rivestimenti vetrosi e argillosi su ceramiche medievali e
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rivestimenti vetrosi e argillosi su ceramiche medievali e
RIVESTIMENTI VETROSI E ARGILLOSI SU CERAMICHE MEDIEVALI E RISULTATI EMERSI DA RICERCHE ARCHEOLOGICHE E ANALISI CHIMICHE E MINERALOGICHE La corretta classificazione di un reperto ceramico, o di un insieme di reperti simili fra loro, di qualsiasi provenienza, prevede varie voci. Se le caratteristiche morfologiche e stilistiche sono rilevabili dalla osservazione diretta del manufatto e possono trovare nei mezzi grafici e/o fotografici un loro modo esauriente di rappresentazione, coadiuvato al massimo da qualche descrizione, quelle relative ai materiali che compongono il manufatto stesso o che comunque ne fanno parte integrante perché utilizzati come rivestimenti, fissati su di esso in fase di cottura, come pure la definizione delle tecniche di lavorazione, per essere messe in evidenza richiedono l'ausilio di analisi di laboratorio, varie e particolari, nel loro insieme definite "archeometriche" o "sussidiarie della archeologia". È oggi ormai acquisito, dopo una ventina di anni di esperienze e dibattiti, il concetto fondamentale impostato sulla necessità di fare confluire in uno stesso campo di studio conoscenze diversificate, ma anche la necessità, da parte di tutti gli interessati, di focalizzare i problemi generali e le possibilità che ciascun campo di indagini può mettere a disposizione. In altri termini si può affermare che la utilizzazione di metodi tecnici, propri delle scienze "applicate", ai fini di un allargamento delle conoscenze relative ai reperti archeologici, di qualsiasi natura essi siano, ha come presupposto alcuni principi fondamentali: 1) Una formulazione precisa del quesito o dei quesiti a cui si vuole dare una risposta. 2) Una scelta del metodo o dei metodi di indagine più idonei per ottenere la risposta stessa. 3) Una capacità interpretativa dei dati acquisiti tale da poter ricollegare fra loro e soddisfare i punti 1) e 2). Se il primo punto è di più diretta pertinenza dell'archeologo che ha eseguito il lavoro sul campo, o comunque di chi studia e classifica i reperti per lo studio archeologico, il terzo dell'operatore scientifico che esegue le analisi su apparecchiature più o meno sofisticate, il secondo coinvolge tutti i ricercatori impegnati nello studio, i quali, pur se formatisi in campi sperimentalmente diversi, devono avere conseguito la possibilità di colloquiare, di comprendersi, di discutere insieme impostazioni preliminari e risultati. Solo in questo modo il lavoro di arricchimento conoscitivo avrà conseguito il suo scopo, non andranno dispersi sforzi e ricerche, a volte pure costose, e verranno evitati anche veri e propri pericoli cui si può andare incontro senza questo interscambio di informazioni e di conoscenze. Non pochi sono i laboratori italiani e stranieri che negli ultimi anni hanno affrontato analisi di vario genere, utili in campo archeologico (1). Comunque, senza dilungarci troppo su queste questioni che costituiscono il punto focale e lo scopo principale del presente corso di lezioni, vorremmo portare il nostro contributo fissando principalmente l'attenzione su dati concreti. emersi nel corso dei nostri studi e su problematiche sorte di fronte ad alcuni risultati. Gli esempi che indicheremo sono relativi principalmente a ceramiche medievali e post-medievali che, per essere in molti casi ricoperte da rivestimenti vetrosi, necessitano di indagini almeno in parte diverse da quelle comuni anche alle produzioni più antiche. Prima di prendere in considerazione le coperture può comunque essere di un qualche interesse ricordare alcune ricerche relative agli impasti. Gli impasti Ceramiche di produzione pisana-Secoli XIII-XV. Figg. 1-3. I vasai pisani impiegavano, per le loro produzioni (2), argilla limosa dei depositi alluvionali del fiume Arno. Fino dai primi anni settanta furono prelevati campioni, fra cui ©1990 Edizioni All’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale molti da scarti di fornaci o comunque da pezzi di sicura produzione locale, per analisi mineralogiche o chimiche. Le analisi mineralogiche, eseguite sulle sezioni sottili presso l'Istituto di Mineralogia dell'Università di Genova, tramite le quali era individuabile un impasto ferrico, con granuli fini di quarzo, mica bianca e feldspati, non risultavano determinanti per distinguere da altri i manufatti pisani sul piano minero-petrografico (3). Tali dati, trovandoci di fronte ad impasti troppo depurati, dovevano essere affiancati da ulteriori e differenti indagini. Analisi chimiche in fluorescenza X (4), eseguite in quelli stessi anni presso il Laboratoire de Recherches Scientifiques-Maison de l'Orient di Lione in Francia, fornivano le seguenti percentuali medie relative ad otto elementi (5): Ca0 = 5,7 0,8; Fe203 = 6,60 0,41; TiO2 = 0,87 0,04; K2O = 2,80 0,18; SiO2 = 62,7 1,6; Al203 = 17,8 0,9; MgO = 3,35 0,26; MnO = 0,144 0,011. Tali dati, affiancati da altri (6), ci danno una buona caratterizzazione del materiale pisano, ma la loro utilizzazione dovrà sempre in ogni modo prevedere una considerazione a fianco di quelli morfologico-stilistici. Come vedremo meglio nell'esempio successivo potranno venire confrontati con prodotti pisani, ed essere eventualmente riferiti alle stesse botteghe, solo quei manufatti che da tutti i punti di vista si ricollegano a questi, rientrando anche come fattura, tipo morfologico, tecnica, nelle classi ceramiche note per Pisa nei differenti secoli di attività, che sono, sulla base di studi archeologici di varia natura, le "maioliche arcaiche", e prodotti semplicemente invetriati, durante i secoli XIII-XV, le ceramiche ingobbiate, graffite a punta, "a stecca", "a fondo ribassato", marmorizzate ecc., nei secoli XV-XVII. Le analisi mineralogiche e chimiche indicheranno produzioni di centri differenti se ad una similitudine morfologico-stilistica fa riscontro un impasto di composizione diversa da quello pisano, come avviene ad esempio per "maioliche arcaiche" fabbricate a Lucca o in Liguria nel XIV e XV secolo (7). Ceramiche "graffite tirreniche" di produzione ligure - Fine XII-XIII secolo. Figg. 4-5. Ceramiche ingobbiate e graffite, ravvivate con i colori verde e giallobruno o giallo arancio, rinvenute in Liguria (8), furono definite "graffite tirreniche" per differenziarle dalle graffite arcaiche liguri, del XIV e XV secolo, testimoniate, già intorno agli anni settanta, da qualche scarto di fabbrica rinvenuto a Savona e per indicarne la diffusione in varie zone della costa tirrenica, compreso Pisa dove erano utilizzate come bacini e presenti fra i reperti da sterri, ma pure in Provenza. La attribuzione a fabbriche liguri anche di queste produzioni è stata possibile, prima che i recenti rinvenimenti di abbondanti scarti ne provassero concretamente la produzione almeno in area savonese (9), sulla base dei risultati emersi da analisi mineralogiche e chimiche. Le prime (10) hanno rivelato un impasto alluvionale marnoso, con granuli non molto fini di scisti cristallini a due miche, le seconde (11) la seguente composizione chimica media espressa in percentuali: Ca0 = 5,7 2,3; Fe2O3 = 6760 0730; TiO2 = 0781 0,04; K2O = 2,60 0,16; SiO2 = 64,3 2,1; A12O3 = 15,7 0,6; MgO = 4,30 0,52; MnO = 0,068 0,012. Dalla elaborazione matematica dei dati su computer si potevano ricavare dei dendrogrammi, fig. 6, che mostrano la possibilità di distinguere i prodotti liguri da quelli pisani e da altri. Ma già al momento di queste indagini veniva notato che fra i campioni savonesi e genovesi ne esistevano alcuni che, specialmente a causa di una più alta