
PFS: 17 vs 28 mesi OS a 4 anni 60%
(p<,0001)
vs 68%
(24)
HOVON 50
VAD vs TAD → ASCT
Interferone a vs talidomide 50 mg/d
PFS: 25 vs 34 mesi OS: 60 vs 73 mesi
(p<,001)
(p=,77)
(25)
TABELLA 1 - Studi principali della terapia a lungo termine con talidomide dopo ASCT.
Mieloma multiplo
Nonostante la durata mediana di trattamento in
questo gruppo sia stata di soli 15 mesi, il mantenimento con talidomide ha mostrato un vantaggio in termini di miglioramento della qualità
della risposta ottenuta dopo ASCT.
Un significativo beneficio dal trattamento è stato evidenziato solo nei pazienti che avevano raggiunto una risposta inferiore alla risposta parziale molto buona (VGPR) prima dell’inizio del mantenimento, con effetti invece più limitati nei
pazienti già in VGPR al momento della randomizzazione. Tale dato supporterebbe l’idea che
il vantaggio ottenuto con la talidomide sia da
attribuire all’ulteriore riduzione della massa
tumorale più che alla capacità di mantenere la
risposta ottenuta.
Per quanto riguarda invece l’OS, il vantaggio che
era stato inizialmente evidenziato a favore della talidomide, non è poi stato confermato dai dati
emersi dopo un più lungo follow-up (20).
Anche nello studio inglese MRC IX la talidomide è stata utilizzata come mantenimento in associazione a bisfosfonati. In questo caso veniva
somministrata in combinazione con ciclofosfamide e desametasone (CTD) già durante la fase
di induzione, in alternativa all’associazione
ciclofosfamide, vincristina, doxorubicina e desametasone (CVAD). Ogni braccio di trattamento
prevedeva inoltre randomizzazione a concomitante terapia con acido zoledronico o a clodronato, somministrati fino a progressione di
malattia. I pazienti erano successivamente ulteriormente randomizzati a ricevere o meno terapia di mantenimento con talidomide. Un recente update di questo studio ha riportato una
sostanziale parità in termini di OS in entrambi i
gruppi (p=0,4), e significativo beneficio in termini di PFS nel gruppo che ha ricevuto mantenimento con talidomide (p<0,001). Un’analisi di
sottogruppo ha però evidenziato tale beneficio
solo nei pazienti con una FISH favorevole, mentre nei pazienti con citogenetica sfavorevole la
PFS è risultata simile e l’OS addirittura peggiore (p=0,009) (22).
Un vantaggio in termini di OS oltre che in termini di PFS è stato riscontrato in uno studio
australiano cha ha confrontato la terapia di consolidamento con prednisone e talidomide (somministrata per 12 mesi al dosaggio di 200 mg)
rispetto al solo prednisone (OS: 86% vs 75% a
3 anni, P=0,004; PFS: 42% vs 23% a 3 anni,
P<0,001) (23).
Tale beneficio non è stato evidenziato nella
sopravvivenza dopo recidiva, con una sostanziale uguaglianza tra i due gruppi (79% a 1 anno
nel braccio sperimentale rispetto al 77% del
braccio di controllo, P=0,0237). In questo studio, inoltre, la PFS non è risultata influenzata dalla risposta ottenuta dopo ASCT, diversamente
dai dati ottenuti nello studio francese.
Anche lo studio americano condotto da Stewart
et al. (24) ha confrontato il mantenimento con la
combinazione di talidomide e prednisone (T/P)
rispetto al solo prednisone, avendo come obiettivo primario l’OS.
In questo caso però, mentre la PFS è risultata
significativamente superiore nel braccio sperimentale, non si sono osservati benefici in termini di OS, a fronte invece di una differenza significativa in termini di tossicità generale [grado 3
(G3) 92% T/P vs 49% controllo, grado 4 (G4)
16% T/P vs 7% controllo].
Risultati analoghi sono stati ottenuti nello studio
HOVON 50 (25), in cui i pazienti randomizzati nel
braccio sperimentale ricevevano la talidomide sia
durante l’induzione (al dosaggio di 200 mg al
giorno in associazione con adriamicina e desametasone), sia in alternativa all’IFN come mantenimento dopo trapianto (al dosaggio di 50 mg
al giorno). In questo caso la sopravvivenza dopo
recidiva è risultata significativamente inferiore nel
braccio sperimentale, anche se la PFS era significativamente superiore nel gruppo di mantenimento con talidomide.
Dal punto di vista della tossicità, i principali effetti collaterali emersi nei diversi studi sono rappresentati soprattutto da neuropatia periferica,
astenia e stipsi.
Una delle principali cause di interruzione del trattamento è la neurotossicità, anche se l’incidenza di neuropatia severa è piuttosto limitata. Il
rischio di eventi tromboembolici non è risultato
particolarmente elevato, diversamente da quanto si verifica durante l’induzione, quando probabilmente vi è un rischio maggiore anche in correlazione ad una più elevata massa tumorale.
La principale difficoltà nel paragonare questi studi è determinata dal fatto che in alcuni la talido-
7
8
Seminari di Ematologia Oncologica
mide veniva somministrata già in fase di induzione, in altri solo durante il mantenimento, dopo
induzione con chemioterapia standard.
L’impatto della pregressa esposizione alla talidomide sul successivo mantenimento è pertanto difficile da valutare.
I dati sembrerebbero suggerire che, per minimizzare gli eventi avversi correlati ad una esposizione prolungata, la terapia con talidomide dopo induzione potrebbe avere un ruolo soprattutto in termini di consolidamento, e il trattamento andrebbe interrotto dopo ottenimento della migliore risposta possibile.
La talidomide nei pazienti non candidabili
al trapianto autologo
La terapia di mantenimento con talidomide è stata indagata dopo trattamento di induzione
anche nei pazienti anziani o nei pazienti giovani non candidabili al ASCT. I principali risultati
dell’utilizzo della talidomide in questa categoria
di pazienti sono illustrati in tabella 2.
Nello studio GIMEMA (26) i pazienti di età compresa fra i 65 e gli 85 anni o più giovani ma non
candidabili al trapianto venivano randomizzati alla
diagnosi a ricevere terapia di induzione con melphalan-prednisone (MP) o melphalan, prednisone e talidomide (MPT). Alla fine della fase di induzione i pazienti del braccio MPT ricevevano successivo mantenimento con talidomide al dosaggio di 100 mg al giorno. Dopo una mediana di
follow-up di 38,1 mesi, la PFS mediana è risultata di 21,8 mesi nel braccio MPT e di 14,5 mesi
nel braccio MP, senza però evidenza di differenze significative in termini di OS (45 mesi vs 47,6
mesi, rispettivamente).
Un analogo confronto è stato effettuato nello stuStudio
Terapia di induzione
Mantenimento
GIMEMA
MP vs MPT
Hovon 49
dio HOVON 49 (27), che ha paragonato il trattamento standard MP con lo schema MPT, seguito da mantenimento con talidomide al dosaggio
di 50 mg al giorno. Un’analisi intention-to-treat
condotta nei 333 pazienti valutabili ha mostrato
un tasso di risposta superiore nel braccio sperimentale [≥ remissione parziale (PR): 66% vs 45%
rispettivamente, P<0,001], confermandone il
vantaggio non solo in termini di sopravvivenza
libera da eventi (EFS) (13 mesi nel braccio MPT
vs 9 mesi nel braccio MP, p<0,001), ma anche
in termini di OS (40 mesi nel braccio MPT vs 31
mesi nel braccio MP, P=0,005) (27).
Ludwig et al (28). hanno confrontato il mantenimento con talidomide e IFN vs il solo IFN, dopo
terapia di induzione con MP o talidomide e desametasone (TD), osservando un vantaggio significativo in termini di PFS nel mantenimento con
IFN e talidomide rispetto al solo IFN (27,7 vs 13,2
mesi, P=0,0068), senza beneficio in termini di OS
(52,6 vs 51,4 mesi, P=0,81).
L’associazione di talidomide e desametasone
come terapia di mantenimento è stata invece confrontata con IFNa e desametasone dopo induzione con talidomide, desametasone e doxorubicina liposomiale (ThaDD), sia in pazienti alla diagnosi non candidabili al ASCT, sia in pazienti in recidiva. In entrambe le categorie di pazienti la talidomide ha mostrato un vantaggio sia in termini
di PFS che in termini di OS (29). Anche in questo caso, però, il beneficio determinato dalla talidomide è stato osservato solo in pazienti che
dopo l’induzione avevano raggiunto una risposta
<VGPR, a sostegno del fatto che la talidomide
migliora la sopravvivenza mediante la riduzione
della massa tumorale più che mediante il mantenimento della risposta già ottenuta.
PFS/EFS
OS
Referenze
No mantenimento vs talidomide (100 mg/d)
PFS: 14,5
vs 21,8 mesi
OS: 47,6
vs 45 mesi
(26)
MP vs MPT
No mantenimento vs talidomide (50 mg/d)
EFS mediano: 9 mesi
vs 13 mesi
OS: 31
vs 40 mesi
(27)
Ludwig
et al.
MP vs TD
IFN vs IFN+talidomide (100 mg/d)
PFS: 16,7
vs 20,7 mesi (P=,0068)
OS: 51,4
vs 52,6 mesi, (P=,81)
(28)
Offidani
et al.
Tha DD
Interferone + prednisone vs prednisone
+ talidomide 100 mg/d
PFS a 2 anni:
32% vs 63%
OS a 2 anni:
68% vs 84% (p=,03)
(29)
TABELLA 2 - Studi principali della terapia a lungo termine con talidomide nei pazienti anziani o giovani non candidabili al ASCT.
Mieloma multiplo
n IL RUOLO DELLA LENALIDOMIDE
La lenalidomide è un farmaco analogo della talidomide e i risultati iniziali degli studi sperimentali indicano che sia più efficace e con un diverso profilo di tossicità, vale a dire una minore tossicità ematologica cumulativa e assenza di neuropatia periferica rispetto alla molecola capostipite. Per queste ragioni lenalidomide rappresenta una valida opzione terapeutica nei pazienti con
MM, in particolare numerosi studi sono in corso per valutarne l’efficacia nella terapia a lungo
termine e nel mantenimento, sia alla diagnosi che
nei soggetti in recidiva di malattia. I risultati dei
principali studi sono illustrati nella tabella 3.
Lenalidomide dopo ASCT
Nello studio francese di fase III IFM2005-02
sono stati arruolati 614 pazienti di età inferiore
ai 65 anni che non erano progrediti entro sei
mesi dopo ASCT come terapia di prima linea.
I pazienti venivano randomizzati a ricevere un
consolidamento con lenalidomide (a 25 mg al
giorno per 21 giorni al mese per 2 mesi) seguito da un mantenimento con placebo (braccio A)
o con lenalidomide alla dose di 10 o 15 mg al
giorno (braccio B) fino a recidiva di malattia.
Dopo un follow-up mediano di 34 mesi dalla randomizzazione e 44 mesi dalla diagnosi, è stato dimostrato che il consolidamento con lenalidomide migliora la risposta, mentre il mantenimento migliora la PFS mediana (PFS mediano dalla randomizzazione 24 mesi nel braccio
A contro i 42 mesi dalla randomizzazione nel
braccio B, HR=0,5, P<10-8). Tale beneficio è stato dimostrato in tutti i sottogruppi di studio includendo tra le variabili la beta 2 microglobulina,
il profilo citogenetico, e la risposta ottenuta dopo
il trapianto.
L’OS a 5 anni dalla diagnosi rimane elevata e
simile nei due gruppi di trattamento (83%) (30).
In uno studio multicentrico di fase III, i pazienti
che avevano raggiunto almeno una malattia stabile (SD) dopo ASCT venivano randomizzati a
trattamento giornaliero in continuo a base di
lenalidomide al dosaggio di 10 mg o placebo,
fino a recidiva. Dopo un periodo di follow-up
mediano di 17,5 mesi dall’ASCT, i pazienti in terapia continua con lenalidomide hanno mostrato
una PFS mediana significativamente superiore
rispetto al placebo (42,3 mesi vs 21,8 rispettivamente) ed una riduzione del 60% del rischio
Studio
Regimi e dosi
Risposte
Sopravvivenza
RD/Rd
Len: 25 mg giorni 1-21; Dex: 40 mg giorni 1-4, 9-12, 17-20 ogni 28 giorni
Len: 25 mg giorni 1-21; Dex: 40 mg giorni 1, 8, 15, 22 ogni 28 giorni
>VGPR: 50%vs 40%
>PR: 79%vs 68%
PFS: 19,1 vs 25,3 mesi
OS: 75% vs 87% a 2 anni
(33)
MPR-R
MPR 9 cicli in induzione, Len: 10 mg al giorno giorni 1-21
o placebo fino a progressione
>PR: 77%
CR: 16%
PFS: 55% a 2 anni
(35)
IFM
2005-02
Consolidamento post ASCT con Len: 25 mg al giorno
per 21 giorni per 2 mesi seguito da mantenimento con len
da 1 a 15 mg al giorno per 21 giorno contro placebo fino a recidiva.
NA
PFS: 42 mesi
OS: 81% a 4 anni
dalla diagnosi
(30)
CALGB
100104
Mantenimento post ASCT con lenalidomide da 10 mg al giorno
a 15 mg al giorno dopo 3 mesi fino a progressione di malattia
NA
PFS: 42,3 mesi
11 deceduti.
(31)
PAD-MEL PAD in induzione- doppio trapianto (MEL 100) seguito da consolidamento
100 RP-R Len 25 mg al giorno per 21 giorni+ prednisone 50 mg a giorni alterni
seguito da mantenimento Len 10 mg al giorno per 21 giorni
fino a ricaduta di malattia
>VGPR 82%
(dopo LP-L)
CR: 66%
PFS: 69% a 2 anni
OS: 86% a 2 anni
(32)
MM-09
Len 25 mg al giorno per 21 giorni + desametasone 40 mg g1-4,9-12,
17-20 per I primi 4 cicli poi solo giorni 1-4 vs placebo + desametasone
fino a progressione di malattia
>PR 61%
CR: 14%
TTP: 11 mesi
OS: 29 mesi
(42)
MM-010
Len 25 mg al giorno per 21 giorni + desametasone 40 mg g1-4,9-12,
17-20 per I primi 4 cicli poi solo giorni 1-4 vs placebo + desametasone
fino a progressione di malattia
>PR 60%
CR: 15%
TTP: 11 mesi
OS: NR
(43)
TABELLA 3 - Studi principali con lenalidomide come terapia continuativa.
Referenze
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Seminari di Ematologia Oncologica
di progressione della malattia o di morte
(P<0,0001). Il tempo mediano alla progressione
(TTP) è risultato notevolmente più elevato per il
gruppo in trattamento con la lenalidomide (42,3
mesi) rispetto al gruppo placebo (21,8 mesi). Gli
effetti collaterali di grado 3-4 più comuni riscontrati dai pazienti in terapia con lenalidomide o o
che ricevevano placebo nello studio sono stati
la neutropenia (43% rispetto al 9%), la trombocitopenia (13% rispetto al 4%) e le infezioni (16%
rispetto al 5%) (31).
Un altro recente studio di fase II ha analizzato l’efficacia dei nuovi farmaci incorporati sia negli
schemi di induzione pre-ASCT (bortezomibdoxorubicina-desametasone, PAD), sia nel consolidamento post-ASCT (lenalidomide-prednisone, LP), che nel mantenimento (lenalidomide, L),
in pazienti di età compresa tra i 65 e 75 anni: le
risposte ≥ remissioni parziali (RP) erano del 94%
dopo induzione con PAD e 100% dopo consolidamento con LP; le remissioni complete (RC)
erano del 13% dopo induzione con PAD, 43%
dopo ASCT e 73% dopo consolidamento-mantenimento con LP-L.
Il miglioramento delle risposte durante consolidamento è stato raggiunto nel 16% dei pazienti e il 4% di loro ha migliorato ulteriormente
durante il mantenimento; questi dati suggeriscono che il bortezomib come induzione e la lenalidomide come consolidamento e mantenimento aumentano le risposte grazie al vantaggio di
poter sfruttare l'esposizione sequenziale a diversi farmaci (32).
La lenalidomide nei pazienti alla diagnosi
non candidabili al trapianto autologo
Uno studio di fase III dell'Eastern Cooperative
Oncology Group (ECOG) ha confrontato la
lenalidomide in combinazione con due diverse
dosi di desametasone nei pazienti alla diagnosi. Il primo braccio della randomizzazione prevedeva lenalidomide 25 mg nei giorni 1-21 con
alte dosi di desametasone (40 mg nei giorni 14, 9-12, e 17-20 ogni 28 giorni [RD]), il secondo braccio prevedeva lenalidomide con basse
dosi di desametasone (40 mg nei giorni 1, 8, 15
e 22 ogni 28 giorni [Rd]). Dopo i primi 4 cicli, i
pazienti potevano interrompere tale schema e
proseguire con altre opzioni terapeutiche o con-
tinuare con lo stesso schema fino a progressione. Nonostante un più elevato tasso di risposta
nei pazienti trattati con RD [PR rate: 79% (RD)
vs 68% (Rd), P=,008 e ≥VGPR, 42% (RD) vs
24% (Rd), P=,008], la PFS mediana e l’OS a 1
e a 2 anni sono risultate significativamente superiori nel gruppo Rd rispetto al gruppo RD [PFS
25,3 mesi (Rd) vs 19,1 mesi (RD), P=0,026; OS
a 2 anni 87% (Rd) vs 75% (RD), P=0,0002].
Tossicità di grado ≥3 si sono verificate in maggior misura nel gruppo RD, le più frequenti erano le trombosi, le infezioni e l’astenia; per tale
motivo e per la maggiore mortalità precoce, i
pazienti appartenenti a tale braccio potevano
interrompere prematuramente la terapia ed usufruire dello schema Rd, meno tossico. Come
conseguenza l’OS a 3 anni non differiva nei due
gruppi (75% in entrambi).
Una landmark analysis dello studio si è focalizzata sul confronto dell’OS a 3 anni in pazienti in
cui erano stati utilizzati tre diversi approcci terapeutici e il risultato è stato: OS 55% nei pazienti che avevano discontinuato la terapia dopo 4
mesi e che non avevano proseguito con il trapianto, OS 92% nei pazienti che avevano interrotto a 4 mesi per poi essere avviati al trapianto e OS 79% in coloro che avevano proseguito
con l’associazione di lenalidomide e desametasone anche dopo i primi 4 cicli. I risultati di questa analisi suggeriscono l’importanza di estendere il trattamento nel tempo o di attuare un trattamento di breve durata ma seguita da trapianto autologo (33). Tali dati dimostrano come la
ridotta tossicità del braccio Rd si traduca in un
incremento della OS. È stato ipotizzato che il
desametasone a dosaggio elevato aumenti l’effetto tumoricida della lenalidomide, antagonizzandone però maggiormente gli effetti immunomodulatori (34).
Nei pazienti non candidabili al ASCT, l’uso a lungo termine della lenalidomide riduce il rischio di
progressione di malattia utilizzando un profilo di
terapia maneggevole in termini di tossicità
come dimostrato da uno studio randomizzato di
fase III in cui 459 pazienti con nuova diagnosi
di mieloma multiplo di età superiore ai 65 anni
venivano randomizzati in un braccio che riceveva lenalidomide [R] in continuo al dosaggio di 10
mg al giorno dopo induzione con melphalan [M],
Mieloma multiplo
prednisone [P], e R (MPR-R), in un secondo braccio che riceveva solo MPR senza successivo
mantenimento ed infine in un terzo braccio che
riceveva solo MP.
I risultati hanno dimostrato che la combinazione
MPR-R riduce il rischio di progressione del 58%
rispetto all’associazione MP (hazard ratio [HR]
=0,423; P<0,001). La PFS è risultata superiore nei
pazienti che ricevevano R in continuo indipendentemente dal sesso, dallo stadio di malattia, dalla
funzionalità renale o dal valore alla diagnosi della beta2-microglobulina. Un’analisi landmark ha
paragonato MPR-R con MPR ed ha dimostrato
che il mantenimento con R riduce il rischio di progressione del 69% rispetto al placebo (HR=0,314;
P<0,001). Indipendentemente poi dalla risposta
ottenuta dopo induzione, i pazienti trattati con R
in mantenimento avevano una PFS prolungata
rispetto al gruppo placebo.
Neutropenia, trombocitopenia e anemia di grado 3-4 sono state riscontrate rispettivamente nel
71%, 38% e 24% dei pazienti del gruppo MPRR e nel 30% 14% e 17% del gruppo MP; il mantenimento con R è stato però ben tollerato se
lo si paragona col gruppo placebo, con pochi
eventi avversi di grado 3-4 e minima tossicità
cumulativa, 3% di trombocitopenia rispetto al
2% del placebo, 2% di neutropenia rispetto a
0% e 1% di trombosi venosa profonda rispetto a 0% (35).
Lenalidomide nei pazienti recidivati/refrattari
La lenalidomide è stata studiata come singolo
agente e in associazione con desametasone nei
pazienti con MM recidivati/refratttari (36-38); è indicata, in associazione a desametasone nei pazienti che siano stati trattati almeno con una terapia
in prima linea (39-40).
Sono due gli studi più importanti che hanno valutato l’utilizzo in continuo di tale associazione nei
pazienti recidivati, paragonata al placebo, riscontrando un miglioramento della quota delle risposte, del TTP e dell’OS (41-43).
Un’analisi di sottogruppo di questi studi ha confrontato i 133 pazienti trattati con lenalidomide e
desametasone (Len/Dex) in prima recidiva, con i
221 che hanno ricevuto Len/Dex dopo due o più
regimi (44). Le risposte ≥VGPR sono risultate significativamente maggiori nel gruppo Len/Dex in pri-
ma recidiva (39,8% contro li 27,7%; P=0,025), così
come l’OS mediana (42,0 contro 35,8 mesi;
P=0,041). L’incidenza di eventi avversi, interruzioni di terapia e riduzione di dose è stata simile in
entrambi i gruppi, mentre la durata di terapia è
risultata superiore nel gruppo Len/Dex alla prima
recidiva.
In questi studi si è anche dimostrato che il tipo
di terapia precedente a Len/Dex ha un discreto
impatto sull’efficacia e la tollerabilità della successiva terapia: Len/Dex è infatti risultata più efficace del solo desametasone nei pazienti che erano stati precedentemente trattati con talidomide (45).
All'interno del gruppo Len/Dex, i pretrattati con
talidomide hanno ottenuto una quota di risposte
e un TTP inferiore rispetto ai pazienti mai trattati con talidomide, mentre l’OS è risultata simile nei
due gruppi. Avet Loiseau et al. hanno osservato
in un recente studio che la talidomide non influenza i risultati successivi con lenalidomide (46). Altri
studi hanno poi dimostrato che terapie precedenti a base di bortezomib sono correlate con un più
alto rischio di progressione dopo Len/Dex (47, 48).
Lo studio VISTA ha dimostrato che usare o meno
bortezomib come terapia di prima linea non
influenza poi i risultati di Len/Dex in prima recidiva (49), così come emerso dagli studi in cui
Len/Dex era utilizzata dopo ASCT (50).
Analizzando i risultati di trials in cui i pazienti erano stratificati in sottogruppi con prognosi infausta (età avanzata, basso performance status, mieloma multiplo IgA, stadio di malattia avanzato, funzionalità renale compromessa, neuropatia periferica) non è stata rilevata un’influenza negativa sulle successive risposte a Len/Dex (51-55).
La conclusione di questi studi è che l’utilizzo di
Len/Dex è efficace soprattutto in fase precoce
mediante un regime continuativo nei pazienti
responsivi e fino a progressione di malattia.
Emerge l’importanza della terapia con Len/Dex in
prima recidiva rispetto ad un trattamento di salvataggio in pazienti pluri chemio-trattati.
L’efficacia di Len/Dex pare essere indipendente dai tipi di terapia precedenti sebbene in alcuni studi la non risposta alla talidomide risulti correlata ad una minore efficacia, in particolare nei
gruppi di pazienti con un intervallo dall’ultima
assunzione di talidomide superiore a 1 anno.
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Seminari di Ematologia Oncologica
Per quanto riguarda la durata della terapia con
Len/Dex, gli studi MM-09 e MM-010 hanno evidenziato come il 50% dei pazienti che inizialmente aveva ottenuto una RP abbia ottenuto una
VGPR o RC tardivamente grazie a un trattamento continuativo (56).
Nel 38% dei casi questo miglioramento era stato ottenuto dopo sei cicli di terapia con Len/Dex,
mentre il 7% dei pazienti migliorava la qualità della risposta dopo 12 cicli.
I pazienti che ottenevano una RC o una VGPR
avevano un TTP prolungato rispetto ai pazienti in
PR (27,7 mesi contro i 12,0; P<0,021), da qui l’importanza di una terapia continuativa. Fra i pazienti che rispondevano a Len/Dex, coloro i quali continuavano la terapia avevano un rischio inferiore
di morte rispetto a coloro che la discontinuavano precocemente per ragioni diverse dalla progressione di malattia, come eventi avversi o ritiro del consenso (57).
Ovviamente tutti gli studi concordano sul fatto che
il trattamento in continuo debba essere perseguito con la miglior dose tollerata, sia della lenalidomide sia del desametasone. In uno studio di tollerabilità nei pazienti in recidiva di mieloma multiplo Len/Dex era associato a basse percentuali
di interruzione di terapia per eventi avversi rispetto a talidomide e bortezomib (6,2 contro 13,3 e
11,1% rispettivamente) (58).
Purtroppo non ci sono dati che riguardino invece l’efficacia di una terapia in continuo di lenalidomide come monoterapia nei pazienti recidivati. Un’analisi retrospettiva degli studi MM-09 e
MM-010 ha dimostrato che i pazienti che riducevano il dosaggio di desametasone ottenevano una
maggiore efficacia in termini di qualità di risposte (P<0,001), TTP (P<0,005) e OS (P<0,019) (59).
Alcuni studi si sono occupati di valutare le modifiche delle dosi di lenalidomide per eventi avversi e hanno dimostrato che, fra i pazienti responsivi, coloro i quali riducevano la dose del farmaco oltre i 12 mesi ottenevano migliori risultati
rispetto a coloro che riducevano entro i 12 mesi
o a coloro che non la riducevano affatto (60).
Ciò implica che un dosaggio pieno di lenalidomide per 12 mesi ha una ricaduta favorevole sull’efficacia della terapia e che l’eventuale riduzione del dosaggio oltre tale periodo non compromette poi l’efficacia del trattametno.
n LENALIDOMIDE E INSORGENZA
DI SECONDE NEOPLASIE PRIMITIVE
A seguito dell’ osservazione, in tre studi clinici
condotti nel mieloma multiplo non precedentemente trattato (due studi - IFM 2005 - 02 e
CALGB 100 104 - nel mantenimento post trapianto e uno - MM015 - nel trattamento di prima linea
dei pazienti non candidabili al trapianto) di un
numero di secondi tumori primitivi (SPM) più elevato nel braccio lenalidomide rispetto al braccio
di controllo, l’Agenzia Europea de Medicinali
(EMA) ha ritenuto, nel Marzo del 2011, di voler
rivalutare il rapporto beneficio - rischio del farmaco nell’indicazione autorizzata (mieloma multiplo recidivato-refrattario).
La procedura di rivalutazione si è conclusa positivamente con la conferma, per lenalidomide
(Revlimid), di un rapporto beneficio/rischio estremamente favorevole nell’indicazione autorizzata.
Questo esito è stato il risultato di una collaborazione tra l’Autorità e l’Azienda, che ha presentato una documentazione non solo nell’ indicazione approvata, oggetto della procedura di reassessment, ma anche nelle nuove indicazioni
attualmente in fase di studio (LLC, LNH) e in quella del tutto recentemente sottomessa alle Autorità
per approvazione (trattamento del mieloma multiplo mai precedentemente trattato).
I dati aggiornati sull’incidenza di secondi tumori primitivi (SPM) forniti dall’Azienda saranno, in
questo caso, oggetto di ulteriore valutazione da
parte dell’ Autorità Regolatoria nell’ambito dell’esame del dossier registrativo per il rilascio della Marketing Authorization (MA).
n IL RUOLO DEL BORTEZOMIB
Il bortezomib è il primo inibitore del proteasoma
ad essere entrato nella pratica clinica ed approvato per il trattamento del MM. I risultati consolidati che ne hanno mostrato l’efficacia e la sicurezza, sia alla diagnosi che in recidiva, hanno spinto a valutarne l'utilizzo come terapia di mantenimento. Lo studio di fase III HOVON 65 ha indagato il ruolo del mantenimento con bortezomib
dopo induzione con 3 cicli PAD e ASCT, in alternativa a talidomide, somministrata come terapia
Mieloma multiplo
di mantenimento dopo induzione con 3 cicli VAD
(vincristina, adriamicina e desametasone) (61). I
dati emersi mostrano un vantaggio in termini di
risposta nel gruppo PAD rispetto al gruppo VAD
(≅ VGPR 41% vs 17%, p=0,001), con un ulteriore incremento dopo ASCT (≅ VGPR 59% vs 47%,
p=0,14) ed una sostanziale superiorità del mantenimento con bortezomib, con un tasso di risposta completa del 27% nel gruppo PAD-B rispetto al 5% del gruppo VAD-T (P=0,001).
L’efficacia dell’utilizzo di regimi terapeutici contenenti bortezomib come consolidamento dopo
ASCT è sostenuta anche dai risultati dello studio
italiano condotto da Ladetto et al. in pazienti che
avevano raggiunto almeno una VGPR dopo
ASCT ed avevano un marker molecolare misurabile basato sul riarrangiamento della catena
pesante delle immunoglobuline. In questo caso
il consolidamento con 4 cicli VTD (bortezomib, talidomide e desametasone) ha determinato un incremento della CR dal 15% dopo trapianto al 49%
dopo VTD ed un significativo incremento della
remissione molecolare (62).
Il mantenimento con bortezomib è stato studiato anche nei pazienti con MM alla diagnosi non
candidabili al ASCT.
Lo studio spagnolo di fase III ha confrontato il
mantenimento con bortezomib e prednisone in
alternativa a bortezomib e talidomide, riscontrando in generale un beneficio dalla terapia di mantenimento, con un incremento del tasso di remissione completa dal 24% dopo terapia di induzione al 42% dopo mantenimento, con una PFS leggermente più lunga nel gruppo bortezomib-talidomide rispetto al gruppo bortezomib-prednisone (63).
L’associazione di bortezomib e talidomide come
terapia di mantenimento è stata utilizzata anche
in uno studio italiano di fase III che prevedeva il
confronto tra induzione con la combinazione di
quattro farmaci (bortezomib-melphalan-prednisone-talidomide, VMPT) seguita da mantenimento
con bortezomib-talidomide (VT) in alternativa a
bortezomib-melfalan e prednisone (VMP) senza
successivo mantenimento. L’associazione VMPTVT è risultata superiore allo schema VMP in termini di risposte e PFS, ma il beneficio effettivo
determinato dal successivo mantenimento con VT
non è determinabile, a causa dell’assenza di una
seconda randomizzazione dopo la fase di induzione e del follow-up relativamente breve. Pochi
pazienti hanno però ottenuto un miglioramento
Studio
Terapia di
induzione/ASCT
Mantenimento
Risposta
PFS/ES
HOVON-65/
GMMG-HD4
VAD vs PAD
→ ASCT
Talidomide 50 mg/d
vs bortezomib 1,3 mg/mq
ogni 2 settimane per 2 anni
CR globali incluso il mantenimento:
5% vs 27% (P=.001)
NA
(61)
Ladetto
et al.
ASCT
4 cicli VTD (bortezomib 1,6 mg/mq
al mese+talidomide 200 mg/d+
desametasone 20 mg/d ai giorni
1, 4, 8, 11, 15 e 18)
Incremento remissione molecolare
dal 3% dopo ABMT al 18%
dopo VTD
NA
(62)
Mateos
et al.