percentuale di calcio, si differenziavano dai precedenti. Nel riferire i risultati di analisi eseguite più tardi su alcuni bacini di chiese di Pisa, attribuibili per tutti i loro aspetti a queste classi ceramiche, veniva segnalata la presenza di due sottogruppi, uno, formato da esemplari rimossi dalla chiesa di S. Cecilia, era attribuibile a Savona, l'altro, non troppo diverso, costituito da esemplari della parte bassa del campanile di S. Francesco, poteva comunque essere riferito a fabbriche liguri. La differenza fondamentale fra i due era soprattutto nel diverso tenore in calcio (12). Gli indici di dispersione dei dati relativi alle ceramiche di produzione ligure sono comunque piuttosto notevoli e ciò potrebbe essere ricollegabile alla esistenza di più fabbriche che si approvvigionavano da cave diverse, ma anche alla non uniformità in strati diversi di una stessa cava di certi elementi maggiori come il caolino; potrebbero essere state fatte anche miscele di materie prime diverse fra loro, eguali soltanto negli oggetti prodotti ©1990 Edizioni All’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale insieme, addirittura nello stesso momento, come quelli delle due chiese pisane sopra ricordati. In favore comunque all'esistenza di più fabbriche può essere considerato il fatto che, anche se nei due gruppi pisani esistono esemplari del tutto simili fra loro, in quello di S. Francesco predominano gli ingobbiati coperti da vetrine monocrome di colore verde o terra di Siena, privi di elementi graffiti. Con il primo lotto furono analizzati pure reperti da sterri in Pisa, e due campioni parvero, al momento, presentare impasti chimicamente simili a quelli dei prodotti pisani (13). Tali dati erano, e sono ancora di più oggi, in netto contrasto con evidenze archeologiche, che indicano la introduzione della tecnica dell'ingobbio a Pisa, ed in genere in Toscana, non prima della seconda metà del XV secolo, e con analisi mineralogiche che escludono la produzione pisana dei due pezzi (14). Questo esempio, che non mette in modo assoluto in dubbio la validità e la correttezza degli esami eseguiti, mostra in modo evidente la necessità di tenere collegate fra loro tutte le informazioni. In altri termini tutte le acquisizioni relative ad un oggetto o ad una categoria di oggetti devono concordare; se esistono delle discordanze è necessario un approfondimento delle indagini per cercare di capire la causa ed il significato di tali discrepanze. Ceramiche dell'Italia meridionale - Prima metà del XII secolo. Figg. 7-8 Cinque esemplari (15), inseriti su tre differenti edifici pisani, il campanile di S. Sisto e quello di S. Andrea, la chiesa di S. Silvestro, e pertanto chiaramente riferibili ad un periodo compreso entro la prima metà del XII secolo (1118-1133), pur se non tutti eguali fra loro nelle decorazioni, presentavano aspetti, tipi morfologici, impasti, trattamento della superficie esterna lasciata nuda, che li differenziavano da tutti gli altri bacini, coevi e non, delle chiese di Pisa. La chiara presenza negli impasti di inclusi particolari portò a sottoporre dei campioni degli stessi ad analisi mineralogiche e queste rilevarono la presenza, nella argilla utilizzata per plasmarli, di tufi vulcanici basici, che consentiva un preciso riferimento a fabbriche operanti nelle pianure costiere del basso Lazio e della Campania (16). Se teniamo conto dello stato delle ricerche prima degli anni ottanta, la possibilità di attribuire delle ceramiche come quelle in questione ad un momento cronologico e ad una zona di produzione molto circoscritti, mentre non esistevano praticamente confronti con materiali da scavi, era un dato piuttosto rilevante. La questione aprì anche la possibilità di formulare ipotesi e di suggerire dei ripensamenti in relazione ad altre ceramiche. Era in particolare, a nostro avviso, da riconsiderare la attribuzione a centri maghrebini di alcuni bacini della zona di Roma (17), che, da una osservazione a distanza, apparivano del tutto simili a quelli pisani sopra ricordati, e, per motivi indiretti, il riferimento alla fine XI-inizio XII secolo delle prime ceramiche note come "spiral ware" perché da tutti i punti di vista apparivano posteriori e perché l'unico elemento in favore di una datazione tanto antica era la presenza sulla chiesa romana di S. Prassede (18), dove si trovavano fra l'altro associate a "protomaioliche" e quindi a prodotti della fine del XII secolo o della prima metà del XIII. Le ipotesi formulate intorno al 1980, con la ricostruzione di una "stratigrafia" degli elevati ornati con queste ceramiche prodotte in centri dell'Italia meridionale e della Sicilia, hanno trovato precisazioni e conferme in studi relativi a scavi stratigrafici condotti con estrema serietà (19). Ceramiche di produzione spagnola - Prima metà del XII secolo. Fig. 9. Fra i bacini decorati a lustro metallico color rame su smalto bianco delle chiese di Pisa del secolo XI e della prima metà del XII era possibile cogliere delle marcate differenze. Senza tornare su un argomento già più volte considerato, basterà ricordare che in base ai caratteri morfologici, decorativi, composizione degli smalti, colore degli impasti ecc., la massima parte fu riunita in due aggruppamenti: uno, costituito dai pezzi dell'XI secolo (20), l'altro da quelli del XII, primo quarto o prima metà del secolo (21). Per un controllo di questa grossolana suddivisione, in dipendenza anche della disponibilità di ©1990 Edizioni All’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale piccoli frammenti residui dopo la ricomposizione e restauro, il Laboratoire di Lione in Francia, prima menzionato, eseguì delle analisi chimiche. Fra quelli dell'XI secolo risultò evidente la fabbricazione nello stesso luogo, con la stessa argilla, di un buon numero di pezzi inseriti sulla chiesa di S. Sisto (22), riferibili agli ultimi decenni del secolo stesso, che furono ritenuti, in base ai caratteri stilistici, di probabile produzione egiziana. Quello che più ci interessa comunque in questo contesto è il fatto che gli esemplari del XII secolo presentarono composizioni nettamente diverse da tutti quelli più arcaici. Con tutte le cautele dovute alla mancanza di confronti sicuri, sembrò di poter individuare in questi dei prodotti spagnoli, escludendo però le aree di Malaga e di Valenza di cui il laboratorio disponeva già di campionature (23). Una ulteriore complicazione derivava dal fatto che se cinque, dei nove analizzati, risultavano plasmati con la stessa materia prima, gli altri si presentavano più o meno differenti. Le caratteristiche generali, comuni a tutti, sembravano comunque sufficienti a farli ritenere provenienti da una unica area, fabbricati forse da più fabbriche o in centri diversi, ma in ogni modo vicini fra loro. Alla abbondanza di esemplari utilizzati per decorare edifici di molte località, della Grecia, di più regioni italiane, della Francia (24), che denunciano una grossa produzione ed una vasta esportazione, faceva riscontro una quasi totale assenza in territorio spagnolo, ma anche in Egitto, nel Maghreb ecc. Solo recentemente qualche pezzo del tutto simile è stato rinvenuto a Murcia, dove è stato individuato un altro centro di produzione di "loza dorada" (25). Stando allo stato attuale delle ricerche questa ultima area appare la più probabile per l'origine delle nostre ceramiche anche se è del tutto certo che in Spagna molto deve ancora venire in luce ed essere indagato, ed i rinvenimenti di Murcia ne sono una chiara prova. Ceramiche di produzione maiorchina - Secolo XI. Figg. 10-11. Questo argomento verrà ripreso parlando dei rivestimenti; basterà a questo punto indicare che analisi comparative