VMP vs VTP
Bortezomib (1,3 mg/mq g 1, 4,
8, 11 ogni 3 mesi) + prednisone
(50 mg a giorni alterni) vs Bortezomib
(1,3 mg/mq g 1, 4, 8, 11 ogni 3 mesi)
+ talidomide (50 mg/d) per 3 anni
CR: 39% vs 44%
PFS mediana:
24 mesi
vs 32 mesi (P=0,1)
(63)
Palumbo
et al.
VMP vs VMPT
No mantenimento vs Bortezomib
1,3 mg/mq ogni 2 settimane +
talidomide 50 mg/d per 2 anni
CR globali: 24 vs 38%
PFS a 3 anni:
41 vs 56%
(P=,008)
(64)
Benevolo
et al.
NA
Bortezomib 1,3 mg/mq ogni 2 settimane
+ desametasone 20 mg/d g 1-2
e 15-16 ogni 28 giorni
≥PR: 76%
PFS a 1 anno 61%
(65)
Dispenzieri
et al.
Bortezomib
Bortezomib 1,3 mg/mq ogni 2 settimane
≥PR: 48% P
PFS mediana: 7,8 mesi
(66)
TABELLA 4 - Studi principali con bortezomib come terapia continuativa.
Referenze
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Seminari di Ematologia Oncologica
della risposta durante i primi sei mesi del mantenimento, verosimilmente in correlazione al fatto che la maggiore influenza sul tasso di risposta è determinata soprattutto dalla fase di induzione (64).
Il mantenimento con bortezomib in associazione
al desametasone è stato invece valutato in uno
studio italiano condotto in pazienti con mieloma
multiplo refrattario o in recidiva dopo iniziale risposta a trattamento di salvataggio contenente bortezomib. Dei 49 pazienti inizialmente arruolati, 7
hanno ottenuto un miglioramento della risposta
(4 CR e 3 VGPR), con una mediana di TTP di 16
mesi e una PFS del 61% a un anno (65).
Il gruppo della Mayo Clinic ha invece valutato il
ruolo del bortezomib single agent come terapia
di induzione, mantenimento e re-induzione in
pazienti con MM ad alto rischio (livelli di ß2microglobulina ≥5,5 mcg/ml, plasma cell labeling
index ≥1%, delezione del cromosoma 13), ottenendo un tasso di risposta complessiva all’induzione pari al 48% (66). Come dimostrato anche
da questi studi, i più comuni eventi avversi correlati alla terapia con bortezomib sono rappresentati da astenia, neuropatia periferica, disturbi
gastrointestinali, riattivazione di herpes virus, trombocitopenia e neutropenia.
Il ruolo del bortezomib come terapia di consolidamento/mantenimento è ancora in fase di definizione. È possibile che, analogamente alla talidomide, possa avere un ruolo soprattutto come
consolidamento, considerato il fatto che una sua
prolungata somministrazione è gravata dal potenziale rischio di neuropatia periferica irreversibile.
La possibilità di infusioni a dosaggio ridotto, come
sperimentato in alcuni di questi studi, o la somministrazione per via sottocutanea anziché endovenosa potrebbero permettere di beneficiare dei
vantaggi di un trattamento prolungato, senza peggioramento della tossicità.
n CONCLUSIONI
Se si guarda al disegno degli studi clinici in corso, si osserva un profondo cambiamento rispetto a pochi anni or sono. Nella maggior parte degli
studi sia nei soggetti giovani sia anziani la terapia si divide in blocchi con una fase di induzio-
ne, una di consolidamento ed a seguire un mantenimento. Si tende quindi a impostare una terapia continuativa che tenga sotto controllo la malattia in ogni sua fase.
I cambiamenti sono certamente dovuti all’introduzione dei farmaci immunomodulanti talidomide e lenalidomide che vengono integrati nella terapia. Entrambi i farmaci sono stati somministrati
per periodi prolungati di tempo. Tuttavia soprattutto la neuropatia ha impedito alla talidomide di
essere un farmaco per il trattamento in continuo.
La lenalidomide è stata approvata per essere somministrata in continuo nel MM recidivato e refrattario. Per la sua efficacia e per l’assenza d‘importanti effetti collaterali è stata quindi valutata in vari
studi sperimentali come terapia continuativa di
mantenimento dopo terapia convenzionale e dopo
trapianto autologo. Anche il ruolo del bortezomib
è ancora in fase di sperimentazione: i primi risultati ne evidenziano l’utilità soprattutto in fase di
consolidamento, anche se l’uso di schemi a
dosaggio ridotto e la somministrazione sotto cute
potrebbe ridurre il rischio di neurotossicità, consentendone così l’utilizzo a lungo termine.
I risultati preliminari della terapia di mantenimento mostrano differenze altamente significative
dell’EFS, solo in uno studio si ha aumento della
sopravvivenza (31). Certamente sono questi i più
promettenti risultati presentati dalla letteratura
negli ultimi anni. Occorre tuttavia prolungare l’osservazione di questi pazienti per verificare se l’allungamento della fase di remissione si traduce
in un aumento della sopravvivenza, se esistono
dei sottogruppi di pazienti in cui l'efficacia è maggiore ed infine valutare tossicità e qualità di vita
dei pazienti sottoposti ad un prolungato trattamento.
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17
19
Leucemia
mieloide cronica
ANTONELLA GOZZINI, ALBERTO BOSI
AOU Careggi, SODc Ematologia, Università degli Studi di Firenze
n INTRODUZIONE
La leucemia mieloide cronica (LMC) è stata la prima neoplasia ad essere associata ad una specifica alterazione genetica, il cromosoma
Philadelphia (Ph+), la cui identificazione (1) e la
seguente scoperta del gene chimerico BCR-ABL
ha portato alla comprensione biologica della
malattia. Questo, a sua volta, ha condotto allo sviluppo sia della target therapy che delle metodiche molecolari per monitorarne l’andamento (2).
La combinazione di questi eventi ruota attorno ad
un disegno terapeutico che è l’invidia della
oncologia.
La LMC è una neoplasia mieloproliferativa, relativamente rara con una incidenza di 1,1-1,8 nuovi casi/100.000 abitanti caratterizzata da una traslocazione cromosomica aberrante che si identifica nel cromosoma Ph+. Tale traslocazione fonde due geni, la cui combinazione attiva costituisce una proteina tirosino-chinasica (TK) intracellulare, denominata Bcr/Abl. La scoperta dell’inibitore specifico della TK, Imatinib mesilato
(STI571-Gleevec/Glivec, Novartis PharmaceutiParole chiave: Leucemia mieloide cronica (LMC), inibitori delle tirosino chinasi (TKis), risposta citogenetica completa (CCyR), Imatinib.
Indirizzo per la corrispondenza
Antonella Gozzini
Largo Brambilla, 3
50134 Firenze
E-mail: [email protected]
Antonella Gozzini
cals, EAST Hanover, NJ, USA), ha drammaticamente cambiato lo scenario terapeutico della
malattia, dimostrando, nello studio registrativo di
fase III IRIS (Internation Randomized Study of
Interferon vs STI571) una superiore efficacia di
Imatinib in confronto al trattamento standard interferone alpha (IFN-a) + citarabina (Ara-C) in
pazienti affetti da LMC-fase cronica (FC) di nuova diagnosi (3, 4). L’importanza di questa rivoluzione terapeutica ha portato la European
Leukemia Network (ELN) a consultare un gruppo
di esperti che creassero raccomandazioni utili alla
comunità scientifica sulla gestione delle LMC Ph+
trattate con Imatinib (Tabella 1) (5). Rapidamente
sono stati disponibili dati di efficacia anche fuori dall’ambito di studi clinici controllati, il followup si allungava e la conoscenza di meccanismi
di resistenza ai TKI diventava sempre più ricca e
dettagliata. Nel frattempo altri inibitori delle TK
sono stati sviluppati e testati sia in vitro che in studi clinici, e due di questi (dasatinib, Sprycel, Bristol
Myers Squibb e nilotinib, Tasigna, Novartis) sono
stati registrati per il trattamento dei pazienti affetti da LMC resistenti a Imatinib e/o intolleranti (6).
Per queste ragioni è stato necessario rivalutare i
fattori che influenzano la risposta a imatinib e capire quali risposte cliniche, tra l’ematologica, citogenetica o molecolare (Tabella 2), influenzassero
l’outcome a lungo termine di questi pazienti, per
attuare strategie terapeutiche in grado di superare la resistenza instauratasi (Tabella 3 per la valutazione della risposta). Sempre per questa ragione, sebbene i dati di efficacia ed il follow-up dei
pazienti trattati con inibitori di seconda genera-
20
Seminari di Ematologia Oncologica
Fase di malattia
Fase cronica
Prima linea
Tutti i pazienti
Seconda linea
Intolleranti a Imatinib
Subottimali a Imatinib
Fallimento a Imatinib
Terza linea
Risposta subottimale
a Dasatinib o Nilotinib
Fallimento a Dasatinib
o Nilotinib
Fase accelerata o blastica
Prima linea, pazienti che
sono naive ai TKIs
Seconda linea, pazienti
con precedente trattamento
con Imatinib
Raccomandazioni
Imatinib 400 mg/di
Dasatinib o Nilotinib
Continuare Imatinib alla stessa dose; Imatinib a dose incrementata; Dasatinib o Nilotinib
Dasatinib o Nilotinib; trapianto allo genico di cellule staminali nei pazienti.
Con storia di fase accelerata o blastica o pazienti che presentano la mutazione T315I.
Proseguire con TKI di 2G, con opzione trapiantologica per i pazienti con caratteristiche
di warning (resistenza ematologia a Imatinib pregressa, mutazioni) e in pazienti con uno
score prognostico trapiantologico (EBMT-European Group of Blood and Marrow
Transplantation) < o=2
Trapianto allo genico di cellule staminali emopoietiche
Trapianto allogenico, preceduto da Imatinib ad alte dosi (600 mg/di o 800 mg/di,
Dasatinib o Nilotinib in caso di mutazioni scarsamente sensibili a Imatinib
Trapianto allo genico, preceduto da Dasatinib o Nilotinib
TABELLA 1 - Raccomandazioni ELN (European Leukemianet) sul trattamento della Leucemia Mieloide Cronica (LMC) per le diverse
fasi di malattia (7).
zione siano ancora scarsi, è stato altresì necessario provvedere alla stesura, seppure provvisoria, di una sorta di raccomandazioni per valutarne la risposta e per identificare soprattutto i
pazienti candidabili ad una procedura di trapianto allogenico (7). Il tentativo è quello di raggiungere la sopravvivenza del 100% dei pazienti trattati ed una normale qualità di vita. Le definizioni
di risposta ematologica, citogenetica e molecolare, la valutazione della risposta a Imatinib e le
raccomandazioni ELN del 2009 sono riprodotte
nelle tabelle 1, 2 e 3.
n RISPOSTA CITOGENETICA MAGGIORE:
IMATINIB IN PRIMA LINEA
L’IFN è stato il primo farmaco a provocare una
marcata riduzione della percentuale delle cellule
Ph+ midollari nei pazienti affetti da LMC, e la combinazione con Ara-C ha dimostrato un incremento della percentuale del raggiungimento della
major cytogenetic response (MCyR) e un allungamento della sopravvivenza rispetto al trattamen-
to con IFN da solo (8); infatti si era appreso nel
corso degli anni che l’ottenimento di una risposta citogenetica correlava con la sopravvivenza.
L’avvento ed il successo di Imatinib nel trattamento della LMC ha quindi decisamente cambiato l’algoritmo terapeutico. Lo studio randomizzato
IRIS ha largamente confermato la superiorità di
Imatinib su IFN+Ara-C nel trattamento di LMCFC in prima linea. Lo studio IRIS ha arruolato 1106
pazienti affetti da LMC-FC di nuova diagnosi (random 1:1; n=553 in Imatinib 400 mg/d; n=553 in
IFN+Ara-C) in un periodo di 6 mesi tra il 2000 e
il 2001. Nel protocollo era previsto un cross-over
per coloro che dimostravano intolleranza o perdita di efficacia al trattamento iniziale assegnato,
oppure per chi volontariamente voleva interrompere il trattamento con IFN e Ara-C in assenza di
intolleranza e/o resistenza. Questo grazie ad un
emendamento redatto dopo soli 24 mesi dall’inizio dello studio dopo aver valutato i preliminari
incredibili dati di efficacia nel braccio Imatinib 400
mg/d (3-4). Il follow-up a 8 anni mostra una event
free survival (EFS) del 82% per i pazienti trattati
con Imatinib con un 92% di progression free sur-
Leucemia mieloide cronica
Tipo di risposta
Definizione
EMATOLOGICA
Definizione convenzionale
(d.c.) → CHR
Risposta Ematologica Completa
Globuli Bianchi <10.000 x 109L
Basofili <5%
No mielociti, promielociti, blasti nella formula leucocitaria
Piastrine <450x109/L
Milza non palpabile
CITOGENETICA***
COMPLETA CCgR (d.c.)
PARZIALE PCgR (d.c.)
MINORE mCgR (d.c.)
MINIMA minCgR (d.c.)
NESSUNA noCgR (d.c.)
MAGGIORE MCgR (d.c.)
MOLECOLARE
COMPLETA CMolR*(d.c)
→
→
→
→
→
→
Risposta Citogenetica Completa
Risposta Citogenetica Parziale
Risposta Citogenetica Minore
Risposta Citogenetica Minima
Nessuna Risposta Citogenetica
Risposta Citogenetica Maggiore
→ Risposta Molecolare Completa
MAGGIORE MMolR** (d.c.) → Risposta Molecolare Maggiore
No Metafasi Philadelphia positive (Ph+)
Da 1% a 35% Metafasi Ph+
Da 36% a 65% Metafasi Ph+
Da 66% a 95% Metafasi Ph+
>95% Metafasi Ph+
CCgR+PCyR
Trascritto mRNA BCR/ABL non evidenziabile mediante
PCR (Polymerase Chain Reaction) quantitativa
(real-time) e/o mediante nested-PCR (PCR qualitativa)
in due consecutivi campioni di adeguata qualità
(sensibilità >104)
Rapporto (ratio) di BCR/ABL su ABL (o altri geni
controllo) < o =a 0,1% secondo International Scale (IS)
TABELLA 2 - Definizioni di risposta ematologia, citogenetica e molecolare per la LMC. Da raccomandazioni European Leukemia
Net-ELN- (7). *Attualmente si definisce una risposta molecolare completa come CMR, ma si preferisce utilizzare il termine
Risposta Molecolare (MR) indicando il grado di sensibilità del test utilizzato (104 o più) → MR4 o MR4,5 o MR5. **Attualmente la
Risposta Molecolare Maggiore è convenzionalmente definita come MMR. ***Risposta Citogenetica: se non possono essere
contate 20 metafasi midollari, la definizione di CCgR si può basare sulla ibridazione in sito fluorescente su almeno 200 nuclei in
interfase (FISH). Nel testo Cg è convenzionalmente chiamato Cy come nella letteratura.
Valutazione
del tempo
Mesi
Risposta ottimale
Risposta subottimale
Fallimento
Warnings
Baseline
NA (non applicabile)
NA
NA
Alto rischio, CCA
(clonal chromosomal
abnormalities)/Ph+
3 mesi
CHR e almeno
la minor CgR
(Ph+<=65%)
Almeno la PCgR
(Ph+<=35%)
CCgR
MolR (MMR)
Stabile o
miglioramento
della MMR
No
CgR (Ph+>95%)
Meno della CHR
NA
Meno della PCgR
(Ph+>35%)
No CgR
(Ph+>95%)
NA
Meno della MMR
Meno della MMR,
mutazioni ancora
sensibili a Imatinib
Meno della CCgR
Perdita della CHR;
perdita della CCgR;
mutazioni non
sensibili a Imatinib,
CCA/Ph+
6 mesi
12 mesi
18 mesi
In ogni momento
durante
il trattamento
NA
Incremento del trascritto
(significativo) BCR/ABL;
CCA/Ph-
TABELLA 3 - Definizione della valutazione della risposta a Imatinib come trattamento di prima linea nelle fasi croniche precoci di
LMC (7).
21
22
Seminari di Ematologia Oncologica
vival (PFS) (9). Una analisi dei dati a 5 anni ha
dimostrato come i pazienti che avevano raggiunto la risposta citogenetica completa (CCyR) a 12
mesi dimostravano una minore possibilità di progredire in fase avanzata rispetto ai pazienti che
non l’avevano raggiunta (PFS 97% vs 81%;
p<0,001) (4).
Dopo 7 anni di follow-up sappiamo anche che il
5% dei pazienti trattati con Imatinib interrompeva il trattamento per eventi avversi, il 15% per perdita di efficacia e il 20% per altre ragioni. Il 75%
dei pazienti che avevano ottenuto una CCyR hanno ad oggi mantenuto la risposta. Da notare che
le percentuali annue di perdita di risposta o trasformazione in fase avanzata di malattia erano più
alte durante i primi tre anni di trattamento (3,37,5%) e diminuivano successivamente (0,31,7%-dati a 8 anni) (9).
Risultati simili sono riportati dallo studio prospettico multicentrico tedesco (German IV) che mostra
a 5 anni di osservazione una overall survival (OS)
del 94% per i pazienti trattati con Imatinib 400
mg/d e una EFS a 2 anni del 80% (10).
In una analisi intention to treat (ITT) di 204 pazienti con nuova diagnosi di LMC-FC consecutivi trattati c/o il centro Hammersmith a Londra, il 77%
raggiungeva una CCyR ed il 34% una risposta
molecolare maggiore (MMR) dopo una mediana
di follow-up di 38 mesi. A questo timing point solo
il 74% dei pazienti rimaneva in trattamento con
Imatinib e la probabilità di rimanere in risposta citogenetica parziale (PCyR-0-35% metafasi Ph+) a
5 anni era il 63% dei pazienti trattati rispetto al solo
25% di coloro che avevano sospeso il farmaco per
intolleranza o resistenza (11). In un altro studio
inglese che prendeva in considerazione una
popolazione costituita da pazienti affetti da LMCFC con nuova diagnosi provenienti da 12 centri
diversi, risultava che il 49% dei pazienti valutabili a 24 mesi era resistente o intollerante, inclusi 6
pazienti che erano progrediti in fase blastica, 19
che avevano fallito il raggiungimento o mantenimento di una CCyR e 2 che erano intolleranti (12).
Numerosi altri studi condotti al di fuori di setting
controllati di trials clinici hanno identificato una
quota di resistenti e/o intolleranti a Imatinib più
alta rispetto a quella presentata nello studio IRIS.
Le raccomandazioni ELN definiscono risposta ottimale al trattamento di prima linea con Imatinib il
raggiungimento della CCyR a 12 mesi. Sia ELN
che NCCN (National Comprehensive Cancer
Network) considerano che i pazienti che non raggiungono una risposta ematologica (CHR) a 3
mesi, una qualsiasi risposta citogenetica a 6 mesi,
una PCyR a 12 mesi o una CCyR a 18 mesi dopo
trattamento standard con Imatinib 400 mg/d siano giudicati fallimenti e come tali dovrebbero avvalersi di una terapia di seconda linea (5, 7).
Il problema del fallimento a Imatinib è quindi più
grande di quanto ci si potesse aspettare a fronte di eccezionali dati di sopravvivenza a lungo termine.
Usando i criteri ELN quindi circa il 25% delle fasi
croniche precoci dovrebbe essere dichiarato fallimento o subottimale a Imatinib, insieme ad una
piccola quota considerata invece intollerante al
trattamento. Siamo di fronte a circa il 30% dei
pazienti trattati con Imatinib in prima linea candidati ad una alternativa terapeutica (13).
Dal momento che è stata identificata una resistenza a Imatinib, sono stati rapidamente sviluppati
inibitori di seconda generazione. Uno step iniziale importante è stato quello di documentare e
identificare mutazioni puntiformi nel dominio chinasico come il più comune meccanismo di resistenza. Disponiamo quindi di criteri di risposta
condivisi e abbiamo a disposizione efficaci alternative terapeutiche,tuttavia non abbiamo ancora
metodi validati per prevenire la resistenza o stratificare i pazienti, per adeguare il trattamento corretto ad ogni categoria individuata.
n LA TERAPIA DI SECONDA LINEA
Inizialmente il primo riflessivo approccio ai casi
resistenti a Imatinib fu l’incremento della dose del
farmaco. I risultati dello studio Internazionale randomizzato 2:1 (Tyrosine Kinase Inhibitor
Optimization and Selectivity Study (TOPS)) che
prevedeva l’utilizzo di Imatinib ad alte dosi (800
mg/d n=319) vs Imatinib dose standard 400 mg/d
(n=157) mostrano un raggiungimento di risposte
citogenetiche più rapide per il gruppo trattato con
alte dosi (57% vs 45%) sebbene a 12 mesi non
ci fosse una differenza significativa tra i due bracci di studio (70% vs 66%) (14). A 24 mesi non vi
era alcuna differenza tra la percentuale cumula-
Leucemia mieloide cronica
tiva di risposte CCyR (75% in entrambi i gruppi),
quella di EFS, PFS e soprattutto di OS (15). Da
sottolineare che le alte dosi erano meno tollerate dai pazienti e che le possibili sospensioni e/o
riduzioni di dosaggio di Imatinib che ne derivavano potevano riflettersi su una minore efficacia.
Altri studi sono stati condotti in Germania (16) e
in Francia (17) per validare l’efficacia di Imatinib
ad alte dosi o la combinazione di Imatinib con IFN.
Al momento sono disponibili dati che evidenziano solo un modesto vantaggio nella percentuale
di CCyR per coloro che fanno Imatinib ad alte dosi
e IFN+Imatinib. Non è invece evidente che tale
modesto vantaggio rifletta realmente un beneficio in termini di sopravvivenza ma soprattutto se
possa competere con gli inibitori di seconda generazione che hanno mostrato dati di assoluta efficacia nell’ambito di studi di fase II e III.
Dasatinib e Nilotinib sono TKI di seconda generazione approvati per pazienti con LMC resistente o per pazienti intolleranti a Imatinib (18-20).
Come Imatinib Nilotinib si lega alla conformazione inattiva di BCR-ABL ma con affinità maggiore rispetto al farmaco capostipite per una migliore specificità topografica. Da ciò deriva una attività inibitoria di 10-50 volte maggiore rispetto a
Imatinib con una minore specificità per le altre chinasi target tipo il platelet derived growth factor
beta receptor (PDGFR) (21). Dasatinib lega invece le due conformazioni di BCR-ABL, sia attiva
che inattiva, avendo affinità per multiple chinasi
ed è 325 volte più potente rispetto ad Imatinib
negli studi in vitro (22, 23).
Bosutinib, che è un altro TKI, non ancora approvato dalle autorità regolatorie, si lega ad una conformazione di ABL che è transitoria tra la forma
attiva e inattiva ed è approssimativamente 25 volte più potente rispetto ad Imatinib in vitro (24).
Il meccanismo di resistenza a Imatinib meglio
caratterizzato sta nella identificazione di mutazioni puntiformi nella sequenza genica del dominio chinasico di ABL. Tale meccanismo è stato
documentato con più di 50 cambi di residui aminoacidici di BCR-ABL (25). In vitro, sia Dasatinib
che Nilotinib sono risultati attivi contro tutte le
mutazioni testate BCR-ABL resistenti a Imatinib
tranne la T315I. Ogni agente testato ha comunque una potenza ridotta verso specifiche mutazioni. Da questo deriva una resistenza clinica
documentata per esempio a Dasatinib, se associata con mutazione V299, T315 e F315, a
Nilotinib se associata con mutazioni Y253,
E255, T315 e F359 (26-28).
Sia dasatinib che nilotinib hanno mostrato un raggiungimento della CCyR in circa il 50% dei casi
di fase cronica resistente a Imatinib.
L’attività di Dasatinib sia per la fase cronica, che
accelerata o blastica di LMC è stata documentata in diversi trials clinici di fase II. Nello studio randomizzato START-R veniva comparata l’efficacia
in termini di CyR di Dasatinib 70 mg BID vs
Imatinib alte dosi (800 mg/d). Al minimo follow-up
di due anni, la percentuale di MCyR per Dasatinib
vs Imatinib era 53% vs 33% (p=0,017) e la CCyR
era 44% vs 18% (p=0,025) e la MMR era 29% vs
12% (p=0,028). la PFR stimata era migliore per
Dasatinib rispetto ad Imatinib e la mediana di PFS
non era raggiunta a 30 mesi nel braccio Dasatinib.
Il 23% dei pazienti trattati con Dasatinib hanno
interrotto il trattamento per eventi avversi legati al
trattamento (29).
La dimostrazione che un breve trattamento con
Dasatinib (3-5 ore) mandava le cellule in apoptosi (30) ha portato a modificare la dose raccomandata da 140 mg a 100 mg al giorno (31).
I dati che derivano da uno studio di fase III
(CA180034) con follow-up minimo di 24 mesi
dimostrano che Dasatinib 100 mg una sola volta al giorno induce il raggiungimento di una CCyR
comparabile alla percentuale ottenuta con gli altri
dosaggi descritti nello studio, (n=670 pazienti in
fase cronica resistenti, intolleranti o subottimali a
Imatinib randomizzati a ricevere o Dasatinib 100
mg una sola volta al giorno, 50 mg x due volte
al giorno, 140 mg x 1 o 70 mg BID) riducendo però
la frequenza degli effetti collaterali. Una PFS di
80% a 2 anni e una OS del 91% erano comparabili alle percentuali emergenti dagli altri bracci
dello studio. Inoltre per i pazienti trattati con
Dasatinib 100 mg/d per 6 mesi senza raggiungimento di una CCyR, la possibilità di ottenerla a
2 anni era il 50% per chi avesse una PCyR ma
solo un 8% per chi avesse una CyR minima o
minore. Meno del 3% dei pazienti arruolati è progredito in fase avanzata di malattia (32).
Un aggiornamento dei dati dello studio 034 di
Dasatinib 100 mg/d presentato all’ASCO 2011
conferma l’efficacia con una PFS di 79% per i
23
Seminari di Ematologia Oncologica
pazienti che avessero ottenuto una CCyR a 12
mesi e di 35% per coloro che non lo avessero
fatto.
L’attività clinica di Nilotinib per i pazienti resistenti e/o intolleranti a Imatinib è molto simile a quella vista per Dasatinib. Nello studio ENACT, con
un minimo follow-up di due anni, la percentuale
di MCyR era 59%, la CCyR 44% e la MMR 28%;
la mediana di PFS non era raggiunta a 36 mesi
mentre il 19% dei pazienti ha sospeso per eventi avversi (33).
Interessanti i dati estrapolati dal gruppo di 1793
pazienti resistenti in tutte le fasi di malattia trattati con Nilotinib in II linea: i pazienti >65 anni non
mostrano differenze per quanto riguarda l’outcome e la safety rispetto ai pazienti più giovani (34).
n L’ALGORITMO DECISIONALE:
L’IMPORTANZA DELLE RISPOSTE
CITOGENETICA E MOLECOLARE
Cosa significa oggi curare una LMC? I punti di
dibattito oggi sono ovviamente quelli sulla terapia front-line e sullo switch precoce rispetto alle
raccomandazioni ELN, ma soprattutto se la
maggiore percentuale di CCyR con i nuovi inibitori si traduca in un aumento della sopravvivenza a lungo termine. Ad oggi sappiamo che la percentuale di inadeguatezza di risposta alla terapia
front-line con Imatinib è circa il 30%; il 50% di
questo recupera una CCyR con gli inibitori di II
generazione. Per l’altro 50%, che dipende da selezione clonale o instabilità genetica causata da BcrAbl, si rende necessaria una strategia di III linea,
identificata nel trapianto allogenico per chi è elegibile o in farmaci sperimentali.
Prima di allestire un algoritmo terapeutico, è quindi fondamentale capire quale deve essere il goal
della terapia per la LMC.
L’interferone è stato a lungo usato come terapia
standard per la LMC proprio perché induceva una
remissione citogenetica in un numero significativo di pazienti. È stato ampiamente dimostrato che
i pazienti che raggiungevano una CCyR avevano un aumento significativo della sopravvivenza,
con una percentuale del 78% a 10 anni (35).
Quindi, l’ottenimento della CCyR era considerato il goal della terapia per la LMC (Figura 1). Con
Imatinib il concetto e l’importanza della CCyR si
è consolidato ma contemporaneamente è considerevolmente evoluta la necessità di monitorare questi pazienti mediante la risposta molecolare. Anche questo concetto era nato durante l’era
interferone, in cui era stato osservato che i pazienti con bassi valori di malattia residua misurata con
la metodica molecolare PCR (polimerase chain
reaction) avevano maggiore probabilità di mantenere la risposta citogenetica ottenuta (36). La
definizione di risposta molecolare è anch’essa
100
96%
80
PFS (%)
24
60
40
20
0
0
12
24
de Lavallade H, et al. J Clin Oncol 2008; 26: 3358-63.
36
48
60
FIGURA 1 - Confronto dei pazienti affetti da
LMC trattati con Imatinib in prima linea che
raggiungono una CCyR a 12 mesi rispetto ai
pazienti che non la raggiungono: progression
free survival (PFS) a 60 mesi era 96% vs 74%
(P=0,007). La OS a 60 months era 98% vs
74% (P=0,03). Cortesemente da Bristol
Myers Squibb.
Leucemia mieloide cronica
evoluta negli anni. Oggi consideriamo una MMR
la diminuzione di 3-log delle cellule leucemiche
rispetto al valore basale standardizzato. A causa
della estrema variabilità numerica derivante dalla metodica, è stato necessario armonizzare tale
dato in modo da renderlo riproducibile e confrontabile. La risposta molecolare viene espressa in
termini di un International Scale (IS) che è stato
implementato attraverso risultati standardizzati in
diversi laboratori internazionali. Una MMR corrisponde quindi ad una quota di BCR/ABL rispetto al gene di controllo ABL pari o minore allo 0,1%
(2). La definizione invece di risposta molecolare
completa (CMR) dipende dalla qualità dei campioni analizzati. Possiamo considerare una CMR
una quota di trascritto non identificabile nell’ambito di un test con una sensibilità >4,5 log, ma il
dibattito per una sua corretta definizione è tuttora in corso. Recentemente è stata proposta l’introduzione della definizione di risposta molecolare (MR, molecular response) seguita dal valore
che indica la sensibilità del test utilizzato.
Parleremo quindi di MR4 o MR4,5 o MR5, fino a che
non vi sarà concordanza su una definizione univoca di CMR.
Mentre il valore clinico del raggiungimento della
CCyR è indiscusso e viene oggi ritenuto un endpoint condiviso dalla comunità scientifica per
garantire un outcome ottimale al paziente in fase
cronica trattato con TKIs, il valore prognostico del
grado e del tempo di raggiungimento di una risposta molecolare è ancora oggetto di acceso dibattito. La risposta citogenetica è l’unica che conferisca vantaggi in termini di sopravvivenza a lungo termine, infatti una attenta analisi dell’outcome di pazienti con inadeguata risposta a Imatinib
ha osservato come, benché alcuni pazienti possano migliorare la risposta continuando Imatinib,
coloro che non raggiungono la CCyR a determinati time points raccomandati da ELN, hanno la
probabilità di migliorare la risposta quanto quella di progredire nelle fasi avanzate di malattia. Su
una casistica di 258 pazienti non in risposta citogenetica la probabilità di raggiungimento della
CCyR decresce, mentre aumenta la probabilità di
progredire ad ogni singolo time point di valutazione della risposta, 3, 6 e 12 mesi (37). È interessante estrapolare come i pazienti che a 12 mesi
non hanno raggiunto una CCyR abbiano un alto
rischio di progressione e come tali possono essere degli ottimi candidati ad uno switch terapeutico nonostante rientrino nella categoria dei
pazienti subottimali. A questo proposito un altro
studio descrive il possibile significato dell’applicazione dei criteri di risposta subottimale in 281
pazienti, trattati con dosaggio standard o con le
alte dosi (800 mg/d): l’incidenza di risposta subottimale a 6, 12, 18 mesi è rispettivamente del 4%,
8% e del 40% e non è influenzata dal rischio Sokal
alla diagnosi. I pazienti con risposta subottimale
a 6 mesi hanno una bassa probabilità di raggiungere la CyR se confrontati con quelli in risposta
ottimale (30% vs 97%) e l’EFS e il TFS (transformation free survival) sono simili a quelle dei pazienti considerati in fallimento allo stesso time point.
La risposta subottimale a 12 mesi identifica dunque un gruppo di pazienti con una TFS simile ai
pazienti con risposta ottimale ma con una peggior EFS. Coloro invece che mostrano una risposta subottimale a 18 mesi hanno un outcome simile a quelli in risposta ottimale (38). L’esperienza
del GIMEMA su una casistica di 423 pazienti
osservati con una mediana di follow up di 41 mesi,
identifica a 12 mesi 31 pazienti subottimali con
una peggiore FFS (failure free survival) rispetto al
gruppo (n=323) degli ottimali (68% vs 94%) ed
una minore probabilità di raggiungere la MMR
(68% vs 96%). (39). Questi risultati suggeriscono che la categoria dei pazienti subottimali è estremamente eterogenea e che, verosimilmente, già
i pazienti in risposta subottimale a 6 mesi potrebbero diventare dei candidati ad un intervento terapeutico precoce.
Resta da capire se l’ottenimento di una MMR
migliori l’outcome a lungo termine dei pazienti che
sono in CCyR. Ci sono alcuni studi che mostrano come l’ottenimento di una MMR sia associato ad una migliore PFS (40), ma il ruolo della MMR
sulla OS è assai controverso.
Varie pubblicazioni attribuiscono un valore prognostico della MMR. Sono riportati dati in cui il fallimento dell’ottenimento di una profondità di
risposta molecolare identificata come la riduzione di 2-log al momento del primo raggiungimento della CCyR era un fattore indipendente predittivo di una successiva PFS (41). Seguendo i
pazienti arruolati nello studio IRIS, il gruppo australiano nel 2007 ha mostrato come la probabilità di
25
26
Seminari di Ematologia Oncologica
raggiungere una risposta molecolare completa
(CMR) sia significativamente più elevata (72%) per
i pazienti che avevano ottenuto una MMR a 12
mesi rispetto al solo 5% di coloro che non l’avevano ottenuta (42). Non tutti gli studi sono d’accordo che il raggiungimento della MMR contribuisca a migliorare l’outcome dei pazienti in termini di PFS. Uno studio retrospettivo, analizzando
244 pazienti e applicando i criteri ELN del 2006,
non ha confermato il ruolo di MMR a 12 o 18 mesi
come indicatore prognostico favorevole per la PFS
a 5 anni. In questa esperienza del gruppo inglese al Hammersmith di Londra i pazienti in CCyR
che fallivano l’ottenimento di MMR a 12 o 18 mesi
erano più esposti alla perdita della CCyR rispetto a coloro che invece raggiungevano al MMR
(43). È stato esplorato anche il vantaggio, in termini di durata della CCyR, PFS, di avere una risposta molecolare stabile rispetto al non averla (44)
nonostante non sia stato rilevato un impatto prognostico sulla OS.
L’ottenimento di una MMR porta ad una durata
più lunga di CCyR e ad una percentuale più alta
di PFS ed EFS specialmente se questa risposta
è stabile nel tempo. Una risposta subottimale
molecolare è invece associata ad un rischio
aumentato di sviluppare mutazioni e a perdita della risposta ottenuta. Un attento monitoraggio
molecolare può permettere un precoce riconoscimento di resistenza acquisita e anche di capire
se vi è una corretta aderenza al trattamento (45).
Molte controversie rimangono nell’ambito della
definizione della CMR, intesa come end point per
la cura della LMC.
n L’ALGORITMO TERAPEUTICO
NELLA LMC
L’ottimizzazione della terapia di prima linea
L’eccellente attività clinica e l’ottimo profilo di tollerabilità dimostrato da entrambi gli inibitori di
seconda generazione (Dasatinib e Nilotinib), ha
reso questi farmaci i perfetti candidati per la terapia di prima linea nei pazienti con nuova diagnosi di LMC in FC. Tre protocolli clinici di fase II hanno esplorato l’efficacia di Nilotinib o Dasatinib in
prima linea, riportando entusiasmanti risultati di
ottenimento di rapide risposte citogenetiche e
molecolari con oltre il 90% dei pazienti trattati in
CCyR a 6 mesi di osservazione (46-48). Per confermare questi risultati preliminari sono stati
quindi disegnati trials clinici randomizzati di fase
III per confrontare l’efficacia di Imatinib con
Nilotinib, Dasatinib e bosutinib nei pazienti affetti da LMC-FC di nuova diagnosi. Nello studio
ENESTnd (Evaluating Nilotinib Efficacy and Safety
in Clinical Trials - newly diagnosed patients) sono
stati randomizzati 846 pazienti stratificati secondo rischio Sokal per ricevere trattamento con
Nilotinib 300 o 400 mg BID o Imatinib 400 mg/d
una volta al giorno (49). I dati a 12 mesi hanno
evidenziato una più alta percentuale di MMR (endpoint primario), 44% vs 43% vs 22% (p<0,001)
con un vantaggio in termini di CCyR e MMR per
i pazienti ad alto rischio Sokal trattati con
Nilotinib. Una CMR (percentuale di riduzione del
trascritto <0,0032% cioè 4,5 log dallo standard
basale-convenzionalmente dallo studio IRIS) a 24
mesi era quantificata nel 25% e 19% per Nilotinib
alle diverse dosi e 9% per Imatinib. Anche le progressioni di malattia in fase accelerata o blastica
sono state significativamente minori nei bracci
Nilotinib rispetto a Imatinib (0,7; 1,1 e 4,2%). A
fronte di una sovrapponibile tossicità ematologica, diversi quadri di eventi avversi extraematologici sono stati documentati per i pazienti trattati
con Nilotinib (i più comuni, sebbene di grado 12, sono dermatologici e neurologici con cefalea)
con incremento di anomalie biochimiche laboratoristiche (incremento transaminasi, amilasi e lipasi). In uno studio di fase II del gruppo italiano
GIMEMA CML Working Party, 73 pazienti con
nuova diagnosi di LMC-FC sono stati trattati con
Nilotinib 400 mg BID front-line con ottenimento
di CCyR a 3 mesi nel 78% e a 12 mesi nel 96%,
con una MMR del 52% a 3 mesi e del 85% a 12
mesi di trattamento (48).
Nel dasision trial (Dasatinib versus Imatinib study
in treatment-naive CML), 519 pazienti stratificati
secondo rischio Hasford sono stati randomizzati 1:1 per ricevere Dasatinib 100 mg/d vs Imatinib
400 mg/d. Una efficacia superiore è stata riscontrata nel gruppo di pazienti trattati con Dasatinib,
valutata in termini di raggiungimento di CCyR
(77% vs 66%), confermata in due determinazioni consecutive a distanza di 30 gg (end point primario dello studio) (50). Più del 50% (54%) ave-
Leucemia mieloide cronica
va raggiunto la CCyR a 3 mesi in confronto al 31%
dei pazienti trattati con Imatinib. A 12 mesi la percentuale di CCyR era del 83% nel braccio
Dasatinib vs il 72% nel braccio Imatinib con un
simile vantaggio in termini di raggiungimento di
MMR (46% vs 28%). A 24 mesi il 17% dei pazienti trattati con Dasatinib aveva raggiunto la CMR
(<0.0032% rispetto al trascritto basale, convenzionalmente dallo studio IRIS) rispetto al 8% dei
pazienti in trattamento con Imatinib. La progressione verso la fase accelerata o blastica era quantificata nel 2,3% dei pazienti nel braccio Dasatinib
rispetto al 5% dei pazienti nel braccio Imatinib.
Per quanto riguarda la tossicità ematologica viene riportata una maggiore incidenza di trombocitopenia per i pazienti trattati con Dasatinib, a
fronte di una minore incidenza di eventi avversi
extraematologici, fatta eccezione per l’insorgenza di versamento pleurico; tale evento si riscontra nel solo braccio di trattamento Dasatinib, complessivamente nel 14% con un <1% di grado 3,
senza alcun impatto sfavorevole sulla risposta a
24 mesi (95% di CCyR e 68% di MMR nei pazienti con versamento pleurico) (51).
Altri studi spontanei hanno confermato la superiorità di Nilotinib e Dasatinib in prima linea rispetto a Imatinib in casistiche di pazienti sovrapponibili agli studi descritti.
Si delinea a questo punto l’importanza di un follow-up più lungo per definire l’impatto degli inibitori di seconda generazione sulla OS.
Questi eccellenti risultati sull’utilizzo degli inibito-
ri di seconda generazione in prima linea apriranno dunque nuove vie di approccio sulla terapia
front-line (Tabella 4).
Da una parte abbiamo brillanti risultati con
Imatinib, con un follow-up a 8 anni che conferma la durata della risposta ed un buon profilo di
tollerabilità, senza significativi eventi avversi a lungo termine.
Dall’altra parte abbiamo documentato in questi
anni come un terzo dei pazienti trattati con
Imatinib in prima linea non raggiunga una risposta adeguata per garantire un outcome ottimale
a lungo termine. Sappiamo anche che gli inibitori di seconda generazione recuperano, in termini
di CCyR quasi il 50% dei pazienti resistenti a
Imatinib, e quindi possiamo aspettarci che quasi il 90% dei pazienti affetti da LMC-FC trattati con
terapia sequenziale di TKI possa trovarsi di fatto
sopravvivente in CCyR. I prossimi anni saranno
dedicati a capire se l’utilizzo dei TKI di seconda
generazione in prima linea possa migliorare questo dato e se la velocità del raggiungimento della risposta possa influire sulla sopravvivenza a lungo termine. Sarà importante capire anche se la
stratificazione dei pazienti secondo il rischio possa rappresentare un criterio per l’uso differenziato dei TKI o se possono essere validati fattori prognostici biologici nello stesso ambito.
In questo momento, la raccomandazione per la
terapia di prima linea per i pazienti di nuova diagnosi affetti da LMC-FC rimane Imatinib 400
mg/d, nonostante anche i nuovi inibitori abbiano
Outcome
ai primi
12 mesi
di terapia
IRIS
Imatinib
400 mg
N=553
Imatinib
400 mg
(TOPS)
N=157
Imatinib
800 mg
(TOPS)
N=319
GIMEMA
Nilotinib
800 mg
BID N=73
Dasatinib
Imatinib
Nilotinib
100 mg
400 mg
300 mg
(DASISION) (DASISION) Due volte
N=259
N=260
al giorno
ENESTnd)
N=282
Nilotinib
Imatinib
400 mg
400 mg
due volte (ENESTnd)
al giorno
(ENESTnd)
N=281
N=283
CCgR
(o CyR)
MMR
Eventi
Trasformazione
65
66
70
96
83
72
80
78
65
39
3,3
1,5
40
2,5
1,9
46
1,9
0,9
85
NR
NR
46
NR
1,9
28
NR
3,5
55
2,1
0,7
51
0,3
0,3
27
4,6
3,8
TABELLA 4 - Riassunto dei risultati a 12 mesi con i vari tirosin chinasi inibitori (TKIs) usati in prima linea di trattamento nei diversi
studi randomizzati menzionati nell’articolo. Le definizioni e le metodologie per i differenti end-points variano da studio a studio.
Questa tabella è solo un riassunto dei dati presentati e non un confronto tra i vari studi (71).
27
28
Seminari di Ematologia Oncologica
ottenuto l’indicazione terapeutica per questa fase
di malattia.
La raccomandazione corrente è di proseguire la
terapia continuativamente senza interruzione nei
pazienti in risposta ottimale secondo ELN. I
pazienti in risposta ottimale sono considerati coloro che raggiungono la CHR a 3 mesi, almeno una
minima risposta Citogenetica a 3 mesi, almeno
una PCyR a 6 mesi, una CCyR a 12 mesi ed una
MMR a 18 mesi, mantenuta stabile nel tempo.
Se Imatinib fallisce: quando cambiare
terapia e come
Per i pazienti che sono resistenti o intolleranti a
Imatinib, sia Nilotinib che Dasatinib, come abbiamo precedentemente descritto nel paragrafo
dedicato alla seconda linea, sono stati approvati dalle autorità regolatorie e altri farmaci sono in
studio. L’indicazione indiscussa al cambio della
terapia è riservata ai pazienti che sono ritenuti
resistenti secondo i criteri definiti da ELN (vedi
tabella 3).
I pazienti resistenti sono considerati coloro che
non raggiungono una CHR a 3 mesi, oppure una
minima risposta citogenetica a 6 mesi, oppure una
PCyR a 12 mesi o una CCyR a 18 mesi.
In questi casi è importante cambiare la strategia
terapeutica appena il criterio di fallimento è stato riconosciuto, in quanto è stato osservato come
i pazienti ritenuti resistenti per criteri citogenetici
rispondano meglio al trattamento di seconda linea
piuttosto che i pazienti che abbiano perso anche
la risposta ematologica (52).
Per i pazienti subottimali, che sono rappresentati da coloro che non hanno ottenuto la risposta citogenetica minima a 3 mesi, meno della
PCyR a 6 mesi, la PCyR a 12 mesi, meno della
MMR a 18 mesi, oppure hanno una perdita della MMR in qualsiasi momento, o mostrano una
risposta MMR non stabile, o presentano la comparsa di mutazioni pur mantenendo la risposta
citogenetica, non esistono raccomandazioni rigide per la gestione del trattamento. In accordo a
ELN, per i pazienti subottimali le indicazioni sono
il proseguimento della terapia in atto, sebbene
non siano garantiti benefici a breve termine, l’incremento delle dosi di Imatinib, oppure lo switch
a TKI di seconda generazione. Sappiamo che i
pazienti in risposta subottimale hanno comunque
un outcome a lungo termine peggiore dei pazienti in risposta ottimale. La categoria di questi
pazienti è estremamente eterogenea, infatti dall’algoritmo decisionale presentato in questo articolo sappiamo quanto diverso sia l’impatto di una
risposta subottimale citogenetica rispetto ad una
risposta subottimale molecolare. Una risposta
subottimale citogenetica a 6 mesi ha un impatto diverso sull’outcome a lungo termine rispetto ad una risposta subottimale a 18 mesi (37, 38).
A questo proposito abbiamo già analizzato
come la probabilità di raggiungimento della CCyR
decresce per i pazienti che non hanno raggiunto una risposta citogenetica, mentre aumenta la
probabilità di sviluppare una progressione di
malattia. Tale fenomeno è presente ad ogni singolo time point di valutazione della risposta, 3,
6 e 12 mesi, diventando estremamente significativo a 6 e 12 mesi.
È quindi ragionevole, con la disponibilità dei dati
dei diversi TKI in nostro possesso, considerare
uno switch precoce come un intervento terapeutico volto a incrementare il raggiungimento della CCyR e quindi mirato a migliorare l’outcome
a lungo termine per la maggior parte dei pazienti trattati.
Le raccomandazioni ELN non danno inoltre indicazioni precise per quanto riguarda il paziente
intollerante.
Un paziente viene definito intollerante quando presenta uno o più effetti collaterali durante un trattamento, che possono essere ematologici o
extraematologici e quantificati secondo la scala
CTC che misura il grado di tossicità (CTCAECommon Terminology Criteria for Adverse Eventsgrading scale 1-2-3-4). La ricorrenza di un evento avverso di grado 2 o la comparsa di un evento avverso di grado 3 raccomanda la sospensione temporanea del farmaco fino a ripristino delle condizioni basali. La dose di farmaco può essere allora reintrodotta intera o ridotta a seconda dei
casi e del giudizio del clinico, eventualmente ripristinata come quella iniziale se è stata reintrodotta ridotta, qualora non si verifichi la ricomparsa
dell’evento avverso. Un evento avverso di grado
4 raccomanda invece la interruzione del farmaco e lo switch ad un diverso TKI. Nel caso di ricorrenza di evento avverso di grado 2 o di comparsa di evento avverso di grado 3 la scelta può esse-
Leucemia mieloide cronica
re quella di cambiare inibitore, senza necessariamente tentare con la reintroduzione dello stesso
farmaco alla medesima dose iniziale o ridotta. Non
ci sono comunque chiare indicazioni per questi
fenomeni descritti.
Una volta che l’indicazione del cambio di trattamento è stata stabilita, sia per resistenza che
intolleranza, è importante scegliere quale farmaco utilizzare. La presenza di mutazioni può guidare nella scelta, perché sappiamo che alcuni
agenti hanno maggiore sensibilità ad alcune
mutazioni rispetto ad altri (18, 53). Per esempio,
per i pazienti che presentano la mutazione F317L,
Nilotinib rappresenta una migliore scelta rispetto a Dasatinib mentre quest’ultimo è preferibile
nel caso di riscontro di mutazione F359V o
Y253H/F. La presenza di mutazioni incide solo sul
50-60% dei casi di resistenza, quindi in tutti gli
altri casi la scelta del TKI da utilizzare si basa sul
profilo di tossicità, sulla presenza di comorbidità del paziente da trattare e sulla esperienza del
clinico. Per fare un esempio i pazienti con affezioni polmonari e maggiormente a rischio di sviluppare versamento pleurico potrebbe essere preferibile Nilotinib, mentre per i pazienti con una storia di pancreatite potrebbero essere invece trattati con Dasatinib. Nella maggior parte dei casi
è la familiarità di un farmaco piuttosto che un altro
applicata alla anamnesi del paziente che guida
la scelta del clinico.
Quando interrompere il trattamento
Tra gli argomenti più dibattuti in questi ultimi mesi
nel mondo della LMC c’è la possibilità della
sospensione del trattamento che si accompagna
al concetto di cura della malattia. L’ottenimento
del raggiungimento della CMR quindi diventa il
goal per programmare una sospensione della
terapia. Risultati preliminari in questo ambito derivano dallo studio STIM (Stop Imatinib), che ha
valutato l’interruzione di Imatinib in 69 pazienti
in risposta molecolare completa stabile da due
anni. I dati mostrano una ricaduta molecolare nel
59% dei pazienti (54). La ricaduta, solo molecolare, avveniva entro il settimo mese dalla sospensione e rispondeva comunque sempre alla reintroduzione di Imatinib. Da un analogo studio francese del 2007 emerge che il precedente trattamento con IFN contribuiva al mantenimento del-
la risposta molecolare completa anche dopo la
sospensione di Imatinib, cosi come una più lunga esposizione del farmaco negli anni (55).
Sebbene i dati sull’argomento siano ancora pochi
e sia necessario un follow-up più lungo che li confermi, approssimativamente il 40% dei pazienti
non ricade se sospende Imatinib in CMR. Sarà
importante capire quali caratteristiche contribuiscono a mantenere la risposta e soprattutto quali possono essere gli approcci per evitare la ricaduta. Quindi, il goal del futuro potrebbe essere
quello di sospendere la terapia per la maggior
parte dei pazienti. Per questo, il primo approccio è quello di incrementare le risposte CMR, sia
con l’utilizzo dei TKI di seconda generazione in
prima linea sia con terapie immunomodulanti (56).
Il secondo approccio sarà quello di sviluppare
approcci terapeutici che garantiscano un mantenimento della risposta prevenendo la ricaduta
molecolare. Esistono in questo senso studi in corso che esplorano l’utilizzo di IFN nel mantenimento oppure inibitori di vie implicate nella traduzione del segnale delle cellule leucemiche.
Al momento la raccomandazione comunque è
quella di proseguire il farmaco continuativamente e le sospensioni devono avvenire solo all’interno di studi clinici controllati e assolutamente
disposti dal clinico.
La gravidanza. Per il particolare periodo della gravidanza esistono raccomandazioni sulla sospensione temporanea dei TKI. I dati in nostro possesso riguardano fondamentalmente Imatinib di
cui abbiamo una maggiore esperienza. Tra le raccomandazioni emergenti dal panel di ELN non
sembra che vi siano controindicazioni per il
maschio affetto da LMC in trattamento per la procreazione. Per la donna affetta, il consiglio è quello di pianificare una gravidanza mediante una
sospensione temporanea di almeno 7-10 gg prima della fecondazione presunta e di mantenere
la sospensione nel caso di gestazione. Questa
interruzione deve essere mantenuta fino al parto, ed è sconsigliato l’allattamento al seno. È raccomandato programmare lo stato di gravidanza
per donne affette che siano in MMR o CMR stabile da almeno 24 mesi, e di monitorare strettamente (mensilmente possibilmente), la risposta
molecolare nel periodo della gestazione. Nel caso
di ricaduta citogenetica o di ricaduta ematologi-
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Seminari di Ematologia Oncologica
ca è consigliato utilizzare IFN dal secondo semestre (57).
La resistenza agli inibitori di seconda
generazione
I pazienti che falliscono il trattamento con gli inibitori di seconda generazione hanno delle opzioni limitate. Quando la ragione del fallimento è l’intolleranza, le alternative sono comunque migliori rispetto alla presenza di resistenza.
Approssimativamente il 25% dei pazienti resistenti a due TKI possono usufruire di trattamenti alternativi e raggiungere una MCyR con una durata
limitata di 20 mesi (58). Questi sono pazienti candidati al trapianto allogenico, se sono elegibili alla
procedura per età, disponibilità del donatore,
comorbidità.
Nell’era TKI il trapianto allogenico è delegato
come terapia di salvataggio anche se, a fronte
di una considerevole potenziale tossicità, è
indubbiamente la cura della LMC. Dati riportati
da diversi gruppi di lavoro mostrano una percentuale di sopravvivenza >85% (59-61), sebbene
si tratti di categorie selezionate di pazienti. Il successo terapeutico declina enormemente quando si tratta di fasi avanzate di malattia. Questo
sottolinea l’importanza di procedere al trapianto
prima che avvenga la progressione.
Recentemente sono stati analizzati score prognostici in cui la combinazione della eventuale neutropenia nel corso di trattamento con Imatinib,
la risposta a Imatinib e il rischio Sokal alla diagnosi genera uno score in grado di identificare i
pazienti che risponderanno, in termini di raggiungimento della CCyR, agli inibitori di II generazione (62). Questa identificazione potrebbe anticipare una eventuale ricerca di donatore da registro o programmare un trapianto nel caso di
donatore familiare compatibile disponibile.
L’uso di un terzo TKI disponibile potrebbe essere destinato ai pazienti che non possono usufruire dell’opzione trapiantologia, oppure potrebbe
essere utilizzato come bridge per arrivare al trapianto nelle fasi più avanzate.
I pazienti che sviluppano la mutazione T315I hanno una prognosi assai sfavorevole per la mancanza di un trattamento adeguato, e come tali
sono candidati al trapianto allogenico, sebbene
questa procedura sia destinata ad un basso
numero di pazienti (15%). Sono molti i nuovi
agenti che sono in sviluppo per questi pazienti
(63-65), alcuni di essi fanno già parte dello scenario terapeutico delle LMC e nel prossimo futuro entreranno a far parte dell’algoritmo terapeutico. Uno di questi è il ponatinib che ha dimostrato efficacia nell’indurre CCyR in pazienti che
avevano sviluppato la mutazione T315I. Altri farmaci, come gli inibitori di Smo, sono in sperimentazione ma i risultati di fase I sono assolutamente entusiasmanti.
L’importanza della compliance nella terapia
continuativa
L’importanza della aderenza alla terapia in un trattamento continuativo è la base per il percorso di
raggiungimento della risposta terapeutica.
I risultati a lungo termine dipendono fondamentalmente dalla compliance del paziente, e il problema, della aderenza è tipico nelle malattie croniche. Il sospetto che vi potesse essere un problema un non corretto comportamento di assunzione della terapia, è insorto con l’osservazione
di comparsa di eventi dopo il 7° anno di followup di IRIS. La misurazione della concentrazione
plasmatica di farmaco ha dato in questi anni risultati contrastanti, tali da non poter attribuire un cutoff chiaro secondo il quale identificare un paziente in dosaggio adeguato o meno.
Recentemente nell’ambito della compliance sono
stati effettuati almeno due studi in Europa in cui
è emerso che tra i maggiori predittori della non
aderenza sono descritti: comorbidità del paziente, effetti collaterali provocati dal farmaco e complessità della dose da assumere (66). In questo
studio belga, mediante l’analisi di questionari, si
dimostra, in un campione di 84 pazienti, che solo
il 14% assume correttamente la dose prescritta
e un terzo dei pazienti non è aderente.
In un altro studio condotto dal gruppo inglese viene adoperato un meccanismo elettronico che,
mediante la registrazione dell’apertura della scatola del farmaco, misurava il numero di assunzioni giornaliere. In questa analisi viene dimostrato
che, su un campione di 90 pazienti consecutivi
affetti da LMC-FC osservati per 90 giorni la compliance mediana era del 97,6% con un range molto variabile da 22,6% a 103,8%. La cosa più
importante che emerge da questo studio è che
Leucemia mieloide cronica
la compliance era strettamente correlata con il raggiungimento della MMR (4 log di riduzione) o la
CMR. Non era riportato il raggiungimento della
CMR per i pazienti con una aderenza <90% e della MMR per chi assumeva <80% della dose prescritta. Incrementi di trascritto bcr/abl erano correlati con una scarsa aderenza (Marin JCO). Il
rischio di perdere la risposta citogenetica in seguito al non raggiungimento o perdita della MMR
potrebbe riflettersi su un peggioramento della PFS
(67). Nell’ambito della qualità di vita dei pazienti
affetti da LMC, che potrebbe riflettersi sulla compliance, l’obiettivo di uno studio italiano recentemente pubblicato era quello di valutare la qualità di vita di pazienti affetti da LMC in terapia con
Imatinib da lungo tempo, per confrontarla con la
qualità di vita di soggetti sani. Sono stati analizzati dati derivati da 448 pazienti con età mediana di 57 anni e in trattamento con Imatinib da una
mediana di 5 anni. Le maggiori differenze in termini di peggiore qualità di vita a causa di implicazioni fisiche e psicologiche sono state identificate nel gruppo di pazienti più giovani e nelle
donne. L’astenia era il sintomo più frequentemente riportato dai pazienti intervistati. I pazienti più
anziani (>60 anni) mostravano un profilo di qualità di vita sovrapponibile alla popolazione normale di confronto (68).
Tra gli aspetti futuri della gestione della LMC c’è
quindi anche, oltre alla attenta gestione degli effetti collaterali che derivano dalla terapia continuativa, la corretta informazione sui rischi che una
aderenza non corretta possa comportare e lo sviluppo di presidi che possano migliorarla.
n CONCLUSIONI
La LMC rappresenta un prototipo per lo sviluppo di terapie intelligenti. Dopo oltre 40 anni dalla identificazione del modello patogenetico sono
state sviluppate terapie sempre più specifiche ed
efficaci. Imatinib ha trasformato l’algoritmo terapeutico ed ha drammaticamente cambiato la storia naturale della malattia.
Nonostante la maggior parte dei pazienti affetti
da LMC-FC rispondano in modo ottimale al trattamento con Imatinib, e non sia stata dimostrata una influenza sulla risposta relativamente alla
età dei soggetti trattati, approssimativamente un
terzo dei pazienti sviluppa una resistenza o una
intolleranza al farmaco. È dimostrato che i
pazienti che ritardano il raggiungimento di una
risposta citogenetica completa hanno un maggior
rischio di progressione di malattia. Con la disponibilità e l’esperienza dei nuovi TKI abbiamo la
possibilità di ridurre questo rischio di progressione adottando strategie terapeutiche diverse nei
casi subottimali o nei late responders proponendo uno switch terapeutico secondo l’esperienza
che gli studi clinici ci hanno fornito e secondo le
raccomandazioni ELN.
È verosimile che una vigorosa soppressione di
bcr/abl all’esordio della malattia mediante gli inibitori di seconda generazione sia più efficace nel
ridurre la instabilità genetica che poi conduce alla
progressione. Un follow-up più lungo è necessario per validare l’impatto di questa efficacia sulla
sopravvivenza globale. Da un altro punto di vista,
sappiamo che ci sarà sempre una quota consistente di pazienti che sviluppano la malattia anni
prima che questa sia diagnosticata e, per questi,
il danno genetico si sia già instaurato.
Anche le implicazioni economiche che questi farmaci hanno, in considerazione di una aumentata prevalenza di casi, avranno il loro ruolo nel futuro scientifico di questa malattia. Nonostante il 50%
dei nuovi casi abbia più di 60 anni, è stato ampiamente dimostrato che non vi è differenza di risposta a TKI e/o di tollerabilità rispetto alla popolazione adulta <60 anni (69, 70). L’età quindi non è
un parametro che può incidere sulla risposta, né
al momento un dato che possa delineare trattamenti di prima linea diversi.
Per i pazienti che falliscono la terapia di seconda linea e per quelli di nuova diagnosi che falliscono la terapia front-line con i TKI di II generazione, possiamo dunque offrire il trapianto allogenico come trattamento alternativo, o farmaci
sperimentali per chi non è eleggibile per la procedura.
In ultima ipotesi, in una terapia continuativa di cui
la LMC è un modello senza precedenti, per una
cura della malattia dobbiamo identificare elementi prognostici che permettano la previsione della
risposta sia nelle nuove diagnosi che nei pazienti resistenti affinché possa essere intrapresa una
terapia adeguata per la totalità dei pazienti.
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Seminari di Ematologia Oncologica
Oltre a identificare criteri di risposta e di resistenza, l’importanza della aderenza alla terapia, dobbiamo anche stabilire se una risposta molecolare completa (condivisa nella sua definizione) possa eventualmente rappresentare un utile end point
per la LMC e possa individuare i pazienti che
potrebbero giovarsi della sospensione del farmaco. I prossimi anni quindi promettono di essere
volti allo studio di questi parametri, alimentati dall’entusiasmo di dati sempre più incoraggianti.
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35
37
Sindromi
melodisplastiche
PELLEGRINO MUSTO
Dipartimento Onco-Ematologico e Direzione Scientifica,
IRCCS “Centro di Riferimento Oncologico della Basilicata”, Rionero in Vulture (Pz)
n INTRODUZIONE
Sebbene negli ultimi anni siano sempre più chiaramente emerse la eterogeneità clinica e la complessità biologica delle sindromi mielodisplastiche
(SMD), circa i tre quarti di queste patologie sono
costituiti, alla diagnosi, da pazienti a rischio prognostico IPSS (International Prognostic Scoring
System) (1) o WPSS (WHO-based Prognostic
Scoring system) (2) basso o intermedio. Pertanto,
con la sola eccezione dei pochi soggetti per i quali vi è indicazione a un trapianto allogenico di cellule staminali emopoietiche (ad oggi l’unica procedura terapeutica potenzialmente curativa), tutti questi pazienti, se sintomatici, possono essere considerati candidabili, in aggiunta alla eventuale terapia di supporto trasfusionale, a forme di
trattamento continuativo. D’altra parte, un’importante quota di pazienti ad alto rischio, principalmente per motivi di età o di comorbidità concomitanti, non è in grado di sostenere trattamenti
chemioterapici intensivi o trapiantologici; anche
questi pazienti, dunque, possono evidenziare, nella maggior parte dei casi, la necessità di un tratParole chiave: sindromi mielodisplastiche, eritropoietina, lenalidomide, azacitidina, decitabina.