fra gli impasti di alcuni bacini pisani e di reperti rinvenuti a Palma di Maiorca sono state effettuate presso l'Università di Pisa. Tali indagini hanno fornito dati utili per confermare una ipotesi formulata sulla base di analogie morfologiche, tecniche e stilistiche (26). Per concludere l'argomento "impasti", gli esempi riportati, che ci hanno coinvolto in modo diretto, a cui ne potrebbero essere aggiunti molti, relativi ad esperienze nostre e di altri (27), mostrano situazioni diverse in cui le analisi di laboratorio hanno portato un loro valido contributo per la risoluzione o almeno la impostazione di problematiche importanti e interessanti che consentono di porre delle basi per future ricerche. I rivestimenti Prima di considerare con esempi alcuni risultati delle nostre ricerche, in cui le analisi dei rivestimenti sono state determinanti, ricordiamo rapidamente i differenti tipi di coperture incontrati e i metodi impiegati per la loro definizione. Le ceramiche medievali e post-medievali possono presentare coperture (28) con materiali che, anche per il loro comportamento in fase di cottura, si differenziano fra loro in due categorie: 1) non vetrificabili = ingobbi che, se fossero usati da soli, lascerebbero le superfici permeabili. 2) vetrosi = vetrine e smalti che, formando su una o ambedue le superfici del corpo ceramico una pellicola vetrosa, rendono il recipiente impermeabile sulla parte ricoperta. Gli ingobbi L'identificazione della presenza o assenza di ingobbio su un corpo ceramico è un problema di primo piano nella classificazione. L'argomento, più volte affrontato, è stato riconsiderato recentemente perché, consultando varie pubblicazioni, ci siamo resi conto della enorme confusione che esiste al riguardo (29). D'altra parte appare del tutto necessaria una chiarificazione per le implicazioni che comporta una non corretta definizione. La ©1990 Edizioni All’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale tecnica dell'ingobbio deve in ogni modo essere distinta dalle altre, è del tutto particolare ed ha alla base una esatta conoscenza del procedimento da seguire per ottenere i prodotti che sono appunto definiti ingobbiati. Riproponiamo comunque qui di nuovo i punti fondamentali per cercare di capire insieme il succo della questione ed il perché è necessario non confondere queste ceramiche con quelle prive di ingobbio. Il termine ingobbio viene utilizzato con significati assolutamente diversi fra loro; quelli che si incontrano con maggiore frequenza sono (Fig. 12): I = rivestimenti a base terrosa, argillosa, non vetrificabili, bianchi o quasi bianchi, diversi come composizione dal corpo ceramico, applicati su questo dopo la foggiatura e rifinitura sul tornio del recipiente e dopo un suo parziale essiccamento all'aria. Lo scopo fondamentale del loro uso è quello di mascherare il colore rosso-mattone, più o meno scuro che sia, della massa corporea e di creare un fondo adatto ad essere decorato. La tecnica in questione, perché, lo ripetiamo, di una precisa tecnica si tratta, è spesso associata a quella del graffito, anche se esistono ceramiche prive di qualsiasi decorazione o con soli ornamenti dipinti. Per eseguire le decorazioni graffite i disegni venivano tracciati, con punte più o meno fini, o con altri utensili (stecche ecc.), sul corpo ceramico ingobbiato in modo da asportare porzioni del rivestimento terroso e mettere allo scoperto, fino anche ad inciderlo, il corpo stesso. Il recipiente così preparato, addizionato o meno di pennellate di vario colore, era sottoposto ad una prima cottura o "biscottatura". Ma il manufatto non era completo, finito, pronto per la commercializzazione e quindi per l'uso, se non veniva portata a termine la lavorazione sovrapponendo all'ingobbio una miscela, generalmente contenente piombo (= vetrina piombifera), che veniva fatta vetrificare con un secondo procedimento di cottura. Nei casi in cui tale vetrina era incolore essa lasciava trasparire l'ingobbio, e l'oggetto appariva bianco nelle aree con rivestimento terroso, oppure il corpo sottostante nelle zone graffite, che apparivano pertanto scure o quasi nere; in quelli con vetrine colorate si creava un effetto chiaro-scuro. II = coperture che, rispetto alla massa corporea, si presentano più fini. Il termine ingobbio si riferisce in questi casi ad una porzione più depurata della stessa materia prima utilizzata per plasmare il vaso. Lo scopo che si vuole raggiungere con questo trattamento è quello di rifinire il manufatto rendendo la superficie più liscia, più bella e meno permeabile. Esso viene impiegato di solito per ceramiche destinate a rimanere nude, anche se non mancano esempi con questa specie di "lisciatura" in reperti invetriati e smaltati. La superficie di contatto fra il corpo ceramico e la porzione più fine sovrapposta è irregolare perché quest'ultima veniva impiegata su un recipiente poco rifinito, alla fine della prima fase di lavorazione e di tornitura. III = rivestimenti colorati, molto sottili. Vengono chiamati ingobbi anche delle coperture sul tipo di barbottine ricche di ferro, diverse comunque da quelle definite, per le ceramiche classiche, vernici rosse o nere perché meno sottili e meno sinterizzate. Lo scopo per cui si procedeva a questo trattamento era quello di conferire alle superfici del recipiente un aspetto più liscio, di colore uniforme, ed una, se pur parziale, impermeabilizzazione. IV = sostanze terrose bianche, nere, brune, gialle, rosse ecc. Anche queste sostanze non vetrificabili, ma utilizzate per eseguire pitture su corpi ceramici ancora freschi, o per ottenere delle colorazioni diverse di parti più o meno estese di un vaso, vengono sovente chiamate ingobbi. V = schiarimenti superficiali. Non sono affatto rari i casi in cui vengono definite ingobbiate ceramiche prive di qualsiasi rivestimento, se acrome, o con smalti e vetrine posti direttamente sul corpo ceramico. Ciò avviene quando la massa corporea presenta, nel suo spessore, delle variazioni di colore, apparendo più chiara sulle superfici. Ad esempio un corpo, fondamentalmente rosso-mattone, può presentare uno strato periferico, più o meno ©1990 Edizioni All’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale spesso, colore cuoio-chiaro se, durante la prima cottura (biscottatura), per il passaggio da una atmosfera ossidante ad una riducente, si sono formati in esso ferriti di calcio. Si tratta in fondo di fenomeni del tutto simili a quelli che danno origine ai "sandwich", frequenti in molte produzioni, l'unica differenza sta nello spessore interessato nei processi ossidoriduttivi e nel fatto che la porzione più chiara è verso le superfici. Rifacendoci in qualche modo alle origini, troviamo che, come molti sanno, la parola ingobbio deriva dal francese engobe, da engober = rivestire di uno strato di terra (gobe = voce dialettale gallica), e viene indicata, in vocabolari francesi ed italiani, con il significato di una "intonacatura" posta sopra un corpo ceramico per mascherarne il colore. I1 termine fu introdotto in Francia all'inizio dell'ottocento ed il procedimento per la applicazione viene descritto in numerosi testi tecnici vecchi e recenti (30). Questo dato di fatto ci pone di fronte a due conclusioni incontestabili: —la definizione al punto I è corretta da tutti i punti di vista; — la definizione al punto V è assolutamente errata; il chiamare ingobbiate le ceramiche che presentano i fenomeni descritti non trova alcuna giustificazione e non è troppo pretendere una maggiore attenzione ed una accurata revisione dei dati riportati. Che cosa è possibile dire per le altre definizioni? Per quella al punto II sarebbe opportuna, a nostro