Pellegrino Musto
tamento cronico. A tale proposito, è interessante notare come il concetto di preleucemia, inteso in passato come sinonimo di SMD, sia stato
nel tempo gradualmente ridimensionato, alla
luce del fatto che la maggior parte di questi
pazienti, spesso anziani, è maggiormente predisposta alle complicanze dell’insufficienza midollare e delle citopenie periferiche, piuttosto che
all’evoluzione leucemica; proprio la correzione delle citopenie, dunque, rappresenta spesso il principale target della terapia. In questo contesto, le
terapie continuative, soprattutto in considerazione di alcuni trattamenti innovativi resisi disponibili nel corso degli ultimi anni, costituiscono oggi
un fondamentale elemento per la cura delle maggior parte delle SMD; esse hanno altresì introdotto, come vedremo, alcuni aspetti di assoluta novità rispetto a paradigmi terapeutici consolidati.
In questa sede verranno descritte le caratteristiche più interessanti relative all’uso di terapie continuative in pazienti mielodisplastici, con particolare riferimento ai fattori di crescita, agli agenti
immunomodulanti e ai farmaci ipometilanti, tenendo conto che alcuni dei farmaci descritti e talune specifiche indicazioni non hanno tuttavia ancora ottenuto l’approvazione da parte dell’Agenzia
Europea del Farmaco (EMA).
Indirizzo per la corrispondenza
Pellegrino Musto
U.O.C. di Ematologia e Trapianto
di Cellule Staminali Emopoietiche
IRCCS, Centro di Riferimento Oncologico
della Basilicata
Via Padre Pio, 1 - 85028 Rionero in Vulture (PZ)
E-mail: [email protected]
n FATTORI DI CRESCITA
Eritropoietine e altri agenti stimolanti
l’eritropoiesi
L’eritropoietina (EPO) costituisce il più importante fattore di regolazione dell’eritropoiesi. Attraverso
38
Seminari di Ematologia Oncologica
la modulazione dell’attività proliferativa e dei processi di apoptosi cellulare, questa molecola rappresenta, sostanzialmente, un fondamentale fattore di sopravvivenza dei progenitori eritroidi
midollari. L’efficacia della EPO umana ricombinante (r-Hu EPO) o di altri erythropoiesis stimulating
agents (ESA), come la darbopoetina (DPO), ben
dimostrata in condizioni anemiche costantemente caratterizzate da un deficit produttivo di
EPO endogena (come l’insufficienza renale e la
cosiddetta anemia da malattia cronica), sembra
avere basi fisiopatologiche diverse nelle SMD,
dove risulta minoritaria la quota di pazienti che evidenzia livelli circolanti di EPO inadeguati al grado di anemia. In particolare, l’effetto degli ESA nelle SMD si realizzerebbe attraverso un’azione di stimolo sull’eritropoiesi normale residua non clonale e di inibizione sui processi apoptotici intramidollari che caratterizzano, soprattutto nelle fasi iniziali di malattia e nei pazienti a basso rischio,
l’emopoiesi displastica, con conseguente riduzione dell’eritropoiesi inefficace (3).
I dati iniziali di efficacia sull’utilizzo di ESA nelle
SMD sono stati recentemente valutati in una metanalisi (4) che ha considerato 59 studi clinici; cinque trials erano studi controllati, randomizzati verso terapia di supporto, 1.936 i pazienti con SMD
globalmente analizzati. Negli studi comparativi la
risposta eritroide ad ESA era pari al 27%, con un
significativo vantaggio nei confronti dei controlli.
La percentuale di risposte risultava più elevata (3248%) negli studi non controllati. Un trattamento
prolungato, la supplementazione di ferro e ridotti livelli di EPO endogena si associavano ad una
più elevata probabilità di risposta.
Una seconda e più recente metanalisi (5) ha valutato i risultati ottenuti in 30 studi, per un totale di
oltre 1.300 pazienti, riportando una percentuale
globale di risposta eritroide pari al 57% negli studi di comparazione con terapia di supporto e del
59% in quelli di fase 2, non comparativi. In questa analisi venivano valorizzati come parametri
predittivi di risposta livelli basali di EPO sierica inferiori a 500 miu/ml ed una diagnosi di anemia refrattaria, con o senza sideroblasti, ma senza eccesso di blasti. In particolare, l’utilizzo di dosi fisse e
più elevate (60-80.000 U/settimana per r-Hu EPO
alfa, 300 mcg/settimana per DPO) evidenziava un
rate di risposte significativamente più elevato
rispetto alle dosi standard (r-Hu EPO alfa 3040.000 U/settimana, DPO 100-150 mcg/settimana) (63-71% vs 48-53%, p<0,001).
Ancor più recentemente, alcuni ampi studi retrospettivi e trials clinici prospettici di fase 2 non randomizzati hanno confermato una probabilità di
risposta globale del 49-75% in pazienti con SMD
a basso rischio trattati con dosi di 40-80.000
U/settimana di r-Hu-EPO (6-8) o DPO alla dose
di 150-300 mcg/settimana (9-11), 4,5-9 mcg/kg/
a settimana (12), o di 500 mcg ogni 2-3 settimane (13). Va tuttavia considerato che alcune delle casistiche pubblicate sono state selezionate
sulla base di ridotti livelli iniziali di EPO endogena e di limitate necessità trasfusionali dei
pazienti arruolati, parametri, come già ricordato, in genere associati a una più elevata probabilità di risposta. Di particolare interesse, in alcuni di questi studi, la chiara correlazione tra miglioramento dei livelli di emoglobina e qualità di vita,
esplorata attraverso l’utilizzo di questionari validati. Da ricordare, infine, un recente studio francese che ha chiaramente evidenziato come l’utilizzo precoce (entro 6 mesi dalla diagnosi) di ESA
in pazienti con SMD a basso rischio, anemici ma
non trasfusione-dipendenti, determini un allungamento molto significativo (80 vs 35 mesi,
p<0.007) del tempo alla comparsa di trasfusione-dipendenza (14).
La risposta eritroide ottenuta dopo terapia con
ESA viene generalmente persa alla sospensione
del farmaco. La durata della risposta è, peraltro,
risultata estremamente variabile nei diversi studi
e nei singoli pazienti (da poche settimane a diversi anni) (15). Tra gli studi con maggiore follow-up,
rilevante l’esperienza del GFM (Groupe Francaise
des Myelodysplasies), la più ampia sinora descritta, che riporta una durata mediana della risposta
a ESA di circa 2 anni (9). In una casistica retrospettiva italiana recentemente pubblicata, il 77%
di 36 responders a r-Hu-EPO alla singola dose di
40.000 UI per settimana ha mantenuto la risposta dopo un follow-up mediano di 46 mesi (8). La
durata mediana di risposta ad una dose analoga
di r-Hu-EPO, ma somministrata due volte a settimana, fu di 9 mesi, con il 33% dei pazienti ancora responsivi dopo un anno di trattamento (7); d’altra parte, la DPO, alla dose di 150-300 mcg a settimana in singola somministrazione, ha indotto una
Sindromi melodisplastiche
durata della risposta eritroide di 22 e 15 settimane, in pazienti rispettivamente senza o con fabbisogno trasfusionale (10).
Eritropoietina e G-CSF
Dati in vitro hanno suggerito un possibile effetto sinergico dell’uso combinato di r-Hu EPO e
fattori di crescita mieloidi, in particolare G-CSF,
sui processi di proliferazione, differenziazione e
apoptosi dell’eritropoiesi mielodisplastica. I dati
clinici più significativi sono stati riportati in due
ampi studi retrospettivi (9, 16), uno studio prospettico di fase 2 con incremento progressivo
della dose di DPO (12) e 3 studi randomizzati di
fase 3, rispettivamente verso terapia di supporto (in un caso con dosi crescenti di r-Hu EPO)
(17, 18) o dosi standard di sola r-Hu EPO beta
(19). La percentuale globale di risposte eritroidi
variava dal 38% al 62%, risultando peraltro
generalmente limitata ai pazienti senza o con
minimo fabbisogno trasfusionale (<2 unità/mese)
e con livelli inadeguati di EPO endogena (<500
miu/ml) (16). A supporto di una possibile attività sinergica tra i due farmaci, parte di queste
risposte veniva persa se il G-CSF era interrotto
e riacquisita se si reintroduceva l’associazione.
Come già osservato per la r-Hu-EPO utilizzata
come agente singolo (20), prolungando il trattamento combinato fino a 36 settimane in pazienti con EPO endogena <500 miu/ml è stato possibile raggiungere l’80% di risposte (21).
L’efficacia di tale associazione non è stata tuttavia confermata in pazienti trasfusione-dipendenti, già trattati senza successo con r-Hu EPO
(22). Nell’esperienza del GFM la percentuale di
risposte nei pazienti trattati con ESA come singolo agente o in combinazione con G-CSF non
risultava statisticamente differente (66% vs
58%, p<0,17) (9). Inoltre, uno studio randomizzato francese ha chiaramente evidenziato come
la combinazione di r-Hu EPO e G-CSF risultasse significativamente più costosa del supporto
trasfusionale, senza tradursi in un sostanziale
beneficio (anzi, con un possibile peggioramento) della qualità di vita dei pazienti) (17). Anche
la possibile miglior risposta al trattamento combinato r-Hu EPO + G-CSF inizialmente ipotizzata nelle anemie sideroblastiche (16) sulla base
80
70
ER globale
ER maggiore
Confronto con EPO alte dosi p <0,007
64,5%
60
Risposta eritroide
Confronto con EPO alte dosi p <0,001
50
50,6%
49,0%
44,9%
40
30
30,5%
27,2%
20
p n.s.
10
0
EPO std
EPO std + G-/GM-CSF
EPO ad alte dosi
FIGURA 1 - Una recente metanalisi ha confermato che l’uso di r-Hu-EPO ad alte dosi migliora la risposta eritroide (ER) rispetto a
r-Hu-EPO utilizzata a dosi standard (STD) come agente singolo o in combinazione con G-CSF/GM-CSF (26).
39
Seminari di Ematologia Oncologica
di osservazioni in vitro che dimostravano la capacità del G-CSF di inibire l’apoptosi mediata dai
mitocondri attraverso il rilascio di citocromo C
(23), non è stata successivamente confermata
in altre casistiche (9, 18, 22, 24, 25).
L’efficacia della associazione di r-Hu EPO alfa con
fattori di crescita mieloidi è stata valutata in una
metanalisi di 15 studi includenti globalmente 741
pazienti (26). La quota di risposte eritroidi nei
pazienti trattati con la combinazione di r-Hu EPO
alfa con G-CSF o GM-CSF risultava sovrapponibile a quella ottenibile con sola r-Hu EPO alfa
(circa 50%). Questa analisi ha anche evidenziato come r-Hu EPO alfa usata come agente singolo a dosaggi elevati (60-80.000 U/settimana)
abbia prodotto una percentuale di risposte più elevata (64%) rispetto a dosaggi standard di 30-
40.000 U/settimana (49%), anche quando r-Hu
EPO era associata a G-CSF o GM-CSF (Figura
1); la differenza era altamente significativa e risultava indipendente dal sottotipo FAB e dalla dipendenza trasfusionale.
Sebbene l’uso di ESA sia stato recentemente
associato ad una prognosi non favorevole in
pazienti neoplastici (27), il loro utilizzo nelle SMD
è generalmente ritenuto sicuro e ben tollerato (28).
Due metanalisi (4, 5) e ampi studi retrospettivi (9,
29) hanno sostanzialmente confermato, in particolare, l’assenza di un rischio più elevato di eventi trombotici o cardiovascolari e di trasformazione leucemica nei pazienti trattati in maniera continuativa con ESA come single agent o in associazione con G-CSF; sporadiche anche le segnalazioni di aplasia selettiva della serie rossa legaFIGURA 2 - Sono riportati due degli
studi che hanno evidenziato un possibile miglioramento della sopravivenza in pazienti responsivi a ESA rispetto a pazienti non responsivi o mai
trattati con questi farmaci (IMRAW:
database IPSS) (9, 32).
100%
90%
risposta a r-EPO
non risposta a r-EPO
IMRAW
80%
Sopravvivenza globale
40
70%
60%
50%
40%
30%
20%
10%
p<0,0001
0%
0
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
Anni dalla diagnosi o dal trattamento con r-EPO
100%
90%
mai trattati con r-EPO
non risposta a r-EPO
risposta a r-EPO
80%
70%
60%
50%
40%
30%
20%
10%
0%
0
12
24
36
48
60
Mesi
72
84
96
100
120
Sindromi melodisplastiche
ta alla comparsa di autoanticorpi anti-EPO (30).
Occorre infine ricordare che tre studi retrospettivi ed un trial prospettico hanno riportato che i
pazienti con SMD a basso rischio responsivi a
ESA+/-G-CSF, manifestano un vantaggio di
sopravvivenza nei confronti dei pazienti non
responsivi o che non sono mai stati sottoposti a
tale trattamento (9, 18, 31, 32) (Figura 2). Il motivo di questo beneficio non è del tutto chiaro,
anche se sono stati ipotizzati come possibili fattori l’abolizione della trasfusione-dipendenza e,
quindi, delle complicanze da sovraccarico marziale, il miglioramento della performance cardiaca, la selezione di pazienti con caratteristiche biologiche intrinseche più favorevoli, la possibile attività degli ESA nei confronti di sistemi e processi
non strettamente correlati all’eritropoiesi.
Altri fattori di crescita
Al di là del loro possibile utilizzo in combinazione con ESA, G-CSF e GM-CSF sono stati usati in profilassi, con dosi e schemi variabili, in
pazienti con SMD allo scopo di migliorarne la
neutropenia e ridurne il rischio infettivo. Nel 7690% dei casi è stato possibile ottenere un incremento significativo dei leucociti e, in particolare,
della conta neutrofila (33, 34). Non è stato tuttavia dimostrato un impatto significativo sulla percentuale e sulla gravità degli eventi infettivi e sulla sopravvivenza globale. Ad oggi non vi sono
dunque dati consistenti a supporto dell’utilizzo
continuativo di fattori di crescita mieloidi in
pazienti con SMD.
Due nuovi thrombopoietin-mimetics stimolanti la
piastrinopoiesi (romiplostim, peptide iniettabile, ed
eltrombopag, molecola non peptidica, somministrabile per via orale) sono stati recentemente
introdotti in clinica per il trattamento della piastrinopenia autoimmune resistente a trattamenti alternativi e della piastrinopenia secondaria a epatopatia HCV-positiva. Sono ad oggi disponibili alcuni dati preliminari sull’efficacia di queste molecole in vitro e in vivo nell’indurre un incremento della conta piastrinica, con riduzione del fabbisogno
trasfusionale e degli eventi emorragici, anche in
pazienti piastrinopenici con SMD (35-38). È
necessario tuttavia attendere dati definitivi e consolidati dagli studi in corso per valutare efficacia
e safety di questi agenti nelle SMD.
Fattori di crescita: il primo esempio
di terapia continuativa
L’uso continuativo di ESA rappresenta oggi uno
standard riconosciuto di trattamento per l’anemia
di pazienti con SMD a basso rischio (3, 28, 39),
condiviso dalle linee guida internazionali
ASCO/ASH (40) e NCCN (41). È tuttavia curioso
notare come, a tutt’oggi, sia stato pubblicato,
ormai oltre 13 anni fa, un solo studio randomizzato di r-HuEPO vs placebo in pazienti con SMD
(42) e come, nonostante la enorme mole di lavori ed una esperienza clinica estesissima, nessuna di queste molecole abbia ancora ricevuto tale
specifica indicazione. Solo del tutto recentemente sono stati attivati studi registrativi per r-Hu-EPO
alfa e DPO.
In accordo con la recente revisione delle linee guida SIE/SIES/GITMO (43), gli ESA trovano quindi attualmente indicazione nelle fasi iniziali di
malattia in pazienti con SMD a rischio IPSS basso o intermedio-1, con livelli di emoglobina inferiori a 10 g/dl e di EPO endogena inferiori a 500
miu/ml. Le dosi di r-Hu EPO raccomandate sono
di 60-80.000 U sottocute per settimana (da prescrivere secondo la normativa vigente della legge 648), preferibilmente suddivise in due somministrazioni, anche se alcuni autori sottolineano come anche un trattamento iniziale con 40.000
U di r-HuEpo in singola dose settimanale possa
fornire una soddisfacente percentuale di risposte ad un costo inferiore (8). Per la DPO, la singola dose iniziale consigliata è di 300 mcg per
settimana (44). Occorre tuttavia ricordare che
quest’ultimo farmaco non è ad oggi incluso nella suddetta normativa nazionale regolatoria di prescrivibilità.
Sebbene la maggior parte delle risposte si osservi entro le prime 12 settimane di trattamento, alcuni dati indicano che la durata delle somministrazioni per testare la sensibilità del paziente al farmaco potrebbe essere elevata fino a 20-24 settimane, in considerazione di una possibile quota
di risposte tardive e di un miglioramento progressivo della qualità della risposta stessa. Un quadro di carenza funzionale di ferro in corso di trattamento con ESA, documentato da una percentuale di saturazione della transferrina inferiore al
20%, è evento inusuale ma possibile anche in
pazienti con SMD e può rappresentare, seppur
41
42
Seminari di Ematologia Oncologica
raramente, una possibile causa di apparente mancata efficacia. In tale situazione può essere necessario un supporto marziale. Occasionalmente
sono stati anche descritti casi di poliglobulia temporanea da eccesso di risposta.
Nei pazienti responsivi, il trattamento può essere continuato fintantoché rimane efficace. Il target di emoglobina da raggiungere non dovrebbe
comunque superare i 12 g/dl, al fine di ridurre la
possibilità di eventi trombotici. Una volta raggiunto il miglior risultato ottenibile, la modalità di somministrazione (dose e schedula) dovrebbero
essere modificate in modo tale da fornire la minor
quantità di farmaco efficace per mantenere la
risposta ottenuta. È raccomandabile una rivalutazione periodica dell’aspirato midollare e, laddove necessario, della biopsia ossea, soprattutto nei
casi di perdita della risposta clinica oppure di peggioramento repentino o progressivo del quadro
anemico.
La combinazione di ESA con G-CSF non è in
genere raccomandata, ma potrebbe essere presa occasionalmente in considerazione in pazienti senza (o con minimo) fabbisogno trasfusiona-
le, con livelli di EPO endogena inferiore a 500
miu/ml, non responsivi ad un trattamento con ESA
effettuato a dosaggi e per tempi adeguati, specie in casi di anemia sideroblastica.
Per quanto attiene i fattori di crescita non eritroidi, una possibile indicazione può essere rappresentata dall’utilizzo, per brevi periodi, di dosi
modulate di G-CSF in pazienti mielodisplastici gravemente neutropenici, con infezioni documentate e ricorrenti, mentre l’uso di agenti trombopoietici come romiplostim o eltrombopag nelle SMD
piastrinopeniche è attualmente ancora in corso di
validazione e deve essere limitato a pazienti inseriti in trials clinici.
La tabella 1 sintetizza i principali aspetti pratici dell’uso dei fattori di crescita emopoietici nelle SMD.
n IMMUNOMODULANTI
Gli Immunomodulanti o IMIDS della letteratura
anglosassone (talidomide e lenalidomide) sono
agenti dotati di una complessa e ancora non del
tutto chiarita serie di attività biologiche pleiotro-
ESA:
• Indicazioni: fasi iniziali di malattia in pazienti a rischio IPSS basso o intermedio-1, con livelli di emoglobina inferiori a 10
g/dl e di EPO endogena inferiori a 500 miu/ml.
• Dosi: r-Hu-Epo 60-80.000 U sottocute per settimana; DPO 300 mcg per settimana, in singola dose.
• Percentuali e durata della risposta: fino a circa il 60% dei pazienti trattati può ottenere una risposta eritroide nel “setting” raccomandato, di durata variabile (da poche settimane ad alcuni anni); la sospensione del farmaco determina in
genere la perdita della risposta.
• Durata del trattamento: la risposta è ottenuta nella maggior parte dei casi generalmente entro le 12 settimane; successivamente il trattamento può essere continuato, se tollerato, fino a perdita di efficacia.
• Supplementazione marziale: indicata nei casi di documentata carenza funzionale di ferro.
• Target terapeutico ottimale: Hb 12 g/dl, successivamente modulare dosi e schedula per fornire la minor quantità possibile di farmaco sufficiente per mantenere la risposta ottenuta.
• Monitoraggio: emocromo settimanale nelle prime fasi di trattamento, poi controlli mensili. Rivalutazione midollare periodica nei casi di perdita della risposta clinica oppure di peggioramento repentino o progressivo del quadro anemico.
• Safety: l’utilizzo di ESA è generalmente ben tollerato, non incrementa il rischio trombotico o quello di trasformazione leucemica; può essere associato, nei pazienti responsivi, ad una migliore prognosi.
G-CSF:
• Generalmente non raccomandati l’associazione con ESA e il trattamento a lungo termine; può essere utile l’utilizzo come
agente singolo, per brevi periodi, in pazienti gravemente neutropenici, con infezioni documentate e ricorrenti.
Agenti trombopoietici (Romiplostim, Eltrombopag):
• Uso attualmente in corso di validazione, da limitare a pazienti inseriti in studi clinici.
TABELLA 1 - Gestione del trattamento con ESA e altri fattori di crescita emopoietici nelle SMD.
Sindromi melodisplastiche
piche, variamente esercitate sui processi di regolazione immunologica, proliferazione, differenziazione, apoptosi e angiogenesi cellulare e, in particolare, sull’emopoiesi normale e neoplastica e
sul microambiente midollare.
Queste caratteristiche ne hanno suggerito l’impiego nell’ambito di numerose emopatie, ivi incluse
le SMD (45, 46).
Talidomide
Una recente metanalisi ha analizzato 527 pazienti con SMD trattati con talidomide. Globalmente,
la media di risposte è stata del 43%, con un ampio
range di efficacia (9-56%, su base intention-to-treat) (47). In gran parte dei casi trattati la risposta
era rappresentata da un significativo miglioramento dei livelli di emoglobina, con riduzione o interruzione completa del fabbisogno trasfusionale di
emazie. La risposta, in genere ottenuta dopo 812 settimane di trattamento, non era correlata alla
dose di farmaco somministrata. In due studi è stato evidenziato un possibile vantaggio di sopravvivenza nei pazienti trattati con talidomide (48, 49).
Il principale problema dell’uso della talidomide nei
pazienti con SMD è rappresentato dall’elevata frequenza di effetti collaterali, anche severi (neuropatia periferica, sedazione, stipsi, sonnolenza,
astenia, bradicardia ed esantemi cutanei); questi
sono causa di interruzione precoce del trattamento, pur in presenza di una risposta favorevole, in
un’alta percentuale di pazienti, in particolare in
quelli anziani o trattati con elevati dosaggi di farmaco, non consentendo, di fatto, una modalità
di trattamento continuativa accettabile.
Sulla scorta dei dati disponibili in letteratura è tuttavia possibile che questo farmaco possa ancora rappresentare un’opzione terapeutica se utilizzato a basso dosaggio (50-100 mg/die) per almeno 12 settimane in pazienti selezionati, con una
recente diagnosi di SMD, trasfusione-dipendenti, a rischio IPSS basso o intermedio-1, senza citopenie aggiuntive e non candidabili a terapia con
lenalidomide o ESA (43). La profilassi anti-trombotica non è raccomandata, in assenza di fattori di rischio aggiuntivi. In considerazione dell’elevato grado di teratogenicità del farmaco, l’utilizzo della talidomide (tuttora non approvata nell’indicazione SMD) dovrebbe essere effettuato nell’ambito di programmi di sorveglianza.
Lenalidomide
Il primo studio di fase II sulla lenalidomide nelle
SMD (MDS-001) è stato condotto in 43 pazienti
con IPSS prevalentemente a rischio basso o intermedio-1, utilizzando dosi giornaliere di 10 o 25
mg/die o di 10 mg/die per 21 giorni al mese (50).
Il 56% dei pazienti ha ottenuto, entro 12 settimane, una risposta eritroide, prevalentemente maggiore secondo i criteri IWG (51, 52) e, quindi, con
interruzione del fabbisogno trasfusionale. In un terzo circa dei pazienti, la risposta ha avuto una durata superiore a 4 anni, con una mediana non raggiunta dopo un follow-up mediano di 81 settimane.
Il dato più interessante emerso da questo studio
è stata la stretta correlazione fra risposta al trattamento e la presenza di delezione interstiziale del
braccio lungo del cromosoma 5 [del(5q) o 5q-]:
in 12 pazienti con tale anomalia citogenetica, infatti, la percentuale di risposte eritroidi è stata pari
all’83%, con il 75% dei pazienti che ha ottenuto
una remissione citogenetica completa. Una risposta prolungata era comunque osservata anche in
presenza della persistenza della del(5q) in alcuni
dei pazienti che manifestavano tale anomalia all’ingresso nello studio (53). Altro dato emerso è stata la rilevante tossicità midollare (neutropenia e
piastrinopenia), osservata in circa due terzi dei
pazienti trattati, in particolare in quelli che avevano ricevuto la dose continuativa di 25 mg/die.
Sulla scorta di questi risultati, sono stati successivamente condotti altri due trial internazionali con
lenalidomide, entrambi alla dose di 10 mg al giorno (continuativa o per 21 giorni ogni 4 settimane), focalizzati su pazienti con SMD trasfusionedipendenti, prevalentemente con anemia refrattaria e con punteggio IPSS basso o intermedio1, rispettivamente con (MDS-003) o senza (MDS002) l’anomalia citogenetica del(5q).
Nello studio MDS-003 (54), effettuato su 148
pazienti con del(5q) isolata o associata ad altre
anomalie citogenetiche, la maggior parte dei quali non responsivi a r-Hu EPO, è stata ottenuta una
percentuale di risposte eritroidi pari al 76%, con
indipendenza dalle trasfusioni nel 67% dei casi.
Il tempo mediano alla risposta era di 4,6 settimane e l’incremento medio di emoglobina nei soggetti responsivi era di 5,4 g/dl. La percentuale di
risposte non è risultata diversa nei pazienti con
43
Seminari di Ematologia Oncologica
del(5q) isolata oppure associata a un’altra singola anomalia citogenetica o nell’ambito di un cariotipo complesso. Analogamente, le risposte citogenetiche globali (73%) e complete (45%) non differivano in questi tre gruppi di pazienti. Il 36% dei
pazienti ha anche evidenziato una remissione istomorfologica, che risultava sempre associata a una
risposta citogenetica completa. All’analisi multivariata, la presenza di piastrinopenia pre-trattamento ha condizionato negativamente la percentuale di risposte eritroidi e citogenetiche, verosimilmente a causa delle necessarie riduzioni della dose e della durata del trattamento con lenalidomide. Con un follow-up di 104 settimane, la
mediana di durata della trasfusione-indipendenza non è stata raggiunta, con 61 dei 99 pazienti
divenuti trasfusione-dipendenti ancora non necessitanti di supporto dopo un anno di terapia.
Una tossicità midollare di grado 3-4 (neutropenia
e/o piastrinopenia) è stata confermata in circa la
metà dei pazienti trattati. In particolare, i casi di
neutropenia più grave si sono verificati nei soggetti che avevano ricevuto la somministrazione
quotidiana e senza interruzione del farmaco. Solo
il 3% dei pazienti trattati ha evidenziato complicanze tromboemboliche. Esantemi cutanei, astenia, prurito, diarrea e nausea sono stati osservati in una minoranza dei casi (<3%).
Lo studio di fase II MDS-002 è stato condotto
usando le medesime dosi di lenalidomide in 214
pazienti mielodisplastici trasfusione-dipendenti,
senza anomalie del cromosoma 5 (55). Il 78% dei
pazienti presentava un punteggio IPSS basso o
INT-1. Il 26% dei pazienti trattati ha ottenuto una
risposta eritroide con indipendenza completa
100
% pazienti trasfusione-indipenenti
44
dalle trasfusioni (incremento mediano di emoglobina di 3,2 g/dl), con un tempo mediano alla
risposta di 4,8 settimane e una durata di risposta di 41 settimane. Un ulteriore 17% di pazienti ha manifestato una riduzione del fabbisogno
trasfusionale >50% (risposte eritroidi totali 43%),
senza significative differenze in base all’IPSS, al
citotipo FAB o al cariotipo. Nove dei 47 pazienti con anomalie del cariotipo hanno ottenuto una
risposta citogenetica (20%), in 4 casi (9%) completa. Con un follow-up mediano di 58 settimane, la durata della trasfusione-indipendenza è
stata di 41 settimane. Neutropenia e piastrinopenia di grado 3-4 sono state osservate nel 30%
e nel 25% dei pazienti, rispettivamente. I risultati di questo trial hanno dunque evidenziato una
risposta eritroide e citogenetica, una durata della risposta, ma anche una tossicità ematologica significativamente inferiori rispetto a quanto
osservato negli studi condotti in pazienti con
del5q (Figura 3, Tabella 2).
È attualmente in corso in Europa e negli USA uno
studio di fase 3, controllato con placebo, che confronta dosi di 5 e 10 mg di lenalidomide vs placebo in pazienti a basso rischio senza del(5q)
(MDS-005).
Sulla scorta di questi dati, la Food and Drug
Administration (FDA) statunitense ha approvato nel
dicembre 2005 l’uso della lenalidomide esclusivamente per i pazienti affetti da SMD trasfusione-dipendente, a rischio IPSS basso o intermedio-1, con del(5q) isolata o associata ad altre anomalie del cariotipo.
Successivamente alla approvazione FDA, sono
stati riportati i dati relativi ad uno studio multicen-
Censorizzati
90
80
MDS-003 (del5q)
70
60
50
MDS-002 (non del5q)
40
30
20
10
0
0
25
50
75
Settimane
100
125
150
FIGURA 3 - Durata della trasfusione-indipendenza nei pazienti responsivi a lenalidomide negli studi MDS-003 (con del5q)
e MDS-002 (senza del5q) (54, 55).
Sindromi melodisplastiche
trico francese che ha valutato efficacia e safety
della lenalidomide (10 mg al di per 21 giorni al
mese) utilizzata per uso compassionevole (e,
quindi, nella pratica clinica quotidiana), in 95
pazienti (età mediana 70,4 anni) con SMD e
del(5q), a rischio IPSS basso (30%) o intermedio-1 (70%) (56). Il 38% dei pazienti presentava
una sindrome del 5q-, secondo la classificazione WHO (57), due terzi erano in precedenza stati trattati con ESA. La del(5q) era presente come
unica anomalia, associata ad un’altra singola alterazione citogenetica o nel contesto di un cariotipo complesso nel 79%, 14%, e 6%, rispettivamente. I pazienti ricevevano il farmaco per almeno 16 settimane e il trattamento proseguiva in
quelli che evidenziavano almeno una risposta
minore secondo i criteri IWG 2000 (51), fino a per-
dita della risposta, progressione di malattia o tossicità non gestibile.
Con un follow-up mediano di 18,5 mesi, la durata mediana di trattamento è stata di 183 giorni
(range 3-1029+). Una risposta eritroide, valutata
secondo i criteri IWG 2006 (52), è stata osservata nel 65% dei pazienti trattati (il 63% interrompeva il supporto trasfusionale), con un tempo
mediano alla trasfusione-indipendenza di 16 settimane (range 8-33). La differenza con gli studi
precedenti per quest’ultimo parametro era dovuta essenzialmente ai diversi criteri utilizzati per la
definizione del tempo alla trasfusione-indipendenza utilizzati.
Una risposta citogenetica fu osservata in 9 dei 15
pazienti rispondenti testati (6 risposte parziali,
40%, e 3 risposte complete, 20%). Fattori pre-
Talidomide:
• Possibili indicazioni: SMD di recente diagnosi, trasfusione-dipendenti, a rischio IPSS basso o intermedio-1, senza citopenie aggiuntive e non candidabili (o non responsivi) a terapia con lenalidomide o ESA.
• Dosi: basso dosaggio (50-100 mg/die); se non tollerato anche 50 mg a di alterni possono essere efficaci.
• Principali effetti collaterali: frequenti, specie in pazienti anziani e con dosaggi superiori a 100 mg/die: neuropatia periferica, sedazione, stipsi, sonnolenza, astenia, bradicardia, ed esantemi cutanei.
• Target terapeutico ottimale: trasfusione indipendenza; ottenibile se utilizzata a basso dosaggio e in pazienti selezionati,
in circa il 40% dei casi.
• Durata trattamento: almeno 8-12 settimane; se c’è risposta continuare al minimo dosaggio tollerato.
• Precauzioni: profilassi anti-trombotica non raccomandata, in assenza di fattori di rischio aggiuntivi; programma di sorveglianza per prevenzione gravidanza.
Lenalidomide:
• Indicazioni: pazienti con SMD a rischio IPSS basso o intermedio-1, trasfusione dipendenti e con del(5q), isolata o in combinazione con altre anomalie citogenetiche aggiuntive. Trattamento attualmente non raccomandato per pazienti a rischio
IPSS intermedio-2 o alto con del(5q), o a rischio basso/intermedio-1, senza del(5q).
• Dosi: inizialmente 10 mg al di per 21 giorni al mese, con interruzione/aggiustamento dose in caso di citopenia. G-CSF
in caso di neutropenia severa prolungata. Anche i 5 mg possono rappresentare un efficace trattamento. Modulare la
dose in relazione alla funzionalità renale.
• Target terapeutico ottimale: trasfusione indipendenza e remissione citogenetica, ottenibili rispettivamente nel 60-70% e
50-60% dei casi.
• Durata della risposta: in genere superiore ai due anni, con possibilità di risposte prolungate anche dopo sospensione
del farmaco.
• Durata del trattamento: attualmente non ben codificata; inizialmente programmare almeno 4 cicli per testare la sensibilità; se la terapia è efficace e tollerata, possibile un trattamento continuativo fino a progressione; in alternativa considerare una sospensione dopo aver ottenuto una remissione citogenetica completa prolungata (12 mesi).
• Effetti collaterali principali: mielotossicità (neutropenia fino al 70%, piastrinopenia 30-40%); rari DVT e tossicità cutanee.
• Monitoraggio: controllo emocromo e funzionalità renale almeno settimanale nelle prime 8 settimane di trattamento, poi
a intervalli di 2-3 settimane. Valutazione periodica midollo osseo e cariotipo.
• Precauzioni: profilassi anti-trombotica non raccomandata, in assenza di fattori di rischio aggiuntivi; attivare un programma di sorveglianza per prevenzione gravidanza.
TABELLA 2 - Gestione del trattamento con Immunomodulanti nelle SMD.
45
46
Seminari di Ematologia Oncologica
dittivi per l’ottenimento della trasfusione indipendenza erano rappresentati da un numero di piastrine al baseline superiore a 150.000/µl ed una
riduzione di almeno il 50% della conta piastrinica nel corso della prima settimana di trattamento. Una evoluzione leucemica fu osservata in 6
pazienti (6,3%). La dose media giornaliera di mantenimento di lenalidomide somministrata fu di 5,3
mg (range 1,7-7,5). Undici (18%) dei pazienti con
risposta completa sono recidivati dopo 1,5-22,2
mesi (mediana 14,4), mentre 50 sono rimasti
rispondenti dopo una mediana 20,5 mesi (range
4+ to 33+). In questo studio, il 92,5% ed il 77%
dei pazienti sono rimasti liberi da necessità trasfusionali, rispettivamente dopo 1 e 2 anni.
Globalmente, con un follow-up mediano di 80 settimane, la mediana della durata di risposta non
è stata raggiunta.
I dati sulla tossicità ematologica di grado 3-4 (neutropenia 74%, 3 i morti per sepsi; piastrinopenia
37,9%, una morte per emorragia cerebrale), sono
risultati sostanzialmente in linea con gli studi precedenti. La percentuale di trombosi venose profonde osservate è stata del 9,5%, più marcata nelle pazienti che raggiungevano livelli di emoglobina >13 g/dl e, soprattutto, nei soggetti con una
riduzione del numero di piastrine inferiore al 50%
nel corso del trattamento.
Di particolare rilevanza appare lo studio randomizzato internazionale di fase III MDS-004 (58),
controllato con placebo, recentemente concluso e valutato su 139 pazienti mielodisplastici trasfusione-dipendenti con sindrome del(5q) a
rischio IPSS basso (49%) o intermedio-1(51%)
arruolati ed effettivamente trattati con lenalidomide 10 mg (n. 41), 5 mg (n. 47) o placebo (n.
51) per 21 giorni al mese. Lo studio prevedeva
la successiva possibilità di cross-over in una fase
aperta di terapia attiva fino a 3 anni nei pazienti trattati con placebo o con lenalidomide 5 mg,
non rispondenti dopo 16 settimane di terapia. La
popolazione aveva un’età mediana di 69 anni, un
tempo mediano dalla diagnosi di 2,7 anni, un
rischio WPSS basso, intermedio o alto del
7,9%, 59% e 32,4%, rispettivamente ed evidenziava un pregresso trattamento con r-Hu-EPO nel
52% dei casi. L’anomalia del(5q) risultava isolata nel 76,3% dei pazienti e associata ad una o
più alterazioni citogenetiche aggiuntive nella
restante popolazione. Circa la metà dei pazienti presentava una classica sindrome del5q-, la
restante metà era variamente distribuita nell’ambito dei rimanenti citotipi WHO (57).
Tre quarti dei pazienti trattati con lenalidomide ha
ricevuto il farmaco per almeno 16 settimane, il
21,7% (5 mg) e il 42% (10 mg) per almeno un
anno. La percentuale di indipendenza dalle trasfusioni ottenuta è stata del 42,6/51,1% per i 5
mg e del 56,1/61% per i 10 mg (durata >26 settimane come end-point primario dello studio/criteri IWG 2000-2006, rispettivamente) (51, 52). La
differenza, non significativa fra i due gruppi trattati con lenalidomide, è risultata invece altamente significativa, per entrambi i gruppi trattati, nei
confronti del placebo (p<0,001). L’incremento
mediano dei livelli di emoglobina era di 6,3 g/dl
per i 10 mg e 5,2 g/dl per i 5 mg. Circa la metà
dei pazienti rispondeva dopo un ciclo, un terzo
dopo il secondo ciclo, mentre meno del 10%
rispondeva dopo 4 cicli. La durata mediana globale di trasfusione-indipendenza dei pazienti trattati con lenalidomide non è stata raggiunta dopo
un follow-up mediano di 18,6 mesi in entrambi i
gruppi trattati (5 e 10 mg) con lenalidomide. Una
risposta citogenetica era ottenuta nel 50% dei
pazienti trattati con 10 mg (29,4% complete) e nel
25% (15,6% complete) di quelli che avevano ricevuto 5 mg (p 0,06).
La comparsa di nuove alterazioni citogenetiche fu
osservata nel 23,5%, 31,3% e 14,3% dei pazienti rispettivamente trattati con 10 mg, 5 mg o placebo. Il tempo mediano alla progressione citogenetica fu di circa 3 mesi in tutti e tre i gruppi. I
pazienti con livelli basali di EPO endogena >500
miu/l ottenevano la trasfusione-indipendenza più
frequentemente se trattati con i 10 mg, mentre non
si osservavano differenze fra i due dosaggi in relazione a età, sesso, classificazione FAB/WHO, score prognostico IPSS/WPSS, tempo dalla diagnosi, precedente uso di r-Hu-EPO, del5q isolata vs
del5q combinata con una o più alterazioni citogenetiche addizionali, fabbisogno trasfusionale, conta piastrinica. Fattori predittivi per il raggiungimento della trasfusione-indipendenza >26 settimane
erano rappresentati da una conta piastrinica
>150.000/µl ed un tempo dalla diagnosi >2 anni.
Per i pazienti trattati con lenalidomide la sopravvivenza globale a tre anni e il rischio di trasfor-
Sindromi melodisplastiche
mazione leucemica risultavano rispettivamente
del 56,5% e del 25,1%. Non si osservavano differenze in termini di tempo all’evoluzione leucemica (30,9 mesi placebo, 31,8 mesi 5 mg, 36,1
mesi 10 mg) e sopravvivenza globale (42,4 mesi
placebo, >35,5 mesi per i 5 mg e 44,5 mesi per
i 10 mg) fra i tre gruppi di pazienti: l’ottenimento della indipendenza trasfusionale, ma non la
remissione citogenetica, influenzavano però in
maniera positiva sia la sopravvivenza globale che
il tempo alla trasformazione leucemica, con un
riduzione del rischio del 42% e del 47%, rispettivamente. Sostanzialmente comparabile fra i due
dosaggi risultava la tossicità ematologica di grado 3-4 (73,9% vs 75.4% la neutropenia, 33,3%
vs 40,6% la trombocitopenia) e l’incidenza di
eventi trombotici (1,4% vs 5,8%), con un tasso
di riduzione dose/interruzione temporanea del
55,1-52,2/46,4%-29% nel braccio con 10 e 5 mg,
rispettivamente. La sospensione del trattamento fu invece necessaria nell'8,7% del gruppo 10
mg, nel 17,4% nel gruppo 5 mg e nell'1,4% nel
gruppo placebo. Questionari del tipo FACT-An
documentavano un significativo incremento dei
livelli di qualità di vita nei pazienti responsivi, con
una significativa correlazione con l’incremento dei
valori di emoglobina. Gli autori di questo studio
concludevano che un trattamento con lenalidomide alla dose iniziale di 10 mg al di per 21 giorni al mese, con le eventuali riduzioni posologiche necessarie in corso di terapia, è fattibile, ha
un accettabile profilo di tossicità, induce indipendenza trasfusionale e risposte citogenetiche
durevoli in una rilevante quota di pazienti con
SMD a rischio basso o intermedio con del(5q),
migliora la qualità di vita e riduce il rischio di morte e di trasformazione leucemica nei soggetti
responsivi.
Decisamente meno soddisfacenti i risultati ottenuti nei pazienti con SMD ad alto rischio con presenza di del(5q) (59). In uno studio di fase 2 condotto in questo specifico subset, una risposta
eritroide secondo i criteri IWG a 10 mg di lenalidomide al di per 3 settimane al mese è stata
osservata nel 27% di 47 pazienti trattati (prevalentemente anemie refrattarie con eccesso di blasti e forme leucemiche con blastosi midollare del
20-30%), con ottenimento di 7 remissioni complete (RC), due risposte midollari e 4 migliora-
menti eritroidi. Dodici pazienti (25%) hanno raggiunto la trasfusione-indipendenza, la cui durata mediana è stata di 6,5 mesi. Cinque sono state le risposte citogenetiche complete ottenute,
4 le parziali. La durata mediana della RC è stata di 11,5 mesi. Le risposte sono state osservate pressoché esclusivamente nei pazienti che
presentavano la sindrome del(5q) come singola alterazione citogenetica e con numero di piastrine >100.000 µl. Dosi maggiori di lenalidomide (fino a 30 mg al di) hanno indotto risposte
citogenetiche ed ematologiche parziali in 4/14
pazienti con SMD ad alto rischio con anomalie
citogenetiche del cromosoma 5, in assenza di
mutazione di P53 (60).
Sono attualmente in corso trials clinici tesi a valutare l’efficacia dell’associazione di lenalidomide
con altri agenti, in particolare con ESA (61), sulla base di specifici profili di espressione genica
correlati alla differenziazione eritroide, anche in
assenza di sindrome del(5q) (62), e con azacitidina, per pazienti ad alto rischio, di cui sono già
disponibili interessanti dati preliminari (62, 63).
- Meccanismi molecolari. Al di là delle già descritte attività pleiotropiche sul microambiente midollare (64, 65), è ormai evidente che la lenalidomide è in grado di esercitare un importante effetto diretto sul clone neoplastico. Sono stati in particolare identificati alcuni geni oncosoppressori,
dotati di attività protein-chinasica modulante i processi apoptosici o codificanti per proteine ribosomiali o, ancora, con attività fosfatasica regolanti il ciclo cellulare (in particolare SPARC,
CSNK1A1, activina A e RPS14, Cdc25C e
PP2Acalpha) potenzialmente coinvolti, con meccanismi di aploinsufficienza, nella patogenesi delle SMD con del(5q) e, in particolare, della sindrome del5q- (66-69). La loro riattivazione, indotta
dalla lenalidomide, potrebbe essere alla base della sensibilità al trattamento di questi pazienti, fornendo in tal modo un nuovo possibile esempio
di targeted-therapy molecolare. Sebbene sia
immaginabile, nella patogenesi mielodisplastica
con coinvolgimento del(5q), un network plurigenomico verosimilmente più complesso, è rilevante notare come uno studio italiano abbia confermato in vivo la capacità della lenalidomide di
ripristinare l’attività deficitaria di uno di questi geni,
RPS14, in pazienti con SMD a basso rischio con
47
48
Seminari di Ematologia Oncologica
del(5q), correlandola con la risposta al trattamento (70).
- Tossicità, monitoraggio e terapia a lungo termine. La tossicità ematologica rappresenta, come
ricordato, il principale problema della terapia con
lenalidomide. Essa comporta la frequente necessità di aggiustamenti posologici e, talora, di una
possibile interruzione del trattamento in una quota non trascurabile di pazienti. In proposito sono
stati anche occasionalmente descritti decessi a
seguito di sepsi in pazienti neutropenici in terapia con lenalidomide. È dunque importante un
monitoraggio ematologico costante, specie nelle prime settimane di trattamento, con sospensioni temporanee della terapia in caso di neutropenia sotto i 500 µl e/o piastrinopenia sotto le
25.000 µl; la eventuale ripresa del trattamento va
effettuata al recupero dei neutrofili (>1.000 µl) e
delle piastrine (>50.000 µl), riducendo il dosaggio iniziale e integrandolo, se necessario, con la
somministrazione di G-CSF (71). Va considerato,
peraltro, che la comparsa di tossicità ematologica in corso di trattamento con lenalidomide, e in
particolare di piastrinopenia, è risultata associata ad una maggiore probabilità di risposta (72).
Contrariamente a quanto osservato nel mieloma,
gli eventi trombo-embolici sono risultati rari e, pertanto, una profilassi antitrombotica non viene in
genere raccomandata in pazienti con SMD che
assumono lenalidomide senza fattori di rischio
aggiuntivo. Un recente studio post-marketing ha
analizzato 7.764 pazienti con SMD trattati con
lenalidomide, di cui solo lo 0,53% ha sviluppato
una complicanza trombotica (73); l’associazione
di lenalidomide e r-HuEPO è risultata tuttavia maggiormente associata alla possibilità di tale complicanza (circa il 5%).
La lenalidomide viene prevalentemente eliminata per via renale; sono dunque necessari, soprattutto nelle fasi iniziali del trattamento, un attento
monitoraggio della funzionalità d’organo ed eventuali aggiustamenti del dosaggio in pazienti con
valori di creatinina elevati e/o ridotta clearance (71).
Una adeguata gestione della dose e della schedula permette comunque la somministrazione del
farmaco anche in soggetti con severa compromissione renale (74).
Il Farmaco è teratogeno, pertanto sono raccomandati test di gravidanza ravvicinati prima e duran-
te il trattamento con lenalidomide nelle donne in
età fertile e appropriati metodi anticoncezionali per
i pazienti e i loro partner, nell’ambito di un programma di controllo simile a quello utilizzato per
la talidomide.
Attualmente la lenalidomide è prescrivibile in Italia
per le SMD attraverso la normativa 648, nelle indicazioni già accettate dalla FDA. Questa molecola, tuttavia, non ha ancora ottenuto l’approvazione ufficiale dell’EMA, soprattutto in virtù di alcune perplessità riguardanti la safety del farmaco
e, specificamente, la possibile correlazione con
un incremento del rischio di evoluzione clonale
e di trasformazione leucemica, in particolare in
pazienti che non ottengono risposte ematologiche e citogenetiche (75). In questo contesto, sembrerebbero giocare un possibile ruolo fenomeni
di accorciamento telomerico (76) e la presenza
di mutazioni di TP53 (77). Tuttavia, il confronto storico con casistiche comparabili per caratteristiche cliniche ma non trattate con lenalidomide, ha
evidenziato una sostanziale equivalenza in termini di percentuali di pazienti con SMD a rischio
basso o intermedio-1 con del5q evoluti in leucemia mieloide acuta (LMA) (16-23% dello studio
MDS-003 vs 12-28% nei pazienti del database
IPSS vs 11-35% nei pazienti del database
WPSS vs 24% nel registro di Dusseldorf)
(Celgene, dati su file). A tale proposito, una subanalisi del recente e già citato studio compassionevole francese (56, 78) ha utilizzato un approccio statistico basato sul propensity score, che
consente di correggere eventuali fattori confondenti nella valutazione di comparazioni non randomizzate. Questa analisi ha evidenziato una incidenza cumulativa stimata di progressione leucemica a 4 anni pari al 9% in 71 pazienti con SMD
e del(5q) trattati con lenalidomide e del 15,8% in
un analogo gruppo di controlli storici, sostanzialmente comparabili per caratteristiche clinico-biologiche, ma mai trattati con lenalidomide (p 0,16).
La sopravvivenza mediana è stata di 150 mesi nei
pazienti trattati con lenalidomide e di 78 mesi nei
controlli (p 0,06), con il 67% dei pazienti trattati
con lenalidomide e il 73% di quelli non trattati vivi
a 4 anni (p 0,15) (78).
Nel trial randomizzato MDS-004, la percentuale
di progressione leucemica è stata del 30,4%, nei
pazienti inizialmente trattati con placebo (ma poi
Sindromi melodisplastiche
passati al trattamento con lenalidomide) e pari al
23,2% e 21,7% in quelli che avevano ricevuto dall’inizio rispettivamente 5 o 10 mg di lenalidomide (58). Non è in realtà agevole comparare questi dati con quelli di studi precedenti condotti in
popolazioni del(5q) non trattate con lenalidomide a causa dell’eterogeneità delle terapie alternative ricevute, dei diversi tempi e criteri di valutazione e, soprattutto, del differente impatto prognostico di anomalie citogenetiche aggiuntive (79)
e della percentuale di blasti midollari (80). Anche
questo studio, tuttavia, sembrerebbe non evidenziare un rischio leucemico più elevato in pazienti con SMD trattati con lenalidomide.
Sulla scorta dei dati di letteratura oggi pubblicati, le linee guida della SIE, SIES e GITMO (43)
attualmente raccomandano un trattamento di prima linea con lenalidomide alle dosi di 5-10 mg
al di per 21 giorni al mese in pazienti con SMD
a rischio IPSS basso o intermedio-1, trasfusione
dipendenti e con del(5q), isolata o in combinazione con altre anomalie citogenetiche aggiuntive,
preferibilmente nell’ambito di studi clinici o di registri nazionali (43). La lenalidomide non è invece
raccomandata, se non all’interno di studi clinici,
per i pazienti a rischio IPSS intermedio-2 o alto
con del(5q), o a rischio basso/intermedio-1, senza del(5q). Questa indicazioni sono essenzialmente condivise dalle linee guida NCCN (41).
La durata del trattamento non è attualmente codificata con certezza di dati. In assenza di segni
di progressione di malattia o di chiara selezione
clonale, è possibile ipotizzare una terapia continuativa nei pazienti che hanno ottenuto una risposta ematologica, specie se associata and una
remissione citogenetica, possibilmente riducendo la dose alla quantità minima efficace per mantenere la risposta e monitorando periodicamente midollo osseo e cariotipo. D’altra parte, è stata riportata la possibilità che trattamenti con lenalidomide anche di breve o brevissima durata possano indurre risposte protratte, pur in assenza di
una risposta citogenetica completa (56, 81-84).
Sebbene non esistano in proposito dati consolidati, una eventuale interruzione del trattamento viene da alcuni ritenuta una opzione praticabile, preferibilmente in pazienti che hanno proseguito il trattamento per almeno un anno dopo
N. pazienti
Risposta
globale
Indipendenza
dalle
trasfusioni
(IT)
Tempo
alla risposta
Aumento
Hb
Risposta
citogenetica
(completa)
Durata
media IT
Neutropiastrinopenia
grado ≥3
del(5q)
Low/Int-1
MDS-003
148
76%
67%
4,6 sett.
5,4 g/dl
73%*
(45%)
NR**
Follow-up
mediano
2 anni
55-44%
del(5q)
Low/Int-1
ATU**
95
65%
63%
16 sett. (TI)
ND*
40% (20%)
NR**
Follow-up
mediano
18 mesi
74-38%
69 (5 mg/d)
69 (10 mg/d)
ND*
51%
61%
3,3 sett.
4,3 sett.
5.2
6.3
25% (16%)
50% (29%)
NR**
Follow-up
mediano
18.6 mesi
74-33%
75-41%
del(5q)
Int-2/Hgh
risk***
47
27%
25%
2-4 cicli
ND*
19% (10%)
25 sett.
76-79%
Non
del (5q)
MDS-002
215
43%
26%
4,8%
3,2 g/dl
20% (9%)
41 sett.
30-25%
del(5q)
Low/Int-1
MDS-004
*ND: non disponibile; ATU: programma compassionevole; **NR: non raggiunta; ***Risposte solo in pazienti con del5q
come singola anomalia e piastrine >100.000/mmc
FIGURA 4 - Risultati dei principali studi pubblicati sull’uso della lenalidomide nelle SMD.
49
50
Seminari di Ematologia Oncologica
l’ottenimento di una remissione citogenetica completa (81). Sono anche stati descritti casi in cui
la ripresa del trattamento per recidiva dopo interruzione ha reindotto una nuova risposta (1, 56).
Ciò che sembra certo, a testimonianza di una
mancata eradicazione di malattia, è la recente
dimostrazione della presenza di cellule staminali con del(5q) nei midolli di pazienti in remissione citogenetica completa dopo trattamento con
lenalidomide (85).
La tabella 2 sintetizza i principali aspetti pratici
dell’uso degli agenti immunomodulanti nelle
SMD. La figura 4 riporta i risultati dei principali
trials clinici con lenalidomide nelle SMD ad oggi
pubblicati.
n AGENTI IPOMETILANTI
È noto che i processi di metilazione del DNA sono
in grado di determinare alterazioni epigenetiche
potenzialmente reversibili del corredo cromatinico cellulare, che rappresentano uno dei principali meccanismi di modulazione funzionale dell’espressione genica (86). Questo processo, che
agisce senza modificare strutturalmente la
sequenza del DNA stesso, è fisiologicamente
importante per la regolazione dell’embriogenesi,
dell’imprinting e dei meccanismi di differenziazione cellulare. D’altra parte, molti tumori, incluse le
SMD, presentano una abnorme e diffusa condizione di ipermetilazione genica che, inducendo il
silenziamento epigenetico di geni onco-soppressori, facilita i processi di progressione neoplastica.
I farmaci ipometilanti o demetilanti sono analoghi sintetici in grado di sostituirsi ai residui nucleotidici di citosina e di impedire alle DNA metil-transferasi di attivare i meccanismi di metilazione cromatinica, inducendo la riattivazione e la trascrizione di geni importanti per il controllo inibitorio
della proliferazione tumorale (87). Azacitidina
(AZA) e decitabina (DEC) sono i due principali
agenti ipometilanti attualmente disponibili in clinica per il trattamento delle SMD. In realtà, il meccanismo d’azione di questi farmaci, in passato utilizzati a dosaggi più elevati per sfruttarne l’effetto citotossico, non è del tutto compreso ed è verosimile che essi svolgano la propria attività anti-
neoplastica anche attraverso vie alternative o
complementari, diverse da quelle di induzione della ipometilazione genica in vivo del DNA.
Azacitidina nei pazienti ad alto rischio
L’AZA è stata approvata negli USA nel 2004 dalla FDA per tutti i citotipi FAB (88), essenzialmente sulla base degli studi del CALGB (Cancer and
Leukemia Group B) (89), che avevano evidenziato una percentuale di risposte ad AZA inizialmente somministrata in infusione endovenosa (e.v)
continua e poi, essendone stata documentata
l’equivalenza dell’assorbimento, per via sottocutanea (s.c.), pari a circa il 50%, oltre metà delle
quali plurilineari.
Di particolare interesse erano i dati ottenuti nello studio 9221 (90), un trial randomizzato che paragonava l’AZA con la migliore (ma senza utilizzo
di fattori di crescita) terapia di supporto (best supportive care: BSC) in 191 pazienti con SMD prevalentemente a rischio intermedio-elevato e, in
minor misura, con rischio basso, ma con citopenia severa.
In questo studio la schedula dell’AZA prevedeva
la somministrazione di 75 mg/m2 s.c. per 7 giorni, ripetuta mensilmente. L’età media era 68 anni.
La RC si osservava nel 7% dei pazienti trattati con
AZA e la risposta globale, comprensiva anche di
remissioni parziali e miglioramenti ematologici
secondo i criteri IWG 2000 (51), era ottenuta nel
60%, rispetto al 5% dei pazienti nel braccio di
controllo (p<0,001). La durata mediana della risposta era di 15 mesi. Il tempo medio alla trasformazione in LMA o al decesso era di 21 mesi nei
pazienti trattati con AZA rispetto ai 12 mesi nel
braccio BSC (p<0,007).
In particolare, la trasformazione leucemica precoce (entro 6 mesi) si verificava solo nel 3% dei
pazienti trattati con AZA contro il 24% di quelli
inseriti nel braccio BSC (15% vs 38% il dato globale dello studio). I risultati hanno anche dimostrato la superiorità dell’AZA sulla BSC in termini di qualità della vita (91). Non si evidenziava, invece, un significativo vantaggio della sopravvivenza globale, probabilmente a causa del disegno
dello studio, che permetteva il cross-over al braccio AZA nei pazienti inizialmente trattati solo con
BSC. Una landmark-analysis indicava tuttavia
chiaramente un beneficio (18 mesi addizionali vs
Sindromi melodisplastiche
11 mesi nel braccio di controllo) per i pazienti inizialmente trattati con AZA o che avevano comunque ricevuto il farmaco entro 6 mesi dall’inclusione nello studio (P<0,003).
È stato dunque necessario condurre un secondo studio randomizzato (AZA-001), per confermare l’eventuale vantaggio dell’uso di AZA, in
pazienti con SMD a rischio elevato, anche in termini di sopravvivenza (92). I 358 pazienti arruolati presentavano una malattia più avanzata
rispetto al precedente trial CALGB 9221 e un’età
media di 69 anni. All’ingresso, sulla base del giudizio clinico del medico curante e prima della randomizzazione tra AZA e trattamenti alternativi, i
pazienti venivano assegnati ad uno tra tre regimi
di terapia convenzionale (conventional care regimens: CCR) ritenuti standard di riferimento:
BSC, basse dosi di citosina arabinoside (LDAC),
chemioterapia di induzione intensiva LMA-like
(schema 3+7). Successivamente, il paziente veniva randomizzato per AZA (con una schedula analoga a quella utilizzata per il programma CALGB
9221) o per il regime convenzionale preselezionato, senza possibilità di cross-over.
Il numero medio di cicli di AZA somministrata è
stato di nove (14 cicli nei rispondenti). In questo
studio il tasso di RC è stato del 17%, con una
percentuale di risposta globale pari al 49%. Per
la prima volta nella storia delle SMD, veniva evidenziato un miglioramento della sopravvivenza
mediana che risultava, globalmente, significativamente migliore nei pazienti trattati con AZA rispetto a CCR (24,5 vs 15 mesi, rispettivamente;
p=0,001). In particolare, a 2 anni, il 51% dei
pazienti trattati con AZA era vivo, rispetto al 26%
dei controlli. Inoltre, con AZA, la progressione a
LMA risultava significativamente ritardata; parimenti, la necessità di trasfusioni e il tasso di infezioni venivano significativamente ridotti. Il vantaggio di sopravvivenza con AZA era mantenuto
costantemente nei diversi sottogruppi, a prescindere, quindi, da età (compresi i pazienti di età
superiore ai 75 anni), sesso, performance status,
citotipo WHO, blasti midollari (inclusi i pazienti con
percentuale di blasti dal 20% al 30%, attualmente classificati come LMA utilizzando i criteri WHO)
(57), rischio IPSS o cariotipo. Il vantaggio risultava statisticamente significativo se l’AZA veniva
confrontata con BSC e, in particolare, con LDAC
(94), ma non con il gruppo di controllo sottoposto a chemioterapia (CT) intensiva, dove il numero di pazienti trattati era verosimilmente troppo piccolo per permettere un adeguato confronto.
Nello specifico, per i pazienti randomizzati con
AZA, contro BSC, la OS mediana è stata rispettivamente di 21,1 mesi contro 11,5 mesi
(p=0,0045); per i pazienti randomizzati ad AZA
contro LDAC, la sopravvivenza è stata di 24,5
mesi rispetto a 15,3 mesi (p=0,0006), mentre per
i pazienti randomizzati ad AZA rispetto alla CT
intensiva il confronto di sopravvivenza non ha
mostrato alcun beneficio per AZA, pur in presenza di un trend favorevole all’agente ipometilante
(24,5 mesi contro15,7 mesi, p=0,51).
Sulla base di questi dati anche l’EMA ha approvato l’uso di AZA, limitatamente ai pazienti a
rischio IPSS intermedio-2 o alto, ivi comprese
LMA con blasti midollari dal 20% al 30% (AREBt della classificazione FAB) e la leucemia mielomonocitica cronica non proliferativa, con meno del
30% di blasti midollari.
Nell’ambito di un trattamento con AZA in pazienti con SMD ad alto rischio, sono stati identificati
alcuni fattori predittivi negativi (precedente somministrazione di LDAC, elevata quota blastica
midollare o periferica, cariotipo sfavorevole, scarso performance status e rilevante fabbisogno trasfusionale), in grado di definire uno score prognostico (95). Analogamente, i livelli di LDH e un
rischio WPSS elevato (96), come pure la risposta
piastrinica dopo il primo ciclo (97) ed alcuni parametri molecolari, in particolare lo stato mutazionale di TET2 (98) e il riscontro di miR-29b (99),
sono risultati in grado di individuare sottogruppi
di pazienti con differenti possibilità di risposta e
di outcome clinico.
Azacitidina nei pazienti a basso rischio
Un trattamento con AZA può rappresentare una
opzione terapeutica anche per pazienti mielodisplastici a basso rischio (41, 43, 100).
In uno studio statunitense multicentrico, randomizzato, in aperto, condotto per valutare le risposte ematologiche a 3 differenti dosaggi di AZA
somministrata s.c. a 151 pazienti con SMD, 95
(63%) presentavano una malattia a basso rischio
in base alla classificazione FAB (101). Tre le schedule utilizzate:
51
52
Seminari di Ematologia Oncologica
a) 75 mg/m2/die sc per 5 giorni, seguita da 2 giorni di interruzione nel week-end e poi nuovamente da 75 mg/m2/die sc per altri 2 giorni (52-2);
b) 50 mg/m2/die sc per 5 giorni, seguita da 2 giorni di interruzione nel week-end, e poi da 50
mg/m2/die sc per altri 5 giorni (5-2-5);
c) 75 mg/m2/die sc per 5 giorni.
Tutti e tre gli schemi posologici inducevano una
risposta nel 50-75% dei pazienti con SMD a minor
rischio entro 6 cicli di trattamento, consentendo
di ottenere un miglioramento ematologico e/o l’indipendenza trasfusionale; il dosaggio di 75
mg/m2/die sc per 5 giorni risultava essere quello meglio tollerato.
Nel già citato studio CALGB 9221 (90), 27 dei 191
pazienti arruolati erano affetti da SMD a basso
rischio. Anche in questo gruppo di pazienti il trattamento con AZA ha dimostrato una significativa superiorità nei confronti della sola terapia di
supporto, consentendo di ottenere percentuali di
risposta più elevate, di migliorare la qualità della
vita, di ridurre il rischio di trasformazione leucemica, e di migliorare la sopravvivenza rispetto alla
sola terapia di supporto.
Un piccolo studio di fase II (102) ha utilizzato AZA
75 mg/m2 in infusione venosa giornaliera di 20
minuti per 5 giorni ogni 28 in pazienti con vari sottotipi di SMD, ottenendo risultati comparabili nei
9 pazienti con SMD a basso rischio e nei 19 con
forme a rischio più elevato.