avviso, una sostituzione con un termine differente come "lisciatura", "psendo-ingobbio" o altro, anche se il trovare l'indicazione ingobbio non lascia adito a molti dubbi nei casi in cui si tratta invece del procedimento descritto; ed analoghe considerazioni potrebbero essere valide anche per i punti III e IV. Premesso quanto sopra, possiamo passare in rapida rassegna i metodi atti a rilevare la presenza o assenza dell'ingobbio, inteso come al punto I, nei casi non sufficientemente chiari ad occhio nudo o con lenti di ingrandimento (31), figg. 13-15. — La osservazione delle fratture levigate ad uno stereoscopio consente spesso di distinguere uno schiarimento da uno strato terroso, di natura diversa dalla massa corporea, sovrapposto ad essa. Nei casi in cui lo sbiancamento interessi una porzione molto ridotta anche la osservazione a luce riflessa può comunque lasciare dei dubbi. L'esame in questione non consente inoltre di rilevare, nei veri e propri ingobbi, la natura dei componenti. — L'esame al microscopio petrografico di preparati in sezione sottile consente a nicols paralleli di individuare se esiste sopra il corpo uno strato diverso o se la massa è uniforme e si ha solo una variazione di colore dovuta, nello sbiancamento, ad una riduzione del ferro. A nicols incrociati si può riconoscere se le parti più scure e quelle più chiare hanno la stessa composizione mineralogica oppure, nel caso della sovrapposizione di un ingobbio, determinare la sua diversa composizione. Le terre utilizzate per la ingobbiatura sono generalmente dei caolini, ma non mancano esempi con terre particolarmente ricche di calcite o di quarzo macinato. Con questa osservazione sono identificabili anche le barbottine, particolarmente ricche di ferro. 2) I rivestimenti vetrosi. Come noto le coperture che in fase di cottura subiscono un processo di vetrificazione possono essere distinte in: — coperture trasparenti, incolori o colorate = vetrine (o vernici) —coperture opache o coprenti = smalti. Pur rimanendo la silice il principale componente, la presenza di altre sostanze, e cioè dei fondenti, consente di distinguere a grandi linee fra le prime le vetrine definite alcaline (prive di piombo e di stagno, con forte percentuale di alcali) e le piombifere, contenenti appunto il piombo. Fra le seconde interessa in questo contesto lo smalto detto stannifero che si differenzia dalla vetrina piombifera perché addizionato di biossido di stagno, che ha la funzione di opacizzante. Poiché le vetrine alcaline sono testimoniate in Italia da pochi ©1990 Edizioni All’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale esemplari, importati da aree medio-orientali (o egiziane), e sono generalmente riconoscibili per il loro spessore piuttosto marcato, non vengono prese in considerazione in questo nostro discorso. La identificazione delle vetrine piombifere e degli smalti stanniferi è spesso possibile, con l'esperienza, anche attraverso una attenta osservazione ad occhio nudo o con lenti di ingrandimento. Nel caso sorgano dei dubbi, e ciò avviene specialmente di fronte a prodotti di classi poco note o sconosciute, si deve ricorrere ad analisi di laboratorio. Alcuni tipi di indagine possono fornire anche indicazioni più o meno precise sulle quantità di ossido di piombo e di biossido di stagno presenti nel rivestimento del reperto in esame. Nel classificare una ceramica non si deve in nessun modo sottovalutare la possibilità di incorrere in errore considerando ad esempio smalto, perché ne ha tutti gli aspetti, una vetrina che appare opaca a causa di una cottura difettosa, o perché ha subito un processo di devetrificazione, durante il periodo di conservazione, facilitato da particolari condizioni ambientali, oppure ancora, in alcune specifiche produzioni, perché addizionata di caolino o di quarzo grossolanamente macinato. — Intorno agli anni settanta, quando iniziammo gli studi sui bacini ceramici delle chiese di Pisa e su abbondanti reperti recuperati in occasione di lavori nell'ambito della città, Claudio Arias, ricercatore presso il centro di Scienze Sussidiarie della Archeologia del C.N.R. di Pisa, poté disporre di un piccolo apparecchio portatile per analisi in fluorescenza X, corredato di filtri per la determinazione del piombo e dello stagno (32), con cui furono eseguiti esami a tappeto su tutti i materiali pisani e su altri. Determinazioni semi quantitative furono possibili per confronti con mattonelle standard, a concentrazioni note, appositamente preparate. Uno dei risultati interessanti fu certamente quello relativo a ceramiche egiziane dell'XIXII secolo, con decorazioni incise sul corpo ancora fresco, rivestite con coperture, generalmente trasparenti, incolori o colorate. Tre bacini, inseriti su tre chiese di Pisa, databili tra la metà del secolo XI e la prima metà del XII, presentavano da tutti i punti di vista strette analogie con numerosi reperti da Fostat (Il CaTro), conservati presso il Museo di Faenza. Mentre gli esemplari pisani risultavano dalle analisi ricoperti da vetrine piombifere, incolore in un caso, colorate in giallo o in verde negli altri due, i materiali del Museo di Faenza venivano indicati, nella quasi totalità, con vetrine alcaline. Questo fatto era di evidente ostacolo ad una attribuzione all'Egitto dei nostri pezzi. Fu così deciso un controllo e da questo emerse, con comprensibile stupore da parte di eminenti ceramologi, che anche i materiali da Fostat erano rivestiti in numero nettamente prevalente, da vetrine contenenti piombo (33). — La presenza o assenza di stagno può essere rilevata, in sezioni sottili, al microscopio petrografico. Il piombo infatti, che si trova nella vetrina a livello atomico legato ai tetraedri di silice, non è visibile, apparendo trasparente a nicols paralleli, opaco, perché amorfo, a nicols incrociati. Lo stagno invece, presente come biossido (cassiterite), rimane, in granuli, sospeso nella massa vetrosa ed è pertanto evidenziabile, anche a nicols paralleli appare opaco. —Un altro dei metodi di indagine possibili è la determinazione chimica con i metodi più o meno tradizionali, ma per la sua esecuzione occorre distruggere una porzione non indifferente del rivestimento. Analisi non distruttive si possono eseguire usando un diffrattometro a Raggi X, come quello disponibile a Genova, che fornisce dei grafici in cui il biossido di stagno ed altre sostanze, in fase cristallina, in sospensione nella massa amorfa, sono messi in evidenza con particolari picchi di diffrazione che cadono in specifici angoli di rotazione del campione, fig. 16. Questo tipo di indagine può essere effettuato solo su frammenti che non superino le dimensioni di qualche centimetro quadrato. Dopo queste necessarie premesse consideriamo alcuni dei risultati raggiunti, che hanno trovato conferma anche in base a recenti ampliamenti di indagini su reperti siciliani, spagnoli, maiorchini, portoghesi ecc. (34). A) Ceramiche islamiche con ambedue le superfici ricoperte dallo stesso rivestimento. Sicilia-Tunisia, secoli XI-XIII. ©1990 Edizioni All’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale Fra le ceramiche utilizzate come bacini per decorare chiese di Pisa, riferibili ad aree della Tunisia e della Sicilia, che presentano sempre sulle due superfici del recipiente lo stesso rivestimento, sia si tratti di smalti stanniferi, sia di vetrine piombifere (35), possiamo ricordare a titolo di esempio alcune classi fra le tante identificate. — In "Bacini invetriati policromi" con impasto colore rosso-mattone e schiarimento colore cuoio, del secolo XI, è stata messa in evidenza la assenza di ingobbio e la presenza del piombo nella copertura vetrosa. Il riferimento a fabbriche della Sicilia occidentale, già indicato da analisi mineralogiche, è confermato dal rinvenimento di scarti di fabbricazione in area palermitana (36). —Un insieme di classi diverse: "Bacini smaltati in verde con decorazioni in bruno", XII secolo-prima metà XIII, "Bacino invetriato in giallo con decorazione in bruno", primo quarto XII secolo, "Bacini smaltati in bianco e decorati a cobalto e manganese", fig. 17, ultimo quarto XII-prima metà XIII, cui vanno aggiunti sicuramente alcuni "invetriati policromi", che presentano strette analogie morfologiche e di impasto (37), hanno consentito di delineare, per la prima volta attraverso lo studio dei bacini di Pisa, almeno alcuni degli aspetti tipici di prodotti tunisini usciti dalle stesse fabbriche. Se le ceramiche a smalto verde e decorazioni in bruno, insieme a invetriate in giallo e policrome, facevano parte dei repertori fino dall'inizio del XII secolo, la introduzione delle decorazioni a cobalto e manganese su fondi smaltati in bianco avviene verso la fine del secolo per proseguire poi parallelamente alle altre produzioni, quasi sicuramente prendendo su di esse il sopravvento, fino alla metà del XIII secolo ed oltre. Le analisi dei rivestimenti hanno provato, pressoché con sicurezza, da un lato la utilizzazione nelle stesse botteghe, su biscotti non ingobbiati, sia delle vetrine piombifere, sia degli smalti stanniferi, dall'altro la assoluta eguaglianza delle coperture sulle due superfici dei recipienti (38). B) Ceramiche islamiche con coperture diverse sulle due superfici. Marocco-Spagna, secoli XI-XII. Anche se in aree marocchine e spagnole venivano sicuramente fabbricate ceramiche con le due superfici del recipiente ricoperte dallo stesso rivestimento, in` molte produzioni, forse le più importanti, si osserva una diversificazione nel trattamento della parte principale del vaso, che presenta vere e proprie decorazioni di vario genere, rispetto a quello riservato all'altra, su cui veniva stesa una copertura con caratteri decisamente più scadenti. Le prime, chiaramente testimoniate da prodotti con vetrine giallo-brune e verdi con o senza disegni in bruno, sono assenti fra i bacini di Pisa (39), le seconde invece si trovano in numero abbastanza rilevante e sono riferibili a classi differenti fra loro. Si tratta in ogni caso, in base ad esami eseguiti su molti campioni, di ceramiche prive di ingobbio, fabbricate in diverse località. —Ceramiche invetriate monocrome, con decorazioni impresse con piccoli stampi sull'impasto fresco, testimoniate a Pisa da bacini della seconda metà dell'XI secolo e del primo quarto del XII, presentano, nel caso di recipienti aperti come gli esemplari pisani, una vetrina piombifera di colore verde sulla superficie interna, con gli elementi impressi, ed una vetrina sempre piombifera, ma incolore impura su quella esterna (40). Se l'analisi mineralogica, eseguita per altro su un solo esemplare (41), indica la utilizzazione di una argilla ferrica con abbondante quarzo microcristallino e quindi una probabile origine maghrebina, non si può ignorare il fatto che questa tecnica era utilizzata sia in Marocco che in Spagna. Le analisi del piombo e dello stagno hanno rilevato la presenza di tracce dell'ultimo elementò, opacizzante, nella copertura interna del bacino più antico della serie, riferibile alla metà circa del secolo XI, e questo ultimo fatto potrebbe, ma le indagini dovrebbero essere approfondite, indirizzare verso ipotesi atte a giustificare il particolare modo di procedere nella copertura di questi prodotti almeno nelle fasi più arcaiche. Ad un rivestimento contenente stagno sulla parte più importante del vaso, ne sarebbe stato ©1990 Edizioni All’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale sostituito uno più economico sull'altra; ed un tale modo di procedere avrebbe continuato ad essere impiegato anche quando ambedue le coperture erano prive di stagno. — Ceramiche smaltate e invetriate monocrome del primo quarto del XII secolo, testimoniate a Pisa da un numero rilevante di bacini (42), pongono problemi di attibuzione assai complessi. Quello che sembrerebbe evidente dalle osservazioni eseguite per la loro classificazione è che si tratti, salvo pochissimi casi, di due classi di ceramiche nettamente distinguibili fra loro per la diversa natura dei rivestimenti. In un gruppo infatti i recipienti, aperti, facendo riferimento ad oggetti usati per decorare strutture architettoniche, sono ricoperti internamente da uno smalto stannifero di colore verde bluastro ben coprente, esternamente da uno smalto praticamente dello stesso colore, ma più diluito e con un contenuto in stagno decisamente inferiore (43). Nell'altro gruppo ci troviamo di fronte invece ad oggetti che hanno all'interno una vetrina piombifera di colore bruno-rossastro più o meno scuro, all'esterno sempre una vetrina piombifera, ma, salvo due pezzi su tredici, incolore impura. L'impasto appare in tutti di colore rosso mattone pressoché privo di schiarimento superficiale. Di fronte a delle apparenti eguaglianze troviamo però delle discordanze nelle analisi mineralogiche eseguite su due esemplari della prima classe (44). Per un bacino infatti (n. 181) l'impasto risulta costituito da argilla debolmente ferrica, con mica bianca fine e granuli di calcarenite, per l'altro (n. 213), che potrebbe rientrare anche fra quelli dubbi, risulta invece ferrico con mica bianca fine, quarzo e poca fillade. Che la massima parte di questi esemplari provengano addirittura dalla stessa fabbrica sembra sufficientemente dimostrato dalle analogie di almeno un tipo morfologico, che d'altra parte non è molto diverso da quello di produzioni coeve impresse a stampo (45), e dalla presenza, sull'esterno di uno marrone, di una grossa macchia di smalto verde-azzurro eguale a quello utilizzato per ricoprire gli altri. Stando ai risultati sopra indicati si potrebbe propendere per un riferimento alla Sicilia, ma una simile attribuzione appare, almeno per il momento, in netto contrasto con gli altri dati a disposizione che ci portano piuttosto verso aree spagnole o marocchine, e i dati relativi al primo potrebbero non essere troppo discordanti con una attribuzione alla Spagna meridionale. Per una soluzione del problema sarebbero necessarie ulteriori analisi e soprattutto la possibilità di fare confronti con materiali rinvenuti nei possibili luoghi di origine: quanto fino ad oggi pubblicato non ci viene in alcun modo in aiuto e non ci rimane altro al momento che tenere conto della esistenza del problema stesso che trova comunque, in base alle indagini condotte, una sua corretta impostazione. —Ceramiche decorate con la tecnica a "coerda seca", di cui si conoscono molti esemplari prodotti in Spagna e in Marocco, sono rappresentate, fra i bacini di Pisa, da quattro pezzi dell'XI secolo ed in Lucchesia da uno della fine del secolo stesso (46). Le analisi dei rivestimenti hanno rilevato presenza di stagno e di piombo nelle aree che appaiono di colore bianco e verde, assenza di stagno in quelle di colore giallo e nella vetrina, del tutto analoga, che ricopre, nei recipienti aperti, la superficie esterna. Non appare qui significativo ribadire la assoluta assenza di ingobbio, trattandosi certamente, anche nei casi ritenuti ingobbiati, di uno schiarimento superficiale più o meno spesso (47). — Le ceramiche decorate a lustro metallico di produzione spagnola, Fig. 9, della prima metà del XII secolo, di cui abbiamo già parlato a proposito dell'impasto (21), hanno rivelato alle analisi relative ai rivestimenti, eseguite su esemplari pisani, coperture contenenti quantità di stagno inferiori rispetto a quelle dei pezzi riferiti all'Egitto, di