Analogamente, una risposta globale del 43% è
stata ottenuta in 14 pazienti anemici con meno
del 10% di blasti midollari, trattati con AZA alla
dose di 50 mg/m2 tre volte a settimana per 2 settimane al mese (103).
Uno studio prospettico multicentrico italiano di fase
II ha utilizzato AZA alla dose standard di 75
mg/m2/die sc per 5 giorni ogni 4 settimane in 34
pazienti con SMD a basso rischio e anemia trasfusione-dipendente, non responsivi a r-Hu-EPO
o con grave trombocitopenia o neutropenia (104).
Lo schema ha ottenuto una risposta globale del
58% e una RC nel 19% dei casi. Alcuni pazienti
hanno mantenuto una risposta durevole anche
dopo la sospensione della terapia. Sono stati tuttavia osservati alcuni eventi avversi rilevanti in
pazienti molto anziani, con più comorbidità o con
neutropenia e/o trombocitopenia severe.
Uno studio multicentrico italiano (105) ha riportato i dati relativi a una analisi retrospettiva in 74
pazienti con SMD a rischio IPSS basso o intermedio-1, arruolati da 22 centri italiani in un programma di trattamento per uso nominale. L’AZA è stata utilizzata per via sottocutanea a dosaggi variabili di 75 mg/m2 o 100 mg a dose fissa per 5, 7 o
10 giorni al mese. Con un follow-up mediano di
15 mesi e una mediana di 7 cicli effettuati, la risposta globale è stata del 46% (51% nei pazienti trattati con almeno 4 cicli) e la sopravvivenza 71%
(96% nei pazienti responsivi). I risultati migliori sono
stati ottenuti nei pazienti trattati frontline, non trasfusione-dipendenti ed in quelli che non sospendevano il trattamento dopo la risposta. Non sono
state osservate differenze sostanziali in relazione
alle diverse schedule utilizzate.
Un gruppo spagnolo (106) ha effettuato un’analisi preliminare sui dati di 90 pazienti con SMD a
rischio IPSS basso o intermedio-1 raccolti nel corso di uno studio compassionevole retrospettivo
multicentrico del registro nazionale e condotto con
AZA per un numero mediano di 6 cicli secondo
3 possibili regimi terapeutici:
a) 75 mg/m2/die sc per 5 giorni;
b) 75 mg/m2/die sc per 5 giorni, seguita da 2 giorni di interruzione (week end) e successivi 75
mg/m2/die sc per altri 2 giorni;
c) 75 mg/m2/die sc per 7 giorni.
Con un follow-up mediano di 17 mesi, è stata riportata una risposta globale del 61%, con il 21% di
RC. La risposta e la sopravvivenza ad un anno sono
risultate comparabili fra i 3 gruppi di trattamento.
La tollerabilità del farmaco si è dimostrata in linea
con il relativo profilo già noto del prodotto.
Risultati sostanzialmente analoghi sono stati
riportati in 228 pazienti affetti da SMD a rischio
basso o intermedio-1 (il 69% dei pazienti di età
≥75 anni) inseriti nel registro VIDAZA (azacitidine
patient registry), uno studio osservazionale, di tipo
prospettico e multicentrico, che si propone di raccogliere i dati della pratica clinica nella storia naturale delle SMD trattate con AZA con varie schedule e dosaggi, sia per via sottocutanea che endovenosa (107).
Sulla base di questi dati, le linee guida SIE, SIES
e GITMO attualmente suggeriscono di considerare un trattamento con AZA anche in pazienti a
rischio IPSS basso o intermedio-1 severamente
Sindromi melodisplastiche
citopenici e sintomatici, non eleggibili per terapie
con ESA, lenalidomide o immunosoppressori e
che presentino una quota blastica midollare >5%
e/o un cariotipo sfavorevole (43). Attualmente,
però, l’AZA non è approvata dall’EMA nelle SMD
a basso rischio.
Decitabina
La DEC ha avuto uno sviluppo parallelo a quello
dell’AZA negli Stati Uniti (108).
Un’analisi cumulativa di tre studi europei ed uno
americano di fase II ha valutato l’efficacia di basse dosi di DEC in 177 pazienti con SMD, con età
media di 70 anni (109). La risposta globale è stata del 49% (24% di RC, 10% remissione parziale, 15% miglioramento ematologico), con un 20%
aggiuntivo di stabilizzazione della malattia. La
durata mediana della risposta era 36 settimane,
la sopravvivenza mediana 15 mesi, con il 31%
dei pazienti vivi a 2 anni. La mortalità da trattamento raggiungeva il 7%. Nel periodo di terapia
il 18% dei pazienti manifestava una trasformazione leucemica.
Livelli elevati di LDH ed un’età >75 anni correlavano con una minore sopravvivenza. Il trattamento migliorava la sopravvivenza nei pazienti a
rischio più elevato, in particolare in quelli con
cariotipo sfavorevole, rispetto all’outcome atteso in base al rischio IPSS. La tossicità risultava
accettabile.
La DEC è stata successivamente approvata dalla FDA sulla base di uno studio randomizzato di
fase III verso BSC che ha utilizzato 15 mg/m2 per
via endovenosa nell’arco di 3 ore, ogni 8 ore per
3 giorni, ripetuta ogni 6 settimane (110). Questo
schema, somministrato per una mediana di 3
cicli, ha mostrato un tasso di RC del 9% ed una
quota di risposte globali pari al 30%, con un tempo mediano alla risposta di 3,3 mesi ed una durata di 10,3 mesi. La risposta migliore si otteneva
generalmente dopo 2 cicli. I pazienti trattati con
DEC manifestavano una migliore qualità di vita,
una significativa riduzione del fabbisogno trasfusionale e un ritardata trasformazione in LMA (12
mesi contro 6,8 mesi, p=0,03) rispetto al braccio BSC. Non veniva tuttavia osservato un miglioramento della OS.
Un confronto storico di 115 pazienti con SMD ad
alto rischio, trattati con CT intensiva LMA-like
comparati con un analogo numero di pazienti
case-matched per età, citogenetica e IPSS trattati con DEC tra il 1995 e il 2005, ha evidenziato
una probabilità di ottenere la RC simile (46 vs
43%) e una mortalità entro tre mesi significativamente più elevata nei pazienti sottoposti a CT
intensiva (23 vs 7% p<0,001), con conseguente
vantaggio, in termini di OS, per i pazienti che avevano ricevuto DEC (22 vs 12 mesi, p<0,001) (111).
Contestualmente, allo scopo di individuare la dose
ottimale di DEC e utilizzando metodi statistici
bayesiani, i ricercatori del MD Anderson Cancer
Center hanno condotto uno studio randomizzato di fase II con tre differenti schedule, per una
dose totale costante di 100 mg ogni 4 settimane: 20 mg/m2 e.v. x 5 giorni; 20 mg/m2 s.c. x 5
giorni; 10 mg/m2 e.v. x 10 giorni) (112). Dopo una
mediana di 7 cicli, lo schema con 5 giorni di DEC
somministrata quotidianamente alla dose di 20
mg/m2 ha dimostrato di essere superiore alla schedula di 10 giorni o alla via sottocutanea (CR 39%
vs 21-24%). Ad una analisi multivariata, fattori prognostici negativi per il raggiungimento della RC
erano rappresentati da una condizione di leucemia mielo-monocitica cronica, lunga durata di
malattia e precedenti trattamenti, laddove influivano negativamente sulla OS la presenza di anomalie dei cromosomi 5 e/o 7, l’età avanzata e,
ancora, una precedente terapia per la SMD (113).
Uno studio multicentrico di fase II di DEC
(Alternative Dosing for Outpatients Treatment
[ADOPT]) condotto su 99 pazienti con SMD utilizzando lo schema di 20 mg/m2 e.v. (infusione di
1 ora) x 5 giorni ogni 4 settimane, ha confermato la sicurezza di questa schedula, anche se i tassi di risposta sono stati significativamente inferiori a quelli riportati dal gruppo del MD Anderson
(114). Nello studio ADOPT, il numero medio di cicli
somministrati è stato di cinque, il tasso di RC
17%, la risposta globale 51% (includendo il miglioramento ematologico) ed il tempo di sopravvivenza 19,4 mesi.
Un recente studio randomizzato di fase III
dell’EORTC ha paragonato la DEC alla BSC in 233
pazienti con SMD ad alto rischio (età media 70
anni), utilizzando la schedula standard di 3 giorni ogni 6 settimane (115). Il tasso di risposta complessiva per DEC è stato del 34%. Sebbene siano stati osservati in questo studio un prolunga-
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Seminari di Ematologia Oncologica
mento della sopravvivenza libera da progressione ed un miglioramento dei parametri di valutazione della qualità di vita nel braccio DEC, la
sopravvivenza globale (obiettivo principale del trial)
è risultata sovrapponibile nei due gruppi (10,1 mesi
per DEC contro 8,5 mesi per BSC, p=0,38). La
percentuale di neutropenia febbrile di grado 3-4
risultava più elevata nel braccio DEC (25% vs 7%),
mentre le complicanze infettive severe erano comparabili (57% vs 52%). Una possibile e importante limitazione di questo studio era la durata relativamente breve della terapia somministrata. Il
numero mediano di cicli per paziente era infatti
di soli quattro e il 40% aveva ricevuto 1-2 cicli.
Un trial comparativo di AZA contro DEC è stato
recentemente attivato. Ad oggi, la DEC non è
approvata dall’EMA.
Strategie per massimizzare i benefici
degli agenti ipometilanti
Due metanalisi hanno recentemente confermato l’efficacia degli agenti ipometilanti nell’indurre risposte significative nelle SMD ad alto rischio
(116, 117): solo AZA ha però dimostrato un vantaggio significativo in termini di sopravvivenza e
di riduzione del rischio leucemico, almeno nei
confronti della BSC e del trattamento con LDAC,
mentre DEC è risultata maggiormente tossica. Gli
ipometilanti hanno anche evidenziato un impatto positivo nei pazienti con alterazioni dei cromosomi 5 e 7 (118). Critica, per il successo sia di
AZA che di DEC, è l’applicazione di cicli ripetuti di terapia e, di conseguenza, la selezione dei
pazienti idonei che sono disposti e in grado di
sottoporsi a terapia prolungata. L’aspettativa del
paziente (e del medico) di risposta immediata della malattia e la delusione per la mancanza della
stessa, è probabilmente un fattore importante nel
generare la stanchezza da trattamento, che è un
problema ben noto in tutte le terapie croniche
(soprattutto in quelle con tossicità significativa,
come AZA o DEC). Ciò ha un impatto negativo
sul successo terapeutico. Così, una adeguata
informazione pre-trattamento ai pazienti dovrebbe descrivere non solo la risposta e/o il beneficio di sopravvivenza, ma anche l’andamento temporale della risposta. Comprendere il vantaggio
potenziale del trattamento di questi agenti anche
senza raggiungere la RC (lo scenario più proba-
bile) è dunque molto importante; questo concetto, se sufficientemente validato, potrebbe infatti modificare uno dei paradigmi consolidati del
trattamento delle emopatie (e in particolare delle leucemie acute), secondo il quale un miglioramento della sopravvivenza non può prescindere dall’ottenimento della RC.
In considerazione dei dati attualmente disponibili, l‘utilizzo di AZA alla dose di 75 mg/m2 per via
sottocutanea per 7 giorni, ogni 4 settimane, rappresenta la schedula più appropriata nei pazienti con malattia ad alto rischio. In considerazione
della provata efficacia sulla sopravvivenza globale, di una minore tossicità e di una più agevole
modalità di somministrazione, l’AZA è da considerarsi preferibile alla DEC (43). La somministrazione endovenosa di AZA è anch’essa approvata dalla FDA e ha biodisponibilità paragonabile.
Lo schema di 7 giorni ogni 4 settimane è fattibile; nello studio AZA-001 solo il 14% dei pazienti ha necessitato di una riduzione della dose, e
l’80% dei cicli è stato effettuato a distanza di 4
o 5 settimane, senza uso del G-CSF in profilassi. I pazienti trattati con AZA non evidenziano tassi di infezione o emorragie significativamente più
elevati rispetto ai gruppi di terapia di supporto o
a basso dosaggio, un dato, questo, importante
e che conferisce particolare rilevanza alla tollerabilità e alla efficacia della somministrazione di una
terapia potenzialmente citotossica, specialmente in pazienti anziani, nei quali, come riportato in
precedenza, è stato confermato il vantaggio di
sopravvivenza.
Sebbene siano stati segnalati tassi di risposta simili a quelli osservati nello studio AZA-001 utilizzando schemi e dosaggi differenti (101), per nessuna di queste schedule è stato ad oggi riportato un
miglioramento della sopravvivenza. L’utilizzo di 100
mg a dose fissa per via sottocutanea per 5-7 giorni ogni 4 settimane potrebbe rappresentare una
alternativa ragionevole ed efficace per pazienti con
malattia a basso rischio (105), ma questo approccio necessita di ulteriori conferme. Uno studio
retrospettivo di registro spagnolo sull’utilizzo di AZA
nella pratica quotidiana in 144 pazienti ha peraltro dimostrato che la fedeltà del programma di 7
giorni con AZA può essere associata ad una
migliore risposta rispetto uno schema di 5 giorni
(RC 22% vs 12%, ORR (overall response rate) 74%
Sindromi melodisplastiche
(90) ha mostrato che il 90% delle risposte è ottenuto nei primi 6 cicli di trattamento e che la migliore risposta generalmente si verifica 2 cicli dopo
la prima risposta.
Questi dati suggeriscono che, sebbene alcuni
degli effetti positivi dell’AZA si manifestino precocemente, sono necessari eventi aggiuntivi per
ottenere la migliore risposta. Pertanto, continuare la terapia è verosimilmente la miglior opzione
per ottimizzare i benefici del trattamento con AZA,
fino a che questo è tollerato e se non ci sono evidenze di una progressione della malattia.
I tassi di RC, sia con AZA che con DEC, sono relativamente bassi in confronto con i programmi di
induzione LAM-like. Questo minor tasso di RC è
bilanciato da una ridotta mortalità, in genere inferiore al 5% nelle prime 6-8 settimane di trattamento, contribuendo, almeno parzialmente, al beneficio, in termini di sopravvivenza, osservato con
questi agenti nelle SMD. C’è inoltre da considerare che, come già ricordato, un allungamento del-
vs 58%) (119). Singole esperienze sembrerebbero confermare tale dato (120).
Una recente re-analisi dello studio AZA-001
(121) ha evidenziato, per i pazienti che rispondevano al farmaco, che il numero medio di cicli per
ottenere una prima risposta era di due, che il
numero medio di cicli per ottenere la miglior risposta era di quattro e che quasi il 90% dei pazienti otteneva una risposta al sesto ciclo. Inoltre, la
qualità della risposta stessa migliorava, proseguendo il trattamento con una media di 3 cicli
addizionali, nel 48% dei pazienti. Ancora, il 14%
dei pazienti senza risposta obiettiva dopo sei cicli
(ma con malattia stabile), otteneva un successivo miglioramento ematologico a partire dal nono
ciclo. Globalmente, il 92% dei pazienti raggiungeva il miglior risultato dopo 12 cicli di terapia
(Figura 5).
Anche l’analisi degli studi CALGB ha evidenziato come la prima risposta ad AZA avvenga dopo
una media di 3-4 cicli. In particolare, lo studio 9221
CR+PR+HI
1.0
Probabilita' cumulativa
0.9
A
0.8
0.7
0.6
0.5
0.4
0.3
0.2
0.1
0.0
0
3
6
9
12
15
Tempo (cicli)
18
21
24
CR+PR+HI
1.0
Probabilita' cumulativa
0.9
B
0.8
0.7
0.6
0.5
0.4
0.3
0.2
0.1
0.0
0
3
6
9
Tempo (cicli)
12
15
FIGURA 5 - (a) Numero di cicli
necessari per l’ottenimento della prima risposta in pazienti trattati con
AZA e responsivi (CR = risposta completa; PR = risposta parziale, HI =
miglioramento ematologico).
(b) Numero di cicli necessari per ottenere il miglior risultato dopo la prima
risposta ad AZA. La linea verticale
sull’asse delle y rappresenta il 52%
dei pazienti in cui la risposta iniziale
è rimasta la migliore. Il rimanente
48% dei pazienti ha mostrato un
miglioramento da ME a RP o RC ricevendo fino a 11 cicli aggiuntivi (121).
55
56
Seminari di Ematologia Oncologica
la sopravvivenza rispetto a terapie alternative è
stato associato anche a risposte parziali o al semplice miglioramento ematologico (caratterizzato
dal raggiungimento della indipendenza da trasfusioni di emazie e/o incremento della conta piastrinica) (92). Questo sembrerebbe confermare che
il raggiungimento della RC non è essenziale per
ottenere un beneficio clinico; in realtà gli agenti
ipometilanti, e in particolare l’AZA, agirebbero sul
differenziamento del clone displastico, senza
necessariamente eradicarlo (122). È, d’altra parte esperienza comune che una volta che il trattamento con un agente ipometilante è interrotto,
la maggior parte dei pazienti perde rapidamente la risposta.
Le possibili spiegazioni del peculiare pattern di
risposta osservato in corso di trattamento con
AZA possono dunque essere legate alla sua azione di modulatore sul clone displastico. Gli effetti, citotossico e ipometilante, della AZA dipendono dalla incorporazione del suo metabolita nelle neo-sintetizzate catene di RNA e DNA. Sono
in realtà necessari molti cicli cellulari affinché si
abbia la incorporazione del metabolita e quindi
una alterazione nell’espressione genica. Studi di
farmacocinetica ne hanno dimostrato una ridotta emivita nel plasma e ciò rende difficile spiegare come una rapida ipometilazione possa avvenire nelle popolazioni cellulari dove poche cellule sono in fase S. Tuttavia, la risposta clinica alla
AZA in pazienti con SMD correla con misure farmacocinetiche dell’esposizione al farmaco e la
ipometilazione indotta da AZA (123). Inoltre, dopo
il primo ciclo di trattamento, è stata documentata una eterogenea metilazione di alleli in cellule midollari e una incompleta demetilazione in
pazienti che rispondono alla terapia. Questa
osservazione suggerisce che l’ipometilazione
indotta da AZA avviene progressivamente nel clone displastico e che la massima demetilazione
si ottiene dopo molte esposizioni al farmaco. Se
tuttavia il trattamento con AZA è sospeso, riappare un aberrante metilazione del promotore che
reinduce il silenziamento genico. Tutto ciò conferma che una esposizione prolungata al farmaco è una condizione necessaria per il mantenimento della inibizione della metilazione del DNA
(124). Quindi, un trattamento continuativo fino a
progressione o tossicità inaccettabile, è utile e
necessario sia per gli effetti iniziali, che per il successivo miglioramento della qualità e della durata della risposta; questo concetto è valido in
pazienti che raggiungono la RC, così come in
quelli che ottengono una risposta di minore qualità (Figura 6). Per i pazienti senza risposta (ma
con malattia stabile) dopo almeno sei cicli, la prosecuzione del trattamento dovrebbe essere
comunque individualizzata.
Il regime ottimale da utilizzare con la DEC, in considerazione dell’efficacia dimostrata e della fattibilità pratica, è rappresentato dai 20 mg/m2 al
dì, somministrati per via endovenosa nell’arco di
1-3 ore, per 5 giorni ogni 4-6 settimane. Nello
studio ADOPT (114), il 68% dei cicli che hanno
utilizzato questa schedula è stato somministrato nei tempi previsti, con un ritardo massimo di
8 giorni.
Tra i pazienti che avevano avuto miglioramenti,
l’82% ha mostrato la prima risposta entro la fine
del ciclo 2, e la maggior parte dei pazienti
responsivi ha avuto anche la migliore risposta
nello stesso periodo di tempo, tempi apparentemente più rapidi, quindi, rispetto ad AZA. DEC
potrebbe quindi potenzialmente essere più efficace in pazienti ipercitosici e con elevato numero di blasti.
Per le considerazioni già espresse, anche per la
DEC il mantenimento della risposta con la terapia continuativa rappresenta verosimilmente l’opzione migliore, in assenza di tossicità inaccettabile o evidenza di progressione della malattia.
Le tossicità ematologiche sono comuni ad
entrambi gli agenti ipometilanti e si manifestano
più frequentemente nei primi 2 cicli di terapia, tendendo ad attenuarsi e ad essere meno frequente in quelli successivi. Infezioni si sono verificate
in circa il 50% dei pazienti trattati con AZA nello
studio AZA-001 (vs 41% nel gruppo BSC) e dal
58% al 61% dei pazienti ha avuto trombocitopenia e/o neutropenia di grado 3/4. La mielosoppressione sembra essere più rilevante con DEC, piuttosto che con AZA, associandosi ad un tasso lievemente più elevato di neutropenia febbrile (10%
dei ricoverati in ospedale durante il ciclo 1 in
ADOPT; il 77% aveva neutropenia di grado 4 e il
28% aveva neutropenia febbrile in fase di registrazione). Viene raccomandato generalmente un
monitoraggio almeno settimanale (o, comunque,
Sindromi melodisplastiche
secondo indicazione clinica) dell’emocromo nelle prime 8-12 settimane di trattamento, poi a intervalli di almeno 2 settimane. Da considerare una
valutazione periodica di midollo osseo e cariotipo, in particolare dopo i primi 6 cicli o, comunque, in presenza di segni di possibile progressione di malattia.
La tossicità ematologica può essere gestita preferibilmente ritardando il ciclo successivo, piuttosto che ricorrendo ad una riduzione di dose.
Modificare la dose o prolungare di 1-2 settimane gli intervalli fra i cicli può tuttavia ridurre l’efficacia del trattamento; pertanto, specie nei
pazienti inizialmente citopenici, con elevata quota blastica e cariotipo complesso, questo approccio non è in genere raccomandato nei primi tre
cicli di terapia, anche in caso di citopenia severa, se non in presenza di gravi complicanze o di
sepsi (125, 126). Per quanto concerne in particolare l’AZA, una riduzione di dose del 50% (e
fino a un terzo, in caso di ridotta cellularità midol-
lare) viene in ogni caso suggerita in pazienti citopenici ad inizio terapia, nei quali il recupero midollare sia superiore ai 21 giorni o in soggetti non
citopenici all’esordio che sviluppino, in corso di
trattamento, una citopenia severa (neutrofili
<1.000 µl e piastrine <50.000 µl), non recuperata entro 14 giorni (126).
Per mantenere l’intensità di dose e massimizzare il beneficio, occorre quindi attivare un adeguato trattamento di supporto trasfusionale secondo linee guida, il monitoraggio stretto della crasi ematica ed, eventualmente, una profilassi antibiotica e antifungina secondaria in caso di episodi infettivi precedenti. Non è ad oggi dimostrato un reale beneficio dell’uso del G-CSF in associazione con agenti ipometilanti in pazienti neutropenici con SMD. In base al disegno del trial,
il G-CSF non è stato utilizzato nello studio CALGB
9221 con AZA, mentre è stato consentito in AZA001 solo in caso di infezione severa, ma non per
profilassi. Cionondimeno, è stato possibile som-
1,0
0,9
78,4% (p<0,0001)
Sopravvivenza globale
0,8
71,7% (p<0,0001)
ME
67,5% (p=0,006)
0,7
0,6
RP
RC
41,3% (p=0,041)
0,5
0,4
26,2%
0,3
MS
CCR
0,2
MP
0,1
0,0
24
0
5
10
15
20
Mesi
25
30
35
40
FIGURA 6 - Il vantaggio di sopravvivenza in pazienti con SMD ad alto rischio trattati con AZA è indipendente dal tipo di risposta
ottenuta (RC = risposta completa; RP = risposta parziale, ME = miglioramento ematologico; MS = malattia stabile; MP = malattia
in progressione) (92).
57
58
Seminari di Ematologia Oncologica
ministrare l’AZA alla dose ai tempi stabiliti nella
maggior parte dei casi e il rischio di infezione non
è risultato sostanzialmente diverso dal braccio
BSC. L’uso di G-CSF trova comunque indicazione in caso di neutropenia febbrile, specie se questa è correlata all’utilizzo del farmaco (ad esempio, se il numero di neutrofili era più alto nel preciclo).
Va infine ricordato che l’utilizzo di agenti ipometilanti non è, in assoluto, controindicato in pazienti con insufficienza renale (127).
La tabella 3 sintetizza i principali aspetti pratici dell’uso di AZA e DEC nelle SMD.
Problemi aperti
L’uso dei farmaci demetilanti ha certamente aperto prospettive nuove per il trattamento delle SMD,
ma sono numerosi gli aspetti di rilevanza clinica
sui quali non sono ancora disponibili dati definitivi.
Non è ancora chiaro, ad esempio, se i pazienti più
giovani o comunque fit, con una conta di blasti
midollari elevata, in particolare quelli che hanno una
possibilità immediata di trapianto allogenico e
pazienti con cariotipo sfavorevole (probabilmente più sensibili all’uso di AZA), debbano ricevere
una terapia di induzione con agenti ipometilanti,
Azacitidina:
• Indicazioni: terapia di prima linea in pazienti a rischio IPSS intermedio-2 o alto, specialmente se citopenici e sintomatici, non eleggibili per un trapianto allogenico o con donatore non immediatamente disponibile. Preferibile rispetto a DEC
e da utilizzare anche in soggetti anziani, eventualmente escludendo solo pazienti “very frail”. Da considerare anche in
pazienti a rischio basso o intermedio-1, non candidati per altre terapie, che necessitano di trattamento per citopenie
severe sintomatiche e presentino fattori prognostici negativi (attualmente no indicazione EMA per basso rischio).
• Dosi: 75 mg al di s.c x 7 giorni (consecutivi o secondo schedula 5-2-2) al mese per i pazienti ad alto rischio; nei pazienti a basso rischio si sono dimostrate efficaci anche dosi di 75 mg/m2 per 5 giorni o 100 mg a dose fissa x 5-7 giorni.
• Target terapeutico ottimale: trasfusione indipendenza e miglioramento ematologico, ottenibile nel 40-50% dei pazienti
trattati. La qualità della risposta può migliorare con il procedere del trattamento.
• Durata della risposta: 15-18 mesi, con riduzione del rischio di trasformazione leucemica e incremento della sopravvivenza (in genere superiore ai 2 anni).
• Durata del trattamento: inizialmente almeno 6 cicli; se la terapia è efficace e/o tollerata, trattamento continuativo fino a
progressione, anche in caso di malattia stabile.
• Monitoraggio: controllo emocromo almeno settimanale nelle prime 8-12 settimane di trattamento, poi a intervalli di 2
settimane. Utile valutazione periodica midollo osseo e cariotipo, in particolare dopo i primi 6 cicli o, comunque, in presenza di segni di possibile progressione di malattia.
• Precauzioni: non raccomandati una riduzione della dose o l’allungamento degli intervalli fra i cicli in presenza di un peggioramento iniziale di citopenie pre-esistenti durante i primi 3 cicli, se non in caso di neutropenia febbrile o di sepsi documentata. Una riduzione di dose va comunque presa in considerazione in pazienti citopenici e con midollo ipocellulare
ad inizio terapia o in soggetti non citopenici all’esordio che sviluppino, in corso di trattamento, una citopenia severa, nei
quali il recupero midollare sia tardivo. Eventuali citopenie vanno trattate con terapia di supporto standard e adeguata
profilassi; se necessario, può essere utilizzato il G-CSF.
Decitabina:
• Indicazioni: pazienti a rischio IPSS intermedio-2 o alto, non eleggibili per un trapianto allogenico o con donatore non
immediatamente disponibile. Di seconda scelta rispetto ad AZA, probabilmente preferibile ad AZA nella leucemia mielo-monocitica cronica e nei pazienti con elevata quota blastica.
• Dosi: 20 mg al di e.v, infusione di 1 ora x 5 giorni ogni 4-6-settimane.
• Target terapeutico ottimale: trasfusione indipendenza e miglioramento ematologico ottenibile in circa il 40-50% dei pazienti trattati. Ottenimento della risposta probabilmente più rapido rispetto ad AZA.
• Durata della risposta: circa 1 anno, con una sopravvivenza attesa di 10-20 mesi.
• Durata del trattamento: inizialmente almeno 4 cicli; se terapia efficace e/o tollerata trattamento continuativo fino a progressione.
• Principali tossicita: tossicità ematologica, più elevata rispetto ad AZA.
• Monitoraggio: come per azacitidina.
TABELLA 3 - Gestione del trattamento con agenti ipometilanti nelle SMD.
Sindromi melodisplastiche
piuttosto che una CT LAM-like (128). Solo uno studio randomizzato head-to-head fra AZA o DEC vs
CT intensiva potrà chiarire questo aspetto.
Altrettanto importante sarà verificare il ruolo degli
ipometilanti, e in particolare della AZA, come trattamento di mantenimento in pazienti che abbiano effettuato in precedenza CT intensiva e/o un
trapianto allogenico, ottenendo la RC di malattia
(129, 130).
L’efficacia degli ipometilanti è anche in corso di
ulteriore valutazione in condizioni di displasie transizionali ad impronta mieloproliferativa, come la leucemia mielo-monocitica cronica (131). Molto interessanti, sul piano pratico, i dati recentemente pubblicati sull’uso dell’AZA orale, il cui uso migliorerebbe sostanzialmente la compliance del paziente e, verosimilmente, anche quella del medico
(132). Sono altresì in fase di verifica alcune combinazioni potenzialmente sinergiche con altri farmaci, che potrebbero in futuro aprire interessanti e innovative prospettive terapeutiche (63, 133135). Infine, resta aperto il problema del trattamento dei pazienti che abbiano perso la risposta ad
agenti ipometilanti (136).
n CONCLUSIONI
La disponibilità e l’utilizzo di nuovi farmaci (in particolare lenalidomide e azacitidina) e le conoscenze relative all’uso ottimale dei fattori di crescita,
hanno rappresentato, negli ultimi anni, esempi
significativi dei progressi ottenuti nell’ambito di trattamenti continuativi dimostratisi utili nei pazienti
con SMD, per la maggior parte dei quali il supporto trasfusionale, pur restando un cardine
terapeutico, non costituisce ormai più la sola
opzione disponibile (137). Lo scenario delle terapie a lungo termine per questi pazienti si arricchisce inoltre progressivamente di nuovi possibili
standard terapeutici. Sarà, ad esempio, molto interessante conoscere i risultati definitivi degli studi
in corso riguardanti l’impatto sulla sopravvivenza
e sull’efficacia terapeutica dell’uso della terapia ferrochelante orale nei pazienti con sovraccarico marziale trasfusionale. Esistono infatti, in proposito,
dati retrospettivi in popolazioni selezionate, anche
in termini di possibili effetti positivi sull’emopoiesi, che necessitano tuttavia di validazione prospet-
tica. Analogamente, sarà importante definire l’efficacia di terapie immunosoppressive innovative,
anch’esse dimostratesi assai promettenti.
Ovviamente, in tempi di grande scarsità di risorse, l’intero approccio con trattamenti prolungati
in pazienti affetti da SMD non potrà assolutamente fare a meno di realistiche valutazioni costobeneficio, che dovranno ragionevolmente guidare le relative indicazioni nella pratica clinica sulla
base di dati di reale e concreta efficacia terapeutica (138).
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Leucemia
mieloide acuta
DOMENICO PASTORE, MARIO DELIA,
GIORGINA SPECCHIA
Giorgina Specchia
Ematologia con Trapianto, Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”,
Azienda Ospedaliero-Universitaria, Policlinico di Bari
n INTRODUZIONE
La leucemia mieloide acuta (LAM) è una patologia caratterizzata da una marcata eterogeneità
biologica e clinica che giustifica le diverse risposte alla terapia e le differenti durate della sopravvivenza (1). Negli ultimi anni, oltre ai più consolidati fattori prognostici come età, citogenetica, performance status, sono state identificate numerose mutazioni di geni quali FLT3, c-Kit, NPM1, CEPBA, MLL, RAS (2) che hanno contribuito a creare uno score prognostico citogenetico-molecolare (Tabella 1) e quindi a diversificare le strategie
terapeutiche.
Gli endpoints più importanti e indiscussi nei programmi terapeutici delle LAM sono:
a) ottenimento della remissione completa (RC);
b) migliore outcome definito dalla sopravvivenza libera da malattia (DFS) e dalla sopravvivenza globale (OS).
A tutt’oggi quindi la terapia delle LAM è essenzialmente basata sulla massima terapia di induzione
tollerata per ottenere la RC e sulla ottimizzazione
Parole chiave: leucemia acuta mieloide, terapia di mantenimento, agenti ipometilanti, immunoterapia.
Indirizzo per la corrispondenza
Prof.ssa Giorgina Specchia
Ematologia con Trapianto
Azienda Ospedaliero-Universitaria Policlinico Bari
Piazza G. Cesare, 11 - 70124 Bari
E-mail: [email protected]
della terapia post-remissionale per evitare o
almeno ritardare la recidiva. La letteratura è oggi
concorde nel riportare che circa il 70% dei giovani e il 50% dei pazienti anziani fit ottiene la RC,
ma che solo una proporzione di questi pazienti
mantiene una RC continua con le correnti strategie terapeutiche post-remissione (terapie ad alte
dosi, procedure trapiantologiche).
Rimane, quindi, a tutt’oggi aperta la sfida per individuare le terapie post-remissionali efficaci e tollerabili per tutti i pazienti affetti da LAM.
La scelta della terapia post-remissionale varia in
rapporto soprattutto all’età del paziente, alle caratteristiche biologiche del clone leucemico e alle
Rischio
Pattern
Alto
Cariotipo complesso
-7/7q; -5/5q
t(11q21-23)/MLL; ampl MLL;
CALM/AF10
Inv(3)/t(3;3)
t(6;9)
t(9;22)
t(8; 16); inv(8)
Cariotipo normale/FLT3+
+(8) isolato
t(9;11)
Cariotipo normale
Inv(16)/t(16;16); CBFB/MYH11
t(8;21); AML1/ETO
Cariotipo normale/NPM+/FLT3Cariotipo normale/CEPBA+
Medio
Basso
TABELLA 1 - Rischio citogenetico/molecolare.
68
Seminari di Ematologia Oncologica
condizioni cliniche dei pazienti in RC (comorbilità all’esordio, esiti di tossicità d’organo della terapia di induzione, compliance, ecc.).
Nei pazienti di età inferiore a 60 anni, le moderne strategie di trattamento della LAM in RC dopo
terapia di induzione comprendono uno o più cicli
di consolidamento seguiti dal trapianto autologo
o allogenico di cellule staminali emopoietiche in
rapporto sempre alle caratteristiche cliniche e biologiche del paziente (1-5).
Nei pazienti di età superiore a 60 anni l’approccio terapeutico ottimale dopo il raggiungimento
della RC è tutt’ora oggetto di discussione; questa popolazione molto eterogenea costituisce circa i 2/3 dei pazienti affetti da LAM (6, 7) ed ha
una prognosi significativamente peggiore rispetto ai giovani con un OS rate a 5 anni non superiore al 10-15% (2, 3). Una delle cause più frequenti di tale insuccesso è il fatto che per fattori clinici i pazienti anziani non sempre possono ricevere terapie intensive post-remissionali e, a volte,
vengono avviati a procedure terapeutiche definite di mantenimento non sempre codificate e, quasi sempre, adattate al singolo paziente e al di fuori di trials clinici.
È riportato in letteratura che mentre la terapia di
mantenimento ha determinato importantissimi
risultati sull’outcome dei pazienti con leucemia
acuta promielocitica grazie soprattutto all’acido
retinoico (8, 9), questo dato purtroppo non è altrettanto valido nelle altre LAM (4).
Lo scopo della terapia di mantenimento dovrebbe essere quello di ridurre e/o controllare la malattia residua minima, migliorare la qualità della
remissione e ritardare, ma soprattutto prevenire,
la recidiva.
Oggi si può considerare applicabile la terapia di
mantenimento in alcuni subsets:
- pazienti con età maggiore di 60-65 anni per i
quali le procedure intensive comprese quelle trapiantologiche sono controindicate per comorbidità, performance status ecc. (2, 3);
- pazienti giovani non eleggibili per procedure
intensive trapiantologiche o senza donatore
compatibile familiare, non familiare o cordone
ombelicale.
Fino a qualche anno fa la terapia di mantenimento nella LAM veniva attuata con farmaci chemioterapici convenzionali (soprattutto citosina-arabi-
noside) che, sia pure utilizzati a dosaggi inferiori
rispetto alla terapia di induzione e consolidamento, comportavano comunque una notevole mielotossicità non ripagata da un aumento della DFS
(10-13). Inoltre i progressi del trapianto allogenico sull’outcome dei pazienti giovani e di quelli
anziani selezionati hanno ridotto significativamente l’interesse biologico e clinico delle terapie di
mantenimento. Negli ultimi anni invece l’introduzione di nuove classi di farmaci potenzialmente
meno mielotossici e con svariati meccanismi di
azione ha rivitalizzato l’interesse verso le terapie
terapie di mantenimento nelle LAM (10, 14).
n MANTENIMENTO CON ARA-C
Il concetto di terapia di mantenimento come terapia mielosoppressiva e prolungata nelle LAM è
stato introdotto più di 30 anni fa dal CALGB (15);
questa terapia di mantenimento prevedeva la
somministrazione di ara-C (200 mg/m2/die EV o
s.c. per 5 giorni al mese) in associazione con thioguanina (al 1° mese), ciclofosfamide (al 2° mese),
CCNU (al 3° mese) e daunoblastina (al 4° mese);
tale terapia di mantenimento veniva effettuata ciclicamente per 4-5 anni anche se in circa il 60% dei
pazienti neutropenia e piastrinopenia richiedevano una riduzione dei dosaggi e/o un ritardo della terapia stessa. Tale studio concludeva che la
migliore modalità di somministrazione di ara-C era
la via sottocutanea e che questa terapia di mantenimento era associata ad una migliore durata
della remissione (22 mesi di DFS mediana) e
sopravvivenza (35 mesi di OS mediana).
Successivamente il gruppo tedesco (16) proponeva, dopo una terapia di induzione con lo schema TAD (thioguanina, ara-C e daunoblastina), una
randomizzazione dei pazienti in RC tra un braccio con terapia di mantenimento mensile mielosoppressiva secondo schema CALGB e uno senza alcuna terapia (braccio osservazionale); a 2 anni
la percentuale di RC era del 30% nel braccio terapia di mantenimento e 17% nel braccio osservazionale (p=0,003), ma i pazienti non erano stratificati per gruppo di rischio citogenetico-molecolare.
L’esperienza di Mayer (17) del 1994 intesa a confrontare dosi alte, intermedie e standard di ara-C
Leucemia mieloide acuta
riportava una DFS a 4 anni del 44% per i pazienti giovani trattati con le alte dosi verso il 24% per
i pazienti trattati con dosi convenzionali, mentre
non si osservavano differenze nei pazienti di età
superiore a 60 anni; inoltre solo il 30% dei pazienti anziani riusciva a completare la terapia con le
alte dosi (principalmente per tossicità neurologica). Tale studio quindi metteva in evidenza la scarsa compliance del paziente anziano ad un approccio post-remissionale intensivo a base di ara-C.
Sempre per valutare l’impatto della terapia di
mantenimento nelle LAM, il gruppo Hovon nello
studio AML-9 (18) ha confrontato, in 489 pazienti, 2 regimi di induzioni (daunoblastina e ara-C vs
mitoxantrone e ara-C); successivamente i pazienti in RC effettuavano un ciclo di consolidamento uguale all’induzione e venivano poi randomizzati a due programmi post-consolidamento;
151 pazienti in RC venivano randomizzati a ricevere o 8 cicli di ara-C a basse dosi o nessuna
terapia; lo studio dimostrava che la terapia di
mantenimento con basse dosi di ara-C era superiore per la DFS a 5 anni (13% vs 7%), ma non
per la OS (18% vs 15%).
Anche il gruppo MRC con lo studio AML-11(19)
ha valutato l’impatto della terapia di mantenimento in più di 1.400 pazienti con età superiore a 60
anni; 371 pazienti in RC venivano randomizzati a
ricevere una terapia post-remissionale che prevedeva un solo ciclo secondo lo schema DAT (daunorubicina, ara-C, thioguanina) o a una terapia di
consolidamento-mantenimento con 2 cicli di DAT
e 2 cicli di COAP (ciclofosfamide, vincristina, araC, prednisone); lo studio non riportava nessuna differenza tra 1 o 4 cicli di terapia post-remissionale riguardo a rischio di recidiva, DFS e OS.
Sempre per quanto riguarda l'approccio postremissionale, il lavoro di Stone (20) del CALGB del
2001, ha confrontato una terapia post-remissionale che utilizzava ara-C a dosi intermedie associata al mitoxantrone con una terapia post-remissionale con ara-C a dosi standard; lo studio, oltre
a riportare la maggiore tossicità di ara-C e mitoxantrone, non registrava nessuna differenza statisticamente significativa in termini di EFS e OS
tra i 2 approcci post-remissionali.
Una esperienza del 2003 del Gruppo Cooperativo
tedesco (21) randomizzava i pazienti in RC (età
mediana 54 anni; range 16-82) ad un ciclo di con-
solidamento intensivo (HAM) o terapia di mantenimento (con ara-C, daunoblastina, thioguanina,
ciclofosfamide) della durata di 3 anni; lo studio
riportava una migliore relapse-free survival con la
terapia di mantenimento, ma solo nei pazienti ad
alto rischio per età, cariotipo, LDH o blastosi
midollare al 16° giorno di induzione.
Nel 2007 lo studio del gruppo francese ALFA (22)
ha randomizzato 164 pazienti con età maggiore
di 65 anni in RC ad un consolidamento intensivo (con daunoblastina o idarubicina associate ad
ara-C) o una terapia ambulatoriale (daunoblastina o idarubicina per 1 giorno associata ad araC sottocute per 5 giorni) per la durata di 6 mesi;
questo studio concludeva per un vantaggio a 2
anni in termini di DFS (28% vs 17%) e OS (56%
vs 37%) della terapia di mantenimento vs consolidamento intensivo, ma a 3 anni le curve della DFS si sovrapponevano con una percentuale
simile di recidive (78% nel braccio consolidamento vs 70% nel braccio mantenimento).
Pur considerando l’eterogeneità biologico-clinica
dei pazienti arruolati e i diversi bias degli studi che
hanno valutato il ruolo dei programmi post-remissionali a base di ara-C, si rileva soprattutto che
nei pazienti di età inferiore a 60 anni tale terapia
(diversa per durata e dosaggio da quella storica
del CALGB) ha in qualche caso lievemente migliorato la DFS senza modificarne la OS; inoltre, nei
pazienti anziani tale terapia,quando proponibile e
soprattutto quando effettuabile secondo le diverse schedule, non sembra avere migliorato significativamente la DFS e la OS.
n NUOVE TERAPIE
POST-REMISSIONALI
Negli ultimi anni le nuove conoscenze biologiche
sulle LAM, e l’introduzione di nuove classi di farmaci (ipometilanti, inibitori delle tirosin-chinasi, inibitori dell’angiogenesi, inibitori della farnesiltransferasi, agenti antiapoptotici, inibitori del proteosoma, inibitori di mTOR, modulatori della resistenza pleiotropica, farmaci immunoterapici) con
svariati meccanismi di azione ha risvegliato l’interesse per le possibili applicazioni nella terapia
di mantenimento (10, 14) (Tabella 2). La maggior
parte di questi farmaci utilizzati in monoterapia e/o
69
70
Seminari di Ematologia Oncologica
Farmaco
Demetilanti
Azacitidina
Decitabina
Inibitori TK
Sorafenib
Midostaurina
Imatinib
Dasatinib
Semaxanib
Inibitori di farnesilazione
Tipifarnib
Inibitori di angiogenesi
Bevacizumab
Cilengitide
Lenalidomide
Citochine
IL-2
IL-2+istamina
Studio di riferimento
Target
Grovdal M. (31)
Ruter B. (38)
Geni ipermetilati (CDH1)
Geni ipermetilati
SORAML: on going
RATIFY: on going
CASE-4906: on going
AMLSG 11-08: on going
NCI-673: on going
PDGFR; FLT3, c-kit
RTK; VEGFR, c-kit, PDGFR; FLT3
PDGFR, c-kit (no D816)
PDGFR, c-kit (si D816)
VEGFR, c-kit; FLT3
Karp JE (72)
Farnesiltransferasi inibitore
NCI-6384: on going
NCI-6384: on going
RV-AML 166: on going
GFM-Chimio-Rev: on going
LENAMAINT: on going
Anticorpo anti VEGF
Peptidic integrin inibitore
Inibizione di bFGF e angiogenesi VEGF-correlata
Meloni G. (43)
ELAM02: on going
Brune M. (50)
Potenziamento T e NK cells
Potenziamento T e NK cells
TABELLA 2 - Nuovi farmaci e meccanismo d’azione.
in terapie di combinazione nelle LAM in induzione o in recidiva/refrattarie ha dimostrato risposte
variabili, spesso modeste ma pur sempre meritevoli di attenzione clinica se si considera la tipologia dei pazienti inseriti nei diversi trials.
L’interesse è in continua crescita per la evidenza
dei peculiari meccanismi d’azione su pathways
molecolari coinvolti nella patogenesi delle leucemie che potrebbero fare ipotizzare una attività nel
controllo della malattia residua e quindi un possibile ruolo nella terapia di mantenimento delle
LAM.
Agenti ipometilanti
Una delle classi di farmaci più interessanti degli
ultimi anni è sicuramente quella degli inibitori di
DNA metil-transferasi (agenti ipometilanti) che agiscono bloccando i fenomeni di patologica metilazione del DNA e ripristinando la trascrizione dei
geni silenziati (23-25); il razionale della utilizzazione di questi farmaci nelle LAM è supportato
da dimostrazioni sperimentali di come nelle LAM
ci siano dei meccanismi aberranti di silenziamento genico (25, 26). Gli inibitori di DNA metil-transferasi più studiati sono 2 analoghi nucleosidici:
l’azacitidina (AZA) e la decitabina (DAC).
L’interesse scientifico per queste molecole è
documentato dall’enorme mole di pubblicazioni
degli ultimi anni (27-30); inoltre il successo terapeutico osservato in patologie come le sindromi mielodisplastiche (SMD) a rischio intermedioalto hanno lasciato intravedere anche una possibile utilizzazione nelle LAM in RC/remissione
parziale (RP) anche per il controllo della malattia residua minima. Un recente lavoro prospettico di fase II (31) (Tabella 3) ha valutato l’efficacia e fattibilità di una terapia di mantenimento con
azacitidina in pazienti anziani con LAM o SMD
ad alto rischio con una schedula di 75 mg/m2 per
5 giorni ogni 28 giorni; la dose è stata poi ridotta a 60 mg/m2/die per una alta incidenza di neutropenia di grado IV. Lo studio concludeva che
il trattamento era safe and feasible con una tossicità accettabile; il numero esiguo di pazienti (23
pts) non consentiva valutazioni circa la durata della RC, ma il dato più interessante dal punto di
vista biologico era la correlazione con lo stato di
metilazione all’esordio di alcuni geni e in particolare di CDH1 la cui ipermetilazione era associata ad una scarsa risposta e ad una ridotta OS.
Leucemia mieloide acuta
Farmaco
Tipologia paziente
Tipo studio
Dati di sopravvivenza
IL2+Istamina
Azacitidina
LAM
HR SMD + SMD-LAM
Decitabina
SMD
Tipifarnib
LMA a basso rischio
Randomizzato (320 pz)
Prospettico non
randomizzato (60 pz)
Prospettico non
randomizzato (22 pz)
Prospettico non
randomizzato (48 pz)
Autore
DFS a 3 anni
OS mediana
40 vs 26%
20 mesi
(50)
(31)
OS mediana
27 mesi
(38)
DFS a 1 anno
DSF a 2 anni
52%
30%
(72)
TABELLA 3 - Studi clinici di terapia post-remissionale con nuovi farmaci.
Un altro recente studio (32) di fase III ha valutato l’impatto della azacitidina sulla durata della RC
e OS in pazienti con SMD ad alto rischio di cui
1/3 potevano essere riclassificate come leucemie acute secondo la WHO 2008; i pazienti (età
mediana 70 anni) venivano randomizzati a ricevere azacitidina (75 mg/m2/die per 7 giorni ogni
28 giorni per un totale di 6 cicli) o terapia convenzionale che includeva terapia di supporto,
basse dosi di ARA-C o chemioterapia intensiva.
Con un follow-up mediano di 20 mesi la mediana di OS era di 24 mesi (AZA) vs 15 mesi (terapia convenzionale) e a 2 anni l’OS rate era del
50% (AZA) vs 16% (terapia convenzionale). Lo
studio concludeva che l’AZA sembrava prolungare la sopravvivenza rispetto alla terapia convenzionale ed era ben tollerata in pazienti adulti con LAM con blastosi midollare tra il 20 e il
30%. Di particolare interesse sono 2 pubblicazioni del gruppo di Houston (33, 34) che utilizza
basse dosi di AZA nei pazienti con LAM o SMD
in recidiva dopo trapianto allogenico; questi studi suggeriscono che l’AZA possa indurre una nuova remissione in pazienti in recidiva dopo allotrapianto e che la loro somministrazione prolungata possa prolungare la EFS e la OS.
Recentemente la dimostrazione della biodisponibilità e della attività clinica e biologica della formulazione orale di AZA (35) lascia intravedere un
futuro di questa molecola nella terapia di mantenimento delle LAM.
Anche la DAC, già utilizzato in monoterapia nelle SMD e nelle LAM dell’adulto (36-38) è stato
valutato come terapia di mantenimento nelle LAM.
In una pubblicazione di Lubbert et al. (39), vengono riportati 57 pazienti adulti affetti da LAM in
RC o RP dopo un terapia con decitabina a dosag-
gio standard (135 mg/m2 per 3 giorni per 4 cicli)
che effettuavano una terapia di mantenimento con
DAC ad un basso dosaggio (20 mg/m2 die x 3
giorni per 4 o più cicli ogni 6-8 settimane) fino a
recidiva o progressione. Lo studio concludeva che
il trattamento era fattibile ambulatorialmente, con
una buona tollerabilità e quindi proponibile per una
terapia di mantenimento ma non erano riportati
dati di efficacia.
Al momento quindi gli agenti ipometilanti sono
una delle categorie di nuovi farmaci che potrebbero avere un ruolo nella terapia di mantenimento dei pazienti con LAM non elegibili per terapie
intensive, incluse quelle trapiantologiche (40, 41).
Per definirne il ruolo sono auspicabili trials clinici che includano pazienti con LAM stratificati per
gruppo di rischio clinico-biologico e trattati
omogeneamente per terapia di induzione e
post-remissionale.
Immunoterapia e citochine
Una delle ipotesi più affascinanti della terapia di
mantenimento nelle LAM è sicuramente quella
della immunoterapia con l’utilizzazione di citochine in grado di stimolare il sistema immunitario di
un paziente in RC per controllare la malattia residua minima. Gli studi si sono concentrati soprattutto sulla interleuchina 2 (IL2) per le sue note
capacità di stimolare le funzioni citotossiche dei
linfociti T e delle cellule NK. Un lavoro del 2002
(42) dimostrava che in pazienti con LAM in RC era
fattibile la somministrazione prolungata di basse
dosi di IL2 senza particolari tossicità d’organo e
con una buona qualità di vita. Successivamente
poi gli studi randomizzati non sono riusciti a dimostrare una chiara efficacia della IL2 nella terapia
di mantenimento della LAM in RC. Uno studio di
71
72
Seminari di Ematologia Oncologica
un gruppo italiano (43) su 32 pazienti dimostrava un trend di miglioramento della DFS in favore della IL2 a basse dosi rispetto al gruppo di controllo solo in pazienti in IIRC dopo terapia di salvataggio, ma i successivi studi su più ampie casistiche non dimostravano un reale vantaggio della terapia di mantenimento con IL2.
Il CALGB (44), nel 2008 pubblicava uno studio nel
quale 163 pazienti affetti da LAM in IRC e con una
età superiore a 60 anni venivano randomizzati a
ricevere una terapia di mantenimento con IL2 a
basse dosi (0.9 x106/m2 al giorno s.c. a cicli di 14
giorni) o nessuna terapia; veniva riportata una tossicità importante (65% di piastrinopenia di grado IV e 64% di neutropenia di grado IV) e nessuna differenza statisticamente significativa della DFS e della OS tra il gruppo trattato con la IL2
ed il gruppo di controllo.
In un altro lavoro più recente del 2010 (45), 161
pazienti (età superiore a 50 anni) con LAM in RC
dopo induzione venivano randomizzati a terapia
di mantenimento con IL2 (5 x106/m2 per 5 giorni al mese per 12 cicli) o a sola osservazione. Gli
Autori concludevano che la terapia di mantenimento di un anno era portata a termine solo dal
27% dei pazienti randomizzati a IL2 e comunque il mantenimento con IL2 non migliorava la
EFS e la OS.
Anche la meta-analisi pubblicata da Buyse et al.
(46) sulla IL2 come single agent nella terapia di
mantenimento della LAM valutando diversi fattori come età, sesso, performance status, cariotipo, tempo dall’ottenimento della RC all’inizio del
mantenimento, confermava che da sola l’IL2 non
modificava la DFS e la OS.
Un nuovo impulso alla terapia di mantenimento
con IL2 è stata data da alcuni studi in vitro che
hanno dimostrato che il diidrocloruro di istamina
somministrato insieme a IL2, determina una maggiore citotossicità dei linfociti T e delle cellule NK
verso le cellule leucemiche (target cells) (47-49);
tale maggiore attività è dovuta al fatto che il diidrocloruro di istamina, riducendo e/o abolendo
l’azione inibitoria dei monociti sui linfociti T e cellule NK, permetterebbe a queste ultime di produrre IFN e di essere più responsive all’azione di IL2.
Sulla base di tali evidenze, Brune nel 2006 (50)
riportava i risultati della terapia di mantenimento
con IL2/istamina diidrocloruro in 320 pazienti (età
mediana 57 anni) in I o II RC; i pazienti venivano
randomizzati a ricevere terapia di mantenimento
con la somministrazione sottocute di IL2/istamina diidrocloruro a cicli di 21 giorni per 10 cicli o
nessuna terapia; veniva dimostrato un significativo miglioramento della EFS nei pazienti del braccio terapia di mantenimento (a 3 anni, 40% vs
26%) con una tossicità accettabile, infatti solo
l’8% dei pazienti in terapia di mantenimento interrompeva il trattamento per tossicità. Ulteriori trials
su casistiche stratificate per gruppi di rischio biologico-clinico associati a studi biologici in vivo
sono necessari per validare il ruolo di IL2/istamina diidrocloruro nella terapia di mantenimento.
Inibitori delle tirosinchinasi
È dimostrato che alcune anomalie geniche delle
tirosinchinasi o dei loro recettori sono coinvolti nella leucemogenesi (51). Uno dei recettori tirosinchinasici più studiato, anche per le implicazioni
prognostiche sfavorevoli, è sicuramente FLT3, un
recettore transmembrana espresso in circa il 70100% delle LAM; nel 25-30% delle LAM, FLT3 si
caratterizza per una mutazione che occorre nel
dominio juxtamembrana nota come ITD mentre
nel 5-10% è invece presente una mutazione dell’ansa puntiforme (TKD). In entrambe queste mutazioni viene attivato costitutivamente il recettore che
è in grado di determinare la proliferazione cellulare e pertanto si è sostenuta l’ipotesi che FLT3
potesse rappresentare un importante target
molecolare nella terapia delle LAM.
In uno dei primi lavori (52) sugli inibitori delle tirosinchinasi nelle LAM, si dimostrava che il semaxanib (SU5416), molecola che inibisce FLT3, c-Kit
e VEGFR, fosse in grado di determinare RC in una
paziente con LAM in recidiva. Da allora altri inibitori di tirosinchinasi sono state sperimentati in clinica: PKC412 (midostaurina), CEP701 (lestaurtinib), MLN518 (tandutinib), BAY439006 (sorafenib).
Nella maggior parte degli studi (53-56) questi farmaci somministrati in monoterapia per via orale
in pazienti con LAM in recidiva o refrattari sono
stati ben tollerati, ma hanno dimostrato risposte
cliniche modeste, limitate e transitorie.
Altri Autori (57-60) hanno quindi cercato di valutare l’impatto degli inibitori di tirosinchinasi quando associati ad una chemioterapia standard di
induzione, lasciando intravedere un possibile uti-
Leucemia mieloide acuta
lizzo di questi farmaci nel controllo della malattia
residua minima (vista la loro accettabile tossicità).
Uno dei più interessanti inibitori di tirosinchinasi è
sicuramente la midostaurina (PKC412) che oltre alla
azione su FLT3 (sia ITD che TKD), mostra una notevole azione di inibizione su VEGFR, c-Kit e
PDGFR-A e B (60, 61); lo studio internazionale in
corso del CALGB (62) che ha coinvolto anche il
GIMEMA prevede, in pazienti con LAM con mutazioni FLT3, la randomizzazione in induzione a midostaurina o placebo associati allo schema standard
di daunoblastina e ara-C (3+7); successivamente
i pazienti in RC proseguono la terapia di mantenimento per un anno con ara-C associata a midostaurina o placebo.
Al momento ci sono altri 3 studi di fase I/II che valutano l’impatto di inibitori di tirosinchinasi come terapia di mantenimento nelle LAM; questi studi utilizzano l’imatinib (Clinicaltrials.gov NCT00509093),
il dasatinib (Clinicaltrials.gov NCT00850382) e il
semaxanib (Clinicaltrials.gov NCT 00005942).
Anche il sorafenib (63) un inibitore di tirosinchinasi disponibile in formulazione orale è attivo verso FLT3, c-Kit, PDGFR e VEGFR e potrebbe aver
un ruolo nella terapia di mantenimento delle LAM;
uno studio di fase II, randomizzato (64), ha valutato il significato sulla EFS e OS dell’aggiunta di
sorafenib o placebo alla terapia di induzione e poi
di una terapia di mantenimento della durata di 1
anno con sorafenib; sebbene la tossicità fosse
accettabile sia nella fase di induzione che nel
mantenimento, l’aggiunta di sorafenib non determinava un miglioramento della EFS e OS rispetto al controllo.
Inibitori di farnesil-transferasi
La farnesil-tranferasi agisce farnesilando residui
terminali di cisteina di molte proteine tra le quali
RAS e circa il 30% delle LAM hanno delle mutazioni costitutive di RAS la cui attivazione stimola
la proliferazione cellulare (65). Gli inibitori di farnesiltransferasi bloccherebbero la farnesilazione
di RAS impedendone il trasferimento alla membrana cellulare e riducendo la trasduzione di
segnali fitogeni (66, 67).
Gli inibitori di farnesiltransferasi più studiati
sono il lonafarnib (SCH66336) e soprattutto il tipifarnib (R115777) che avrebbe anche una azione
inibitoria sulla MDR-1 e un sinergismo citotossi-
co con la daunoblastina (68). Alcuni studi hanno valutato l’azione del tipifarnib in pazienti con
LAM in recidiva o refrattari; la mielosoppressione era l’evento più frequente e non c’era evidenza di efficacia superiore rispetto alla terapia convenzionale (69-71).
Uno studio (72), non randomizzato, ha valutato
tipifarnib come monoterapia di mantenimento in
48 pazienti con LAM ad alto rischio (per età, citogenetica o diagnosi di LAM secondaria) in RC;
al recupero dopo consolidamento tipifarnib veniva somministrato per via orale alla dose di 400
mg volte al giorno per 14 giorni ogni 21 per un
totale di 16 cicli; anche in questo studio l’effetto collaterale maggiore era la mielosoppressione (58%) e solo il 42% dei pazienti concludeva
i 16 cicli. La durata media della DFS era di 13
mesi, significativamente superiore a quella di 23
pazienti con caratteristiche simili utilizzati come
controllo; inoltre il 30% dei pazienti aveva una
DFS superiore a 2 anni e quindi lo studio, sia pure
non randomizzato, lasciava intravedere un possibile ruolo di tipifarnib nella terapia di mantenimento della LAM.
Sulla scorta di questa esperienza il gruppo
ECOG ha avviato un studio randomizzato di fase
III atto a valutare tipifarnib come terapia di mantenimento in pazienti con LAM in II RC o RC dopo
2a linea di chemioterapia fino a recidiva confrontato con nessuna terapia (ClinicalTrials.gov
NCT00093470).
Inibitori dell’angiogenesi
L’ipotesi che la neoangiogenesi abbia un ruolo
importante non solo nei tumori solidi ma anche
nella leucemie acute è supportata non solo dal
fatto che il midollo nelle LAM presenta una densità dei microvasi superiore rispetto al midollo normale (73, 74) ma anche dalla riduzione della densità dei microvasi nei pazienti con leucemia acuta che rispondono alla chemioterapia (74).
Numerose evidenze in vitro supportano il contributo della angiogenesi alla leucemogenesi e in
particolare è stato rilevato che i blasti leucemici
esprimono VEGFR e sono in grado di stimolare
la neoangiogenesi (75).
Negli ultimi anni sono state identificate molte
molecole classificate come inibitori dell’angiogenesi: bevacizumab (anticorpo anti-VEGF), suni-
73
74
Seminari di Ematologia Oncologica
tinib (SU11246, inibitore di VEGF e di PDGFR),
semaxanib (SU5416), lenalidomide agente immunomodulante, cilengitide. Per alcuni di questo
farmaci (bevacizumab, cilengitide, lenalidomide)
sono in corso trials per valutare l’efficacia di una
terapia di mantenimento nel pazienti con LAM
in RC.
Anticorpi monoclonali
Il gemtuzumab ozogamicin (GO) è un anticorpo
monoclonale antiCD33 legato alla calicheamicina ampiamente studiato nelle LAM.
La maggior parte dei primi studi con GO sono
stati effettuati nella LAM in recidiva o in prima
linea in associazione alla chemioterapia convenzionale (76-79). Questi studi hanno mostrato che
GO ha attività limitata con agente singolo e che
in terapia di combinazione non vi sono importanti differenze in termini di frequenza di RC tra
i regimi con o senza GO ad eccezione di alcuni
subset di pazienti a citogenetica favorevole/
intermedia (79). Si potrebbe invece intravedere
un ruolo di GO nella terapia di mantenimento e
nel controllo della malattia residua minima come
da alcuni risultati ottenuti nella leucemia acuta
promielocitica (80). Un gruppo Italiano ha recentemente valutato la terapia di mantenimento con
GO a basse dosi (3 mg/m2 per 3 cicli) in pazienti con LAM ed età superiore a 60 anni che non
avevano mobilizzato cellule staminali periferiche
e che quindi non venivano avviati ad autotrapianto; accanto ad una tossicità ematologica ed
extraematologica accettabile si registravano
una migliore DFS e OS rispetto ai pazienti che
venivano sottoposti ad autotrapianto o a chemioterapia (81). È necessario però ricordare che
attualmente il GO non è più disponibile nella pratica clinica.
n CONCLUSIONI
Gli enormi progressi degli ultimi anni nella conoscenza della biologia delle LAM hanno consentito stratificazioni prognostiche citogenetico-molecolari ma non sono stati seguiti da significative
modifiche della DFS e OS soprattutto nei pazienti anziani. Infatti, anche se i pazienti trattati con terapie di induzione standard ottengono la RC in per-
centuali variabili in rapporto all’età e al gruppo di
rischio biologico, la recidiva è un evento purtroppo frequente. Pertanto la sfida più importante è
stata e continua ad essere a tutt’oggi l’ottimizzazione delle terapie post-remissionali.
Nel paziente giovane l’ampliarsi degli orizzonti trapiantologici con il diversificarsi dei regimi di condizionamento, delle fonti di cellule staminali
emopoietiche, il superamento della barriera HLA
(trapianto da donatore non consanguineo, aploidentico o da cordone ombelicale) permettono
quasi sempre l’esecuzione di un trapianto allogenico nel paziente quando indicata.
Nel paziente anziano invece l’ipotesi trapiantologica post-remissionale e/o la terapia intensificate post-remissionali sono spesso improponibili e
le classiche terapie mielosoppressive di mantenimento hanno dato risultati controversi e spesso deludenti; rimane a tutt’oggi fondamentale
quindi continuare nella ricerca clinica di strategie
terapeutiche di mantenimento.
Le risposte cliniche dei nuovi farmaci in monoterapia in induzione sono state spesso limitate
e transitorie ed è realistico pensare che difficilmente questi nuovi farmaci determineranno nella LAM quello che gli inibitori di tirosinchinasi hanno determinato nella leucemia mieloide cronica;
ma proprio il loro meccanismo d’azione, in grado di interferire con specifici targets e pathways,
ha riacceso l’interesse sulla terapia di mantenimento nelle LAM; i profili di tollerabilità anche in
termini di qualità di vita si sono mostrati accettabili ma solo studi clinici randomizzati potranno dimostrare la loro efficacia nel migliorare la
DFS e la OS.
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Linfomi
non Hodgkin
FRANCESCO ZAJA, RENATO FANIN
Clinica Ematologica, Centro Trapianti e Terapie Cellulari “Carlo Melzi”,
DISM, Azienda Ospedaliero Universitaria, Udine, Italy
n INTRODUZIONE
I linfomi non Hodgkin (LNH) sono un gruppo eterogeneo di malattie del sistema linfatico che si
differenziano per aspetti epidemiologici, biologici, clinici e prognostici. Il trattamento dei LNH ad
alto grado è in genere mirato all’eradicazione del
linfoma, effetto che si ottiene in misura variabile nel 20-70% dei casi a seconda delle caratteristiche dei pazienti e del tipo di linfoma. L’età
avanzata e la presenza di comorbilità rappresentano frequentemente un ostacolo all’espletamento del programma terapeutico. I LNH a basso grado hanno un comportamento meno aggressivo,
a volte indolente; il trattamento è in genere riservato alle forme sintomatiche o progressive e, seppur in grado di indurre remissioni complete, non
è quasi mai in grado di determinare l’eradicazione della malattia che risulta quindi destinata nel
tempo a fasi di recidiva e necessità di nuovi trattamenti.
In questi ultimi decenni anni l’introduzione di procedure intensive quali il trapianto di cellule staParole chiave: linfomi non Hodgkin, terapia di consolidamento, terapia di mantenimento.
Indirizzo per la corrispondenza
Francesco Zaja
Clinica Ematologica
Azienda Ospedaliero Universitaria
S.M. Misericordia
P.le S. Maria Misericordia, 15 - 33100 Udine
E-mail: [email protected]
Francesco Zaja
minali autologhe ed allogeniche e di nuovi agenti terapeutici come gli anticorpi monoclonali e
numerosi agenti biologici ha modificato in misura sensibile l’approccio ai pazienti affetti da LNH.
Per specifiche tipologie di LNH e di pazienti, programmi terapeutici un tempo basati solo su regimi di chemio o radioterapie di induzione, sono stati ora ampliati con trattamenti di consolidamento e/o di mantenimento con un miglioramento in
termini di qualità e di durata della risposta.
Rispetto al passato quindi si attuano spesso programmi terapeutici continuativi, strutturati in varie
fasi (induzione della risposta, consolidamento,
mantenimento).
I nuovi agenti terapeutici di cui oggi si dispone
tra cui gli anticorpi monoclonali, le terapie immunomodulatorie ed epigenetiche, differiscono dalla tradizionale chemioterapia per le modalità di
somministrazione (continuativa vs ciclica), per la
minore intensità del trattamento, per il meccanismo d’azione che risulta più specifico e selettivo, essendo mirato su precisi bersagli antigenici cellulari o molecolari e per il migliore profilo di
tolleranza. In virtù di tali caratteristiche questi nuovi agenti rappresentano una valida alternativa
terapeutica specie per alcune categorie di
pazienti e/o di LNH divenuti refrattari alle tradizionali chemioterapie o che non risultano eleggibili a programmi intensivi o che sono ad alto
rischio di recidiva, nei quali si vuole cercare di reindurre o mantenere il più a lungo possibile una
risposta.
Parallelamente alla disponibilità di nuove terapie
si sono ampliate le nostre conoscenze sulla bio-
80
Seminari di Ematologia Oncologica
logia dei LNH, sono stati definiti nuovi sistemi prognostici e perfezionate le indagini di diagnostica
molecolare e radiologica. Queste nuove acquisizioni, rispetto al passato, ci consentono di
meglio definire il tipo, l’intensità e la durata del trattamento così da ottimizzare il percorso terapeutico nelle sue varie fasi.
Obiettivo del presente articolo è cercare di fornire un aggiornamento su alcune procedure o
trattamenti che hanno maggiormente contribuito a modificare l’approccio ai pazienti con LNH
e sui criteri che, nella pratica clinica, orientano
la scelta di un prolungamento od intensificazione del programma terapeutico. In particolare ci
si soffermerà sul ruolo della terapia di consolidamento con autotrapianto di cellule staminali o
con radioimmunoconiugati, sugli effetti della terapia di mantenimento con rituximab, sull’attività
terapeutica di alcuni nuovi agenti biologici come
la lenalidomide, gli inibitori delle iston deacetilasi e mTOR.
n AUTOTRAPIANTO DI CELLULE
STAMINALI
L’impiego di chemioterapici a dosaggi sovra massimali con il supporto di cellule staminali autologhe, (autotrapianto di cellule staminali, ASCT) rappresenta un tentativo per cercare di superare i
meccanismi della chemioresistenza. Numerosi
studi sono stati finora eseguiti per valutare il ruolo dell’ASCT come terapia di consolidamento per
pazienti con LNH ad alto e basso grado di malignità, in prima linea o in salvataggio.
Nei pazienti con LNH ad alto grado l’ASCT viene somministrato con finalità eradicante. Il vantaggio di tale procedura nei confronti di una chemioterapia tradizionale appare ben definito per
quanto riguarda la categoria di pazienti con LNH
B diffuso a grandi cellule (DLBCL) con ricaduta
chemiosensibile (1).
Lo stato della risposta alla terapia di salvataggio
rappresenta un elemento prognostico molto
importante per prevedere la riuscita terapeutica
del trapianto e, a tal fine, l’esecuzione di una PET
prima dell’ASCT può essere di utilità per meglio
interpretare lo stato di remissione dei pazienti. Il
rischio di ricaduta post trapianto risulta infatti signi-
ficativamente maggiore nei pazienti PET positivi
(2-6).
Recentemente sono stati riferiti i risultati dello studio europeo CORAL mirato a confrontare l’efficacia di due regimi terapeutici di salvataggio, R-ICE
vs. R-DHAP entrambi seguiti da consolidamento con ASCT in pazienti con DLBCL in ricaduta.
Tale studio non ha dimostrato differenze sostanziali tra i due schemi terapeutici ma, come dato
collaterale, ha permesso di evidenziare che le
aspettative di raggiungere ed ottenere una remissione duratura in pazienti che ricadono dopo un
regime di terapia di prima linea contenente rituximab sono decisamente inferiori rispetto al passato (7).
L’impiego dell’ASCT come terapia di consolidamento in prima linea rimane ancora controverso
(8-16). I risultati di vari studi, peraltro condotti su
categorie a rischio diverso e con terapie di induzione non omogenee, hanno dato infatti risultati
contrastanti a favore o meno dell’intensificazione con ASCT. Sulla base di tali esperienze e della rielaborazione dei risultati in alcune metanalisi
(17, 18) l’impiego dell’ASCT in prima linea appare giustificato per le categorie prognostiche a
rischio alto-intermedio ed alto secondo
l’International Prognostic Index (IPI) dopo l’espletamento di un programma completo di chemioterapia di induzione. Nell’ambito della Fondazione
Italiana Linfomi è stato recentemente completato uno studio prospettico randomizzato riservato a pazienti con DLBCL ed IPI alto-intermedio
ed alto nel quale si è voluto valutare l’impatto derivante dall’eseguire o meno una procedura di consolidamento con ASCT dopo una terapia di induzione “dose-dense”. I risultati di questo studio
hanno documentato un vantaggio in termini di
sopravvivenza libera da progressione a 2 anni del
13% nel braccio includente il consolidamento con
ASCT (72% vs 59%) (19).
Per quanto riguarda i pazienti con LNH basso
grado ed, in particolare, linfomi follicolari, diversi studi concordano che l’impiego dell’ASCT
come terapia di consolidamento alla ricaduta
dopo una terapia di salvataggio o dopo una prima linea di terapia è in grado di prolungare la
durata della risposta e, in una certa percentuale di pazienti, forse permettere l’eradicazione (2022). Il raggiungimento della negativizzazione del-
Linfomi non Hodgkin
ta a presentare ricaduta o progressione di malattia e pertanto necessita di un salvataggio terapeutico. Le fasi di recidiva si associano in genere a
fenomeni di farmaco-resistenza con ridotta qualità e durata della risposta. Per cercare di migliorare la prognosi dei pazienti in ricaduta è stato proposto di continuare il trattamento con rituximab
anche dopo il termine della chemioterapia nell’ambito di una terapia di mantenimento. A tal fine
l’EORTC ha promosso uno studio randomizzato
in pazienti con linfoma follicolare di grado 1-3 in
ricaduta dopo ≤2 regimi di chemioterapia senza
antracicline.
I pazienti arruolati in questo studio venivano randomizzati ad una prima fase di re-induzione tra
CHOP e R-CHOP e, successivamente, i pazienti in risposta parziale o completa venivano randomizzati ad una seconda fase di terapia di mantenimento con rituximab 375 mg/mq ogni 3 mesi
fino a 2 anni vs. sola osservazione. I risultati di
questo studio (33) hanno documentato un prolungamento della mediana di sopravvivenza libera da progressione (obiettivo primario dello studio) da 16 mesi a 44 mesi per il braccio sperimentale ed hanno permesso la registrazione FDA ed
EMA del rituximab come terapia di mantenimento in pazienti con linfoma follicolare in risposta
completa o parziale dopo una terapia di salvataggio con schedula di somministrazione che ne prevede l’impiego al dosaggio di 375 mg/mq ogni 3
mesi fino a 2 anni.
Il vantaggio derivante dalla somministrazione della terapia di mantenimento con rituximab ha
determinato un prolungamento della sopravvivenza libera da progressione in tutti i gruppi di rischio
la malattia minima residua, valutata mediante analisi PCR, appare strettamente correlato con la
durata della risposta (23, 24).
n AGENTI IMMUNOTERAPICI
Il trattamento dei LNH è stato rivoluzionato in questo ultimo decennio dall’inserimento dell’anticorpo monoclonale chimerico rituximab (25). Tale
agente ha come bersaglio l’antigene CD20, una
molecola espressa nel comparto B linfocitario, dal
linfocita pre-B al linfocita B maturo; non è
espresso nelle cellule staminali emopoietiche e
nelle plasmacellule. Il rituximab determina una forte citolisi dei linfociti B CD20 positivi mediante un
effetto di citotossicità anticorpo-dipendente, di
citotossicità cellulo-mediata anticorpo-dipendente ed un’attivazione dei fenomeni di apopotosi cellulare (25). Il rituximab in monoterapia si è dimostrato un efficace trattamento di salvataggio nel
43% dei casi (26). I buoni risultati in termini di
risposta e tolleranza hanno permesso il suo impiego in associazione ai vari schemi di chemioterapia comunemente impiegati in prima linea o salvataggio (es. R-CVP, R-CHOP, R-FC, R-FN). I risultati di molteplici studi randomizzati concordano
nell’indicare un vantaggio in termini di percentuali e durata di risposta conferiti dall’associazione
di rituximab e chemioterapia rispetto alla sola chemioterapia, in assenza di significativa tossicità
aggiuntiva (Tabella 1) (28-32).
Nonostante i progressi terapeutici ottenuti con l’inserimento del rituximab, la maggior parte dei
pazienti con linfoma follicolare è ancora destina-
Studio
M39021 (27)
M39023 (28)
GLSG (29)
FL2000 (6)
Regime di terapia
CVP ± rituximab
MCP ± rituximab
CHOP ± rituximab
CHVP + IFN ± rituximab
Periodo osservazione
(anni)
4
4
5
5
Sopravvivenza (%)
Controllo
Rituximab
77
74
84
79
83
87
90
84
Valore P
0,029
0,0205
0,0493
0,025
(pazienti
alto rischio)
TABELLA 1 - Risultati studi randomizzati tra chemioterapia e rituximab associato a chemioterapia nel trattamento di pazienti con
linfoma follicolare.
81
82
Seminari di Ematologia Oncologica
esaminati ed, in particolare, sia nei pazienti reindotti con CHOP vs R-CHOP, sia nei pazienti in
risposta completa e/o parziale dopo la re-induzione (33). Quindi, oltre al stato di responsività alla
terapia di salvataggio, al momento non disponiamo di indicatori in grado di guidarci nel discriminare categorie di pazienti ai quali somministrare
o meno il mantenimento. Questo studio non è riuscito a documentare un vantaggio in termini di
sopravvivenza globale verosimilmente per l’effetto della terapia di salvataggio con rituximab nei
pazienti arruolati al braccio osservazionale.
Anche altri studi hanno permesso di confermare l’efficacia di rituximab come terapia di mantenimento (Tabella 2) anche dopo regime di chemioterapia di salvataggio diversi dalla CHOP (3439). Il gruppo tedesco di Forstpointer et al., oltre
a confermare il vantaggio dell’aggiunta del rituximab ad una polichemioterapia di salvataggio
con fludarabina, ciclofosfamide e mitoxantrone
(FCM±rituximab), ha documentato che la prosecuzione della terapia di mantenimento con rituximab è risultata in grado di allungare anche la
durata della risposta (34) (Tabella 2). Nello studio
coordinato da Ghielmini et al. del gruppo SAKK,
pazienti con linfoma follicolare in risposta dopo
terapia con solo rituximab venivano randomizzati a ricevere o meno 4 ulteriori singole somministrazioni di rituximab ogni 2 mesi. Lo studio ha
documentato un vantaggio per il braccio rituximab con un prolungamento della mediana di
sopravvivenza libera da eventi da 12 a 23 mesi
(36) (Tabella 2). In termini di tossicità, l’impiego
di una terapia continuativa di mantenimento con
rituximab è stata in genere ben tollerato; negli studi pubblicati (Tabella 2), durante la terapia di mantenimento con il rituximab, non era previsto il ricorso a specifici programmi di profilassi antimicrobica. Nello studio EORTC (33) è stata osservata
una maggiore incidenza di eventi avversi infettivi nei pazienti avviati a terapia di mantenimento
anche se si è trattato in genere di infezioni delle
prime vie aeree di non difficile gestione clinica.
Analogamente negli altri studi randomizzati nel
braccio che prevedeva terapia di mantenimento
con rituximab non è emersa una significativa maggiore incidenza di eventi infettivi, sviluppo di
secondi tumori e/o significativa tossicità extraematologica. Da segnalare la possibile insorgenza di neutropenia isolata (non associata ad anemia e/o piastrinopenia) ritardata (insorgenza a
distanza di 1-5 mesi con mediana di 4 mesi dal
termine della terapia), di grado variabile, raramente complicata da episodi settici, associata ad una
ipoplasia midollare della serie granulocitaria, in
genere di breve durata, con recupero spontaneo
o accelerato dall’uso del fattore di crescita granulocitario (40).
Studio/Gruppo
Terapia induzione
Linea di terapia
Disegno studio
Mantenimento
con rituximab
EORTC 20981 (33)
CHOP ± rituximab
2
Fase III
GLSG (34)
FCM ± rituximab
2
Fase III
Minnie Pearl (35)
SAKK 35/98 (36)
rituximab
rituximab
1
1/2
Fase II
Fase III
Minnie Pearl (37)
rituximab
2
Fase II
ECOG 1496 (38)
CVP
1
Fase III
PRIMA (41)
R-CHOP ± rituximab
1
Fase III
PFS da 16 a 44 mesi
nel braccio R
DR non raggiunta nel braccio
R vs. 17 mesi
OR 73%; PFS 34 mesi
EFS da 12 a 23 mesi
nel braccio R
PFS 31 mesi nel braccio
R vs 7 mesi
PFS da 16 a 52 mesi
nel braccio R
PFS 75% braccio R vs 58%
PFS: sopravvivenza libera da progressione; R: rituximab; DR: durata risposta; OR: risposta globale; EFS: sopravvivenza libera da eventi.
TABELLA 2 - Risultati studi relativi all’impiego del mantenimento con rituximab in prima linea o dopo terapia di salvataggio nei
pazienti con linfoma follicolare.
Linfomi non Hodgkin
In definitiva, l'associazione rituximab-chemioterapia seguita da terapia di mantenimento con rituximab rappresenta il nuovo standard terapeutico
per i pazienti con linfoma follicolare in recidiva.
Sulla base di tali risultati, si è voluto verificare il
ruolo della terapia di mantenimento con rituximab
non solo dopo terapia di salvataggio ma anche
dopo un trattamento di prima linea.
Questo l’obiettivo dello studio europeo PRIMA,
recentemente pubblicato, nel quale pazienti con
linfoma follicolare di nuova diagnosi ed indicazione al trattamento, in risposta dopo un prima fase
di chemio-immunoterapia secondo gli schemi RCVP o R-CHOP o R-FCM venivano randomizzati a sola osservazione oppure ad una terapia di
mantenimento con rituximab 375 mg/mq ogni 2
mesi fino a 2 anni (41). La scelta di somministrare il rituximab ogni 2 mesi scaturisce da alcuni studi di farmacocinetica che indicano un dosaggio
sotto il livello terapeutico al 3 mese di terapia (42,
43). I risultati dello studio PRIMA, analogamente
a quello EORTC, documentano un vantaggio in
termini di PFS (82% vs 66% a 2 anni) analizzando la popolazione di pazienti nel suo complesso
e distinguendo sottogruppi di analisi in base
all’età, indice di rischio secondo FLIPI e risposta
alla terapia di induzione. Dopo un periodo mediano di osservazione di 36 mesi la sopravvivenza
libera da progressione è risultata del 75% nel
braccio di mantenimento con rituximab e del 58%
nel braccio osservazione.
Due anni dopo la randomizzazione il 71,5% dei
pazienti nel braccio di mantenimento con rituximab erano in RC vs. il 52% del braccio osservazionale (p=0,0001). Tale vantaggio appare ancora superiore se confrontato con quello osservato nello studio EORTC in salvataggio. La sopravvivenza globale al momento dell’analisi non differisce tra i due gruppi. Da segnalare un aumento dell’incidenza nel braccio di mantenimento con
rituximab di eventi avversi di ogni grado (52% vs
35%), di grado 3-4 (24% vs 17%) e di infezioni
o neutropenie di grado 3-4 (4% vs <1%).
Questi risultati hanno portato all'autorizzazione
FDA ed EMA del rituximab come terapia di mantenimento nei pazienti con linfoma follicolare in
risposta dopo una prima linea terapeutica con
schedula di somministrazione ogni 2 mesi fino a
2 anni.
Risulta evidente, da questi studi, che la continuità terapeutica con rituximab determina un vantaggio in termini di allungamento del tempo alla
progressione della malattia e durata della risposta. Non è definito ancora il reale impatto in termini di sopravvivenza secondario a questa politica di trattamento ed è da verificare, la possibile insorgenza di effetti tossici tardivi, in particolare infezioni e seconde neoplasie. Una revisione
sistematica con metanalisi degli studi randomizzati ha indicato che la terapia di mantenimento
con rituximab aumenta il rischio di infezioni e neutropenia; i pazienti precedentemente trattati con
schemi contenenti Fludarabina appaiono particolarmente esposti al rischio di queste complicazioni e richiedono programmi di stretta osservazione (44).
Rimangono ancora da chiarire alcuni aspetti relativi alla terapia di mantenimento con rituximab ed,
in particolare, la migliore schedula terapeutica, la
durata del trattamento, il monitoraggio dei pazienti. In fase di studio è anche l’impiego del rituximab come terapia di mantenimento dopo una
procedura ad alte dosi ed autotrapianto di cellule staminali o dopo terapia con radioimmunoconiugati (45-49).
Altri studi clinici sono in corso per verificare un
analogo effetto terapeutico in altre tipologie di linfomi indolenti e nei linfomi mantellari. Un recente studio del gruppo tedesco in pazienti con linfoma mantellare di età >65 anni responsivi ad una
terapia di induzione di prima linea che prevedeva la randomizzazione tra terapia di mantenimento con interferon-alfa e con rituximab ha documentato un significativo incremento della durata della risposta nel braccio con mantenimento
di rituximab (50).
Altri studi sono in corso per accertare l’efficacia terapeutica in questo ambito di nuovi anticorpi monoclonali anti CD20 quali il GA101, il rituximab nella sua formulazione sc, l’ofatumomab
e di altri anticorpi monoclonali diretti verso antigeni diversi.
Un approccio immunologico alternativo è quello
fornito dall’impiego di agenti radioimmunoterapici. In questo caso l’anticorpo funge solo da mezzo di trasporto mirato di un isotopo radioattivo.
Al momento si dispone di due radio immunoconiugati diretti contro l’antigene CD20 e coniuga-
83
84
Seminari di Ematologia Oncologica
ti rispettivamente con (90)Y (ibritumomab tiuxetan;
Zevalin) o (131)I (tositumomab; Bexxar). Il vantaggio di questi agenti è quello di poter effettuare una
radioterapia a livello sistemico attraverso una diffusione ematica del farmaco; l’effetto “cross fire”
permette inoltre un’azione radiante anche sul quelle parti del tessuto linfomatoso non raggiungibili direttamente dall’anticorpo. (90)Y ibritumomab tiuxetan e (131)I tositumomab sono risultati attivi e ben
tollerati e trovano indicazione come trattamento
di salvataggio nei linfomi follicolari. La loro attività è stata sfruttata anche come terapia di consolidamento dopo un programma di terapia convenzionale. Lo studio di fase III FIT è stato finalizzato a valutare l’effetto del consolidamento con
(90)
Y ibritumomab tiuxetan vs osservazione in
pazienti con linfoma follicolare in stadio avanzato in prima remissione. Il gruppo di pazienti avviati a consolidamento con (90)Y ibritumomab tiuxetan ha presentato un significativo miglioramento
della sopravvivenza libera da progressione (36,5
vs 13,3 mesi) a prescindere dal tipo di risposta
(parziale o completa) ottenuta al termine della terapia di induzione (51). Dopo consolidamento con
(90)
Y-ibritumomab tiuxetan, il 77% dei pazienti in
risposta parziale al termine dell’induzione si è convertito in risposta completa, con un tasso di risposte complete finali pari all’87% (51).
Tale agente può pertanto essere considerato in
aggiunta o in alternativa all’autotrapianto specie
in quelle categorie di pazienti nelle quali per età
o comorbilità non risulti possibile eseguirlo.
n TERAPIA CONTINUATIVA
CON NUOVI AGENTI TERAPEUTICI
Lenalidomide
La lenalidomide è un agente immunomodulante
di nuova generazione con attività terapeutica in
varie patologie onco-ematologiche ed, in particolare, nel mieloma multiplo, nelle sindromi mielodisplastiche, nelle leucemie acute mieloidi, nella
leucemia linfatica cronica ed in alcune forme di
linfoma. Il meccanismo d’azione è complesso e
solo in parte conosciuto; nei linfomi mantellari
lenalidomide ha un’azione diretta sull’espressione di p21 e SPARC, 2 oncogeni che intervengono nei processi di crescita cellulare (52, 53).
Recentemente è stato inoltre dimostrato che lenalidomide promuove l’attività dei linfociti T, delle cellule NK e NKT e la formazione di immuno-sinapsi tra le cellule linfomatose e le cellule NK (54).
Somministrata in modo continuativo ad un
dosaggio variabile in base alla tolleranza da 10 a
di 25 mg/die per 21 giorni ogni mese lenalidomide si è dimostrata attiva in diverse istologie di LNH
ricaduti/refrattari ed, in particolare, nel LNH mantellari (MCL) dove si è osservato un 42-53% di
risposte globali ed un 20% di risposte complete
(55-58). La tolleranza al farmaco è risultata buona con tossicità di grado 3-4 prevalentemente
ematologica, in particolare, neutropenia e piastrinopenia. Nell’ambito della Fondazione Italiana
Linfomi è stato recentemente condotto uno studio volto a valutare l’efficacia e sicurezza di lenalidomide e desametasone come terapia di salvataggio per i MCL. L’aggiunta del desametasone
era motivata dall’obiettivo di ottenere un effetto
sinergico sulla base di osservazioni in vitro a della favorevole esperienza clinica registrata nel mieloma multiplo. Il disegno dello studio prevedeva
la somministrazione ogni mese fino ad un massimo di 12 mesi di lenalidomide al dosaggio di 25
mg/die dal giorno 1 al 21 e di desametasone 40
mg nei giorni 1, 8, 15 e 22, con possibilità di ridurre il dosaggio dei farmaci in caso di intolleranza.
L’analisi dei risultati su una popolazione di 33
pazienti con età mediana di 68 anni ha documentato una percentuali di risposte del 52% e complete del 24% (59). Tredici pazienti hanno dovuto interrompere il trattamento per mancanza di
risposta e due per intolleranza. Le mediane di
sopravvivenza libera da malattia e sopravvivenza globale sono risultate 12 mesi e 20 mesi. La
cinetica di risposta, qualora presente, è stata nella maggior parte dei casi veloce entro i primi 3
mesi dall’inizio della terapia. Da rimarcare che il
50% dei pazienti già precedentemente trattati con
bortezomib o ASCT hanno risposto. Come atteso, il tasso di risposta è risultato minore in quei
pazienti refrattari alla loro ultima linea terapeutica, anche se pur sempre pari al 40% per le risposte globali e al 10% per quelle complete (59). I
dati esposti indicano che la lenalidomide è un
agente efficace nel trattamento dei pazienti con
MCL in fase avanzata e refrattario. La tossicità di
grado 3/4 è stata prevalentemente ematologica
Linfomi non Hodgkin
con neutropenia nel 53%, leucopenia nel 25%,
piastrinopenia nel 22%, infezioni e neutropenie
febbrili nel 12%. I risultati di questa esperienza
sono in linea con quelli precedentemente riportati in 2 studi con lenalidomide in monoterapia (5758). Con i limiti di un confronto tra studi diversi
non sembra che l’aggiunta del desametasone
abbia inciso in misura determinante in termini di
risposta e che pertanto altri agenti debbano essere sperimentati in associazione alla lenalidomide.
Sono ora in fase di studio nuovi trials clinici con
lenalidomide in associazione ad altri agenti, in particolare rituximab e bendamustina.
Oltre ai MCL, lenalidomide è stata impiegata con
risultati molto interessanti anche in altri istotipi LNH
ed in particolare nei DLBCL e nei LNH follicolari. Lo studio di Hernandez-Ilizaliturri et al. (60) ha
voluto verificare l’efficacia di lenalidomide come
trattamento di salvataggio nei pazienti con
DLBCL, stratificando la risposta a seconda dei
sottogruppi tipo germinal center B-cell vs nongerminal center B-cell-like secondo l’algoritmo di
Hans. Differentemente da quanto atteso, le percentuali di risposta sono risultate nettamente
migliori per il sottogruppo a prognosi sfavorevole (nongerminal center B-cell-like) con risposte globali pari a 53% vs 9% (P=,006), risposte complete 23,5% vs 4% e mediana di sopravvivenza libera da progressione di 6,2 vs 1,7 mesi (60). Sulla
base di questi incoraggianti risultati sono in corso studi volti a valutare l’impiego della lenalidomide in associazione a schemi di polichemioimmunoterapia.
HDACs (HDAC) sono un gruppo di molecole
capaci di indurre una rapida acetilazione dell’istone ed un rimodellamento della cromatina determinando l’attivazione di geni oncosoppressori ed
un effetto antitumorale mediante azione su geni
o proteine coinvolte nei fenomeni di apoptosi, proliferazione e differenziazione cellulare, angiogenesi e risposta immune.
Le prime evidenze a supporto dell’azione anti
tumorale degli HDAC risalgono all’azione del sodio
fenil butirato nella leucemia acuta promielocitica
(61). Il vorinostat (Zolinza™), un HDAC per uso
orale, è risultato attivo nel trattamento dei linfomi T cutanei (CTCL), dei linfomi diffusi a grandi
cellule e dei tumori della testa e del collo (62, 63).
Vorinostat ha ricevuto l’approvazione FDA per il
trattamento di pazienti con CTCL refrattari.
Attività similare è stata riportata anche con altri
HDAC, tra cui la romidepsina (64). La Fondazione
Italiana Linfomi sta conducendo uno studio clinico di fase II volto a verificare l’azione terapeutica di panobinostat, come terapia di salvataggio
nei pazienti con DLBCL. Panobinostat è un potente pan HDAC che ha dimostrato azione anti tumorale in numerosi modelli pre-clinici ed, in vivo, in
tumori solidi, nei LNH T cutanei e nel linfoma di
Hodgkin (65-76). Studi in vitro indicano la possibile attività terapeutica di panobinostat anche nei
DLBCL (77, 78).
La schedula terapeutica di questi agenti varia a
seconda dell'HDAC in esame ma si caratterizza,
in genere, per una somministrazione continuativa nel tempo.
Inibitori delle iston deacetilasi
Le nuove conoscenze dei meccanismi epigenetici e delle loro implicazioni fisiopatologiche nello sviluppo ed eterogeneità di varie patologie oncologiche tra cui i LNH hanno permesso di generare
alcuni nuovi agenti terapeutici con meccanismo
d’azione mirato a livello molecolare.
Le iston deacetilasi (HDAC) sono degli enzimi che
partecipano nel regolare la struttura e la funzione della cromatina attraverso la rimozione di gruppi acetili da residui di lisina del core istonico con
il significato di reprimere l’attivazione di alcuni geni
oncosoppressori. Le HDAC agiscono inoltre su
una serie di proteine non istoniche come p53,
HSP90, HIF-1α, α-tubulin e Rb. Gli inibitori delle
Inibitori di mTOR
La via metabolica di mTOR (mammalian target of
rapamycin) interviene nell’accrescimento cellulare regolando l’attivazione dell’oncoproteina AKT.
Tra le varie forme di LNH, i MCL appaiono quelli maggiormente implicati dal punto di vista fisiopatologico con la via metabolica di mTOR.
Su questa base sono stati condotti studi di fase
II con temsirolimus, un inibitore specifico di mTOR,
in pazienti con MCL ricaduti/refrattari. La somministrazione di temsirolimus è risultata attiva in circa il 40% dei pazienti senza differenze sostanziali a seconda dell’impiego di dosaggi di 250 mg o
25 mg la settimana (79, 80). In uno studio di fase
III in 162 pazienti con MCL si è voluta confronta-
85
86
Seminari di Ematologia Oncologica
re l’attività di temsirolimus a 2 diversi dosaggi (75
mg la settimana vs. 25 mg la settimana fino a progressione o intolleranza) con un approccio terapeutico libero scelto dai singoli investigatori nell’ambito di una lista di possibilità. La percentuali di risposta nei 3 gruppi di pazienti sono risultate 22%, 6% e 2%; la sopravvivenza libera da progressione mediana è risultata rispettivamente 4.8,
3.4, e 1.9 mesi (81).
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