epoca più arcaica. Di particolare interesse si presenta comunque il fatto che, contrariamente a questi ultimi, le due superfici risultano ricoperte da rivestimenti diversi, trovandosi su quella esterna o smalti con tenore di stagno bassissimo o addirittura vetrine piombifere assolutamente prive di opacizzante. —Abbiamo lasciato come ultimo esempio quello relativo a prodotti ricollegabili alle ceramiche definite da molti spagnoli "califfali", note per reperti in varie località della Spagna stessa, comprese le Baleari, e in Portogallo (48), testimoniate a Pisa dai bacini del principio del secolo XI, Figg. 10-11, riferibili a fabbriche maiorchine, cui abbiamo già fatto riferimento parlando degli impasti (49), perché le analisi dei rivestimenti hanno messo in ©1990 Edizioni All’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale evidenza caratteristiche non individuate precedentemente ed hanno aperto la via ad interessanti ipotesi. Senza ritornare nei dettagli di un argomento già più volte affrontato nel corso degli ultimi anni, cercheremo di riassumere brevemente lo stato della questione alla luce anche di recenti analisi su campioni inviati da varie parti (50). Ceramiche del tutto simili a quelle qui consiederate si trovano indicate da vari autori, fra cui lo stesso Llubia (51), con “ engalba blanca ”, decorate in “ verde y negrusco ” e ricoperte di “ vidriado trasparente ”, essendo, il colore diverso che i recipienti presentano sulle superfici meno importanti, ritenuto esclusivamente dovuto alla assenza di ingobbio e quindi al contatto diretto della vetrina piombifera, trasparente, con il corpo ceramico. Praticamente, tutti hanno accettato la prima interpretazione del procedimento tecnico che il Gonzalez Martí descrive in modo molto dettagliato nella sua opera del 1944 (52). Già dall'esame dei bacini di Pisa sopra ricordati apparve invece che, almeno i materiali a nostra disposizione, erano privi di ingobbio, che le decorazioni in verde e in bruno erano eseguite su un fondo bianco costituito da smalto stannifero, mentre la superficie esterna (si trattava di recipienti aperti) era rivestita da una vetrina piombifera più o meno colorata in giallo. Per stabilire se ci trovavamo di fronte a due produzioni differenziate, una ingobbiata, l'altra smaltata, abbiamo approfondito le ricerche sottoponendo ad analisi frammenti di reperti ritrovati in Spagna e in Portogallo (53). In nessun caso è stata rilevata presenza di ingobbio, le superfici che appaiono bianche sono sempre ricoperte da smalti con contenuti variabili, anche se generalmente non troppo elevati, di biossido di stagno, risultando, anche questi pezzi, eseguiti con una tecnica che prevedeva tipi di rivestimento differenti per le due superfici. Una attenta osservazione dei manufatti consente anche di stabilire che la copertura con la vetrina della parte non decorata in verde e in bruno veniva eseguita in un secondo momento, sovrapponendosi allo smalto, steso sull'altra superficie, per qualche millimetro in corrispondenza dell'orlo del recipiente. Questo modo del tutto particolare di procedere, che trova riscontro nelle altre classi di ceramica ricordate in questo paragrafo, non può essere ritenuto un fatto casuale, deve essere riferito al frutto di particolari conoscenze ed esperienze, anche perché decisamente più complesso e indaginoso di quello che prevede una copertura eguale sulle due superfici o ancora di quello che lascia la parte meno importante del vaso completamente nuda che, rispetto al precedente, può essere considerato legato ad un risparmio dei materiali usati per la copertura vetrosa. In base alle attuali conoscenze sembra trattarsi di un procedimento tecnico utilizzato, nell'ambito dei paesi del mondo islamico occidentale, solo dalle fabbriche spagnole e marocchine. C) "Maioliche Arcaiche" con coperture diverse sulle due superfici. Pisa, secoli XIIIXV, figg. 1-3. Le più antiche ceramiche con coperture vetrificate fabbricate a Pisa, a partire almeno dal terzo-quarto decennio del XIII secolo, appartengono alle classi definite "maioliche arcaiche" (54). Senza entrare nei dettagli e senza considerare in questo contesto tutti gli aspetti, per altro sufficientemente noti, di tali produzioni, riferendoci ai manufatti decorati in bruno e in verde su fondo bianco, è stato osservato chiaramente, e dimostrato con analisi in fluorescenza X, che questi venivano ricoperti sulla superficie più importante, decorata con i disegni colorati, con un rivestimento a smalto stannifero, sull'altra con una vetrina al piombo incolore o giallastra che, a contatto con l'impasto pisano, decisamente rosso mattone, fa assumere a questa parte dei recipienti un aspetto brillante di tonalità rosso bruna o bruno-giallastra. Lungo l'orlo dei vasi, aperti e chiusi, appare evidente la sovrapposizione della seconda sul primo per alcuni millimetri. Si tratta di un procedimento del tutto analogo a quello utilizzato per le ceramiche spagnole definite "califfali", di cui abbiamo parlato sopra e può essere interessante notare che il Gonzalez Martí nel 1944, avendo colto le uguaglianze, include nel suo settimo gruppo, “ Ceramica con engobe blanco. . . ”, riferendoli a produzioni spagnole, anche bacini di chiese pisane, in maiolica ©1990 Edizioni All’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale arcaica, sicuramente fabbricati a Pisa (55). Trattandosi, come abbiamo detto, di un modo particolare di fabbricare ceramica appare del tutto giustificato, nella ricerca delle vie attraverso le quali tale tecnica è pervenuta ai vasai pisani, prendere come punto di partenza le antiche ceramiche "califfali". Anche se le attuali conoscenze non consentono di colmare il vuoto di oltre un secolo che separa le produzioni spagnole da quelle pisane, i riscontri sopra indicati sono dei dati di fatto di cui si dovrà tenere conto nel proseguire le ricerche. Conclusioni. Gli esempi riportati sono stati scelti per mostrare, in base alle nostre esperienze, la diversa portata dei contributi forniti da analisi di varia natura nelle ricerche archeologiche. Anche se in nessun caso, come sempre in qualsiasi campo di ricerca, si può considerare una indagine conclusa, appare però evidente la importanza, già segnalata all'inizio del nostro discorso, di tenere collegati fra loro tutti i dati acquisiti e la necessità di valutare, caso per caso, quali indicazioni ciascuno di essi può contribuire a fornire. L'entusiasmo iniziale, che aveva portato alcuni a ritenere le analisi di laboratorio il toccasana per risolvere tutti i problemi, non trova oggi alcuna giustificazione. Le analisi ci forniscono informazioni che devono essere messe in rapporto con altre. Un'indagine, in campo chimico, mineralogico, o di qualsiasi altra natura, porta un suo sempre valido contributo per una più corretta classificazione degli oggetti, per appoggiare una ipotesi o per rendere possibile la formulazione di altre, ma una precisa impostazione del lavoro, una focalizzazione chiara dei problemi che vale la pena di affrontare, è assolutamente necessaria per non disperdere inutilmente energie umane e materiali. Dovendosi ritenere del tutto alle fasi iniziali di ricerca alcune questioni, come appare chiaramente anche da esempi riportati, per le quali un proseguimento di indagini non è spesso possibile senza l'apporto di ulteriori rinvenimenti, sono però evidenti alcuni risultati ottenuti che consentono, quanto meno, una caratterizzazione precisa di alcune tecniche di produzione e quindi di alcune classi ceramiche. Ed il nostro discorso diverrebbe più ampio ed articolato se alle esperienze liguri e pisane, cui abbiamo fatto particolare riferimento, venissero affiancate quelle di altre zone. Per terminare questo nostro excursus con un esempio che ci appare di particolare rilievo, che coinvolge ricerche condotte in varie località, possiamo fare riferimento al problema relativo alla introduzione in Italia delle tecniche, differenziate, impiegate per fabbricare le prime ceramiche con rivestimenti vetrificati e quindi impermeabili. Appare ovvio ribadire il concetto che questo fatto costituì una vera e propria rivoluzione nel modo di fabbricare le ceramiche ed altrettanto ovvio appare pertanto l'interesse storico che rivestono le ricerche atte a definire i momenti, i luoghi e le vie di diffusione. Riassumendo in breve quello che è attualmente il punto della questione e le ipotesi di lavoro che appare giustificato suggerire possiamo concludere che, fra i paesi del Mediterraneo, in cui si producevano ceramiche nel corso dei secoli XI e XII, sembrano distinguibili quelli che conoscevano e impiegavano la tecnica dell'ingobbio (orientali) da quelli che, per sbiancare le superfici, adottavano procedimenti diversi come lo schiarimento in fase di cottura (occidentali). Dai primi, bizantini o islamici che fossero, si deve ritenere diffusa in Italia la conoscenza relativa al procedimento per ingobbiare i recipienti, che vediamo impiegato in Liguria alla fine XII-inizio XIII secolo, nel Veneto nel corso del XIII. Ma le diversità esistenti fra le due produzioni suggeriscono vie di diffusione diverse e autonome l'una dall'altra. I secondi, che producevano ceramiche schiarite in superficie e non, invetriate e smaltate, entrano invece sicuramente in giuoco per la tecnica della smaltatura stannifera impiegata per le protomaioliche dell'Italia meridionale, Sicilia compresa, a partire dalla fine XII inizio XIII secolo, e per le maioliche arcaiche dell'Italia centrosettentrionale, le cui produzioni più arcaiche oggi note risalgono al terzo quarto decennio del XIII secolo. Ma anche in questo caso, se si tiene conto di quanto detto precedentemente a proposito delle produzioni "califfali", e in genere di quelle delle aree Spagna-Marocco, in relazione alle maioliche arcaiche di Pisa, e delle differenze di queste rispetto alle protomaioliche, che hanno la superficie meno importante lasciata nuda ed una tavolozza cromatica più ricca, ©1990 Edizioni All’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale appare del tutto giustificato presupporre la possibilità di vie diverse di diffusione, pur se sempre ricollegabili, come origine, a paesi del mondo islamico occidentale. Le protomaioliche infatti appaiono coinvolgere centri tunisini, le maioliche arcaiche, almeno quelle pisane, centri spagnoli (o marocchini), fig. 18. L'ipotesi formulata da alcuni di una trasmissione indiretta, dal sud-Italia verso il nord, non trova oggi alcuna giustificazione quantomeno per Pisa. Anche se gli esempi illustrati, ed altri, indicano degli innegabili passi in avanti nelle nostre conoscenze, molti sono i punti ancora da chiarire, quelli assolutamente da dimostrare o addirittura da impostare. GRAZIELLA BERTI-TIZIANO MANNONI Bibliografia Abbreviazioni: “ Albisola ” = Atti Convegni Internazionali della Cermica-Albisola. “ Lisbona ” = Atti IV Congresso de Ceramica Medieval do Mediterraneo Ocidental Lisboa, 1987 (in corso di stampa). “ Siena-Faenza ” = La ceramica medievale nel Mediterraneo Occidentale, Atti del Congresso Internazionale della Università degli Studi di Siena, Siena-Faenza, 1984 (Firenze, 1986). “ Toledo ” = Segundo Coloquio Internacional de Cerámica Medieval en el Mediterráneo Occidental, Toledo, 1981 (Madrid, 1986). “ Valbonne ” = La Céramique médiévale en Mediterranée Occidentale. X-XV siècles, AttiColloques Internationaux du C.N.R.S., N° 584, Valbonne, 1978 (Paris, 1980). J. AGUADO VILLALBA, 1983, La ceramica hispano musulmana de Toledo, Madrid. C. 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(2) I materiali di produzione pisana, raccolti da Liana e Ezio Tongiorgi prevalente mente negli anni sessanta, sono stati recentemente trasferiti al Musco Nazionale di S. Matteo-Pisa. La schedatura è stata completata, insieme a quella di altri depositi, ed uno studio, che comprende i molteplici aspetti a partire dal XIII secolo fino al XVI-XVII, è in fase di elaborazione e verrà pubblicato prima possibile. Per preliminari informazioni vedi: BERTI, TONGIORGI, 1977; IDEM, 1981, pp. 241-250, Tavv. CLXIV-CLXXXV; 1982. (3) MAGI, MANNONI, 1977, PP. 416-417; MANNONI, 1979, pp. 236-237. (4) DEMIANS D’ARCHIMABUD, PICON, 1978, pp. 20-25. (5) PICON, DEMIANS D’ARCHIMABUD, 1978; pp. 133-134; DEMIANS D’ARCHIMABUD, 1980, pp. 386-392. (ó) Altri esami, i cui dati non sono stati mai pubblicati né elaborati, sono stati eseguiti su altri campioni. Da certificati di analisi del 1963 dell'Istituto di Chimica Analitica delI'Università di Pisa si ricavano i limiti di seguito indicati: CaO 5,33-5,6696, Fe 2O 3 6,136,9696; K2O 1,79-2,2796; SiO2 60,36-62,079to; Al2O3 17,49-19,73~o; MgO 2,823,0896; Na2O 1,08-1,43~i; CO2O,77-2,6896, mentre ulteriori risultati sono su appunti di Ezio Tongiorgi, relativi ad esami condotti presso l'Istituto di Mineralogia dell'Università di Pisa intorno agli anni ottanta-ottantaquattro: CaO 5,13% da 4,10 a 5,90 Fe 203 7,30% da ©1990 Edizioni All’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale 6,60 a 7,75; TiO da 0,79 a 0,89%; K2O da 2,80 a 3,10%; SiO2 la 60,5 a 639%; Al203 da 18,0 a 20,0%; MgO da 3,25 a 4,05%, MnO da 0 12 a 0,15, Na2O intorno a 1,2096; P2O5 da 0,15 a 0,20%. Campionature sono state richieste anche da altri laboratori fra cui il British Museum Research Laboratory di Londra. Nelle valutazioni dei risultati si dovrà comunque sempre tenere conto del fatto che le metodologie impiegate sono spesso diverse fra loro e che per un corretto confronto sarebbero necessarie standardizzazioni in parallelo. (7) Per i prodotti liguri vedere ad esempio MANNONI, 1968-1969, Tipo 84, PP. 108116; per quelli lucchesi, ancora in corso di studio, le notizie preliminari in: BERTI, CAPPELLI, FRANCOVICH, 1984, PP. 492-493, 495-496; BERTI, CAPPELLI, 1985, P. 27. (8) MANNONI, 1968-1969, Tipo 58, PP. 73-75. (9) LAVAGNA, VARALDO, 1986. (10) MANNONI, 1979, PP. 231, 235. (11) I francesi definiscono queste classi ceramiche graffite e non “ sgraffito arcaique occidentale et types apparentes ”: PICON, DEMIANS D,ARCHIMBUD, 1978, PP. 131 133; DEMIANS D’ARCHIMABUD, 1980, PP. 354-363. (12) BERTI, TONGIORGI, 1981, pp. 287-288, Tavv. CCX-CCXVIII, Fig. 253. Bacini di S. Cecilia CaO 10,30-13,1096; Fe2O3 5,30-5,80%; TiO2 0,62-0,68%, K2O 2,002,40%; SiO2 56,50-60,00%; Al2O3 12,80-13,70%; MgO 4,45-5,05%, MnO 0,0500,0620%. Bacini di S. Francesco CaO 5,30-8,40%, Fe2O3 5,90-6,40%, TiO2 0,70-0,72%; K2O 2,50-2,70%; SiO2 59,50-63,00%, Al2O3 14,00-15,20%, MgO 4,60-5,55%; MnO O,0500-0,0580%. (13) PICON, DEMIANS D'ARCHIMBUD, 1978, P. 134; BLAKE, 1984, PP. 323 324, 346; PRINGLE, 1986, P. 453. (14) BERTI, CAPPELLI, TONGIORGI, 1986. (15) BERTI, TONGIORGI, 1980; IDEM, 1981, PP. 232-233, Taw. CLIV-CLV. (16) MANNONI, 1979, pp. 230, 234, Campioni nn. 324-326; BERTI, TONGIORGI 1981, p. 289, Appendice II, Tavv. CLIV-CLV. (17) Si vedano ad esempio i bacini di Santa Maria della Luce a Roma chiesa riferibile al 1099-1118, e quelli di alcune abitazioni civili a Tivoli: MAZZUCATO, i976, pp. 34-40 50-53, Figg. 30-33, 35-36, 39- 44, 56-58, 60. (18) MAZZUCATO, 1976, pp. 28-33, Figg. 1-27. (19) PAROLI, 1985. In questo lavoro viene riassunto lo stato della questione e riportata la bibliografia relativa. (20) BERTI, TONGIORGI, 1981, PP. 256-261, 288, Appendice I, Tavv. CXC-CXCI, CLXXXIX / Fig. 213, CXCII-CXCIV. (21) BERTI, TONGIORGI, 1981, PP. 262-266, 288, Appendice I, Tavv. CXCVCXCVIII; BERTI, TONGIORGI, 1985, PP. 11-12; (IDEM, 1981/2, PP. 315-316). (22) BERTI TONGIORGI, 1981, P. 288, Appendice I, Tavv. CXCII-CXCIV. (23) DEMIANS D'ARCHIMBAUD, LEMOINE, 1978. (24) Basterà ricordare il lavoro di sintesi pubblicato dalla Jerlkins anche se la sua attribuzione a Malaga, per le ragioni esposte, deve essere riconsiderata: JENKINS, 1978, PP. 338-342. Per esemplari della Grecia non inclusi in questa sintesi vedi: BERTI, TONGIORGI 1978, PP. 84-85; Figg. 3-4. (25) NAVARRO PALAZON, 1984; PICON, NAVARRO PALAZON, 1984; NAVARRO PALA ZON, 1986. (26) BERTI, ROSSELLÓ BORDOY, TONGIORGI, 1986. (27) Basterà ricordare le analisi che hanno consentito di riferire ad area veneta prodotti precedentemente ritenuti hizantini; vedere ad esempio: LAZZARINI, CANAL, 1983 GELICHI, 1984; IDEM, 1984/2. (28) Per ulteriori delucidazioni vedere ad esempio: CUOMO DI CAPRIO, 1985, pp. 97-104. (29) L'argomento, affrontato la prima volta in un convegno ad Albisola: ARIAS, BERTI, TONGIORGI, 1975, è stato ripreso e ampliato in occasione di un Congresso tenuto ©1990 Edizioni All’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale a Lisbona: BERTI, MANNONI, 1987. (30) Ninina Cuomo di Caprio, nel riferire i risultati di una attenta ricognizione in Puglia per documentare vecchie tecniche ancora in uso, descrive chiaramente come operano i vasai locali per eseguire la copertura con ingobbio: CUOMO DI CAPRIO, 1982, PP. 105 111. (31) Ci sono capitati alcuni casi che riteniamo utile indicare. Nella osservazione di ceramiche acrome, anche classiche, abbiamo potuto notare a volte delle sfaldature superficiali che davano l'ingannevole impressione di uno strato sovrapposto, come un ingobbio un po' spesso, che si stesse staccando dalla massa corporea. Abbiamo potuto constatare, con adeguati esami, che si trattava in ogni caso di prodotti schiariti in superficie, assolutamente non ingobbiati. A titolo di esempio si può vedere la netta distinzione fatta nel trattare le ceramiche della Liguria (MANNONI, 1968-1969) fra “ ceramiche ingubbiate ” (pp. 61-98), “ ceramiche invetriate ” (pp. 38-60), “ ceramiche smaltate ” (pp. 99-126), oppure quella relativa ai bacini di Pisa (BERTI, TONGIORGI, 1981) fra ceramiche non ingobbiate (PP. 162-272) e ceramiche ingobbiate (pp. 273-284). (32) ARIAS, BERTI, 1973; ARIAS, BERTI, LIVERANI, 1973. Questi tipi di apparecchiature sembrano oggi in disuso anche, per ragioni di sicurezza, pur se estremamente comode almeno per analisi preliminari, perché consentivano determinazioni su pezzi di varia grandezza, da interi a frammenti di qualche centimetro quadrato, senza arrecare danni di alcuna natura ai reperti. (33) ARIAS, BERTI, LIVERANI, 1973. Vedere anche: BERTI, TONGIORGI, 1981, PP. 251-254, Tav. CLXXXVI. (34) Vengono qui riportati i dati più interessanti già presentati in: BERTI, MANNONI, 1987. (35) Il discorso diverrebbe molto più ampio se venissero presi in considerazione i dubbi che le recenti indagini e deduzioni hanno fatto sorgere in rapporto a testimonianze costituite da pezzi singoli o comunque in numero estremamente limitato, presenti a Pisa o in altre località, che, per alcune loro caratteristiche, sarebbe forse oggi più corretto ipotizzare riferibili a produzioni diverse da quelle suggerite nello studio del 1981. Valgano a titolo di esempio il bacino n. 2 o i nn. 21 e 55 (BERTI, TONGIORGI, 1981, p. 167 e p. 166). In ambedue i casi infatti la presenza di una vetrina piombifera sulla superficie esterna e di uno smalto stannifero su quella interna potrebbero indirizzare, come vedremo meglio nel prosieguo della discussione, verso produzioni spagnole o marocchine. L'ipotizzare il primo, "smaltato policromo" dell'inizio del secolo XI, in qualche modo ricollegabile a manufatti delle classi definite "califfali" potrebbe trovare un suo valido appoggio nelle analogie decorative con reperti del sud del Portogallo (ad esempio: TORRES, 1987, N° 79) non è comunque da sottovalutare il fatto che analisi mineralogiche sull'esemplare pisano indicano la presenza di quarzo eolico, policristallino rotondo e quindi una probabile origine maghrebina (MANNONI, 1979, pp. 230, 235, Campione 313, BERTI, TONGIORGI 1981, Appendice II, p. 289). Nei secondi "a serie di macchie dipinte su smalto bianco" sempre dell'inizio dell'XI secolo, è invece ia vetrina di colore giallo-scuro stesa sulla parete esterna che ricorda quella su reperti a “ cuerda seca ”. (36) Per gli scarti rinvenuti a Palermo vedi: D'ANGELO, 1984; per i bacini di Pisa: BERTI, TONGIORGI, 1981, pp. 168-177, e per alcune analisi: MANNONI, 1979, pp. 230 236, Campioni 310-312, da cui risulta un impasto costituito da argille ferriche, rosso mattone, macroporoso, con grumi calcarei e assenza di mica. (37) Per i bacini di Pisa vedere ad esempio: BERTI, TONGIORGI, 1981, PP. 182 183, Tav. LXXXII, pp. 203-207, Tavv. CXXI-CXXVI in alto, p. 207, Tav. CXXVI in basso PP.207-211, Tavv. CXXVII-CXXXIII. Per numerosi altri reperti, utilizzati come bacini e non, ricollegabili a queste stesse classi si rimanda alle discussioni e alla bibliografia riportata nel lavoro sopra indicato. Per una rassegna dei materiali rinvenuti a Tunisi consultare invece: VITELLI,1981, Per analisi mineralogiche vedi: MANNONI,1979, PP.231,234-235 Campioni 336-343. (38) Si può per inciso osservare che la utilizzazione della tecnica della smaltatura ©1990 Edizioni All’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale stannifera è ancora oggi incerto se fosse in uso in Sicilia durante i secolo XI e XII. (39) Per una rassegna dei luoghi di rinvenimento di ceramiche delle classi cui viene fatto riferimento vedere ad esempio: RETURCE, ZOZAYA, 1984, p.93 e seguenti; TORRES, 1987, Numeri 39-41. (40) BERTI TONGIORGI, 1981, pp. 215-219, Tavv. CXXXVIII-CXLI. (41) MANNONI, 1979, pp. 230-235, Campione 318; BERTI, TONGIORGI, 1981, p. 289, Appendice II, Bacino 123. (42) BERTI, TONGIORGI, 1981, pp. 221-223, Tavv. CXLIV-CXLVII. (43) L'ipotesi formulata in BERTI, TONGIORGI, 1981, p.221, è difficilmente accettahile alla luce delle attuali conoscenze. (44) MANNONI, 1979, pp. 231, 235-236, Campioni 333-334; BERTI, TONGIORGI, 1981, p. 289, Appendice II, Bacini 213 e 181. (45) Confrontare ad esempio in BERTI, TONGIORGI, 1981, Figg. 138, 143 e 147, PP. 219, 221 e 223. (46) BERTI, TONGIORGI, 1974, PP. 81-83, Tavv. LII-LIII. IDEM, 1981, PP. 163165, Tavv. LII-LIV. (47) DUDA, 1970, P. 16; vedere anche: BERTI, TONGIORGI, 1981, P. 163, nota 1. (48) Per una rassegna dei principali rinvenimenti in Spagna vedere ad esempio: RE TUERCE, ZOZAYA, 1984, pp. 98-112, Ceramiche classificate alla voce B-3-a—1 “ Blancoverde-morado ”, denominate anche “ verde y morado ”, e la bibliografia relativa. Per reperti in Portogallo: TORRES, 1987, nn. 77-78. (49) BERTI, TONGIORGI, 1981, pp. 191-193, Tavv. XCVIII-CII, BERTI, ROSSELLÓ BORDOY, TONGIORGI, 1986. (50) Oltre i lavori alla nota (49) vedere: BERTI, CAPPELLI, FRANCOVICH, 1984, pp. 508-509; ma in particolare BERTI, MANNONI, 1987. (51) LLUBIA, 1967, pp. 42-44, nn. 26-32. (52) GONZALEZ MARTI, 1944, pp. 53-56. Fra i tanti lavori più recenti in cui queste ceramiche vengono ancora definite ingobhiate vedere ad esempio: AGUADO VILLALBA, 1983, pp. 42-43, 52-60; RODRIGUEZ SANTAMARIA, MORALEDA OLIVARESA, 1984, pp. 5158; TORRES, 1987, nn. 77-78. (53) Questa indagine è stata possibile per la cortese collaborazione di Guillermo Rosselló Bordoy, Claudio Torres e Juan Zozaya che ci hanno fornito i materiali in questione. (54) BERTI, TONGIORGI, 1977; GARZELLA REDI, 1979; BERTI, TONGIORGI, 1981j pp. 241-250. (55) BERTI, TONGIORGI, 1981/3, PP. 421, 422, 424. ©1990 Edizioni All’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale