xii congresso internazionale - Società Italiana di Pediatria Ospedaliera

Transcript

xii congresso internazionale - Società Italiana di Pediatria Ospedaliera
AVERSA 28-29 NOVEMBRE 2008
I CONGRESSO NAZIONALE
DELLA SOCIETA’ ITALIANA
DI PEDIATRIA OSPEDALIERA (SIPO)
XII CONGRESSO INTERNAZIONALE
Problematiche in Pediatria e Neonatologia
XVI INTERNATIONAL WORKSHOP ON NEONATAL NEPHROLOGY
28-29 novembre 2008
Aversa - Castello Aragonese
Piazza Trieste e Trento
Accademia Nazionale di Formazione di Polizia Penitenziaria
A Rosario Di Toro, Maestro insigne di pediatria
e pioniere delle Nefrologia Pediatrica, persona
eccellente e con doti umane di estrema gentilezza,
cortesia e disponibilità, un ricordo affettuoso ed
un ringraziamento da tutti i pediatri italiani che
lo hanno conosciuto ed apprezzato.
2
PRESENTAZIONE
INCONTRI PEDIATRICI NORMANNI
XII CONGRESSO INTERNAZIONALE
Problematiche in Pediatria e Neonatologia
Antonietta Costantini
Direttore Generale dell’ASL CE 2
Partecipo con vivo piacere alla cerimonia di inaugurazione del I Congresso Nazionale della Società Italiana
di Pediatria Ospedaliera e rivolgo un caloroso saluto alle Autorità Civili e Ecclesiastiche presenti, ai numerosi
relatori e ai partecipanti esprimendo, a Salvatore Vendemmia, un forte apprezzamento per l’elevato livello
raggiunto da questo evento.
Il sottotitolo del Congresso delle XII Giornate Normanne, “Onorare il passato e impegnarsi per il futuro”, mi porta
a riflettere su come sia cambiato l’approccio ai problemi dell’assistenza sanitaria. Questo non solo per merito
dell’avanzamento della ricerca scientifica e per l’impiego di tecnologie sempre più sofisticate e all’avanguardia,
ma perché sono mutati gli scenari economici, politici e sociali.
Sono cambiati gli atteggiamenti e le richieste, come è mutato l’approccio clinico, certamente legato
all’osservazione dei sintomi e della malattia, ma volto anche a considerare i fattori di rischio spesso legati a stili
di vita scorretti.
In ogni caso mi preme osservare che è la persona soprattutto da porre al centro della nostra attenzione.
E l’impegno comune di tutti coloro che si occupano dell’organizzazione delle cure, deve mirare alla costruzione
di percorsi di salute basati sul paziente e su un programma di cure e di interventi che ponga, al primo posto, la
persona, la sua dignità e la sua soggettività.
Ci auguriamo tutti che, nonostante i limiti economici, si continui sempre e comunque ad assicurare buone cure
osservando atteggiamenti più responsabili nell’utilizzo dei servizi: ciò per utilizzare in modo adeguato le risorse
disponibili.
Auguro ancora a tutti i partecipanti un proficuo prosieguo dei lavori.
3
PRESENTAZIONE
INCONTRI PEDIATRICI NORMANNI
XII CONGRESSO INTERNAZIONALE
Problematiche in Pediatria e Neonatologia
Pasquale Di Pietro
Presidente della Società Italiana di Pediatria
Vorrei collegare il tema del Congresso organizzato dal collega Vendemmia al suo nuovo incarico di Presidente
della Società Italiana di Pediatria Ospedaliera della SIP.
Salvatore Vendemmia ha promosso una iniziativa scientifica di grande rilievo.
Mi auguro di poter operare in questi anni affinché la Pediatria Ospedaliera Italiana risulti essere tra le più
qualificate a livello della nostra Comunità Europea.
Vendemmia è un ospedaliero “autentico” e sono sicuro che sarà capace di far valere il ruolo della categoria.
Oggi è necessaria una razionalizzazione delle strutture ospedaliere sia in campo pediatrico che neonatale.
Altresì è fondamentale qualificare i posti letto ospedalieri pediatrici. Esiste la necessità di reperire un numero
maggiore di posti letto per le cure intermedie e le cure semiintensive non solo per i pazienti acuti ma anche per
quelli cronici.
Le istituzioni, però, sembrano più interessate ad affrontare il problema dei codici bianchi e ben poco si occupano
del paziente pediatrico veramente critico e/o cronico. Basta pensare come in molte regioni l´assistenza
domiciliare pediatrica sia tutta ancora da scoprire per mancanza di investimenti.
E´ giusto per il futuro anche investire sulle cure primarie e sulla prevenzione visto che nel passato questi campi
sono stati certamente trascurati. Però non bisogna che le Istituzioni dimentichino che le strutture ospedaliere
pediatriche italiane sono tra le più vetuste e non sempre supportate da eccellenti attrezzature.
Sono sicuro che Vendemmia darà ai Colleghi ospedalieri grande entusiasmo ma avrà anche la capacità di creare
un giusto equilibrio tra ospedale e territorio.
Auguri per quest’evento che rappresenta una pietra miliare nella storia della Pediatria Ospedaliera!
4
PRESENTAZIONE
INCONTRI PEDIATRICI NORMANNI
XII CONGRESSO INTERNAZIONALE
Problematiche in Pediatria e Neonatologia
Claudio Fabris
Presidente della Società Italiana di Neonatologia
Sono felice di portare il saluto della SIN al I Congresso Nazionale di Pediatria Ospedaliera che si tiene ad Aversa,
sede storica degli Incontri Pediatrici Normanni, appuntamento ormai consolidato nel panorama scientifico
italiano.
Appuntamento che ha la prerogativa di rinnovarsi di anno in anno con miglioramento continuo della qualità.
Questa edizione ospita il I Congresso Nazionale della Pediatria Ospedaliera che vede impegnati i colleghi del
settore in questa operosa azione di rinnovamento e di proposte per dare spazio, visibilità, professionalità e
meriti alla categoria tutta.
Auguro a questo evento il meritato ed immancabile successo.
5
PRESENTAZIONE
INCONTRI PEDIATRICI NORMANNI
XII CONGRESSO INTERNAZIONALE
Problematiche in Pediatria e Neonatologia
Parte del nuovo direttivo della Pediatria Ospedaliera eletto a Cosenza il 19 ottobre 2007:
Roberto Antonucci, Paolo Manzoni, Goffredo Parisi, Giuseppe Colucci,
Maurizio Ivaldi, Salvatore Vendemmia, Gennaro Vetrano
6
PRESENTAZIONE
INCONTRI PEDIATRICI NORMANNI
XII CONGRESSO INTERNAZIONALE
Problematiche in Pediatria e Neonatologia
Colleghi ed amici carissimi,
benvenuti ad Aversa che ospita quest’anno il I Congresso
Nazionale della Società Italiana di Pediatria Ospedaliera.
In verità questo è il 15° appuntamento congressuale
dei pediatri ospedalieri italiani, che hanno trasformato
recentemente, il “Gruppo di Studio di Pediatria Ospedalieria”
in Società Italiana di Pediatria Ospedaliera.
Un ricordo affettuoso e riconoscente a quanti mi hanno
preceduto alla guida nazionale degli ospedalieri. In primo
luogo a Mario Calvani, primo segretario e presidente del
I Congresso Nazionale della Pediatria Ospedaliera, tenutosi
a Roma dal 14 al 16 gennaio 1993. Poi ricordo i successivi,
instancabili ed operosi segretari, che gli sono succeduti:
Francesco Tancredi, Lodovico Perletti, Gianfranco Temporin,
Riccardo Longhi.
L’attuale Direttivo, regolarmente eletto a Cosenza nell’ottobre 2007, ha trasformato il gruppo in
SIPO, affiliata alla Società Italiana di Pediatria.
Questo primo Congresso vede oggi, come Relatori, Moderatori e Presidenti, autorevoli ed illustri
Colleghi, espressione nazionale ed internazionale della pediatria e di tutte le specialità ad essa
collegate.
Esso vuole dimostrare alla Nazione il livello culturale, didattico e formativo che l’ospedale svolge
con competenza e capacità, nei riguardi dei laureandi, specializzandi e giovani specialisti.
E come ho già detto, in precedenti occasioni, è questo il momento di rivendicare alla pediatria
ospedaliera l’ufficialità di tale ruolo, non in contrapposizione con l’università, ma in operosa,
funzionale e concreta collaborazione.
Il sistema sanitario italiano vive un momento di crisi organizzativa ed economica e la categoria degli
ospedalieri subisce notevoli carichi di lavoro, ingiustificati e non adeguatamente remunerati.
La fuga dagli ospedali verso il territorio ha contribuito ad acuire lo stato di criticità operativa
degli ospedalieri. E’ indubbio, pertanto, che occorre riorganizzare, in modo più razionale, le unità
operative di pediatria e neonatologia, eliminando inutili ed inefficienti duplicati, e riconvertendo
tutte le risorse in allocazioni realmente rispondenti ai bisogni di salute del territorio.
Certamente sarà cura di quest’operoso Direttivo, in collaborazione con la SIP ed altre Società
scientifiche, proporre soluzioni adeguate ai problemi ed alle richieste della nostra categoria e
sottoporle ai competenti organi ministeriali e regionali. La strada da percorrere è difficile ed
insidiosa, ma troveremo il modo di creare occasioni utili al nostro futuro, alle nostre aspettative e al
nostro lavoro.
Ringrazio tutti i Colleghi per le relazioni inviate e per la loro presenza a questa manifestazione. Così
pure quanti hanno inviato un segno tangibile della loro operosità e professionalità, partecipando,
con comunicazioni e poster, a questo evento.
Non ho certamente dimenticato la figura dell’infermiere pediatrico, supporto valente ed
indispensabile nel quotidiano operare, e che, coinvolgendo convergenze professionali e capacità
7
PRESENTAZIONE
INCONTRI PEDIATRICI NORMANNI
XII CONGRESSO INTERNAZIONALE
Problematiche in Pediatria e Neonatologia
relazionali e comunicative, accoglie e prende in carico i pazienti e le loro famiglie in un processo
rapido e dinamico. A queste operatori sanitari è dedicata una parte del Congresso.
L’edizione 2008 ospita le dodicesime giornate pediatriche Normanne, appuntamento importante
per questa vetusta e nobile Città che, con i suoi Amministratori e tutte le Autorità politiche, religiose
e culturali, vi partecipano con appassionata e gratificante collaborazione.
Ospitiamo ad Aversa anche il “XVI International Workshop on Neonatal Nefrology”. Quest’evento
curato da Luigi Cataldi dell’Università Cattolica di Roma, ci offre la possibilità di ascoltare i più
famosi esperti della nefrologia mondiale, di discutere con essi e migliorare la nostra conoscenza e
performance professionale.
Consentitemi, adesso, un doveroso pensiero al professor Rosario Di Toro, eminente pediatra e
pioniere delle Nefrologia Pediatrica, persona eccellente e con doti umane di estrema gentilezza,
cortesia e disponibilità. È sempre stato presente alle giornate pediatriche Normanne ed è stato per
10 anni Presidente onorario del Gruppo Normanno di Nefrourologia Neonatale e Pediatrica.
Alla sua memoria è dedicato il volume degli atti di quest’anno. A Lui ed alla sua Famiglia il
ringraziamento affettuoso da tanti e tanti colleghi che lo ricordano con affetto e stima, come Uomo
e come Maestro.
Devo inoltre ringraziare l’Arcivescovo di Aversa, Monsignor Mario Milano, sempre presente a questo
appuntamento, il Sindaco di Aversa Mimmo Ciaramella e gli Assessori e la Giunta, per la disponibilità
e l’affettuosa comprensione e collaborazione nella realizzazione di questo evento. Nè posso
dimenticare l’Assessore Nicola De Chiara, sempre in prima linea a sostenere le nostre richieste.
Grazie ai Vigili Urbani, alla Polizia di Stato che con il commissario capo dott. Antonio Sferragatta è
sempe stata impegnata a vigilare su queste giornate.
Un ringraziamento al Ministero di Grazia e Giustizia che, con sollecita comprensione, ha messo
a disposizione questo monumentale complesso per la realizzazione del Congresso. E un grazie
particolare alla direttrice dell’ Accademia Nazionale di Polizia Penitenziaria, Laura Passaretti, che si
è tanto prodigata presso il Ministero per concederci l’uso di questo Castello. Grazie alla Direttrice
della ASL CE2 Antonietta Costantini, sensibile, attenta, disponibile nei nostri confronti e presente a
questa inaugurazione. Grazie al Direttivo SIPO ed ai Presidenti regionali e provinciali, a tutti i colleghi
pediatri del Moscati, che validamente mi si affiancano nella organizzazione e realizzazione di questo
evento.
Grazie all’industria farmaceutica, alle associazioni, ai privati cittadini, agi Enti che hanno contribuito
economicamente alla realizzazione di questa edizione. Grazie a tutti per la simpatia, l’entusiasmo e
la passione che vi porta ad Aversa per realizzare queste giornate.
Buon lavoro!
Salvatore Vendemmia
8
PRESENTAZIONE
INCONTRI PEDIATRICI NORMANNI
XII CONGRESSO INTERNAZIONALE
Problematiche in Pediatria e Neonatologia
MOMENTI DEL CONGRESSO 2007
Mons. Mario Milano
Arcivescovo-Vescovo di Aversa
9
PRESENTAZIONE
INCONTRI PEDIATRICI NORMANNI
XII CONGRESSO INTERNAZIONALE
Problematiche in Pediatria e Neonatologia
MOMENTI DEL CONGRESSO 2007
Domenico Ciaramella
Sindaco di Aversa
10
PRESENTAZIONE
INCONTRI PEDIATRICI NORMANNI
XII CONGRESSO INTERNAZIONALE
Problematiche in Pediatria e Neonatologia
MOMENTI DEL CONGRESSO 2007
Giovanni Piedimonte
11
PRESENTAZIONE
INCONTRI PEDIATRICI NORMANNI
XII CONGRESSO INTERNAZIONALE
Problematiche in Pediatria e Neonatologia
MOMENTI DEL CONGRESSO 2007
Stefano Bruni
12
PRESENTAZIONE
INCONTRI PEDIATRICI NORMANNI
XII CONGRESSO INTERNAZIONALE
Problematiche in Pediatria e Neonatologia
MOMENTI DEL CONGRESSO 2007
Annamaria Staiano, Salvatore Vendemmia, Maurizio Ivaldi
13
PRESENTAZIONE
INCONTRI PEDIATRICI NORMANNI
XII CONGRESSO INTERNAZIONALE
Problematiche in Pediatria e Neonatologia
MOMENTI DEL CONGRESSO 2007
Alberto G. Ugazio
14
PRESENTAZIONE
INCONTRI PEDIATRICI NORMANNI
XII CONGRESSO INTERNAZIONALE
Problematiche in Pediatria e Neonatologia
MOMENTI DEL CONGRESSO 2007
Salvatore Vendemmia, Edoardo Bancalari, Roberto Paludetto, Franco Messina
15
PRESENTAZIONE
INCONTRI PEDIATRICI NORMANNI
XII CONGRESSO INTERNAZIONALE
Problematiche in Pediatria e Neonatologia
MOMENTI DEL CONGRESSO 2007
Momenti congressuali
16
PRESENTAZIONE
INCONTRI PEDIATRICI NORMANNI
XII CONGRESSO INTERNAZIONALE
Problematiche in Pediatria e Neonatologia
MOMENTI DEL CONGRESSO 2007
“I Normanni”
I CONGRESSO NAZIONALE DELLA SOCIETA’
ITALIANA DI PEDIATRIA OSPEDALIERA (SIPO)
XII CONGRESSO INTERNAZIONALE:
Problematiche in Pediatria e Neonatologia
XVI INTERNATIONAL WORKSHOP
ON NEONATAL NEPHROLOGY
PROGRAMMA
18
PROGRAMMA
Promotori e Sostenitori
Promoters and Supporters
Con l’alto patronato del Presidente della Repubblica Italiana
In collaborazione con
Società Italiana di Pediatria
Società Italiana di Neonatologia
Società Italiana di Pediatria Ospedaliera
Con il patrocinio di
Gruppo Normanno di Nefrourologia Neonatale e Pediatrica (ONLUS)
Ministero della Salute
Regione Campania
Provincia di Caserta
Città di Aversa
ASL CE 2
Ordine Provinciale dei Medici e degli Odontoiatri di Caserta
Confederazione Italiana Pediatri (CIPe)
Federazione Italiana Medici Pediatri (FIMP)
PROGRAMMA
19
28 - 29 novembre 2008 - Castello Aragonese
I Congresso Nazionale SIPO
XII Congresso internazionale:
Problematiche in Pediatria e Neonatologia
EVENTI PARALLELI
SATELLITE MEETINGS
XVI International Workshop
on Neonatal Nephrology
PROBLEMATICHE IN PEDIATRIA E NEONATOLOGIA
SESSIONE PARALLELA
Onorare il passato e impegnarsi per il futuro
28-29 novembre 2008
IV Convegno Neonatologico
e Pediatrico Infermieristico
29 novembre 2008 - Castello Aragonese Sala Rainulfo
Drengot
Enduring memories and a promise for the future
November 28th and 29th 2008
Presidenti Onorari
Paolo Giliberti, Bruno Nobili, Luciano Tatò
Presidenti del Congresso
Pasquale Di Pietro, Claudio Fabris, Salvatore Vendemmia
Vice Presidenti
Luigi Cataldi, Vassilios Fanos, Maurizio Ivaldi
Comitato Scientifico
Giuseppe Buonocore, Luciano Cavallo, Antonio Carlucci,
Angelo Elio Coletta Spinella, Giuseppe Di Mauro,
Mario Ferraro, Lucio Giordano, Gianluigi Gargantini,
Carmelo Mamì, Silvio Maringhini, Claudio Pignata,
Silvano Santucci, Paolo Siani, Maria Vendemmia, Carlo Zorzi
Comitato Organizzativo
Roberto Antonucci, Elena Bernabei, Carlo Cioffi,
Gabriella di Cicco, Silvia di Michele, Rocco Di Nardo,
Valerio Flacco, Paolo Manzoni, Carlo Montinaro,
Attilio Romano, Vincenzo Stornaiuolo, Gennaro Vetrano
CORSI DI AGGIORNAMENTO
CORSO AVANZATO DI ECOGRAFIA pediatrica e
neonatale
Direttori del corso
Rino Agostiniani, Alberto Chiara, Roberto Cinelli,
Francesco Lotito
27 novembre 2008 - Castello Aragonese Sala Asclettino
28 novembre 2008 - Ospedale “S.G. Moscati”
CORSO DI FORMAZIONE IN DIABETOLOGIA PEDIATRICA
Direttore del corso
Francesco Prisco
28 novembre 2008 - Castello Aragonese Sala Riccardo I
CORSO DI FORMAZIONE ED AGGIORNAMENTO
La diagnosi molecolare di infezioni invasive da
Pneumococco, Meningococco e Haemophilus influentiae,
nell’ottica di un miglioramento delle strategie di
prevenzione diagnosi e terapia
Direttori del corso
Chiara Azzari, Massimo Resti, Gaetano Danzi
27 novembre 2008 - Castello Aragonese Sala Guitmondo
20
PROGRAMMA
28 novembre 2008 - Castello Aragonese
Salone dei Conti Normanni
I Congresso Nazionale SIPO
XII Congresso internazionale:
Problematiche in Pediatria e Neonatologia
27 novembre 2008 - Castello Aragonese
XVI International Workshop
on Neonatal Nephrology
RIUNIONE DIRETTIVO SIPO
10.00 Sala Costanza
08.30-15.00 Registrazione dei partecipanti
SESSIONE SATELLITE
PEDIATRIA PRATICA E MANAGEMENT
Presidenti
Giuseppe Colucci, Luciano Pinto
Moderatori
Elio Caliendo, Gennaro Golia, Renato Vitiello
09.00 La terapia moderna della diarrea
Annamaria Staiano
09.30 Il trattamento della febbre in pediatria
Luca Gallelli
10.00 Il network pediatrico
Rinaldo Zanini
10.30 Discussione
SIMPOSIO SATELLITE “MALATTIE RARE”
Presidenti
Bruno Nobili, Marco Somaschini
Moderatori
Alfonso D’Apuzzo, Ennio Del Giudice, Vincenzo Riccardi
11.00 Epidemiologia delle malattie rare
Roberto Della Casa
11.30 Malattie genetiche e metaboliche rare in età
pediatrica
Generoso Andria
12.00 Malattie da accumulo: casi particolari
Francesco Papadia
12.30 Discussione
PROGRAMMA
21
28 novembre 2008 - Castello Aragonese
29 novembre 2008 - Castello Aragonese
18.00 Sala Ermanno
08.30-10.30 Sala Ermanno
PRIMA SESSIONE COMUNICAZIONI
SECONDA SESSIONE COMUNICAZIONI
Moderatori
Vincenzo Comune, Ettore Cataldi, Roberto Trunfio,
Giuseppe Tumminelli
Moderatori
Gianfranco Temporin, Paolo Manzoni, Massimo Ummarino,
Piero Ugo Zucchinetti
18.00 Sala Giovanna I
SECONDA SESSIONE
PRIMA SESSIONE POSTER
Moderatori
Luigi Cantelli, Francesco Di Meo, Francesco Saitta,
Giuseppe Casale
Salone dei Conti Normanni
Presidenti
Pasquale Di Pietro, Claudio Fabris
Moderatori
Gerardo Chirichiello, Franco Messina, Luigi Orfeo,
Gennaro Vetrano
08.30 Neonati di peso molto basso e problemi molto
grandi: sopravvivenza e prognosi a distanza
Roberto Paludetto
08.45 Problemi di alimentazione nel neonato di peso
molto basso
Paolo Gancia
09.00 Corretto uso degli antibiotici in TIN
Mauro Stronati
09.15 Infezioni e sistema immunitario del neonato
Gaetano Chirico
09.30 Novità nella ventilazione non invasiva
Corrado Moretti
09.45 Discussione
Open Bar
22
PROGRAMMA
29 novembre 2008 - Castello Aragonese
I Congresso Nazionale SIPO
XII Congresso internazionale:
Problematiche in Pediatria e Neonatologia
XVI International Workshop on Neonatal Nephrology
09.00-10.00 Sala Giovanna I
Salone dei Conti Normanni
Moderatori
Antimo Cappello, Roberto Liguori, Luciano Palmiero,
Salvatore Mariconda
Presidenti
Carlo Vosa, Giuseppe Caianiello
Moderatori
Fiorina Casale, Carla Navone, Lodovico Perletti, Alberto Podestà
15.00 Influenze ambientali in TIN
Roberto Antonucci
15.15 Novità nella terapia dell’artrite giovanile
Mariolina Alessio
15.30 Nuove linee guida nel trattamento
dell’asma bronchiale del bambino
Franco Paravati
15.45 Progetti per la tutela della salute materno infantile,
in collaborazione con la Pediatria Ospedaliera
Franca Golisano
16.00 Scenari clinici dello shock neonatale
Paolo Giliberti
16.15 Cancro in età pediatrica: progetto guarigione
Paolo Indolfi
16.30 Bambino e società: aspetti storici,
giuridici, culturali, sociali
Goffredo Parisi
16.45 Discussione
Open Bar
17.30 Assegnazione Premi di Studio
IV Premio “Ferdinando Iafusco”
III Premio “Clemente Pascarella”
SECONDA SESSIONE POSTER
10.30-13.00 Salone dei Conti Normanni
TERZA SESSIONE
XVI International Workshop on Neonatal Nephrology
Comitato onorario
P. Di Pietro, F. Emma, C. Fabris, P. Giliberti, M. Stronati,
S. Vendemmia
Segreteria scientifica
R. Agostiniani, G. Attardo, V. Fanos, M.G. Romeo
Comitato organizzativo
C. Cioffi, A. Colella, R. Coppola, A. Griffo, N. Romeo, G. Parisi
Presidente
Luigi Cataldi
Moderatori
Rino Agostiniani, Vassilios Fanos
Nephrogenic syndrome of inappropriate antidiuresis
Vassilios Fanos
Drugs, prostaglandins and neonatal renal function
Jack W. Aranda
Futura evoluzione nella ricerca renale in età neonatale
Robert L. Chevalier
Markers e danno renale nel neonato e nel bambino
Michele Mussap
12.30 Discussione
Giuliana Lama, Carmine Pecoraro
Assegnazione XVI Premio “Antonio Sanna”
13.30 Colazione di Lavoro
Area Ristoro del Castello Aragonese (Piano Terra)
QUARTA SESSIONE
PROGRAMMA
23
29 novembre 2008 - Castello Aragonese Sala Rainulfo
Drengot
IV CONVEGNO NEONATOLOGICO
E PEDIATRICO INFERMIERISTICO
Salone dei Conti Normanni
QUINTA SESSIONE
Presidenti
Giuseppe Claps, Alessandro Settimi
Moderatori
Antonio Campa, Alfio Cristaldi, Maurizio Ivaldi, Antonio Vitale
18.00 Infezioni nosocomiali in TIN
Alda Scarcella
18.15 L’asma è sempre da ricoverare?
Gianni Messi
18.30 I carichi di lavoro del pediatra ospedaliero
Alberto Villani
18.45 Scroto acuto: eziopatogenesi, diagnosi, terapia
Antonio Marte, Antonio Savanelli
19.00 Aspetti farmacoeconomici dell’immunoterapia
specifica
Domenico Minasi
19.15 Discussione
19.30 Chiusura del convegno
PRIMA SESSIONE INFERMIERISTICA
Presidenti
Arturo Giustardi, Ippolito Pierucci, Carlo Cioffi
Moderatori
Raffaele Coppola, Domenico Perri, Giuseppe Della Corte
11.00 Infermieri pediatrici: i motivi della nostra scelta
Elena Bernabei
11.15 Strategie organizzative del lavoro nelle UTIN
Denis Pisano
11.30 Valutazione della complessità assistenziale in pediatria:
metodo Panda applicabità ed implicazioni
Laure Morganti
11.45 Infezioni ospedaliere in neonati
con peso inferiore a 1500 gr
Giacomo Cecere, Alba Frontini
12.00 I vantaggi dell’allattamento al seno
Monika Stablum
12.15 Trattamento delle lesioni cutanee
da stravaso di farmaci
Agostina Pagliuca, Tommasina Carra, Concetta Coppola
12.30 Gestione del bambino in fototerapia
Pinella Errico, Daniela Meoli
12.45 Assistenza al bambino con meningoencefalite
Carla Russo, Patrizia De Ninno
13.00 Discussione
24
PROGRAMMA
29 novembre 2008 - Castello Aragonese Sala Rainulfo
Drengot
IV CONVEGNO NEONATOLOGICO
E PEDIATRICO INFERMIERISTICO
SECONDA SESSIONE INFERMIERISTICA
Presidenti
Andrea Colella, Gabriella De Cicco, Luciano Musi
Moderatori
Franca Piccolo, Maria Franzese, Raffaella Mormile
15.30 Lo screening uditivo in TIN
Assunta Filippelli, Adele Coccia
15.45 La formazione a distanza come risorsa
per l’educazione continua in medicina
Maurizio Di Martino, Annamaria D’Amore
16.00 L’importanza dei genitori: aiuto e sostegno
all’operatore sanitario durante le fasi di assistenza al
bambino
Sabrina Gianni, Lorena Franceschelli
16.15 Assistenza infermieristica pre e post operatoria
al neonato con ernia diaframmatica
Carla Cervoni
16.30 Emergenze pediatriche in Pronto Soccorso:
il ruolo dell’infermiere
Matilde Esposito, Pasquale De Rosa
16.45 Le infezioni delle vie urinarie
Maria Concetta Regia Corte
17.00 Profilo assistenziale del neonato sano
Daniela Ammazzini, Rosaria Raffaelli
17.15 Il neonato patologico: stabilizzazione e trasporto
Carmela Sollo
17.30 Discussione
27 novembre 2008 - Castello Aragonese Sala Guitmondo
CORSO DI FORMAZIONE ED AGGIORNAMENTO
SULLA DIAGNOSI MOLECOLARE DI INFEZIONI INVASIVE
DA PNEUMOCOCCO, MENINGOCOCCO, HAEMOPHILUS
INFLUENTIAE
Direttori del corso
Chiara Azzari, Gaetano Danzi, Massimo Resti
Presidenti
Giorgio Rondini, Pasquale Femiano
Moderatori
Lanfranco Acampora, Italo Bernardo, Immacolata Piccirillo,
Enrico Risolo
09.00 Epidemiologia e clinica delle meningiti
Massimo Resti
09.30 Situazione epidemilogica
e possibilità di diagnosi in Campania
Felice Nunziata
10.00 La nuova metodologia diagnostica
dal lattante all’anziano
Chiara Azzari
10.30 I dati di incidenza “visitati”
alla luce delle nuove metodologie
Massimo Resti
11.00 La meningite nel prematuro e nel lattante
Francesco Raimondi
11.30 Diagnostica molecolare: un metodo per tutti?
Chiara Azzari
12.00 Il problema dell’haemophilus influentia non
tipizzabile: una realtà emergente
Chiara Azzari, Massimo Resti
12.30 Discussione
13.00 Colazione di lavoro
PROGRAMMA
27-28 novembre 2008 - Castello Aragonese Sala
Asclettino
CORSO AVANZATO DI ECOGRAFIA
NEONATALE E PEDIATRICA
Presidenti onorari
Alberto Chiara, Vincenzo Liguori
Direttori del corso
Rino Agostiniani, Roberto Cinelli, Rossella Galiano, Francesco
Lotito
27 novembre
08.30 Registrazione dei partecipanti e pre-test di
ingresso
09.00 Introduzione
Rossella Galiano
PRIMA SESSIONE
ECOGRAFIA CEREBRALE
09.30 Anatomia ecografica cerebrale normale
Gaetano Ausanio
10.00 La leucomalacia periventricolare
Gaetano Ausanio
10.30 L’emorragia cerebrale
Maria Cristina Pintus
Pausa Caffè
11.30 Patologia infettiva cerebrale
Angelo Maria Basilicata
12.00 Malformazioni cerebrali
Roberto Cinelli
Discussione
13.00 Colazione di lavoro
SECONDA SESSIONE
14.00 Encefalopatia ipossico-ischemica
Giovanni Chello
14.30 Il confronto con il neuroradiologo
Ferdinando Caranci
15.00 Dilatazione ventricolare e idrocefalia
Maria Cristina Pintus
15.30 Refertazione e timing degli esami
Maria Pia Capasso
Discussione
25
26
PROGRAMMA
27-28 novembre 2008 - Castello Aragonese Sala Asclettino
CORSO AVANZATO DI ECOGRAFIA
NEONATALE E PEDIATRICA
28 novembre
TERZA SESSIONE
ECOGRAFIA DELLE VIE URINARIE
08.15 Introduzione: Rino Agostiniani
08.30 Anatomia ecografica normale
dell’apparato urinario del neonato
Alberto Chiara
09.00 Quadri ecografici principali di patologia
nefro-urologica del neonato
Rino Agostiniani
09.20 L’ecografia nella patologia addominale del
neonato
Giuseppe Vergara
09.40 L’ecografia nel monitoraggio non invasivo del neonato
critico
Luigi Balestrieri
10.00 Discussione
10.15 Pausa caffè
QUARTA SESSIONE
ECOGRAFIA DELLE ANCHE
10.30 Anatomia ecografica dell’anca infantile
Gaetano Alifano
10.50 Tecnica di esecuzione dell’esame e tipizzazione
ecografica
Roberto Cinelli
11.10 La displasia evolutiva dell’anca ed attualità
diagnostiche
e terapeutiche in ortopedia pediatrica
Francesco Lotito, Nicola Vendemmia
Discussione
QUINTA SESSIONE
ECOGRAFIA CARDIACA
a cura di Angelo Maria Basilicata
12.00 Introduzione all’Ecocardiografia
Color Doppler sul neonato
12.20 Ecocardiografia Color Doppler
aspetti funzionali per il neonatologo e per il pediatra
ECOCARDIOGRAFIA FUNZIONALE PER IL
NEONATOLOGO
a cura di Salvatore Caputo
12.40 Ecocardiografia funzionale per il neonatologo
La pompa cardiaca e l’ecografia per la gestione
emodinamica
Il cuore “grossolanamente” normale e il sospetto di
cardiopatia
Il dotto di Botallo
Discussione
13.10 Post-test
13.30 Pausa pranzo
SESTA SESSIONE
ESErcitazionI
15.30 Esercitazioni pratiche a piccoli gruppi nel Reparto
di Neonatologia Ospedale “San G. Moscati” di Aversa
Tutors
Luigi Balestrieri, Maria Pia Capasso, Roberto Cinelli,
Andrea Colella, Maria Vendemmia, Salvatore Caputo
PROGRAMMA
27
28 novembre 2008 - Castello Aragonese Sala Riccardo I
IV CORSO INTERATTIVO DI DIABETOLOGIA PEDIATRICA
PER INFERMIERI “FERDINANDO IAFUSCO”
Seconda Università degli Studi di Napoli Dipartimento di Pediatria
Centro di Riferimento Regionale per la Diabetologia Pediatrica “G. Stoppoloni”
Con il patrocinio dell’O.S.D.I. - Campania
Direttore del corso
Francesco Prisco
Presidenti
Salvatore Di Maio, Matilde Cerrone, Vincenzo Corrado, Carmela
Zito
08.30 Pre-test
08.45 Saluto del Presidente dell’OSDI-Campania
Francesco de Lillo
PRIMA SESSIONE
Il trattamento del Diabete all’esordio e nuove
forme di diabete
09.00 La chetoacidosi diabetica ed il Protocollo GETREM
Francesca Casaburo
09.20 Il diabete neonatale
Ciretta Pelliccia
09.40 Il diabete tipo 2 dell’adolescente
Santino Confetto
10.00 L’alimentazione del bambino con diabete
Francesca Musella
SECONDA SESSIONE
La tecnologia nel diabete tipo 1
10.20 La terapia con microinfusore di insulina
Angela Zanfardino
10.40 Nuove metodiche di somministrazione
dell’insulina:
dal My Tube all’insulina aerosol
Francesca Pisani
10.50 L’holter glicemico in gravidanza
Fabrizio Stoppoloni
11.10 Coffee break con fotografia del Corso
TERZA SESSIONE
Il diabete tipo 1 adulto
11.30 Problematiche del paziente con diabete tipo 1
adulto
Maria Rosaria Masella
11.50 La nefropatia diabetica
Alessia Piscopo
12.10 Complicanze oculari del diabete mellito
Teo Liboldi
12.30 Discussione generale
13.00 Pranzo-buffet
Durante il buffet si potrà continuare a discutere con i
protagonisti dei principali temi trattati.
14.00 Gli strumenti per il monitoraggio del paziente con
diabete in età pediatrica:
“Dalla glicosuria all’holter glicemico e … ritorno”.
Possibilità di visionare ed applicare praticamente i
sistemi più recenti di automonitoraggio del diabete. I
partecipanti saranno divisi in piccoli gruppi ciascuno
affidato a un Tutor.
15.30 Fine parte teorica e somministrazione dei post-test
teorico
Tutors
Maria Di Bernardo, Sara Sessa, Eugenio De Felice, Nicola
Ingenito
Il corso è a numero chiuso e potranno partecipare
soltanto 50 infermieri professionali.
28
PROGRAMMA
Relatori e moderatori
Chairmen and moderators
Lanfranco Acampora - Caserta
Rino Agostiniani - Pistoia
Mariolina Alessio - Napoli
Daniela Ammazzini - Pistoia
Generoso Andria - Napoli
Roberto Antonucci - Cagliari
Jack W. Aranda - New York
Gaetano Ausanio - Caserta
Chiara Azzari - Firenze
Marco Baldoni - Milano
Luigi Balestrieri - Napoli
Angelo M. Basilicata - Benevento
Elena Bernabei - Aversa
Italo Bernardo - Caserta
Stefano Bruni - Modena
Giuseppe Caianiello - Napoli
Elio Caliendo - Salerno
Antonio Campa - Napoli
Luigi Cantelli - S. Maria Capua Vetere
Fiorina Casale - Napoli
Giuseppe Casale - Sessa Aurunca
Maria Pia Capasso - Aversa
Antimo Cappello - Piedimonte Matese
Salvatore Caputo - Benevento
Giuseppe Caramia - Ancona
Fernando Carangi - Napoli
Virgilio Carnielli - Ancona
Tommasina Carra - Aversa
Francesca Casaburo - Napoli
Ettore Cataldi - Cassino
Luigi Cataldi - Roma
Giacomo Cecere - Bari
Matilde Cerrone - Aversa
Carla Cervoni - Roma
Giovanni Chello - Napoli
Robert L. Chevalier - Charlottesville
Alberto Chiara - Crema
Gerardo Chirichiello - Avellino
Gaetano Chirico - Brescia
Roberto Cinelli - Vico Equense
Carlo Cioffi - Aversa
Lina Cioffi - Caserta
Santino Confetto - Napoli
Concetta Coppola - Aversa
Antonio Correra - Napoli
Giuseppe Claps - Roma
Adele Coccia - Caserta
Andrea Colella - Aversa
Giuseppe Colucci - Ostuni
Angelo Elio Coletta Spinella - Messina
Vincenzo Comune - Giugliano in C.
Raffaele Coppola - Aversa
Giovanni Corsello - Palermo
Alfio Cristaldi - Roma
Gaetano Danzi - Aversa
Annamaria D’Amore - Aversa
Alfonso D’Apuzzo - Gragnano
Gabriella De Cicco - Roma
Roberto Della Casa - Napoli
Giuseppe Della Corte - Aversa
Ennio Del Giudice - Napoli
Patrizia De Ninno - Aversa
Pasquale De Rosa - Napoli
Giuseppe Di Mauro - Aversa
Francesco Di Meo - Sessa Aurunca
Pasquale Di Pietro - Genova
Marzia Duse - Roma
Matilde Esposito - Napoli
Pinella Errico - Benevento
Claudio Fabris - Torino
Luigi Falco - Caserta
Vassilios Fanos - Cagliari
Pasquale Femiano - Caserta
Assunta Filippelli - Caserta
Lorena Franceschelli - Lucca
Maria Franzese - Aversa
Alba Frontini - Bari
Paolo Gancia - Cuneo
Sabrina Gianni - Lucca
Paolo Giliberti - Napoli
Arturo Giustardi - Napoli
Gennaro Golia - Aversa
Franca Golisano - Cento
Dario Iafusco - Napoli
Paolo Indolfi - Napoli
Raffaele Iorio - Napoli
Maurizio Ivaldi - Genova
Giuliana Lama - Napoli
Teo Liboldi - Napoli
Roberto Liguori - Marcianise
Vincenzo Liguori - Maddaloni
Riccardo Longhi - Como
Francesco Lotito - Napoli
Marcello Maddalone - Milano
Paolo Manzoni - Torino
Antonio Marte - Napoli
Maria Rosaria Masella - Aversa
Daniela Meoli - Benevento
Gianni Messi - Trieste
Franco Messina - Napoli
Giorgina Mieli Vergani - Londra
Domenico Minasi - Polistena
PROGRAMMA
Relatori e moderatori
Chairmen and moderators
Francesca Musella - Napoli
Luciano Musi - Vicenza
Carla Navona - Pietraligure
Salvatore Mariconda - Napoli
Corrado Moretti - Roma
Laure Morganti - Ascoli Piceno
Raffaella Mormile - Aversa
Michele Mussap - Genova
Felice Nunziata - Solofra
Luigi Orfeo - Benevento
Agostina Pagliuca - Aversa
Luciano Palmiero - Marcianise
Roberto Paludetto - Napoli
Francesco Papadia - Bari
Franco Paravati - Crotone
Goffredo Parisi - Vasto
Giuseppe Parisi - Ischia
Carmine Pecoraro - Napoli
Lodovico Perletti - Milano
Domenico Perri - Aversa
Immacolata Piccirillo - Aversa
Franca Piccolo - Aversa
Giovanni Piedimonte - Morgantown
Ippolito Pierucci - Sapri
Luciano Pinto - Napoli
Maria C. Pintus - Cagliari
Denis Pisano - Cagliari
Alberto Podestà - Milano
Francesco Prisco - Napoli
Rosaria Raffaelli - Pistoia
Francesco Raimondi - Napoli
Maria C. Regia Corte - Vasto
Massimo Resti - Firenze
Vincenzo Riccardi - Pollenatrocchia
Enrico Risolo - Ariano Irpino
Attilio Romano - Caserta
Giorgio Rondini - Pavia
Carla Russo - Aversa
Francesco Saitta - Pozzuoli
Antonio Savanelli - Napoli
Alda Scarcella - Napoli
Alessandro Settimi - Napoli
Carmela Sollo - Caserta
Marco Somaschini - Bergamo
Monika Stablum - Bolzano
Mauro Stronati - Pavia
Luciano Tatò - Verona
Gianfranco Temporin - Rovigo
Roberto Trunfio - Locri
Giuseppe Tumminelli - Caltanissetta
Alberto G. Ugazio - Roma
Massimo Ummarino - Napoli
Pietro Vajro - Napoli
Maria Vendemmia - Caserta
Nicola Vendemmia - Nancy
Salvatore Vendemmia - Aversa
Diego Vergani - Londra
Giuseppe Vergara - Torre del Greco
Gennaro Vetrano - Benevento
Antonio Vitale - Avellino
Renato Vitiello - Boscoreale
Alberto Villani - Roma
Carlo Vosa - Napoli
Rinaldo Zanini - Lecco
Carmela Zito - S. Maria Capua Vetere
Piero Ugo Zucchinetti - Genova
29
I CONGRESSO NAZIONALE DELLA SOCIETA’
ITALIANA DI PEDIATRIA OSPEDALIERA (SIPO)
XII CONGRESSO INTERNAZIONALE:
Problematiche in Pediatria e Neonatologia
XVI INTERNATIONAL WORKSHOP
ON NEONATAL NEPHROLOGY
RELAZIONI
CORSO DI FORMAZIONE ED AGGIORNAMENTO
SULLA DIAGNOSI MOLECOLARE DI INFEZIONI
INVASIVE DA PNEUMOCOCCO, MENINGOCOCCO,
HAEMOPHILUS INFLUENTIAE
27 NOVEMBRE 2008
Direttori: Chiara Azzari, Gaetano Danzi, Massimo Resti
Presidenti: Giorgio Rondini, Pasquale Femiano
Moderatori: Lanfranco Acampora, Italo Bernardo, Immacolata Piccirillo, Enrico Risolo
Alberto G. Ugazio
CORSO DI FORMAZIONE
33
DIAGNOSTICA MOLECOLARE: UN METODO PER TUTTI?
C. Azzari, F. Ghiori, E. Laudani, G. Giusti, C. Canessa, M. Resti
Azienda Ospedaliero-Universitaria Anna Meyer, Firenze
I metodi molecolari- PCR (Polymerase Chain Reaction) e Real-time PCR- rappresentano uno strumento
diagnostico molto sensibile di infezioni batteriche, applicabile per tutte le patologie e tutte le fasce
d’età. Essi infatti amplificano il DNA di una regione selezionata del genoma batterico e la PCR Real-time,
oltre a consentire una quantificazione della carica batterica, permette di individuare più geni in una sola
reazione, quindi può essere utilizzata per l’analisi contemporanea di più germi in uno stesso campione.
Inserendo quindi diversi primers corrispondenti a sequenze geniche note di vari patogeni, si possono
allestire reazioni per pannelli di germi specifici a seconda del sospetto clinico e dell’età del paziente.
Inoltre la PCR-Real time è idonea per la ricerca di germi in tutti i liquidi biologici: escreato, secrezioni
nasofaringee, liquido pleurico, essudato di otite media, oltre che sangue e liquido cefalo-rachidiano.
Infine sono metodi semplici e spesso automatici, offrono risultati in tempi rapidi e per questo sono
utilizzabili in tutti i laboratori, anche in ospedali meno attrezzati.
In corso di infezione è possibile identificare la presenza del patogeno in causa avvalendoci, oltre che di
metodi colturali, anche di tests molecolari (1), in particolare della Polymerase Chain Reaction (PCR) e della
Real-time PCR (RT-PCR).
Queste sono tecniche estremamente sensibili e specifiche per la diagnosi di infezioni batteriche (2), che
si basano sulla ricerca di frammenti del genoma del microrganismo nei campioni biologici. Le tecniche
molecolari possono essere effettuate sia direttamente sul campione che su un isolato ottenuto da coltura,
come conferma diagnostica.
La PCR consente l’individuazione e l’amplificazione anche di una sola molecola di DNA in pressoché ogni
tipo di campione, permettendo di ottenere una semplice e rapida diagnosi di infezione batterica.
Il presupposto per l’utilizzo della PCR è la parziale conoscenza del tratto di DNA che si vuole amplificare.
E’ quindi necessario sequenziare tratti del genoma batterico, e soprattutto stabilire quali sono i geni
peculiari del microrganismo che si vuole ricercare, in modo da poterlo differenziare da altri.
Sono tests facili da attuare, automatici e utilizzabili anche negli ospedali meno attrezzati; risultano meno
costosi e più rapidi dei colturali. In particolare la RT-PCR è ancora più vantaggiosa della PCR standard:
è più rapida, essendo necessari soltanto 45 minuti per avere un risultato, contro le 4 ore della tecnica
tradizionale. Altro problema della PCR standard è che la procedura necessita di numerose manipolazioni
con conseguente rischio di contaminazione crociata; le procedure richieste per l’RT-PCR sono invece
meno numerose e più semplici.
Diversamente dai metodi colturali, sono sufficienti piccole quantità di campioni biologici, vantaggio
importante soprattutto nei pazienti pediatrici. Inoltre non richiedono batteri vivi e non vengono quindi
influenzati dall’autolisi che talvolta si verifica nei terreni di coltura. Possono essere effettuati anche in
pazienti precedentemente trattati con antimicrobici (3). La terapia antibiotica compromette la vitalità
del germe, rendendo difficoltosa la crescita del microrganismo nei terreni di coltura e quindi la diagnosi
colturale, mentre ha un effetto minore per i metodi molecolari.
Tali strumenti diagnostici possono essere utilizzati per tutti i pazienti, indipendentemente dall’età e dal
tipo di malattia. Naturalmente, a seconda della sede di patologia, i tests saranno applicati a campioni
clinici prelevati da diversi distretti. Ad esempio in caso di polmonite verrà analizzato un campione di
sangue (che risulterà positivo solo nel caso in cui l’infezione si associ a batteriemia), escreato o liquido
pleurico; il liquido cefalorachidiano, peritoneale, articolare verranno analizzati rispettivamente in caso di
meningite, peritonite, artrite; essudato in caso di otite media.
In un qualsiasi campione biologico è anche possibile rivelare, in una sola reazione di RT-PCR, la presenza
di geni diversi. In base al sospetto clinico e all’età del paziente si possono allestire reazioni che utilizzano
miscele contenenti sonde specifiche per sequenze geniche di diversi germi e marcate con vari tipi di
CORSO DI FORMAZIONE
34
fluorocromi. Durante un processo infettivo, sui vari campioni biologici, è possibile quindi saggiare
contemporaneamente le presenza di diversi patogeni (Streptococcus pneumoniae, H. influenzae, N.
meningitidis, Chlamydia, Legionella) semplicemente utilizzando diverse sonde, ognuna marcata in
modo diverso e con target specifico per un determinato microrganismo. Si parla in tal caso di reazione in
Multiplex, che consente di fare una diagnosi eziologica in qualsiasi campione (escreato, liquido pleurico,
tampone faringeo, liquor, sangue) (1, 4).
Sono stati creati pannelli di Multiplex PCR specifici per la diagnosi eziologica delle singole patologie,
considerando i patogeni maggiormente in causa nell’infezione dei singoli distretti. Ad esempio in caso
di polmonite verranno utilizzate sonde specifiche che permettano di individuare contemporaneamente
la presenza di M. pneumoniae, S. pneumoniae, C. pneumoniae e di altri germi più frequenti (5); pannelli
per meningite che ricercano pneumococco, meningococco, H. influenzae (1); pannelli per artrite, per la
ricerca di pneumococco, Salmonella, Stafilococco ed altri germi.
Questi tests sono diagnostici se risultano positivi in campioni ottenuti da siti normalmente sterili quali
liquor, sangue o liquido pleurico; se effettuati in tamponi faringei, essudato di otite media o altri campioni
ottenuti da distretti colonizzati da patogeni anche nel paziente sano, la positività al test risulta indicativa
per un’infezione solo se accompagnati da un quadro clinico caratteristico (6). Un’ulteriore conferma può
essere fornita dalla quantificazione della carica batterica (7, 8).
I metodi molecolari presentano un altro importante vantaggio: permettono una diagnosi quantitativa
oltre che qualitativa dei batteri (9, 10).
La Real-Time PCR permette di monitorizzare l’amplificazione del DNA durante lo svolgimento della
reazione stessa mediante sonde fluorescenti (11, 12). In tal modo è possibile quantificare il patrimonio
genetico contenuto nel campione prima dell’amplificazione, in base alla velocità con cui il segnale
fluorescente raggiunge un determinato livello soglia (13).
La determinazione quantitativa nella PCR tradizionale avviene alla fine del processo di amplificazione,
quando le condizioni non sono ottimali e la misura risulta meno precisa; nell’RT-PCR invece la
quantificazione, mediante fluorescenza, avviene durante il processo stesso di amplificazione, mostrando
una migliore accuratezza (14). La determinazione quantitativa del DNA batterico è utile sia per confermare
casi dubbi di RT-PCR (6), sia ai fini prognostici. Studi fatti in bambini con infezioni batteriche invasive
hanno mostrato infatti una correlazione tra carica batterica e mortalità (5).
I metodi molecolari possono essere utilizzati anche per la tipizzazione dei sierotipi di alcuni microrganismi
(ad esempio di Streptococcus pneumoniae) (15).
La Multiplex PCR, metodica resasi disponibile di recente, è un test molecolare che ha consentito di cercare
diversi tipi sierologici direttamente nel campione biologico (sangue, liquor). Nella stessa miscela possono
essere testati numerosi sierotipi (16, 17). Ciò ha consentito di monitorare i tipi di un determinato patogeno
maggiormente responsabili di infezioni, permettendo in tal modo di attuare strategie vaccinali idonee
e specifiche (10), e tenere sotto controllo il fenomeno dello shift dei sierotipi che si può verificare per
alcuni patogeni (ad esempio per lo pneumococco) sia spontaneamente che dopo la vaccinazione. Fino
a poco tempo fa, le uniche metodiche per valutare la distribuzione sierotipica erano tests sierologici o
molecolari effettuati su colture batteriche; risultava quindi necessario poter disporre di campioni colturali
positivi, che rappresentano però un ostacolo per la diagnosi (18-19). I metodi colturali infatti inducono
una sottostima della reale incidenza dei sierotipi, poiché è possibile tipizzare soltanto i batteri cresciuti
in coltura.
In conclusione, la maggiore sensibilità dei tests molecolari rispetto ai metodi colturali è indubbia, come
dimostrato da numerosi studi, qualunque sia l’età del paziente e qualunque siano i campioni biologici su
cui viene ricercato il germe.
CORSO DI FORMAZIONE
35
Bibliografia
1. Corless CE, Guiver M, Borrow R et al. Simultaneous detection of Neisseria meningitidis, Haemophilus
influenzae, and Streptococcus pneumoniae in suspected cases of meningitis and septicemia using real-time
PCR. J Clin Microbiol. 2001;39:1553-1558.
2. Carvalho MG, Tondella ML, McCaustland K. et al. Evaluation and improvement of real-time PCR assays
targeting lyt, ply, and psaA genes for detection of pneumococcal DNA. J Clin Microbiol. 2007;45:2460-2466.
3. Tarallo L, Tancredi F, Schito G. et al. Italian Pneumonet Group (Società Italiana Pediatria and Associazione
Italiana Studio Antimicrobici e Resistenze). Active surveillance of Streptococcus pneumoniae bacteremia in
Italian children. Vaccine. 2006;24(47-48):6938-6943.
4. Poulter MD, Deville JG, Cherry JD. et al. Real-time fluorescence polymerase chain reaction (PCR) identification
of Streptococcus pneumoniae from pleural fluid and tissue. Scand J Infect Dis. 2005;37(5):391-2.
5. Kais M, Spindler C, Kalin M. et al. Quantitative detection of Streptococcus pneumoniae, Haemophilus
influenzae, and Moraxella catarrhalis in lower respiratory tract samples by real-time PCR. Diagn Microbiol Infect
Dis. 2006;55(3):169-78.
6. Murdoch DR. Nucleic acid amplification tests for the diagnosis of pneumonia. CID 2003;36: 1162-70.
7. Greiner O, Day PJ, Bosshard PP. et al. Quantitative detection of Streptococcus pneumoniae in nasopharyngeal
secretions by real-time PCR. J Clin Microbiol. 2001;39(9):3129-34.
8. Yang S, Lin S, Khalil A. et al. Quantitative PCR assay using sputum samples for rapid diagnosis of pneumococcal
pneumonia in adult emergency department patients. J Clin Microbiol. 2005;43(7):3221-6.
9. Carrol ED, Guiver M, Nkhoma S. et al. High pneumococcal DNA loads are associated with mortality in Malawian
children with invasive pneumococcal disease. Pediatr Infect Dis J. 2007;26(5):416-422.
10. Azzari C, Resti M. Reduction of carriage and transmission of Streptococcus pneumoniae: the beneficial “side
effect” of pneumococcal conjugate vaccine. Editoria commentary. Clin Infect Dis 2008, 47: 997-999.
11. Higuchi R, Fockler C, Dollinger G. et al. Kinetic PCR analysis: real-time monitoring of DNA amplification
reactions. Biotechnology. 1993;11:1026-1030.
12. Wittwer CT, Hermann MG, Cameron N. et al. Real-Time Multiplex PCR Assays. Methods. 2001;25:430-42
13. Kubista M, Andrade JM, Bengtsson M. et al. The real-time polymerase chain reaction. Mol Aspects Med.
2006;27(2, 3):95-125.
14. Saukkoriipi A, Palmu A, Kilpi T. et al. Real-time quantitative PCR for the detection of Streptococcus
pneumoniae in the middle ear fluid of children with acute otitis media. Mol Cell Probes 2002;16:385-390
15. Azzari C, M. Moriondo, Indolfi G, Massai C. et al. Molecular detection and serotyping on clinical samples
improve diagnostic sensitivity and reveal increased incidence of invasive disease by Streptococcus pneumoniae
in Italian children. J Med Microbiol, in press. 2008.
16. Kong F, Brown M, Sabananthan A. et al. Multiplex PCR-based reverse line blot hybridization assay to identify
23 Streptococcus pneumoniae polysaccharide vaccine serotypes. J Clin Microbiol. 2006;44:1887-1891.
17. Pai R, Gertz RE, Beall B. et al. Sequential multiplex PCR approach for determining capsular serotypes of
Streptococcus pneumoniae isolates. J Clin Microbiol. 2006;44:124-131.
18. Azzari C, Moriondo M, Massai C. et al. Realtime PCR and sequential mulptiplex PCR on clinical samples are
useful tools in the diagnosis of pediatric invasive pneumococcal infections. 25th 25th Annual meeting of the
European society for paediatric infectious diseases; Porto, Portugal, May 2-4, 2007. Abstract book, n.18.
19. Azzari C, Moriondo M, Massai C. et al. Incidence of pneumococcal invasive infections in a paediatric
population as evaluated by molecular methods. 25th Annual meeting of the European society for paediatric
infectious diseases; Porto, Portugal, May 2-4, 2007. Abstract book, n.118.
CORSO DI FORMAZIONE
36
EPIDEMIOLOGIA E CLINICA DELLE MENINGITI
M. Resti, G. Giusti, F. Ghiori, E. Laudani, C. Canessa, C. Azzari
Azienda Ospedaliero-Universitaria Anna Meyer, Firenze
In Italia sono notificati ogni anno circa 900 casi di meningite batterica.
Circa un quarto delle meningiti batteriche si verifica nei bambini tra 0 e 14 anni e il patogeno chiamato in
causa più frequentemente è N. meningitidis, che provoca circa 100 casi di meningite all’anno, con 2 picchi
d’incidenza, fino ai 5 anni e negli adolescenti, ed una letalità del 15%.
In Italia i meningococchi più diffusi sono il B e il C. Fino al 2005 prevalevano le forme da ceppo C; da
allora, con l’introduzione della vaccinazione anti-meningococco C, l’incidenza in generale si è ridotta e la
situazione si è capovolta a favore del ceppo B.
Il germe provoca una grave meningite ad esordio improvviso, che nei casi più gravi si associa
meningococcemia; questa può essere lieve, con manifestazioni cutanee di tipo petecchiale, o di tipo
fulminante, che evolve in stato settico, con porpora, CID e morte in poche ore.
La meningite da S. pneumoniae invece, in età pediatrica colpisce elettivamente i bambini di età inferiore
ai 5 anni, fascia d’età in cui ogni anno si verificano da 1 a 3 casi ogni 100.000 bambini, con una letalità del
10% circa. Dei 90 sierotipi noti, il 4, 6, 9A, 9V e 23 F sono quelli principalmente associati a meningite.
Esordisce con febbre, irritabilità, cefalea, fotofobia, nausea e vomito, confusione mentale, letargia e sintomi
più specifici, quali rigidità nucale, segni di irritazione meningeale, convulsioni, fontanella bombata nel
lattante e, tardivamente, coma.
Da entrambe le forme, possono derivare esiti permanenti, quali epilessia, ritardo mentale e difetti
neurosensoriali, più frequenti e gravi nella forma pneumococcica.
L’incidenza di meningite da H. influenzae tipo B, con caratteristiche cliniche sovrapponibili a quelle delle
altre forme batteriche, è drasticamente diminuita con l’introduzione dal 1995 della vaccinazione dei
nuovi nati.
E’disponibile in Toscana una nuova metodica per la sorveglianza di queste ed altre malattie invasive
batteriche, basata su tecniche di biologia molecolare, che non solo consente la diagnosi eziologica di
un numero di casi di meningite molto maggiore rispetto a quello ottenuto con i metodi tradizionali, ma
permette anche di effettuare un’analisi dei sierotipi responsabili delle varie forme. Ciò consentirà in futuro
di definire ancora meglio l’epidemiologia delle meningiti nel nostro paese.
Epidemiologia e clinica delle meningiti batteriche in Italia
Le meningiti batteriche sono infezioni acute delle meningi causate da batteri molto gravi soprattutto
in età pediatrica e sono considerate vere e proprie emergenze neurologiche per l’elevata incidenza di
complicanze acute e di sequele nonché per l’alto grado di letalità (1).
L’incidenza annuale nei paesi occidentali è circa 2-5 casi su 100 000.
I tre maggiori agenti patogeni sono lo Streptococcus pneumoniae, il Neisseria meningitidis e l’Haemophilus
influenzae di tipo b (Hib) (2), anche se, soprattutto in età neonatale, possono essere coinvolti altri batteri
tra cui Streptococcus di gruppo B, Listeria Monocytogenes, Staphilococchi, Eschierichia Coli e Klebsiella
(3).
In Italia sono notificati ogni anno circa 900 casi di meningite batterica, delle quali circa un quarto si verifica
nei bambini tra 0 e 14 anni.
In questa fascia di età (in particolare dopo i 2 anni di vita) il patogeno chiamato in causa più frequentemente
è N. meningitidis (2), che provoca circa 100 casi di meningite all’anno. In Italia vengono notificati in media
per anno circa 3-6 casi su un milione di abitanti, quota più bassa della media europea che è di circa 14 casi
per milione di abitanti l’anno. L’infezione ha abitualmente due picchi d’incidenza: nei primi 5 anni di vita
e in età adolescenziale. Il secondo picco che precedentemente si osservava tra i 15 e 19 anni, adesso si è
spostato verso i 20-25 anni. La letalità in età pediatrica è di circa il 15% (4).
CORSO DI FORMAZIONE
37
Esistono diversi sierotipi di meningococco, tra questi i più importanti dal punto di vista epidemiologico
sono: A, B, C, W 135, Y. In Italia i meningococchi più diffusi sono il B e il C. Fino al 2005, anno in cui è stata
introdotta la vaccinazione anti-meningococco di gruppo C, prevalevano le forme da ceppo C; da allora
l’incidenza in generale si è ridotta e la situazione si è capovolta a favore del ceppo B, evento che può
ritenersi positivo in quanto il sierotipo B è meno frequentemente causa di infezioni fatali (5).
La vaccinazione è prevista dal 2005 oltre che per le categorie ad alto rischio (soggetti con patologie
croniche quali talassemia, anemia falciforme, DM tipo 1, asplenia, insufficienza renale, immunodepressione,
malattie cardiovascolari, epatopatie croniche, deficit del complemento) anche per tutti i nuovi nati (1
dose al 3° mese, 2 dose al 5° mese, 3 dose spostata dal 1° al 2° anno di vita nel 2007). Da luglio 2008 il
calendario vaccinale è stato modificato e adesso comporta la vaccinazione in dose singola di due coorti:
13°-15° mese di vita e al 12°-14° anno di età.
La meningite da S. pneumoniae invece, in età pediatrica, colpisce elettivamente i bambini di età inferiore
ai 5 anni, fascia d’età in cui ogni anno si verificano da 1 a 3 casi ogni 100.000 bambini (6), con una
letalità del 10% circa (4). Dei 90 sierotipi noti, quelli principalmente associati a meningite sono il 4, 6,
9A, 9V e 23 F. Anche per lo Pneumococco esiste un vaccino di tipo coniugato eptavalente, che copre i
7 sierotipi principalmente implicati nelle forme di infezione più gravi (sierotipi 4, 6B, 9V, 14, 18C, 19F,
23F) (7, 8). In Toscana dal luglio 2008 la vaccinazione sarà resa gratuita per alcune categorie a rischio
(Broncopneumopatici cronici, cardiopatici cronici, asplenismo, DM..) e per tutti i nuovi nati. Il calendario
vaccinale prevede la somministrazione di tre dosi in associazione all’esavalente.
La meningite da H. Infuenzae colpisce prevalentemente i soggetti minori di 4 anni di età con un picco
nel primo anno di vita. L’incidenza di meningite da H. influenzae di tipo B è drasticamente diminuita con
l’introduzione nel 1995 della vaccinazione per tutti i nuovi nati (9). Sicuramente l’introduzione del vaccino
coniugato nell’esavalente ha contribuito in modo decisivo ad aumentare la copertura vaccinale per
l’effetto di trascinamento dei vaccini obbligatori contenuti nell’esavalente. Infatti fino all’introduzione del
vaccino circa il 70% delle meningiti batteriche nei minori di 5 anni erano determinate da questo agente
patogeno. In Italia nel 1995 l’H. Influenzae è stato il responsabile del 20% delle meningiti totali, mentre
già nel 2004 la quota è scesa all’ 1, 8%. Di queste meningiti, la maggior parte è inoltre causata ad oggi da
ceppi di H. Influenzae non B. La letalità della meningite da H. Influenzae è di circa il 5% (4).
Le meningiti batteriche in Italia hanno subito alcune variazioni nel corso degli ultimi 10 anni: l’incidenza
generale è in diminuzione, l’infezione da N. Meningitidis ha avuto un picco nel 2004-2005 e attualmente
(grazie anche all’introduzione della vaccinazione) è in discesa, l’infezione da S. Pneumoniae resta tuttora
stabile, la meningite da H. Influenzae di tipo B è diminuita progressivamente in seguito all’introduzione
della vaccinazione e attualmente è quasi assente in Italia (10).
Le meningiti batteriche si trasmettono tramite il contatto diretto con il malato o con un portatore
del batterio patogeno o per inalazione di drops attraverso le alte vie aeree superiori e conseguente
colonizzazione delle superfici mucose. Nel periodo neonatale il contatto con l’agente infettivo avviene
prevalentemente nel passaggio attraverso il canale del parto (forme a esordio precoce, nei primi 5 giorni
di vita) oppure è causato da germi nosocomiali acquisiti in occasione del ricovero per contatto diretto con
il personale assistenziale (forme tardive, dopo il settimo giorno di vita).
L’infezione si sviluppa in seguito alla penetrazione dell’agente patogeno nello spazio subaracnoideo. Essa
può avvenire per via ematogena con il superamento della barriera ematoencefalica a livello dei plessi
corioidei e dei capillari cerebrali, per contiguità da infezioni delle vie aeree superiori (otiti, mastoiditi,
sinusiti) e dall’esterno per soluzioni di continuo (congenite, traumatiche, iatrogene)(11).
L’invasione delle meningi da parte dei patogeni determina un’intensa risposta infiammatoria sostenuta
dall’ospite contro il batterio e i suoi componenti strutturali che è concausa del danno neurologico. Infatti
il contatto con il patogeno e la sua replicazione a livello del sistema nervoso centrale determinano la
liberazione da parte delle cellule endoteliali cerebrali e dei macrofagi di citochine proinfiammatorie
(TNF-alfa, IL-1, IL-6, IL-8) che determinano la chemiotassi dei leucociti polimorfonucleati e aumentano la
CORSO DI FORMAZIONE
38
permeabilità capillare generando edema cerebrale e flogosi (12). Per tale motivo è di comprovata utilità
l’impiego di desametasone in corso di meningiti batteriche. Il farmaco infatti è in grado di prevenire il
danno neurologico irreversibile riducendo le sequele permanenti, in particolar modo se dato prima della
somministrazione dell’antibiotico che genera lisi batterica e quindi incrementa il processo flogistico.
Le caratteristiche cliniche delle meningiti batteriche non ci permettono di fare una diagnosi differenziale
tra le varie forme. Esse presentano segni e sintomi aspecifici di infezione, manifestazioni di irritazione
meningea ed ipertensione endocranica e segni di tipo neurovegetativo.
La malattia è solitamente preceduta da un periodo prodromico caratterizzato da febbre accompagnata
da sintomi di infezione delle alte vie respiratorie o di gastroenterite. In particolare la meningite da
pneumococco è frequentemente preceduta da un’infezione delle vie aeree determinata dallo stesso
agente (otite media, sinusite, polmonite). Anche la meningite da Hib può essere preceduta da un’infezione
determinata dall’ Hib stesso delle alte o basse vie aeree. Questi primi segni e sintomi sono poi seguiti da
aspecifici segni di interessamento del SNC quali irritabilità e letargia. Durante il periodo di stato, la malattia
è accompagnata da segni e sintomi di compromissione generale quali febbre elevata (39-40°), quadro
francamente settico, anoressia e diminuzione del peso corporeo, possibile presenza di rash cutaneo con
tendenza allo sviluppo di petecchie (condizione più frequente in corso di meningite meningococcica).
Contemporaneamente si sviluppano i segni da irritazione meningea e delle radici nervose (rigidità
nucale, segno di Kernig, segno di Brudzinsky, segno di Lasegue, segno di Binda, posizione a cane di fucile),
segni caratteristici di ipertensione endocranica (cefalea intensa, vomito a getto senza nausea, fontanella
bombata nel lattante, papilla da stasi), segni di sofferenza cerebrale (convulsioni, paresi o paralisi dei
nervi spinali, spasmi tonici di gruppi muscolari, alterazione dei riflessi e dello stato di coscienza fino al
coma), segni neurosensoriali e vegetativi (fotofobia, ipersensibilità ai rumori, iperestesia, dermografismo,
alterazioni del respiro, bradicardia, stipsi, paralisi vescicale) (13-16).
In età pediatrica molto spesso è difficile porre diagnosi di meningite sulla base della clinica perché i segni
caratteristici sono rari e tardivi (17). Soprattutto nel periodo neonatale il quadro resta spesso sfumato,
aspecifico e indistinguibile da una sepsi ed è generalmente caratterizzato da febbre, irritabilità, letargia,
pianto non consolabile, anoressia e perdita di peso. Sono possibili segni quali vomito e diarrea o segni di
distress respiratorio (14, 18). Caratteristica può essere la presenza di fontanella bombata mentre i tipici
segni di Kernig, Brutzinski e la rigidità nucale sono spesso assenti (19).
L’infezione può avere decorso molto variabile (fulminante, acuto o subacuto). La meningite meningococcica
ha solitamente un esordio improvviso con un’incubazione breve da 2 a 10 giorni (media 3-4 giorni). Essa
può in alcuni casi evolvere in una forma settica di tipo fulminante caratterizzata da porpora, CID, necrosi
surrenalica e morte in poche ore (Sindrome di Waterhouse Friderichsen) (20).
L’infezione delle meningi, soprattutto in epoca neonatale, può essere seguita da alcune complicanze acute
che peggiorano il quadro e più frequentemente comportano gravi sequele o sono causa del decesso del
paziente: idrocefalo acuto, ascesso, empiema subdurale, edema cerebrale, infarti emorragici (4).
Dalle meningiti batteriche possono derivare inoltre esiti permanenti anche gravi quali epilessia, ritardo
mentale, difficoltà di apprendimento, alterazioni del comportamento, disabilità neuromotorie, e difetti
neurosensoriali (perdita di udito prevalentemente), più frequenti e gravi nella forma pneumococcica
(21).
La diagnosi di meningite batterica si basa sull’analisi del liquor e sulla positività dell’esame colturale
su liquor cefalorachidiano (LCR) o su siero (17, 22). Nel sospetto quindi di meningite va eseguita prima
possibile una puntura lombare (1). In alcuni casi (in presenza di segni neurologici focali, instabilità
cardiovascolare ed edema della papilla), al fine di escludere la presenza di ascesso cerebrale o di edema
cerebrale generalizzato è opportuno effettuare prima della puntura lombare un esame radiologico (TC/
RMN) per non mettere il paziente a rischio di erniazione cerebrale. L’esame chimico fisico del LCR in corso di
meningiti batteriche è caratterizzato da aspetto torbido, presenza di numerosi leucociti, prevalentemente
di tipo polimorfonucleato, bassi livelli di glicorrachia (eseguita in rapporto alla glicemia), aumentata
CORSO DI FORMAZIONE
39
proteinorrachia. L’esame del sedimento può mostrare l’agente eziologico, attraverso varie colorazioni
(Gram, blu di metilene o Giemsa). Esame diagnostico di prima scelta resta la coltura. Purtroppo l’esame
colturale ha il limite di richiedere la presenza del batterio vivo all’interno del campione preso in esame e
il risultato è notevolmente influenzato dalla terapia antibiotica (23). Il ritardo di esecuzione del prelievo
di LCR comporta che questo sia effettuato spesso dopo aver iniziato l’antibiotico empirico. La sensibilità
dell’esame colturale nella diagnosi di meningite è di circa l’85-90% nelle prime 24-48 ore e scende al 56%
se è stata effettuata una terapia antibiotica (23). Per tali motivi consideriamo l’incidenza delle meningiti
batteriche una sottostima del reale valore dato che la diagnosi si basa sull’esame colturale. Le nuove
metodiche di biologia molecolare (PCR e Real-time PCR) permettono una valutazione epidemiologica
più accurata in quanto non richiedono la presenza del batterio vivo né sono influenzate dalla terapia
antibiotica (24). La sensibilità di questi test è infatti del 95-100% e, confrontata con essi, la coltura ha una
sensibilità almeno del 30% inferiore. Un ulteriore vantaggio è dato dalla rapidità della risposta che ci
permette una diagnosi molto precoce e l’immediata scelta della terapia specifica (25).
In Toscana è disponibile una nuova metodica per la sorveglianza di queste ed altre malattie invasive
batteriche, basata su tecniche di biologia molecolare, che permette la diagnosi eziologica di un numero di
casi di meningite molto maggiore rispetto a quello ottenuto con i metodi tradizionali e consente inoltre di
effettuare un’analisi dei sierotipi responsabili delle varie forme. Grazie a questa tecnica è anche possibile
individuare contemporaneamente geni specifici di germi diversi. Sono stati pertanto creati pannelli diversi
per la ricerca combinata dell’insieme di batteri che più probabilmente è causa di malattia: ad esempio
il pannello per meningite nel bambino comprende Neisseria meningitidis, Streptococcus pneumoniae,
Hib mentre quello per meningite nel lattante minore di 3 mesi comprende Escherichia coli, Klebsiella
pneumoniae, Streptococcus pneumoniae, Streptococcus β emolitico del gruppo B. Ciò consentirà in
futuro di definire ancora meglio l’epidemiologia delle meningiti batteriche nel nostro paese.
La terapia delle meningiti di sospetta eziologia batterica si attua in maniera empirica tramite antibiotici
efficaci contro i germi più probabilmente implicati nella patogenesi della malattia in relazione all’età
del paziente. Nel neonato attualmente si usa l’associazione di ampicillina e cefotaxime, farmaco con un
buon passaggio della barriera ematoencefalica e meno tossico degli aminoglicosidi che venivano usati
precedentemente. Nel bambino senza allergie alle penicilline sono di prima scelta le cefalosporine di
terza generazione (1).
Fatta la diagnosi il trattamento di scelta per le meningiti da Hib restano le cefalosporine di terza
generazione, per le meningiti pneumococciche si predilige la Vancomicina (26) mentre per quelle da
meningococco è in uso tuttora la Penicillina G.
Bibliografia
1. Chaudhuri A, Martin PM, Kennedy PGE et al. EFNS guideline on the management of community-acquired
bacterial meningitis: report of an EFNS Task Force on acute bacterial meningitis in older children and adults.
European Journal of Neurology 2008; 15: 649-659
2. Theodoridou NM et al. Meningitis registry of hospitalized cases in children: epidemiological patterns of acute
bacterial meningitis throughout a 32-year period. BMC Infectious Diseases 2007; 7:101
3. Dickinson OF and Pérez EA. Bacterial Meningitis in children and adolescents: an observational study based
on the national surveillance system. BMC Infectious Diseases 2005; 5:103
4. Koedel U et al. Pathogenesis and pathophysiology of pneumococcal meningitis. The Lancet Infect Dis 2002;
2: 721-736
5. Snitker Jensen E et al. Neisseria meningitidis phenotypic markers and septicaemia, disease progress and
case-fatality rate of meningococcal disease: a 20-year population-based historical follow-up study in a Danish
county. J Med Microbiol 2003; 52: 172-179
6. Azzari C, Moriondo M, Indolfi G. et al. Molecular detection and serotyping on clinical samples improve
CORSO DI FORMAZIONE
40
diagnostic sensitivity and reveal increased incidence of invasive disease by streptococcus pneumoniae in
Italian children. J Med Microbiol. 2008; 57: 1205-1212.
7. Alpern ER, Alessandrini EA, McGowan KL. et al. Serotype Prevalence of Occult Pneumococcal Bacteremia.
Pediatrics 2001; 108: e23
8. Azzari C, Resti M. Reduction of carriage and transmission of Streptococcus pneumoniae: the beneficial “side
effect” of pneumococcal conjugate vaccine. Editoria commentary. Clin Infect Dis 2008, 47: 997-999.
9. Adams WG et al.Decline in childhood Haemofilus influenzae type b (Hib) disease in the Hib vaccine era. JAMA
1993; 269: 221-226
10. Italian National Institute of Health, 2008; HYPERLINK “http://www.simi.iss.it/dati.htm” http://www.simi.iss.
it/dati.htm
11. Bogaert D et al. Streptococcus pneumoniae colonisation: the key to pneumococcal disease. Lancet Infect
Dis 2004; 4: 144-154
12. Esposito AL, Clark CA, Poirier WJ. An assessment of the factors contributing to the killing of type 3
Streptococcus pneumoniae by human polymorphonuclear leukocytes in vitro. APMIS. 1990; 98(2):111-21
13. Kaplan SL. Clinical presentations, diagnosis and prognostic factors of bacterial meningitis. Infect Dis Clin N
Am 1999; 13: 579-594
14. Pong A, Bradley JS. Bacterial meningitis and the newborn infant. Infect Dis Clin N Am 1999; 13: 711-733
15. Attia J et al. Does this adult patient have acute meningitis? JAMA 1999; 282: 175-181
16. Thomas E et al. The Diagnostic Accuracy of Kernig’s Sign, Brudzinski’s Sign, and Nuchal Rigidity in Adults
with Suspected Meningitis. Clin Infect Dis 2002; 35: 46-52
17. El Bashir H, Laundy M, Booy R. Diagnosis and treatment of bacterial meningitis.Arch Dis Child 2003; 88: 615620
18. Kupperman N et al. Clinical and hematologic features do not reliably identify children with unsuspected
meningococcal disease. Pediatrics. 1999; 103: e20
19. Radetsky M. Duration of symptoms and outcome in bacterial meningitis: an analysis of causation and the
implications of a delay in diagnosis. Pediatr Infect Dis J 1992; 11: 694-8
20. Welch SB, Nadel S. Treatment of meningococcal infection. Arch Dis Child 2003; 88: 608-614
21. Bedford H et al. Meningitis in infancy in England and Wales: follow up at age 5 years. Brit Med J 2001; 323:
533-5363
22. El Bashir H et al. Diagnosis and treatment of bacterial meningitis. Arch Dis Child 2003; 88: 615-620
23. Kanegaye JT, Soliemanzadeh P, Bradley JS. Lumbar puncture in pediatric bacterial meningitis: defining the
time interval for recovery of cerebrospinal fluid pathogens after parenteral antibiotic pretreatment. Pediatrics
2001; 108: 1169-74.
24. Allan R. et al. Practice Guidelines for the Management of Bacterial Meningitis. Clinical Infectious Diseases
2004; 39: 1267-84
25. Saravolatz LD et al. Broad-Range Bacterial Polymerase Chain Reaction for Early Detection of Bacterial
Meningitis. Clin Infect Dis. 2003; 36: 40-45.
26. Hyde TB, Gay K, Stephens DS et al. Macrolide resistance among invasive Streptococcus pneumoniae isolates.
JAMA. 2001; 286(15): 1857-62
CORSO DI FORMAZIONE
41
I DATI DI INCIDENZA “VISITATI” ALLA LUCE DELLE NUOVE
METODOLOGIE
M. Resti, F. Ghiori, G. Giusti, E. Laudani, C. Canessa, C. Azzari
Azienda Ospedaliero-Universitaria Anna Meyer, Firenze
Le malattie batteriche invasive (sepsi, meningiti, polmoniti complicate) sono molto diffuse in età pediatrica,
e, se non tempestivamente riconosciute e trattate, possono essere anche mortali. La loro incidenza
tuttavia è sottostimata, in quanto è ottenuta utilizzando metodi colturali che sono scarsamente sensibili;
infatti, richiedendo la presenza del germe vivo nel campione analizzato, risentono dell’eventuale terapia
antibiotica instaurata prima dell’esame. La più alta incidenza di forme invasive da pneumococco in Italia
registrata utilizzando i metodi tradizionali è stata di 6-11/100.000 nei bambini di età inferiore ai 2 anni.
Utilizzando metodiche di biologia molecolare, si ottengono dati d’incidenza molto superiori; tali indagini
infatti non richiedono la presenza di germi vivi nel campione biologico, ma permettono di identificare il
DNA di origine batterica e quindi di porre la diagnosi del patogeno con estrema sensibilità. Uno studio
effettuato nel nostro Ospedale per valutare l’incidenza di malattia invasiva da pneumococco nei bambini
di età inferiore ai 2 anni nella provincia di Firenze, utilizzando entrambi i metodi, ha mostrato valori
di 11.5/100.000 casi con la coltura e 51.8/100.000 casi con i metodi molecolari. L’incidenza di malattia
invasiva pneumococcica appare dunque da 5 a 10 volte maggiore utilizzando la biologia molecolare
rispetto ai metodi colturali.
I batteri sono responsabili di numerosi casi di infezione, alcuni dei quali particolarmente gravi da causare
la morte del paziente se non diagnosticati e trattati in tempo. La reale incidenza delle infezioni invasive
(polmoniti, meningiti, batteriemie, sepsi) è probabilmente sottostimata. Questo dipende in gran parte
dal fatto che le metodiche tradizionali colturali, usate routinariamente per la diagnosi, non possiedono
un’alta sensibilità.
La diagnosi colturale richiede la presenza del germe vivo nel campione analizzato (liquor, sangue) ed è
resa difficoltosa dall’autolisi batterica nei terreni di coltura e dalla terapia antibiotica spesso eseguita dal
paziente all’inizio dello stato febbrile (1). I sistemi diagnostici colturali presentano anche altri svantaggi:
gli antisieri utilizzati hanno un elevato costo e richiedono un’adeguata competenza tecnica.
Tra i patogeni responsabili di infezioni in età pediatrica, lo Streptococcus pneumoniae è uno dei più
frequenti. La più alta incidenza di forme invasive da pneumococco in Italia, registrata utilizzando i metodi
tradizionali, è di 6-11/100.000 nei bambini di età inferiore ai 2 anni (2).
La ricerca diretta del germe su campioni biologici può essere eseguita anche avvalendosi del metodo
molecolare, importante e sensibile strumento nella diagnosi di infezioni invasive (3). Il metodo
molecolare non richiede batteri vivi e raggiunge una sensibilità molto alta (10 genomi/100 μl) (4). Inoltre
le tecniche Real-time polymerase chain reaction (RT-PCR) permettono di quantificare i batteri coinvolti
nell’infezione, un’importante informazione per seguire il decorso e l’esito della malattia (5). I metodi di
biologia molecolare, applicati direttamente su campioni biologici, permettono anche di ottenere dati
sulla distribuzione sierotipica degli pneumococchi. Attualmente però la sierotipizzazione si avvale ancora
di tests capsulari standard effettuati dopo coltura (6) o su isolati (7, 8); non possono quindi essere applicati
a campioni colturali negativi.
Nell’Ospedale pediatrico Meyer è stato messo a punto uno studio per valutare l’incidenza delle infezioni
causate da uno dei patogeni più frequenti, lo Streptococcus pneumoniae, utilizzando metodi molecolari
applicati direttamente su campioni biologici.
E’ stato effettuato uno studio di coorte prospettico per valutare l’incidenza di infezioni pneumococciche
invasive (IPD) nella popolazione pediatrica della provincia di Firenze, in un periodo di 12 mesi (tra il 1
Dicembre 2005 e il 30 Novembre 2006). Questo studio utilizza un metodo diagnostico molecolare, messo
a punto nel Laboratorio di Immunologia Pediatrica dell’Università di Firenze, applicato direttamente su
CORSO DI FORMAZIONE
42
campioni biologici.
Sono stati arruolati tutti i bambini di età compresa tra 0 e 14 anni pervenuti all’Ospedale Pediatrico Anna
Meyer. Poiché tale Ospedale è il centro di riferimento per la diagnosi e cura di tutte le infezioni invasive per
la provincia di Firenze e vi giungono pazienti da tutte le regioni d’Italia, per non sovrastimare l’incidenza
delle infezioni pneumococciche invasive, tutte le analisi sono state effettuate unicamente nei bambini
residenti nel distretto di Firenze (dati ottenuti dall’Italian National Institute of Statistic, ISTAT, 2007 http://
demo.istat.it/). Sono stati inclusi nello studio i bambini fiorentini giunti all’ospedale Meyer con febbre,
leucocitosi e/o aumento dei livelli sierici di proteina C reattiva e con diagnosi clinica di meningite, sepsi,
polmonite complicata, osteomielite o artrite. Oltre al sospetto clinico basato sulla ricerca di segni e sintomi
caratteristici delle diverse infezioni, tali patologie sono state confermate con indagini diagnostiche: analisi
del sangue per la sepsi; tests (colturali o molecolari) chimici e microbiologici nel liquido cerebrospinale
per la meningite; indagini radiologiche per polmonite, artrite e osteomielite.
Lo studio ha quindi compreso i bambini pervenuti all’Ospedale Meyer nel periodo di studio con una
delle sopra menzionate patologie e la presenza di Streptococcus pneumoniae in campioni di sangue e/o
liquido cerebrospinale e/o liquido pleurico accertate con metodi colturali e/o molecolari. E’ stato ottenuto
il consenso informato dai genitori dei bambini.
Da tutti i pazienti inclusi nello studio è stato prelevato un campione di sangue intero; dai bambini con
sospetto clinico di meningite è stato ottenuto anche un campione di liquor cerebrospinale. Campioni di
liquido pleurico sono stati ottenuti da due pazienti con polmonite che hanno necessitato di drenaggio
pleurico. Tali campioni sono stati ottenuti il prima possibile dopo il ricovero ospedaliero e usati sia per
analisi colturali che molecolari con Real-Time polymerase chain reaction (RT-PCR) e multiplex-sequentialPCR.
E’ stato estratto il DNA genomico batterico da 200 μL di campione biologico utilizzando QIAmp DNeasy
Blood & Tissue kit (Qiagen, Hilden, Germany), seguendo le istruzioni del produttore.
Per costruire le sonde e i primers è stato utilizzato l’ABI Primer Express Software Package, basandosi sui
geni precedentemente pubblicati ctrA (capsular transfer meningococcico), bexA (capsule exporting di
Haemophilus influenzae) e lytA (autolisina pneumococcica) (9, 10). Le sonde specifiche per tali sequenze
sono state marcate diversamente, rispettivamente con FAM, NED e JOE. Per eseguire l’amplificazione RT
è stato utilizzato un volume di reazione di 25 μL contenente 2x TaqMan Universal Master Mix (Applied
Biosystem, Foster City, CA, USA); la concentrazione dei primers utilizzati è di 300 nM; 25nM per le sonde
marcate FAM e 50 nM per quelle marcate NED e JOE. Per ogni reazione sono stati impiegati 6 μl di DNA
estratto. Tutte le reazioni sono state eseguite in triplicato. Per ogni ciclo è stato inserito un controllo
negativo e uno positivo. Per amplificare il DNA è stato utilizzato ABI 7000 sequence detection system
(Applied Biosystem, Foster City, CA, USA) nelle seguenti condizioni: 95°C per 10 minuti seguiti da 45 cicli
composti da due fasi di temperatura: 95°C per 15 secondi e 60°C per 1 minuto.
La sierotipizzazione dello Streptococcus pneumoniae è stata eseguita, in campioni positivi con RT-PCR,
tramite la PCR multiplex sequenziale su DNA estratto su campioni biologici. Trentuno coppie di primers
(11, 12) sono state raggruppate in nove reazioni multiple. Come prova di conferma sono stati inclusi in
tutte le reazioni multiple i primers CpsA. Per le PCR sono stati utilizzati volumi di 25µl contenenti una
miscela di 1x PCR Master Mix (Qiagen, Hilden, Germany) e di primers (0.2-0.5 mM ciascuno); per ogni PCR
è stato utilizzato 5 µl di DNA purificato. L’amplificazione è stata eseguita con Perkin-Elmer GeneAmp PCR
system 2720 (Applied Biosystems, Foster City, CA, USA) con i seguenti parametri per ogni ciclo: 95°C per
15 minuti seguiti da 35 cicli di amplificazione a 94°C per 30 secondi, 54°C per 90 secondi, e 72°C per 60
secondi. Un ultimo passaggio è stato eseguito a 72°C per 10 minuti.
L’analisi del prodotto della PCR è stata effettuata con elettroforesi su gel di agarosio al 2% NuSieve gels
(Cambrex Bio Science, Inc., Rockland, ME) in 1x TAE buffer. Sono stati quindi registrati i prodotti ottenuti
sul gel precedentemente trattato con bromuro di etidio (0.5 µg/ml). Sono stati infine utilizzati markers di
peso molecolare standard (100-bp ladder; Novagen, Inc.) che hanno permesso di determinare, attraverso
CORSO DI FORMAZIONE
43
il metodo del confronto, le dimensioni dei prodotti della PCR.
La coltura su sangue è stata eseguita in ambiente aerobio BACTEC TM PLUS (Becton Dickinson and
Company, Sparks, MD, USA). Sono stati così isolati Streptococcus pneumoniae, la cui identificazione è
stata effettuata con tecniche convenzionali (13) quali la solubilità biliare e la suscettibilità all’optochina.
La sierotipizzazione è stata ottenuta attraverso metodi molecolari.
I risultati sono stati espressi come livello medio e deviazione standard. Tutte le variabili continue sono
state espresse come media ± SD. Quando appropriato sono stati usati il Fisher exact test, il McNemar test
e il test chi-quadro.
Complessivamente sono stati arruolati nello studio 92 bambini: 53 maschi (57.6%) e 47 femmine
(42.4%). Ottanta di questi sono stati inclusi nella diagnosi di polmonite, 8 nella diagnosi di meningite
e/o sepsi e 4 in quella di artrite. Ventidue casi di IPD -12/53 maschi (22.6%) e 10/39 femmine (25, 6%)sono stati diagnosticati con RT-PCR su campioni biologici e confermati dalla positività al cpsA durante
la sierotipizzazione con PCR multiplex sequenziale. Sono risultati positivi con metodi molecolari tutti i
campioni di sangue prelevati dai 22 pazienti, 3/3 CSF ottenuti da pazienti con meningite e 2/2 campioni
di liquido pleurico prelevati da pazienti con polmonite.
I metodi molecolari hanno inoltre permesso la sierotipizzazione in 19/22 pazienti (86.4%). L’impossibilità
di sierotipizzare alcuni campioni può essere dovuta alla presenza di sierotipi non inclusi nella miscela
utilizzata o ad una carica batterica sotto il limite di sensibilità della PCR multiplex (14). I metodi colturali
avrebbero permesso di sierotipizzare meno del 20% dei campioni, fornendo meno informazioni sui dati
epidemiologici.
L’incidenza dei casi di IPD che è stata ottenuta attraverso metodi colturali varia in relazione all’età,
raggiungendo valori di 3.6/100.000 nei bambini di età inferiore ai 14 anni, 4.7/100.000 al di sotto dei
5 anni, 11.5/100.000 tra 0 e i 2 anni di età e 11.2/100.000 nel primo anno di vita. Utilizzando i metodi
molecolari, i dati di incidenza nelle varie fasce d’età risultano rispettivamente di 19.9/100.000 sotto i 14
anni, 35.1/100.000 fino ai 5 anni, 51.8/100.000 sotto i 2 anni 55.8/100.000 nei bambini nel primo anno di
vita. Questi dati confermano che, come in altri paesi del mondo, la più alta incidenza di IPD si osserva nei
bambini di età inferiore ai 2 anni (2), mentre l’incidenza diminuisce con l’aumentare dell’età.
Questo studio mostra che l’incidenza di IPD nella popolazione pediatrica dell’area fiorentina, valutata
attraverso metodi molecolari, risulta significativamente più alta, superando 50/100.000 nei bambini
sotto i 2 anni ed è ancora più alta nei bambini nel primo anno di vita. Come dimostrato da Rodriguez e
collaboratori, tale incidenza è probabilmente maggiore di quella stimata da questi risultati. I pazienti con
febbre, spesso associata a batteriemia pneumococcica occulta (4), non sono infatti stati inclusi. Inoltre
questo studio valuta solo i pazienti pervenuti in ospedale, mentre in genere molti pazienti con polmonite
sono seguiti a domicilio.
Nessuno dei bambini negativi con RT-PCR è risultato positivo con metodi colturali; tra i 22 pazienti positivi
con metodi molecolari, 4/22 (18.2%) erano positivi anche con metodi colturali. L’RT-PCR appare quindi
significativamente più sensibile dei metodi colturali nella diagnosi di IPD. La maggiore sensibilità dei
metodi molecolari è ancora più evidente nei pazienti con polmonite rispetto ai casi di meningite. Si possono
proporre due ipotesi per spiegare questa diversa sensibilità. In primo luogo, nei pazienti con meningite/
sepsi la carica batterica è probabilmente più elevata (5); per questo motivo i metodi colturali hanno una
maggiore probabilità di dimostrare la crescita batterica in questo gruppo di pazienti. In secondo luogo,
i pazienti affetti da meningite/sepsi di solito hanno una rapida progressione della malattia, ed è meno
probabile che abbiano effettuato prima del ricovero, a domicilio, una terapia antibiotica, o comunque
questa ha in genere una durata inferiore. Una storia clinica di precedente terapia antibiotica (15) riduce
infatti la capacità dei metodi colturali di diagnosticare un’infezione pneumococcica, mentre ha un effetto
assai minore sui metodi molecolari (16, 12).
La RT-PCR e la PCR multiplex sequenziale sono quindi dei metodi estremamente sensibili (17) e il loro
uso direttamente nei campioni clinici può aiutare a ottenere una stima della reale incidenza di IPD.
CORSO DI FORMAZIONE
44
Tuttavia, nel caso in cui si ottenga un risultato positivo in campioni risultati negativi con il “gold standard”
(coltura di sangue o CSF), ciò potrebbe essere attribuito alla scarsa specificità della PCR invece che alla
migliore sensibilità. Per questo motivo, per ogni campione di questo lavoro sono stati utilizzati due diversi
target individuati in due diversi geni dello Streptococcus pneumoniae non correlati: lytA (estremamente
sensibile e specifico) (4) nell’RT-PCR e csp nella PCR multiplex sequenziale. La positività di entrambi i
bersagli nello stesso campione rafforza la presunzione che il campione sia realmente positivo.
L’RT-PCR e PCR multiplex sequenziale potrebbero essere destinati a diventare strumenti essenziali per
stimare la reale incidenza non solo delle infezioni pneumococciche, ma anche di numerose altre infezione
batteriche causate da microrganismi il cui genoma sia parzialmente conosciuto.
Bibliografia
1. Tarallo L, Tancredi F, Schito G. et al. Italian Pneumonet Group (Società Italiana Pediatria and Associazione
Italiana Studio Antimicrobici e Resistenze). Active surveillance of Streptococcus pneumoniae bacteremia in
Italian children. Vaccine. 2006;24(47-48):6938-6943.
2. D’Ancona F, Salmaso S, Barale A. et al.; Italian PNC-Euro working group. Incidence of vaccine preventable
pneumococcal invasive infections and blood culture practices in Italy. Vaccine. 2005;23(19):2494-500
3. Corless CE, Guiver M, Borrow R et al. Simultaneous detection of Neisseria meningitidis, Haemophilus
influenzae, and Streptococcus pneumoniae in suspected cases of meningitis and septicemia using real-time
PCR. J Clin Microbiol. 2001;39:1553-1558
4. Carvalho MG, Tondella ML, McCaustland K. et al. Evaluation and improvement of real-time PCR assays
targeting lyt, ply, and psaA genes for detection of pneumococcal DNA. J Clin Microbiol. 2007;45:2460-2466.
5. Carrol ED, Guiver M, Nkhoma S. et al. High pneumococcal DNA loads are associated with mortality in Malawian
children with invasive pneumococcal disease. Pediatr Infect Dis J. 2007;26(5):416-422.
6. D’Ancona F, Salmaso S, Barale A. et al. Italian PNC-Euro Working Group. Incidence of vaccine preventable
pneumococcal invasive infections and blood culture practices in Italy. Vaccine. 2005;23:2494-2500
7. Kong F, Brown M, Sabananthan A. et al. Multiplex PCR-based reverse line blot hybridization assay to identify
23 Streptococcus pneumoniae polysaccharide vaccine serotypes. J Clin Microbiol. 2006;44:1887-1891.
8. Pai R, Gertz RE, Beall B. et al. Sequential multiplex PCR approach for determining capsular serotypes of
Streptococcus pneumoniae isolates. J Clin Microbiol. 2006;44:124-131.
9. McAvin JC, Reilly PA, Roudabush RM. et al. Sensitive and specific method for rapid identification of
Streptococcus pneumoniae using real-time fluorescence PCR. J Clin Microbiol. 2001;39:3446-3451.
10. Morrison KE, Lake D, Crook J. et al. Confirmation of psaA in all 90 serotypes of Streptococcus pneumoniae by
PCR and potential of this assay for identification and diagnosis. J Clin Microbiol. 2000;38(1):434-7
11. Azzari C, M. Moriondo, Indolfi G, Massai C. et al. Molecular detection and serotyping on clinical samples
improve diagnostic sensitivity and reveal increased incidence of invasive disease by Streptococcus pneumoniae
in Italian children. J Med Microbiol, in press. 2008
12. Pai R, Gertz RE, Beall B. et al. Sequential multiplex PCR approach for determining capsular serotypes of
Streptococcus pneumoniae isolates. J Clin Microbiol. 2006;44:124-131.
13. Arbique JC, Poyart C, Trieu-Cuot P. et al. Accuracy of phenotypic and genotypic testing for identification
of Streptococcus pneumoniae and description of Streptococcus pseudopneumoniae sp. nov. J Clin Microbiol.
2004;42(10):4686-96
14. CDC Laboratory Methods for the Diagnosis of Meningitis Caused by Neisseria meningitidis, Streptococcus
pneumoniae, and Haemophilus influenzae. 1998. Chapt.VI, pag 18-19. http://www.cdc.gov/ncidod/DBMD/
diseaseinfo/files/menigitis_manual.pdf
15. Dalton HP, Allison MJ. Modification of laboratory results by partial treatment of bacterial meningitis. Am J
CORSO DI FORMAZIONE
45
Clin Pathol. 1968;49:410-413.
16. Clarke SC. Detection of Neisseria meningitidis, Streptococcus pneumoniae, and Haemophilus influenzae in
blood and cerebrospinal fluid using fluorescence-based PCR. Methods Mol Biol. 2006;345:69-77.
17. Azzari C, Resti M. Reduction of carriage and transmission of Streptococcus pneumoniae: the beneficial “side
effect” of pneumococcal conjugate vaccine. Editoria commentary. Clin Infect Dis 2008, 47: 997-999.
CORSO DI FORMAZIONE
46
IL PROBLEMA DELL’HAEMOPHILUS INFLUENZAE NON TIPIZZABILE:
UNA REALTÀ EMERGENTE
C. Azzari, E. Laudani, F. Ghiori, G. Giusti, C. Canessa, M. Resti
Azienda Ospedaliero-Universitaria Anna Meyer, Firenze
L'Haemophilus influenzae è un coccobacillo, gram-negativo, aerobio facoltativo, asporigeno. In base al
polisaccaride capsulare si distinguono 6 sierotipi antigenici (dalla a alla f ) ed un gruppo di stipiti non
tipizzabili (NT) in quanto sprovvisti di capsula (1).
L’H. Influenzae è presente nel nasofaringe di circa il 75% dei bambini sani e degli adulti (2), raramente si
trova localizzato a livello della cavità orale, e non è stato riscontrato in altre specie animali. I ceppi non
capsulati di solito si trovano albergati come normale flora batterica, ed una minoranza di individui sani (37%) è portatore occasionale dell’H. Influenzae tipo b a livello delle vie respiratorie superiori, ciò permette
la trasmissione del batterio da un individuo all’altro (2).
Prima della diffusione dell’uso del vaccino coniugato, avvenuta nel 1988 (1), L’Haemophilus Influenzae
rappresentava una delle principali cause di malattie invasiva nei bambini, e nel 95% dei casi il ceppo
coinvolto era rappresentato dal sierotipo b (1;2).
In bambini al di sotto dei 5 anni di età il sierotipo b è capace di provocare batteriemia, meningite batterica
acuta, talvolta epiglottite, polmonite, cellulite ed osteomielite.
In seguito alla vaccinazione di massa contro l’Haemophilus tipo b, l’incidenza negli ultimi anni si è
notevolmente ridotta, ed i casi sono limitati ai bambini non vaccinati. Alcune condizioni, notoriamente,
aumentano il rischio di malattia invasiva, quali l’anemia a cellule falciformi, l’asplenia, le immunodeficienze
congenite ed acquisite, le neoplasie e particolari condizioni socioeconomiche, tra cui la frequenza in
comunità, la presenza di fratelli o sorelle in età scolare o più piccoli. Inoltre, le infezioni da forme non
tipizzabili sono attualmente diventate le forme più frequenti di malattia invasiva da Haemophilus
Influenzae nei soggetti di tutte le età (3).
La patogenicità dell’Haemophilus, come sappiamo è ospite mediata; infatti l’organismo infettato spesso
non riesce ad attivare un’adeguata risposta nei confronti dell’agente infettante (4). Il fattore di virulenza
più importante dell’Haemophilus Influenzae di tipo b è un polisaccaride capsulare, PRP (polimero del
ribosil-ribitol-fosfato), che in assenza di anticorpi ed altre opsonine, inibisce la fagocitosi (1) ed è incapace
di stimolare la via alternativa del complemento nel soggetto non immune (5). L’elemento di difesa più
importante a disposizione dell’organismo ospite è costituito dalla produzione di Ab diretti contro questo
polisaccaride, in epoca preantibiotica acquisiti progressivamente con l’età. La suscettibilità all’effetto
battericida del siero dipende anche dalla presenza di Ab diretti contro un numero di altri siti antigenici,
compreso il lipopoligosaccaride e proteine di membrana quali la P2 e la P6.
Con l’introduzione e la diffusione del vaccino coniugato, le forme invasive da Hib si sono notevolmente
ridotte e l’attenzione si è inevitabilmente spostata verso le infezioni sostenute da ceppi non capsulati
(6).
Nella maggior parte dei casi i ceppi non capsulati si comportano da commensali, colonizzando il faringe
di un’alta percentuale della popolazione (7); un commensalismo adeguato richiede una riduzione della
risposta immunitaria ed una evasione dei meccanismi di difesa dell’ospite, questa ultima ottenuta anche
per mezzo della variazione di fase. La colonizzazione da parte dei singoli ceppi di NTHi è solitamente
transitoria, e nuovi ceppi vengono acquisiti periodicamente dall’ospite (4;5).
Le manifestazioni di infezione da NTHi sono solitamente associate ad infezioni della mucosa quali: otite
media, che interessa circa il 50-80% dei bambini nei primi tre anni, tra il 30% ed il 52% di questi episodi
sono da attribuirsi ad una infezione da NTHi (7;8;9); sinusite; bronchite cronica e polmonite acquisita in
comunità (5;10;11). Il batterio penetra nei siti come l’orecchio o la cavità dei seni mediante estensione
diretta dal faringe, soprattutto quando le difese mucociliari sono compromesse (12), come in seguito ad
infezioni virali delle vie aeree, o quando si ha una disfunzione della tuba di Eustachio.
CORSO DI FORMAZIONE
47
La patogenicità dell’Haemophilus è ospite mediata, infatti, l’organismo infettato spesso non riesce a
attivare un’adeguata risposta nei confronti dell’agente infettante (4).
Tra i fattori di virulenza ricordiamo la presenza di una IgA-proteasi in più del 97% dei ceppi patogeni
di NTHi, ed assente in ceppi non patogeni (5); il biofilm, prodotto dai ceppi non capsulati, capace di
proteggere i batteri dall’azione degli antibiotici e dall’azione innata di clearance da parte dell’epitelio
respiratorio (5; 12).
L’elemento di difesa più importante, a disposizione dell’ospite, è rappresentato dalla produzione di
anticorpi diretti contro una o più proteine della membrane esterna. La P6, ad esempio, richiama gli Ab
battericidi ed evoca la risposta proliferativi dei linfociti (13). La P6 e la P2 sono deboli antigeni capaci di
stimolare l’attività macrofagica, con conseguente rilascio di citochine proinfiammatorie (13). La risposta
macrofagica viene, invece, attivata dal lipopolisaccaride (Los), endotossina dell’NTHi, capace di stimolare
per primo il rilascio di citochine proinfiammatorie dalle cellule macrofagiche, in particolare l’IL-10, il TNF-α
e l’IL-8 (13). La risposta infiammatoria viene innescata anche dal biofilm in cui si trova di solito immerso il
batterio ed è caratterizzata dall’attivazione del processo di immunità innata ed adattativa (14).
L’infiammazione indotta dall’invasione dell’Haemophilus, in pazienti con patologie sottostanti, quali
la Fibrosi Cistica o la broncopneumopatia cronica, dà inizio ad un danno polmonare che predispone
alla colonizzazione batterica cronica (14). I batteri solitamente coinvolti in questa sovrainfezione sono
rappresentati dallo P. Aeruginosa e dallo S. Aureus, l’eliminazione dell’infezione da Haemophilus riduce il
rischio di colonizzazione batterica cronica(14).
Per ciò che riguarda le forme invasive di infezione da NTHi, è probabile che alcuni ceppi presentino
specifiche caratteristiche che ne facilitano la sopravvivenza nella circolazione sanguigna (6).
Senza dubbio la variabilità nell’espressione di diversi fattori batterici è capace di condizionare l’evoluzione
dell’acquisizione di ceppi NTHi in malattia o una colonizzazione asintomatica (7). A tal proposito sono
stati individuati i ceppi che nella maggior parte dei casi causano otite media (il ceppo 86-028NP ed il
R2846, detto anche ceppo 12) (4). Inoltre, dallo studio del genoma di diversi ceppi di NTHi è emerso che
l’espressione dei geni codificanti per fattori presumibilmente coinvolti nella patogenesi della malattia
da Haemophilus è variabile (15). Presumibilmente, dunque, i diversi ceppi differiscono tra loro nei
meccanismi della patogenesi, anche se non è ancora chiaro come ceppi diversi possano dare un’infezione
limitata alle mucose respiratorie o infezioni sistemiche e come elementi dell’ospite siano fondamentali
nell’acquisizione di un nuovo ceppo di Haemophilus.
Per la comparsa di una malattia invasiva è importante anche la presenza di condizioni predisponenti quali
la prematurità e la presenza di malattie polmonari sottostanti.
Una particolare forma di malattia invasiva è quella che interessa i neonati, essa viene solitamente
diagnosticata nei primi giorni di vita e la prematurità rappresenta un fattore di rischio (10); in questi casi
sono stati riscontrati episodi setticemici, batteriemici con distress respiratorio ed un quadro radiografico
polmonare suggestivo di polmonite(15;4).
Dato che il problema delle infezioni invasive da ceppi non tipizzabili di Haemophilus sta diventando
una realtà emergente, un possibile obiettivo nella prevenzione delle malattie invasive dell’età pediatrica
potrebbe essere rappresentato dalla sintesi di un vaccino per i ceppi non tipizzabili. Attualmente la
migliore candidata per tale scopo è rappresentata dalla proteina P6, proteina altamente immunogena ed
estremamente conservata tra i diversi ceppi di NTHi (13).
CORSO DI FORMAZIONE
48
Bibliografia
1. Nelson WE, Behrman RE, Kliegman RM. et al. “Trattato di pediatria” XVII edizione ed. Minerva Medica, 2003.
2. Haemophilus Influenzae; Kenneth Todar University of Wisconsin-Madison Department of Bacteriology.
3. Sarah W. Satola, Julie T. Collins, Ruth Napier, and Monica M. Farley Capsule Gene Analysis of Invasive
Haemophilus influenzae: Accuracy of Serotyping and Prevalence of IS1016 among Nontypeable Isolate. Journal
of Clinical Microbiology, oct. 2207, p. 3230-3238
4. Alice L. Erwin and Arnold L. Smith Nontypeable Haemophilus influenzae: understanding virulence and
commensal behaviour. Trends in Microbiology Vol.15 No.8
5. Arne Forsgren, Kristian Riesbeck, and Ha°kan Janson Protein D of Haemophilus influenzae: A Protective
Nontypeable H. influenzae Antigen and a Carrier for Pneumococcal Conjugate Vaccine. Clinical Infectious
Diseases 2008; 46:726-31
6. Derek K. Ho, Sanjay Ram, Kevin L. Nelson, Paul J. Bonthuis, and Arnold L. Smith2 lgtC Expression Modulates
Resistance to C4b Deposition on an Invasive Nontypeable Haemophilus influenzae1. The Journal of Immunology
2007, 178: 1002-1012.
7. Yukie Sekiya1, Masahiro Eguchi, Masahiko Nakamura, Kimiko Ubukata et al. Comparative efficacies of
different antibiotic treatments to eradicate nontypeable Haemophilus influenzae infection. BMC Infectious
Diseases 2008, 8:15
8. Casselbrant M. L., E. M. Mandel, P. A. Fall, H. E. Rockette, M. Kurs-Lasky, C. D. Bluestone, and R. E. Ferrell. 1999.
The heritability of otitis media: a twin and triplet study. JAMA 282:2125-2130.
9. Teele, D. W., J. O. Klein, and B. Rosner. Epidemiology of otitis media during the first seven years of life in
children in greater Boston; a prospective cohort study. J. Infect. Dis. 160: 83- 94.
10. Catharina W. Wieland, Sandrine Florquin, and Tom van der Poll Interleukin 18 Participates in the Early
Inflammatory Response and Bacterial Clearance during Pneumonia Caused by Nontypeable Haemophilus
influenzae. Infection and Immunity Oct. 2007, p. 5068-5072
11. Haa-Yung Lee1, Ali Andalibi1, Paul Webster, Sung-Kyun Moon et al Antimicrobial activity of innate immune
molecules against Streptococcus pneumoniae, Moraxella catarrhalis and nontypeable Haemophilus influenzae
BMC Infectious Diseases 2004, 4:12
12. Wenzhou Hong, Bing Pang, Shayla West-Barnette, and W. Edward Swords Phosphorylcholine Expression by
Nontypeable Haemophilus influenzae Correlates with Maturation of Biofilm Communities In Vitro and In Vivo.
Journal of Bacteriology Nov. 2007, p. 8300-8307
13. Charles S. Berenson, Timothy F. Murphy, Catherine T. Wrona, and Sanjay Sethi Outer Membrane Protein P6 of
Nontypeable Haemophilus influenzae Is a Potent and Selective Inducer of Human Macrophage Proinflammatory
Cytokines.Infection and Immunity May 2005, p. 2728-2735
14. Timothy D. Starner, Niu Zhang, GunHee Kim, Michael A. Apicella, and Paul B. McCray, Jr. Haemophilus
influenzae Forms Biofilms on Airway Epithelia Implications in Cystic Fibrosis. Am J Respir Crit Care Med Vol 174.
pp 213-220, 2006
15. Joshua M. O’Neill, Joseph W. St. Geme, David Cutter et al Invasive Disease Due to Nontypeable Haemophilus
influenzae among Children in Arkansas. Journal of Clinical Microbiology July 2003, p. 3064-3069
CORSO DI FORMAZIONE
49
LA NUOVA METODOLOGIA DIAGNOSTICA DAL LATTANTE
ALL’ANZIANO
C. Azzari, E. Laudani, G. Giusti, F. Ghiori, C. Canessa, M. Resti
Azienda Ospedaliero-Universitaria Anna Meyer, Firenze
Le malattie invasive (meningiti, sepsi, polmoniti, batteriemie ed altri quadri clinici con isolamento di batteri
da siti normalmente sterili) rappresentano una importante causa di morbosità, e sono caratterizzate da
una elevata frequenza di gravi complicanze (1;2).
Dal punto di vista clinico, tali malattie presentano spesso una sintomatologia scarsamente specifica per
singolo agente eziologico. L'accertamento della loro eziologia è quindi di estrema importanza, non solo
ai fini terapeutici, permettendo l’inizio precoce di un’adeguata terapia antibiotica e per la eventuale
profilassi dei contatti, ma anche per quanto riguarda la loro prevenzione primaria.
Come è noto, sono infatti ad oggi disponibili vaccini per la prevenzione delle infezioni da Haemophilus
influenzae di tipo b, da Neisseria meningitidis di tipo C e da sette sierotipi di Streptococcus pneumoniae
(3), efficaci già nel primo anno di vita. La conoscenza dei casi causati da questi patogeni è quindi
fondamentale per stimare la quota di casi prevenibili, e l’impatto delle strategie intraprese.
La ricerca del patogeno si avvale attualmente dei tests colturali, che consentono di saggiare, nel terreno
di incubazione del campione, la presenza di un unico ipotetico patogeno.
Essi non hanno caratteristiche di sensibilità soddisfacenti: infatti sono lenti e possono risultare falsamente
negativi a causa di molteplici fattori tra cui un volume di liquido biologico troppo piccolo (evenienza non
rara in pediatria), condizioni inadeguate di conservazione o di trasporto del campione, ed un’eventuale
precedente terapia antibiotica. In molti casi, infatti, prima che il paziente venga inviato alla struttura
ospedaliera e sottoposto ad esami quali emocoltura o coltura su liquidi biologici (ad esempio liquido
pleurico o il liquido cefalorachidiano) spesso è già stata effettuata terapia antibiotica domiciliare per
giorni, il che riduce la vitalità del germe e la sua possibilità di crescere su terreni di coltura. Ricordiamo,
inoltre che la probabilità che un esame colturale risulti negativo correla significativamente con la durata
della terapia antibiotica precedente (4).
L’analisi molecolare mediante PCR è indubbiamente un esame molto più sensibile, perché non richiede
la presenza di germi vivi, e può essere utilizzata anche per la sierotipizzazione dei patogeni presenti.
Le metodiche molecolari ricercano il genoma dell’agente patogeno, ed in particolare la Multiplex PCR
Real-time in cui vengono inseriti contemporaneamente più primers specifici per sequenze geniche note
per ogni agente patogeno da ricercare, permette di saggiare la contemporanea presenza di più germi
utilizzando numerose sonde, marcate con diversi fluorocromi, ognuna specifica per il segmento genico
del patogeno sospetta causa di malattia. Tale metodica consente di ottenere un risultato definitivo in
poche ore, con possibilità di impostare quindi precocemente una terapia antibiotica sia nel paziente che
in eventuali contatti (in particolare in caso di meningite).
Un’adeguata diagnosi eziologica diventa anche importante per poter effettuare un monitoraggio
epidemiologico e stimare con maggiore precisione il peso che ogni singolo agente ha sulla comparsa e
diffusione di malattie invasive nella popolazione pediatrica ed adulta.
Per rendere ancora più rapida la diagnosi eziologica e tempestiva la terapia antibiotica possono essere
utilizzati numerosi pannelli diagnostici che permettono contemporaneamente di ricercare più agenti
patogeni. I pannelli per la meningite individuano contemporaneamente meningococco, pneumococco ed
H. infleunzae (5;6); i pannelli per la polmonite individuano, tra gli altri, pneumococco, C. pneumoniae, M.
pneumoniae (7;8); i pannelli per l’artrite, individuano, oltre lo pneumococco, la Salmonella, lo Stafilococco
ed altri germi (9).
Nell’Ospedale pediatrico Meyer è stata messo a punto uno studio per valutare la capacità dei metodi
molecolari di diagnosticare infezioni batteriche invasive (sepsi, meningite, polmonite, artrite settica,
osteomielite) nei bambini di età inferiore ai 3 mesi. Tale studio ha dimostrato la capacità dei tests
CORSO DI FORMAZIONE
50
molecolari di diagnosticare l’80% delle infezioni invasive nei neonati valutati, ricercando in un'unica
reazione la presenza del DNA dei 4 germi maggiormente in causa in tali forme (Escherichia coli, Klebsiella
pneumoniae, Streptococcus pneumoniae, Streptococco β emolitico del gruppo B).
Adottando gli opportuni accorgimenti riguardo la diversa epidemiologia, tali metodiche possono essere
applicate direttamente su campioni biologici prelevati dai pazienti, sia in età pediatrica che
negli adulti-anziani.
Ad esempio, per ciò che riguarda le polmoniti, ricordiamo che prima dei tre mesi di vita prevalgono
enterobatteri Gram-negativi, Staphylococcus aureus, streptococchi di gruppo B e Chlamydia trachomatis;
tra i 3 mesi e i 5 anni l’agente eziologico più importante è lo Streptococcus pneumoniae, seguito da
Haemophilus influenzae e da Mycoplasma pneumoniae; dopo i 5 anni di età i principali patogeni in causa
sono Mycoplasma pneumoniae e lo Streptococcus pneumoniae seguiti da Chlamydia pneumoniae e da
Haemophilus influenzae (10). Nell’adulto lo pneumococco, il Mycoplasma e l’Haemophilus Influenzae
sono gli agenti eziologici coinvolti con maggiore frequenza; nell’anziano lo pneumococco è il principale
agente patogeno (11).
Per quanto riguarda la meningite, nei primi 2 mesi i bacilli Gram-negativi intestinali di origine materna,
Streptococchi di gruppo B e la Listeria monocytogenes sono gli agenti eziologici più frequenti (10); nei
bambini dai 2 mesi ai 12 anni di età la meningite è in genere causata da Streptococcus pneumoniae
e Neisseria meningitidis (12), questo ultimo ha due picchi di incidenza, uno tra il 6° e 24° mese di vita,
e il secondo durante l’adolescenza. L’Haemophilus influenzae tipo b, divenuto attualmente il meno
frequente dei germi meningotropi, grazie all’introduzione della vaccinazione anti-Hib (13), non causa
quasi mai meningite dopo i 5 anni di vita. L’incidenza della meningite pneumococcica, per quanto si
conosce dai dati ottenuti con metodi colturali standard è di 1-3/100.000 (11); può presentarsi a qualsiasi
età, ma colpisce preferenzialmente bambini di età inferiore ai due anni (l’incidenza si riduce tra il 3° e 5°
anno e diventa rara dopo tale età) con un picco stagionale nei mesi invernali (12). Il rischio di meningite
da Streptococcus pneumoniae dipende, per lo meno in parte, dal sierotipo (12).
Alterazioni delle difese dell’ospite, dovute a difetti anatomici o a deficit immunitari, aumentano il rischio
di patogeni meno comuni come P. aeruginosa, S. aureus, Salmonella, L. monocytogenes. Nel soggetto
adulto gli agenti eziologici di meningite più frequenti sono rappresentati da Streptococcus pneumoniae
(50%); Neisseria meningitidis(25%) e L. monocytogenes (10%) (11).
Per quanto riguarda l’eziologia della sepsi, nei neonati i germi più frequentemente isolati sono gli
streptococchi di gruppo B (agalactiae, responsabile soprattutto delle forme a esordio precoce), seguiti
dai germi gram negativi come E. Coli, Enterobacter, Salmonelle, Klebsielle, Pseudomonas aeruginosa (10).
I bambini tra i 3 mesi ed i 3 anni sono a rischio di batteriemia occulta che talvolta può progredire in
sepsi (12), in questo caso gli agenti coinvolti con maggiore frequenza sono lo Streptococcus pneumoniae,
l’ Haemophilus Influenzae tipo b, la Neisseria meningitidis e talvolta la Salmonella. Nell’adulto circa il
70% delle sepsi è causato da batteri Gram-positivi e Gram-negativi, ed il rischio di sviluppare una sepsi
severa è strettamente correlato a fattori quali l’età (>50anni) e presenza di patologie infettive primarie che
interessano il polmone, l’addome o il nevrasse (11).
Questo rapido cenno all’eziologia di alcune delle malattie invasive dell’età pediatrica ed adulta, rende
ancora più evidente l’importanza di una diagnosi tempestiva in tutte le fasce di età, con particolare
attenzione, tuttavia, ai bambini ed agli anziani. Questi ultimi sono predisposti maggiormente a contrarre
gravi infezioni data la frequente presenza di malattie croniche sottostanti.
CORSO DI FORMAZIONE
51
Bibliografia
Tunkel A, Schilder AG. Acute Meningitis. In: Mandell GL, Douglas RM, Bennet JE, editors. Mandell, Douglas, and
Bennett's Principles and practice of infectious diseases. Sixth Edition ed. Philadelphia: Elsevier; 2005. p. 1083126.
Angus DC, Linde-Zwirble WT, Lidicker J, Clermont G, Carcillo J, Pinsky MR. Epidemiology of severe sepsis in the
United States: analysis of incidence, outcome, and associated costs of care. Crit Care Med 2001 Jul;29(7):130310.
Azzari C, Resti M. Reduction of carriage and transmission of Streptococcus pneumoniae: the beneficial “side
effect” of pneumococcal conjugate vaccine. Editoria commentary. Clin Infect Dis 2008, 47: 997-999.
Le Monnier A, Carbonnelle E, Zahar JR. et al. Microbiological diagnosis of empyema in children: comparative
evaluations by culture, polymerase chain reaction, and pneumococcal antigen detection in pleural fluids. Clin
Infect Dis. 2006;42(8):1135-40
Corless CE, Guiver M, Borrow R. et al. Simultaneous detection of Neisseria meningitidis, Haemophilus influenzae,
and Streptococcus pneumoniae in suspected cases of meningitis and septicemia using real-time PCR. J Clin
Microbiol. 2001;39(4):1553-8
Azzari C, Moriondo M, Indolfi G, Massai C, Becciolini L, de Martino M, Resti M. Molecular detection methods and
serotyping performed directly on clinical samples improve diagnostic sensitivity and reveal increased incidence
of invasive disease by Streptococcus pneumoniae in Italian children. J Med Microbiol. 2008 Oct;57:1205-12.
Kais M, Spindler C, Kalin M. et al. Quantitative detection of Streptococcus pneumoniae, Haemophilus influenzae,
and Moraxella catarrhalis in lower respiratory tract samples by real-time PCR. Diagn Microbiol Infect Dis.
2006;55(3):169-78
Morozumi M, Nakayama E, Iwata S. et al. Simultaneous detection of pathogens in clinical samples from patients
with community-acquired pneumonia by real-time PCR with pathogen-specific molecular beacon probes. J
Clin Microbiol. 2006;44(4):1440-6
Rosey AL, Abachin E, Quesnes G. et al. Development of a broad-range 16S rDNA real-time PCR for the diagnosis
of septic arthritis in children. J Microbiol Methods. 2007;68(1):88-93
Vierucci A, Careddu P, Castello MA, Giuffrè L, Principi N, Rubino A. “Pediatria generale e specialistica” casa editrice
Ambrosiana, 2002 cap.11:pp.335-39
Harrison. “Principi di Medicina Interna” XV edizione, McGraw-Hill, 2002
Nelson WE, Behrman RE, Kliegman RM, Jenson HB. “Trattato di pediatria” XVI edizione ed. Minerva Medica, 2002
cap.174:pp.740-47
CORSO DI FORMAZIONE
52
SITUAZIONE EPIDEMIOLOGICA E POSSIBILITÀ DI DIAGNOSI IN
CAMPANIA
F. Nunziata
Ospedale “Landolfi”ASL AV2
Nonostante la Meningite sia in costante diminuzione, ogni anno in Italia vengono diagnosticati circa
900 nuovi casi, di cui:
1/3 causato dal Meningococco
1/3 da Pneumococco
1/3 altri batteri
EMBED Excel.Sheet.8
INCIDENZA DELLE PRINCIPALI MALATTIE INVASIVE NEI BAMBINI DI ETÀ INFERIORE AI 2 ANNI IN ITALIA
(media per anno)
EMBED Excel.Sheet.8
Casi di Meningite segnalati in Campania suddivisi per agente etiologico nel 2005
GBS: 1
Pn: 14
M: 16
H: 0
Mt: 0
Listeria: 0
N.I.: 1
Altri: 5
Casi di Meningite segnalati in Campania suddivisi per agente etiologico nel 2006
GBS: 2
Pn: 24
M: 15
H: 1
Mt: 0
Listeria: 0
N.I.: 2
Altri: 2
Casi di Meningite segnalati in Campania suddivisi per agente etiologico nel 2007
GBS: 1
P: 21
M: 5
H: 0
T: 0
L: 0
N.I.: 2
Casi di Meningite segnalati in Campania suddivisi per agente etiologico nel 2008
GBS: 0
Pn: 10
M: 3
H: 0
Mt: 0
Listeria: 0
N.I.: 0
Dati aggiornati al 3 luglio 2008
CORSO DI FORMAZIONE
53
Streptococcus pneumoniae per quadro clinico
EMBED Excel.Sheet.8
Haemophilus influenzae per quadro clinico
EMBED Excel.Sheet.8
Neisseria meningitidis per quadro clinico
EMBED Excel.Sheet.8
L’ Haemophilus influenzae è un Gram- presente nelle alte vie respiratorie
Il 75% delle infezioni invasive compare nei primi 2 anni di vita
Frequente la colonizzazione asintomatica
Praticamente assente lo stato di portatore nelle aree in cui è stata praticata estensivamente la
vaccinazione
Riduzione dei casi dovuti all’ Hib:
Dal centinaio degli anni ’90 alle poche unità attuali
Hi provoca patologia invasiva (prevalentemente da ceppi capsulati che si dividono in 6 sierogruppi e al
95% da Hib: Polmonite, meningite, sepsi, epiglottite, porpora fulminante, ecc.) e non invasiva (ceppi non
tipizzabili: Otite, sinusite, congiuntivite, bronchite
Diagnosi:
La sierotipizzazione dell’Hib, culture da liquor, PCR, sangue, liquido sinoviale
Non molto affidabile la ricerca di antigeni su siero e urine, perché riscontrabili nelle urine di soggetti
vaccinati o portatori e per la possibilità di reazioni crociate con altra flora batterica.
Streptococcus Pneumoniae
E’ un batterio Gram+, si distingue in 90 sierotipi in base alle caratteristiche della capsula polisaccaridica
Oltre l’80% delle malattie invasive in età pediatrica è legata a soli 7 sierotipi (4, 6B, 9V, 14, 18C, 19E, 23F)
La capsula dello S.Pn importante per:
E’ un fattore di virulenza
La produzione di anticorpi verso gli zuccheri della capsula è dovuta alle IgG2 che scarseggiano nel bambino
< 2 anni che invece ne produce soprattutto di classe IgM con conseguente modestissima protezione nei
confronti del polisaccaride capsulare dello S.Pn che è un antigene T-indipendente
Il rischio di malattia invasiva è più elevato in:
Affetti da patologie croniche e HIV +
Nelle comunità chiuse: Portatori sono stati descritti anche nel 97% della popolazione con un rischio di
colonizzazione > in inverno, con variazioni regionali
Lo stato di portatore è “fisiologico”a tutte le età (lo è il 91% dei bambini fino a 4 anni, compare intorno al
6° mese):
Lo S.Pn può persistere anche anni senza provocare malattia
La Meningite da Pn segue frequentemente ad un infezione virale che produce danno mucoso con <
attività ciliare epiteliale e conseguente depressione della funzione dei macrofagi alveolari
La gravità è correlata alla virulenza e al numero di Pn e all’integrità delle difese specifiche dell’ospite
(deficit di opsonofagocitosi), nonostante una terapia antibiotica adeguata
Letalita’
Meningite: 12, 5%
Il 30% dei sopravvissuti ha esiti neurologici
Il ruolo del Meningococco come causa di Meningite batterica è diventato più importante per il declino
delle Meningiti da:
Haemofilo b e da Pneumococco (grazie all’introduzione dei nuovi vaccini coniugati)
Listeria (ridotta contaminazione degli alimenti)
GBS (Profilassi Antibiotica Intrapartum)
CORSO DI FORMAZIONE
54
Neisseria Meningitidis è un batterio Gram -, in base alla struttura della capsula polisaccaridica può essere
tipizzato in 13 sierogruppi ma solo 5: A, B, C, W-135 e Y sono causa di patologia invasiva
Il polisaccaride della capsula determina la virulenza: I meningococchi privi di capsula invadono
più facilmente l’organismo dal nasofaringe ma solo i ceppi capsulati possono sopravvivere al
riconoscimento del sistema immunitario
I gruppi A, B e C:
- 90% delle infezioni
Il sierogruppo A:
Grandi epidemie nel III mondo
I sierogruppi B e C:
Malattia endemica e piccoli focolai nei Paesi industrializzati
Sierogruppo C:
Più letale con sequele gravi (danno cerebrale, sordità, setticemie)
La capsula del sierogruppo B non viene riconosciuta dal sistema immune perché identica al glicoconiugato
della superficie cellulare prodotta durante lo sviluppo del SN fetale: Motivo per il quale per allestire vaccini
per il sierogruppo B sono utilizzati antigeni non capsulari
Perché solo alcuni soggetti presentano sepsi o meningite da Meningococco mentre i ceppi patogeni
di Neisseria meningitidis si ritrovano, come commensali senza conseguenze, in circa l’1% della
popolazione?
Per spiegare la bassa incidenza della malattia invasiva nei portatori, è stata data importanza alla
lectina legante il mannosio (MBL), un’opsonina plasmatica che inizia una delle vie dell’attivazione del
complemento. La proporzione dei pazienti omozigoti per gli alleli varianti della MBL è stata più alta fra i
soggetti con malattia meningococcica che fra i controlli. Le varianti della MBL sono determinanti critici
della suscettibilità alla malattia meningococcica e queste varianti sono le responsabili di circa un terzo di
tutti i casi di malattia.
Deficit di:
Complemento: rischio di meningococciemia ricorrente (Utilità della vaccinazione che accresce la
fagocitosi rispetto all’attività battericida sierica)
Properdina: malattia a decorso fulminante con mortalità nel 40% dei casi
Almeno 2/3 dei casi da Meningococco sono segnalati come sporadici
Non rari piccoli focolai epidemici “Cluster”:
Negli ultimi 7 anni in Italia 48 piccoli cluster: Almeno 2 casi nell’arco di 30 giorni in un raggio di Km 50
Contagio: Da persona a persona con contatti stretti, in ambienti affollati, mentre il batterio non sopravvive
nell’ambiente, né in alimenti o su oggetti per cui non è richiesta la DISINFEZIONE ambientale
Condizioni per sviluppare la malattia invasiva:
Contatto con ceppo patogeno
Colonizzazione del nasofaringe
Passaggio dal nasofaringe nel torrente ematico
Sopravvivenza del batterio nel sangue
Si possono presentare diversi quadri clinici:
Batteriemia di grado lieve: Breve episodio febbrile senza sequele
Batteriemia grave: Rilascio di endotossine e citochine
Importante il rapporto tra: Meningite-Sepsi-Sepsi+Meningite
Casistica dell’ISS in Italia delle malattie invasive da Meningococco:
Meningite: 68%
CORSO DI FORMAZIONE
55
Sepsi: 16%(prognosi peggiore)
Sepsi+Meningite: 14% (prognosi migliore delle sepsi pure)
Primi accertamenti di laboratorio nel caso del sospetto di una meningite
Il liquor una volta prelevato ed osservato dal clinico, va subito inviato, se possibile, al laboratorio, che
procederà ai primi accertamenti. In particolare qualora si sospetti una meningite meningococcica è
opportuno procedere subito a coltivazione di una parte di esso su terreni arricchiti al sangue ad es. Thayer
Martin e preparare al contempo degli strisci su vetrino per una prima osservazione microscopica, che
ovviamente sarà molto utile anche per le altre forme microbiche.
Nuovi metodi di diagnosi
SEPTIFAST: DIAGNOSI di sepsi IN MENO DI 6 ORE
Test molecolare (LightCycler SeptiFast), che permette la diagnosi microbiologica di sepsi in meno di 6
ore, a partire da 1, 5 ml di sangue intero in provette contenenti EDTA.
Il sistema è una PCR (polymerase chain reaction) real-time in grado di rilevare ed identificare a livello di
specie un pannello di più di 40 patogeni batterici e fungini, complessivamente responsabili di più del
90% dei casi di sepsi microbiologicamente confermati
Batteri che si possono testare:
Escherichia coli; Klebsiella (pneumoniae/oxytoca); Serratia marcescens; Enterobacter (cloacae/aerogenes);
Proteus mirabilis; Pseudomonas aeruginosa; Acinetobacter baumannii; Stenotrophomonas maltophilia;
Staphylococcus aureus; 11 diverse specie di stafilococchi coagulasi-negativi; Streptococcus pneumoniae;
17 altre specie di streptococchi; Enterococcus faecalis; Enterococcus faecium; Candida albicans; Candida
tropicalis; Candida glabrata; Candida krusei; Candida parapsilosis; Aspergillus fumigatus.
Batteri che non si possono testare:
Neisseria e Brucella
PCR Real time
I prelievi possono essere effettuati a tutti i pazienti con sospetta patologia invasiva batterica
Prelievo di sangue periferico in provetta con EDTA e, se possibile, un tampone faringeo (tampone NON in
gel, inserito in provetta tappo rosso in 1 cc di soluzione fisiologica)
Durata del test: 1 ora
L’incidenza di malattia invasiva fino a 10 volte maggiore utilizzando la PCR rispetto ai metodi colturali
Prevenzione Farmacologia:
Di impiego immediato e da attuare solo nei soggetti che abbiano avuto un contatto”stretto”con pazienti
affetti da malattia invasiva:
NON E’ PREVISTA per le forme da Pneumococco
Malattia Meningococcica Invasiva
RIFAMPICINA:
10mg/kg 2 volte/die X 2 giorni per os
CEFTRIAXONE:
<12 anni 125 mg i.m. in dose singola
>12 anni 250 mg i.m. in dose singola
CIPROFLOXACINA:
>18 anni 500 mg in dose singola per os
Malattia da Hib Invasiva
RIFAMPICINA:
20mg/kg una volta/die X 4 giorni per os
SESSIONE SATELLITE
PEDIATRIA PRATICA E MANAGEMENT
28 NOVEMBRE 2008
Presidenti: Giuseppe Colucci, Luciano Pinto
Moderatori: Elio Caliendo, Gennaro Golia, Renato Vitiello
Alberto Villani, Gianni Messi, Achille Tolino
SESSIONE SATELLITE
57
LA TERAPIA MODERNA DELLA DIARREA
A. Staiano
Dipartimento di Pediatria “Federico II”, Napoli
La diarrea acuta, con oltre 3 milioni di decessi anno in bambini di età inferiore ai 5 anni, rappresenta,
insieme alle infezioni respiratorie, la causa principale di mortalità infantile a livello mondiale.
La diarrea acuta infantile riconosce nella maggior parte dei casi una causa infettiva. L’agente più comune
è rappresentato dal Rotavirus, virus estremamente comune che ha la massima circolazione nei mesi
invernali, a trasmissione oro-fecale e con un’elevatissima capacità di contagio, determinando epidemie
nelle comunità infantili.
Il quadro clinico di gastroenterite è caratterizzato da diarrea, con febbre e vomito che per lo più precedono,
in quest’ordine, la comparsa della diarrea, determinando come conseguenza una disidratazione grave.
Il trattamento della diarrea acuta si basa su: 1. Reidratazione; 2. Corretta alimentazione; 3. Eventuale
somministrazione di farmaci.
La reidratazione orale deve coprire le perdite fisiologiche, correggere la disidratazione e prevenire la
disidratazione subentrante. La soluzione reidratante orale ideale per il bambino è quella raccomandata
dall’ESPGHAN, mentre la reidratazione parenterale è indicata in caso di vomito persistente o in caso di
disidratazione grave con shock e perdita di coscienza.
L’alimentazione orale deve essere ripresa precocemente già dopo solo 3-4 ore di reidratazione, utilizzando
gli stessi alimenti che assumeva precedentemente il bambino.
Per quanto riguarda la terapia farmacologica, bisogna prendere in considerazione gli antibiotici, da
utilizzare in caso di gastroenterite da particolari agenti eziologici (Salmonella typhi, Shigella, Entamoeba
histolitica, Vibrio cholera, Giardia lamblia), in caso di sintomatologia grave (sepsi, compromissione
neurologica, diarrea persistente) o in caso di particolari condizioni legate all’ospite (età neonatale, pazienti
immunocompromessi).
Vi è attualmente evidenza in letteratura dell’efficacia dei probiotici nel trattamento della diarrea acuta; in
particolare nella diarrea da Rotavirus risulta particolarmente efficace la somministrazione di Lactobacillus
casei GG.
Farmaci antidiarroici quali la diosmectite e la colestiramina sono indicati in particolari situazioni.
Il Racecadotril, un potente inibitore selettivo dell’encefalinasi intestinale, rappresenta un promettente
farmaco nella terapia antisecretoria della diarrea acuta in età pediatrica.
SESSIONE SATELLITE
“MALATTIE RARE”
28 NOVEMBRE 2008
Presidenti: Bruno Nobili, Marco Somaschini
Moderatori: Alfonso D’Apuzzo, Ennio Del Giudice, Vincenzo Riccardi
Carlo Tolone, Annamaria Staiano, Salvatore Vendemmia, Maurizio Ivaldi
SESSIONE SATELLITE
59
EPIDEMIOLOGIA DELLE MALATTIE RARE
R. Della Casa, F. Vitiello
Dipartimento di Pediatria “Federico II”, Napoli
Le Malattie Rare costituiscono un gruppo eterogeneo di affezioni caratterizzate solo dalla comune bassa
prevalenza. Esse, per tale motivo, risultano scarsamente conosciute dalla stessa classe medica e sono
quindi poco studiate, con la conseguenza che per molte di esse manca spesso una terapia adeguata,
anche per difetto di ricerca o di investimenti da parte dell’industria farmaceutica.
Per quanto concerne la frequenza di tali patologie una definizione di “rarità” valida per tutti i paesi non
esiste. Negli Stati Uniti, dove peraltro esiste una definizione ufficiale di patologia rara (quella che colpisce
meno di 200.000 individui nella popolazione statunitense) le classificazioni disponibili comprendono un
numero di malattie che varia dalle 1.109 della National Organization for Rare Disorders (NORD) alle 2.117
dell’Office of Rare Disease (ORD del National Institutes of Health). Il centro francese Orphanet propone
una lista di circa 5.000 nomi, sinonimi compresi, di patologie rare. Secondo le indicazioni della Unione
Europea nel programma sulle malattie rare 1999-2003, accettate anche in Italia, vengono definite rare le
malattie che hanno una prevalenza inferiore a 5 per 10.000 abitanti della comunità.
Per la maggior parte delle malattie rare mancano dati precisi sulla loro frequenza, poiché per pochissime
di loro esiste un sistema di notificazione dei casi a livello nazionale o internazionale.
In Italia l’allora Ministero della Sanità ha pubblicato, alcuni anni orsono, un elenco di malattie rare o
gruppi di malattie, esenti dalla partecipazione al costo, che comprende circa 200 malattie (DM279/01).
Il regolamento, emanato contestualmente, prevedeva anche la realizzazione di una rete clinicoepidemiologica, costituita da presidi accreditati individuati dalle regioni, istituendo presso l’Istituto
Superiore della Sanità il Registro Nazionale delle Malattie Rare (art. 3 del suddetto DM). Successivamente
con l’autonomia regionale della sanità, le singole regioni si sono progressivamente attivate, non senza
qualche problema, nella identificazione dei presidi da accreditare e nella creazione di una rete assistenziale
che ha tra i suoi fini anche quello di poter, in qualche modo, censire la reale portata delle singole
malattie onde poter prevedere un adeguata valutazione epidemiologica e una idonea programmazione
sanitaria.
Nelle regioni si è così via via realizzato un Registro Regionale che ha dovuto tener conto delle indicazioni
sancite dal tavolo di concertazione Stato-Regioni che nel maggio 2007 che ha previsto un minimo di
informazioni inerenti le Malattie Rare da comunicare al Registro Nazionale con sede presso l’ ISS.
In Campania questo lungo ed articolato processo ha portato alla realizzazione di centri accreditati ed alla
assegnazione all’ AOU Federico II della responsabilità di coordinare il registro regionale.
Questo registro dovrà contenere, oltre ai dati inerenti la malattie, identificata mediante il codice
d’esenzione, anche dati relativi le modalità e tempi della diagnosi.
La realizzazione di tale registro potrà migliorare le conoscenze sulle malattie rare sul piano clinico ed
epidemiologico, favorire la ricerca di un miglior piano assistenziale ed anche, si spera, razionalizzazione
della spesa sanitaria in questo campo.
PRIMA SESSIONE
28 NOVEMBRE 2008
Presidenti: Antonio Correra, Giovanni Corsello, Luigi Falco, Luciano Tatò
Moderatori: Raffaele Iorio, Riccardo Longhi, Pietro Vajro
Momenti congressuali
RELAZIONI
PRIMA SESSIONE
61
IL CHALLENGE NELLA ALLERGIA ALIMENTARE: METODOLOGIA E
ORGANIZZAZIONE
M. Duse, L. Leonardi
Dipartimento di Pediatria Università “La Sapienza”, Roma
Premesse
L’allergia alimentare (AA) consiste in una reazione avversa ad antigeni proteici di origine alimentare
mediata da meccanismi immunologici, in larga misura -ma non esclusivamente- innescati dalla produzione
di IgE specifiche con lo sviluppo di una infiammazione prevalentemente Th2, come conseguenza del
mancato sviluppo o della perdita della tolleranza orale alle proteine alimentari. La complessità delle
reazioni coinvolte e le limitate acquisizioni nell’uomo non consentono ancora di delineare con certezza il
meccanismo fisiopatologico che sottende al fallimento della tolleranza orale.
Come per altre malattie allergiche, anche per la AA è probabilmente necessario il concorso di più fattori:
dal backgroud genetico predisponente -ad oggi in gran parte ignoto- al difetto di integrità e di funzione
della barriera intestinale, alle alterazioni della risposta immunitaria locale fino ad arrivare a squilibri della
microflora residente. Questi co-fattori non sono con ogni probabilità nè tutti necessari, né mutuamente
esclusivi, ma il loro reciproco peso patogenetico e le ricadute cliniche nell’uomo sono solo parzialmente
noti.
La prevalenza dell’allergia alimentare è stimata intorno al 6-8% nei bambini di età inferiore ai 3 anni e
progressivamente diminuisce fino ad arrivare a circa l’1-2% in età adulta.
Gli alimenti più frequentemente incriminati sono latte, uovo e pesce nei primi 2 anni di vita; frutta, verdura
e legumi sono invece responsabili di manifestazioni allergiche dopo il secondo anno di vita, spesso in
associazione con allergia ad inalanti (pollini).
La diagnosi di allergia alimentare si basa ovviamente prima di tutto su una attenta anamnesi e un accurato
esame obiettivo: gli altri esami, come Prick Test e RAST, sono solo di supporto e il gold standard diagnostico
rimane ancora oggi il challenge alimentare che viene comunemente chiamato Test di Provocazione Orale
o TPO.
Sono stati fatti molti sforzi per cercare di evitare il ricorso al TPO, in quanto se positivo, è connotato
non solo dalla ricomparsa dei sintomi, ma da manifestazioni cliniche che sono spesso tanto gravi da
comportare un coinvolgimento sistemico fino ad arrivare allo shock anafilattico.
Sulla base della constatazione che quanto più alto era il titolo di IgE specifiche, tanto maggiore era la
probabilità che si avessero reazioni anafilattiche, molti gruppi di ricerca hanno cercato di individuare il
valore di positività soglia, oltre il quale la probabilità di avere reazioni anafilattiche fosse talmente alta da
rendere inutile il TPO.
Purtroppo ogni gruppo ha riportato valori diversi per ogni alimento per cui a tutt’oggi non possiamo
sostituire il TPO o differirlo sulla base di test di laboratorio validati.
TPO e dieta di eliminazione
Il TPO deve seguire una dieta di eliminazione, definita diagnostica, che prevede l’esclusione dell’alimento
incriminato per un periodo sufficiente a consentire il miglioramento o addirittura la scomparsa dei
sintomi.
La dieta va pertanto prescritta per un periodo breve e variabile a seconda delle manifestazioni cliniche
(2 settimane per le reazioni immediate, 4 settimane per la dermatite atopica, 8 settimane per le
manifestazioni gastrointestinali) ed è finalizzata solo ad evitare i sintomi derivanti dall’esposizione al cibo
offendente, mentre non è assolutamente provato che essa sia in grado anche di accelerare l’acquisizione
della tolleranza.
Una volta ottenuta la remissione dei sintomi, il nesso causale tra alimento sospettato e reazione avversa va
comunque dimostrato con il TPO, che andrà effettuato in ambiente ospedaliero in tutti i casi di precedenti
reazioni gravi (anafilassi, orticaria/angioedema generalizzato, crisi asmatiche severe) o quando siano
62
RELAZIONI
PRIMA SESSIONE
presenti SPT o dosaggi estremamente elevati di IgE specifiche per l’alimento da testare.
Nel caso la dieta abbia eliminato più alimenti, questi devono essere introdotti singolarmente, in genere
uno per settimana, e con la stessa gradualità, osservando attentamente l’insorgenza di sintomi allergici,
tanto immediati quanto tardivi. Infatti, uno degli elementi più confondenti è proprio la grande variabilità
nel lasso di tempo che può intercorrere tra l’assunzione dell’alimento incriminato e la comparsa dei
sintomi. Se il test risulta positivo, il TPO va in seguito ripetuto ogni 6-12 mesi di dieta priva di quell’alimento
per sorvegliare l’eventuale comparsa di tolleranza.
Metodologia e organizzazione del TPO
Prima di eseguire il TPO dovranno essere sospesi i farmaci che possono mascherare la reattività individuale:
antistaminici e corticosteroidi per via sistemica. Gli steroidi topici non costituiscono, al contrario, una
controindicazione formale al test.
Prima di iniziare il challenge, è pratica piuttosto comune eseguire il test della goccia, ovvero la stimolazione
sulla mucosa labiale con una goccia del cibo da testare per evidenziare una eventuale abnorme reattività
che potrebbe controindicare l’esecuzione del test o indurre a particolare cautela nella sua prosecuzione.
Quantità di cibo da somministrare, modalità di aumento delle dosi, intervallo tra le dosi e intervallo di
tempo tra diversi test nei casi di polisensibilizzazione sono protocollati diversamente a seconda dei gruppi
di ricercatori: ognuno ha elaborato una propria strategia e solo di recente si sta cercando di standardizzare
una metodica da proporre e condividere. Di fatto si inizia con piccole quantità di alimento che vengono
aumentate gradualmente fino a raggiungere la quantità che generalmente induce la reazione.
Nei bambini di età inferiore ai 2 anni il TPO può essere effettuato “in aperto”, cioè somministrando quantità
crescenti ad intervalli di 15-20 minuti dell’alimento immodificato.
Quando l’interpretazione dei sintomi da parte dei familiari è dubbia o il bambino è abbastanza grande
o addirittura adolescente, è più indicato procedere con il test “in singolo cieco” (il paziente e i familiari
ignorano se la somministrazione sia di alimento sospetto o di placebo) o “in doppio cieco” (anche lo
stesso medico non sa quale sia l’alimento e quale il placebo): quest’ultimo, meglio noto come DBPCFC
(double- blind placebo controlled food challenge) è unanimemente considerato per la sua affidabilità il
“gold standard” per la diagnosi di allergia alimentare e rappresenta il test di riferimento con cui comparare
altri sistemi di valutazione. Terminata la somministrazione, l’osservazione diretta del bambino in ospedale
andrà protratta per 6 ore; se entro i 7 giorni seguenti compaiono i sintomi allergici caratteristici, il test
viene considerato positivo e interrotto. In questo caso l’alimento viene eliminato dalla dieta e nuovamente
testato periodicamente (ogni 8-12 mesi) per verificarne l’acquisita tolleranza. Gli alimenti eliminati dopo
test di provocazione definiscono la dieta di esclusione terapeutica.
TPO positivo
Se il TPO risulta positivo, i sintomi possono essere anche molto gravi e pericolosi per la vita e richiedere
una pronta assistenza di personale non solo esperto nella procedura del challenge con alimenti, ma
anche qualificato nel trattamento farmacologico e rianimatorio degli eventuali casi di anafilassi. Inoltre
la struttura destinata all’ esecuzione del test deve essere sempre attrezzata per affrontare tali eventuali
urgenze. Dovranno pertanto essere prontamente disponibili adrenalina, corticosteroidi e antistaminici
per somministrazione im/ev, beta 2 agonisti per via inalatoria, ecc.
Uno studio retrospettivo di 349 TPO in bambini con dermatite atopica riporta reazioni avverse in oltre
la metà dei casi (51%); di questi il 67% aveva richiesto un intervento medico: orale in 78 casi (65%) e
parenterale in 42 casi (35%); inoltre 26 erano i casi di shock anafilattico (14, 6%).
E’ dunque indispensabile che il TPO venga effettuato sempre in ospedale e con la pronta disponibilità di
un rianimatore.
Purtroppo, da un’indagine condotta nel nostro territorio nazionale emerge il dato allarmante che un
rianimatore è prontamente disponibile solo in 75 centri dei 268 che eseguono abitualmente il TPO (pari
al 27, 9% dei casi).
RELAZIONI
PRIMA SESSIONE
63
Bibliografia
1. Bindslev -Jensen C. et al. Standardization of food challenges in patients with immediate reactions to food.
Allergy. 2004; 59: 690-97.
2. Chapman JA et al. Food Allergy: A practice parameter. Annals of Allergy, Asthma & Immunology. 2006; 96:
S1-S68.
3. Hill DJ et al. Reducing the need for food allergen challenges in young children: a comparison of in vitro with
in vivo tests. Cl Exp Allergy 2001; 31: 1031-35.
4. Hugh A. Update on food allergy. J Allergy Clin Immunol. 2004; 113: 805-19
5. Martelli A. et al. Oral food challenge in children in Italy. Allergy. 2005; 60: 907-11
6. Niggemann B. et al. Controlled oral food challenges in children -when indicated, when superfluous? Allergy,
2005 Jul; 60(7): 865-70.
7. Niggemann B, Beyer K. Pitfalls in double-blind placebo controlled oral food challenges. Allergy. 2007 Jul;
62(7): 729-32
8. Perry TT et al. Risk of oral food challenges. JACI. 2004; 114: 1164-8.
9. Reibel S. et al. What safety measures need to be taken in oral food challenges in children? Allergy. 2000; 55:
940-44
10. Sampson HA, HO DG. Relationship between food-specific IgE concentrations and the risk of positive food
challenges in children and adolescents. J Allergy Clin Immunol, 1997; 100: 445-51
11. Sicherer SH et al. Current approach to the diagnosis and management of adverse reactions to food. J. Allergy
Clin Immunol. 2004; 114: 1146-50.
64
RELAZIONI
PRIMA SESSIONE
Il TRATTAMENTO OLISTICO-ODONTOIATRICO DEL PAZIENTE
PEDIATRICO CON BISOGNI SPECIALI
D. Lauritano, M. Maddalone, M. Baldoni
Università degli Studi di Milano-Bicocca - Facoltà di Medicina e Chirurgia
La Clinica Odontoiatrica dell’Università di Milano-Bicocca ha sviluppato, durante il suo percorso
scientifico, numerosi filoni di ricerca, indagando tematiche di significativa attualità, all’interno delle quali
un’attenzione particolare è stata riservata al trattamento odontoiatrico dei pazienti con bisogni speciali.
La Clinica ha inoltre concordato, con alcuni reparti ospedalieri e altre strutture sanitarie, programmi di
integrazione multidisciplinare delle competenze odontostomatologiche e mediche, per migliorare
la collaborazione con le realtà assistenziali del territorio ed offrire al paziente con bisogni speciali un
servizio accurato ed efficiente, frutto del percorso scientifico e di ricerca. Infatti numerosi dati scientifici
dimostrano che la prevenzione, l’intercettamento e l’avvio alla terapia precoce delle manifestazioni orali
nel soggetto con bisogni speciali è un atto sanitario di estrema rilevanza. Gli Autori descrivono inoltre i
protocolli operativi della Clinica Odontoiatrica dell’Università Milano-Bicocca per un corretto approccio al
paziente con bisogni speciali, e illustrano le varie tecniche diagnostico-terapeutiche differenziate in base
al tipo di patologia ed al grado di collaborazione del paziente. L’esperienza maturata nel trattamento dei
pazienti con bisogni speciali ha permesso alla Clinica Odontoiatrica dell’Università di Milano-Bicocca di
diventare centro di riferimento per altre strutture sanitarie e specialisti del territorio di Monza e Brianza.
RELAZIONI
PRIMA SESSIONE
65
RARE E NEGLETTE
S. Bruni, L. Loschi
Modena
Le malattie rare sono un gruppo di oltre 7.000 patologie, molte delle quali fatali o croniche invalidanti, che
rappresentano nel loro complesso circa il 10% delle malattie che colpiscono l’umanità. La Commissione
Europea, chiamata ad esprimersi in questo senso, ha definito rare quelle patologie la cui incidenza non è
superiore a 5 su 10.000 abitanti. Negli Stati Uniti il parametro è leggermente diverso: meno di 7 persone
ogni 10 mila. Se dagli Usa passiamo al Giappone la definizione è ancora diversa: meno di 4 abitanti su 10
mila.
Si stima che in Italia ci siano circa 2 milioni di persone affette, moltissime delle quali in età pediatrica.
L’80% delle malattie rare ha origini genetiche, con coinvolgimento di uno o più geni o cromosomi.
Possono essere ereditarie o derivare da una mutazione ex novo e colpiscono il 3-4% dei nati vivi.
Altre malattie rare sono provocate da infezioni (batteriche o virali), allergie, o sono dovute a fattori
degenerativi, neoproliferativi o teratogeni (chimici, radiazioni, etc.). Alcune malattie derivano
dall’interazione tra cause genetiche e ambientali, ma la maggior parte delle malattie rare ha una
patogenesi sconosciuta, anche per la mancanza di ricerca scientifica.
Le malattie rare sono caratterizzate da grande eterogeneità di segni e sintomi che variano non solo da
una malattia all’altra, ma anche all’interno della stessa malattia. Tuttavia, esistono alcuni tratti comuni e
possono quasi sempre essere caratterizzate come:
gravi o molto gravi, croniche, spesso degenerative e generalmente letali;
nella metà dei casi, insorgono in età infantile;
disabilitanti: la qualità della vita dei pazienti affetti da malattie rare è spesso compromessa in seguito alla
carenza o alla perdita di autonomia;
molto gravi in termini psicosociali: la sofferenza dei pazienti e delle loro famiglie è aggravata dalla
disperazione psicologica, dalla mancanza di opzioni terapeutiche e dalla mancanza di supporti pratici
nella vita quotidiana;
malattie incurabili, per la maggior parte senza reali cure. In alcuni casi i sintomi possono essere trattati per
migliorare la qualità e l’aspettativa di vita;
difficili da gestire: le famiglie trovano insormontabili ostacoli nel trovare una cura efficace.
Tra le malattie rare, un gruppo molto importante è rappresentato dalle malattie metaboliche ereditarie
che colpiscono i bambini generalmente nei primi anni di vita ma i cui sintomi possono anche esordire
in età giovanile o adulta. Sono malattie gravi, molte delle quali, se non riconosciute tempestivamente,
causano gravi handicap fisici e mentali e spesso sono causa di morte precoce. Molte altre si manifestano
con sintomi subdoli e progressivamente ingravescenti fino a quadri di patologia d’organo irreversibile.
In molti casi la malattia rara si presenta con un quadro clinico così evidente che sarebbe impossibile non
diagnosticarla correttamente fino dalla prima occhiata. Purtroppo però questo non è sempre vero: in
molte altre occasioni individuare la patologia non è facile in quanto questa si manifesta con sintomi e
segni sfumati, spesso aspecifici.
Nell’ambito delle malattie rare e, più in particolare, delle malattie metaboliche, le malattie da accumulo
lisosomiale rappresentano un vasto gruppo di affezioni dovute al deficit di enzimi preposti alla
degradazione di specifiche sostanze. La mancanza di un enzima determina l’interruzione di una via
metabolica con conseguente accumulo progressivo nei lisosomi di materiale non degradato.
Le malattie lisosomiali vengono denominate in base alle principali sostanze accumulate in:
Mucopolisaccaridosi, Mucolipidosi, Glicoproteinosi, Lipidosi, Glicogenosi tipo II (malattia di Pompe).
Malgrado sia ormai accertato che queste malattie, considerate nella loro totalità, colpiscono un numero
significativo di persone, rimane tuttavia vero il paradigma secondo il quale raro significa poco conosciuto
e/o negletto.
66
RELAZIONI
PRIMA SESSIONE
I dati epidemiologici disponibili per la maggior parte delle malattie rare sono inadeguati a fornire dati certi
sul numero di pazienti con una specifica malattia rara. In generale le persone affette da malattia rara non
sono registrate su database. Molte malattie rare sono raggruppate sotto la definizione di “altri disordini
metabolici o endocrini” e, di conseguenza, salvo rare eccezioni, è difficile registrare in modo affidabile
e organico su base nazionale o sopranazionale le persone affette da malattie rare. Nel caso di tumori
rari, per esempio, molti registri non forniscono dati sufficienti a classificare questi tumori, nonostante la
disponibilità di materiale anatomopatologico proveniente dai reperti operatori.
Per la loro rarità, queste malattie sono difficili da diagnosticare e, spesso, sono pochi i Centri specializzati
nella diagnosi e nella cura; per molte di esse, inoltre, non esistono ancora terapie efficaci. Se prendiamo
ad esempio la malattia di Fabry, una patologia da accumulo lisosomiale, dati pubblicati in letteratura
riportano che la misdiagnosi è comune e il ritardo medio di una diagnosi corretta rispetto all’esordio
dei sintomi è di circa quattordici anni nei maschi e sedici anni nelle femmine. Quindi, in assenza di un
precedente familiare che abbia già avuto una diagnosi definitiva di malattia di Fabry, molti casi non sono
diagnosticati prima dell’età adulta (età media 29 anni) quando la malattia può avere raggiunto uno stadio
già avanzato.
Le informazioni sia sulla malattia che sulle sedi in cui sia possibile ricevere aiuto sono carenti e mancano
figure professionali qualificate che possano fungere da riferimento. Lo stesso ragionamento vale per le
conoscenze scientifiche, la cui scarsità si concretizza nella difficoltà di sviluppare una corretta strategia
terapeutica e nel reperire sia prodotti farmaceutici che apparecchiature mediche appropriate. I pazienti
possono vivere per diversi anni in situazioni precarie senza attenzioni mediche adeguate e rimanere
esclusi dall’assistenza del sistema sanitario nazionale perfino una volta ottenuta la diagnosi. Inoltre, le
cure innovative sono spesso diversamente accessibili nei paesi dell’unione europea a causa dei ritardi
nel determinare il prezzo dei farmaci e/o nelle decisioni relative alla rimborsabilità, della scarsa familiarità
con queste terapie da parte dei medici che trattano i pazienti (numero insufficiente di medici coinvolti nei
trial) e dell’assenza di linee guida o raccomandazioni relativi al trattamento.
Vivere con una malattia rara ha implicazioni in ogni campo della vita quotidiana e di relazione: nella
scuola, nella scelta della professione, nel tempo libero con gli amici o nella vita affettiva. Può condurre
all’isolamento sociale, esclusione dalla comunità, discriminazioni a fini assicurativi e spesso a opportunità
professionali ridotte (quando non del tutto irrilevanti).
Sebbene il numero di malattie rare conosciute sia ancora molto limitato, è possibile iniziare a parlare di
risveglio di alcune parti dell’opinione pubblica e, di conseguenza, alcune azioni sono state intraprese
dalle autorità pubbliche.
In Italia, il Piano Sanitario Nazionale (PSN) 1998-2000 indicava fra le priorità la "tutela dei soggetti affetti
da malattie rare" e tra gli interventi prioritari la realizzazione di una rete nazionale delle malattie rare.
Nel maggio 2001 è stato emanato il Decreto Ministeriale 279/2001 "Regolamento di istituzione della
rete nazionale delle malattie rare e di esenzione dalla partecipazione al costo delle relative prestazioni
sanitarie, ai sensi dell'articolo 5, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 29 aprile 1998, n. 124".
A partire dal 2001 le Regioni hanno iniziato a individuare i Presidi per l'assistenza ai pazienti affetti da
malattie rare e attualmente le reti regionali sono individuate su buona parte del territorio nazionale.
Dal Luglio 2002 è stato istituito nell'ambito della conferenza Stato-Regioni un gruppo tecnico
interregionale permanente, al quale partecipano il Ministero della Salute e l'ISS, il cui obiettivo è
rappresentato dall'ottimizzazione del funzionamento delle reti regionali e dalla salvaguardia del principio
di equità dell'assistenza per tutti i cittadini.
Il 10 maggio 2007 è stato siglato il secondo accordo tra il Governo, le Regioni e le Province autonome di
Trento e Bolzano sul riconoscimento di Centri di coordinamento regionali e/o interregionali, di Presidi
assistenziali sovraregionali per le patologie a bassa prevalenza e sull'attivazione dei registri regionali ed
interregionali delle malattie rare.
Nell’ottobre del 2004, il documento introduttivo sulle malattie orfane per il rapporto dell’Organizzazione
RELAZIONI
PRIMA SESSIONE
67
Mondiale della Sanità sulle politiche sanitarie prioritarie nell’UE e nel mondo affermava che, malgrado
la crescente consapevolezza pubblica sulle malattie rare negli ultimi due decenni, ci sono ancora molte
lacune relativamente alle conoscenze necessarie per lo sviluppo di trattamenti per le malattie rare. I
politici devono comprendere che le malattie rare sono un problema sanitario cruciale per circa 30 milioni
di persone in Europa.
Il programma 2008-2013 di salute pubblica dell’UE continuerà a considerare gli aspetti delle malattie rare
come una delle principali priorità.
Per quelle malattie rare, per le quali sia disponibile un trattamento preventivo semplice, è di grande
importanza pensare a uno screening neonatale. Qualcosa si sta facendo nell’ambito delle malattie
metaboliche ereditarie. Nella Regione Toscana, attualmente, viene eseguito per legge lo “Screening
Neonatale Metabolico Allargato”con l’ausilio di una speciale apparecchiatura - Tandem-mass spettrometria
- che consente di individuare, a poche ore dalla nascita, circa quaranta malattie metaboliche ereditarie,
suscettibili di trattamento dietetico o farmacologico, ritardando così il più possibile l’evoluzione della
malattia e quindi il danno irreversibile di organi ed apparati.
Lo screening neonatale metabolico allargato permette:
il riconoscimento in fase pre-clinica di una malattia potenzialmente letale o comunque gravemente
invalidante;
il trattamento immediato della patologia metabolica laddove disponibile un trattamento;
di evitare l’insorgere dello scompenso metabolico acuto che rappresenta la principale causa di morte di
queste patologie.
Il 30 aprile 2008 è stato presentato il Disegno di Legge n. 288, “Norme in materia di diagnosi precoci
neonatali obbligatorie”:tra gli obiettivi si trova quello di diagnosticare, in tempo utile, malattie per le quali
è oggi possibile effettuare una terapia. Tale disegno di legge ha origine dalla stessa Ricerca comunitaria del
maggio 2004 della Commissione europea che, nell’emanare le venticinque raccomandazioni concernenti
le implicazioni etiche, giuridiche e sociali dei test genetici, nella raccomandazione 18, relativa alle malattie
rare, raccomanda che gli Stati membri istituiscano in via prioritaria uno screening neonatale generalizzato
per le malattie rare ma gravi, per le quali esista una cura.
Il crescente impegno del mondo politico nei confronti di questo tema è dimostrato anche dall’impegno
della XV legislatura italiana nei riguardi delle malattie rare che ha riempito l’agenda politica, grazie
ad una serie di interventi mirati a sviluppare la rete di assistenza per le malattie rare. Infatti, in data 5
giugno 2007, si è insediata presso il Ministero della salute la Consulta per le malattie rare, composta da 34
rappresentanti di varie realtà associative, ma soprattutto la legge finanziaria 2008 ha introdotto le risorse
economiche, tre milioni di euro, per poter effettuare la diagnosi precoce a tutta la popolazione neonatale.
Visto lo stanziamento, manca solo il provvedimento che ne stabilisca l’obbligatorietà.
68
RELAZIONI
PRIMA SESSIONE
THE LINKS BETWEEN ASTHMA AND RESPIRATORY INFECTIONS
G. Piedimonte
West Virginia University School of Medicine, WVU Children’s Hospital
A number of studies have implicated viral lower respiratory tract infections early in life as a risk factor for
the subsequent development of asthma (1). In particular, it has been suggested that respiratory syncytial
virus (RSV) infection may enhance the development of “allergic” inflammatory responses when the
host is exposed to allergens after an episode of bronchiolitis. Some predisposing conditions frequently
associated with severe RSV disease are also independent risk factors for chronic airway dysfunction:
preterm birth per se is known to result in persistent alterations of lung function (2, 3) and chronic lung
disease of prematurity (CLD) is associated with the development of obstructive lung disease and airway
hyperreactivity (4). This lecture will review new hypotheses concerning the mechanisms involved in the
pathogenesis of childhood asthma.
RELAZIONI
PRIMA SESSIONE
69
TRAPIANTO DI FEGATO PEDIATRICO
G. Mieli Vergani, A. Mowat
Institute of Liver Studies - King’s College Hospital, Denmark Hill, London
Il trapianto di fegato e’ divenuto un trattamento standard in pediatria all’inizio degli anni 90. Le
indicazioni per il trapianto di fegato pediatrico comprendono epatopatie croniche scompensate di varia
eziologia (per esempio atresia delle vie biliari dopo una enterostomia di Kasai che non ha avuto successo,
deficienza di alfa 1 anti-tripsina, colangite sclerosante, colestasi progressive familiari, malattia di Wilson,
epatite autoimmune, fibrosi cistica, ecc); gravi malattie metaboliche incompatibili con una vita normale
e dovute a difetti enzimatici confinati solo o soprattutto al fegato (per esempio sindrome di Crigler
Najjar tipo 1, ipercolesterolemia familiare, acidemia propionica, difetti del ciclo dell’urea, ecc); tumori che
rispondono alla chemioterapia ma rimagono inoperabili; insufficienza epatica acuta; complicazioni di
malattie eaptiche croniche associate a povera qualita’ di vita (per esempio prurito e xantomatosi nella
sindrome di Alagille). In pediatria, la decisione di procedure a trapianto non e’ presa solo sulla base di una
diminuita possibilita’ di sopravvivenza, ma anche sulla necessita’ per il bambino di crescere, di studiare e
di vivere normalmente, completamente integrato nella societa’. Il bambino e la famiglia hanno bisogno
di accurati accertamenti medici e psicologici prima che il bimbo sia messo in lista per trapianto e devono
essere pronti ad accettare la dipendenza dalla struttura sanitaria per molti anni a venire.
Durante gli ultimi 20 anni, ci sono state numerose innovazioni tecniche che hanno migliorato in modo
drammatico la disponibilita’ ed la prognosi del trapianto epatico pediatrico: trapianti con fegato ridotto,
split e da donatore vivente hanno aumentato il pool di organi per bambini di tutte le eta’ e dimensioni.
Particolarmente eccitante e’ la procedura del trapianto ausiliario, che permette di correggere malattie
metaboliche con gravi effetti sistemici, ma associate ad una normale funzionalita’ epatica, come la
sindrome di Crigler Najjar tipo 1 or l’ipercolesterolemia familiare, senza i rischi associati ad un trapianto di
organo intero, e di offrire a pazienti con insufficienza epatica acuta un periodo ponte per una guarigione
del loro fegato nativo, evitando cosi’ la necessita’ dell’uso di farmaci anti rigetto a lungo termine.
Una nuova tecnica e’ il trapianto di epatociti, attualmente sperimentata in centri specializzati per la cura
parziale di difetto metabolici come la sindrome di Crigler Najjar tipo 1, la deficienza di fattore VII, i difetti
del ciclo dell’urea e la glicogenosi di tipo 1. In via di sperimentazione e’ anche il trapianto di epatociti per
bimbi con colestasi familiare progressiva o insufficienza epatica acuta.
Sebbene il trapianto di fegato abbia diminuito drasticamente la mortalita’ delle malattie epatiche in eta’
pediatrica, e’ importante ricordare che non porta ad una completa ‘guarigione’. Infatti, avere il fegato di
un’ altra persona e di per se una ‘malattia’. Vi sono numerose possibili complicazioni a breve termine:
infezioni, disfunzione renale, malattie dermatologiche, linfoma correlato ad infezione con virus di Epstein
Barr, cardiomiopatie, diabete, malattie autoimmuni. Inoltre vi sono molte possibili complicazioni a
lungo termine: insufficienza renale cronica, cancro, epatopatia cronica che puo’ portare ad un ulteriore
trapianto.
Una delle cause piu’ comuni di disfunzione epatica, particolarmente negli adolescenti e giovani adulti,
che porta alla perdita dell’organo trapiantato e’ la mancanza di aderenza alla terapia anti-rigetto.
70
RELAZIONI
PRIMA SESSIONE
VIRUS EPATOTROPICI ED AUTOIMMUNITÀ
D. Vergani
Institute of Liver Studies - King’s College Hospital, Denmark Hill, London
Tra i virus epatotropici, quello piu chiaramente associato a manifestazioni autoimmuni e’ il virus dell’epatite
C (HCV). Alla base di queste manifestazioni e’ la presenza sui linfociti B della molecola CD81, il recettore
principale per l’HCV. La molecola CD81 e’ una tetraspanina che ha come legante naturale la proteina
enveloppe 2 del virus (E2). Strettamente associate al CD81 sono le proteine specifiche del linfocita B,
CD21 e CD19. CD21 e’ il recettore per il frammento del complemento C3d, mentre CD19 transduce
segnali di attivazione all’interno della cellula. Quando l’HCV, ricoperto da C3d, si lega a CD81, la soglia
per l’attivazione policlonale dei linfociti B si abbassa e questo risulta nella produzione di autoanticorpi e
crioglobuline. Altri fattori comunque devono essere coinvolti nell’espressione clinica di questi fenomeni
dal momento che un’alta proporzione di pazienti con autoanticorpi non sviluppa crioglobuline.
Autoanticorpi non organo specifici sono stati descritti consistentemente nella infezione cronica da
HCV con prevalenze riportate fino al 70%. Gli autoanticorpi piu’ frequentemente riscontrati sono l’anti
muscolatura liscia (SMA), a cui segue in ordine di frequenza l’anti nucleo (ANA) e, in una minoranza di casi,
l’anti liver kidney microsomal di tipo 1 (anti-LKM1).
Il pattern all’immunofluorescenza dello SMA nella epatite C e’ diverso da quello dell’actina, tipico
dall’epatite autoimmune di tipo 1, e l’ANA solitamente e’ non omogeneo ma speckeld. In contrasto, il
pattern all’immunofluorescenza dell’ anti-LKM1 non e’ distinguibile da quello dell’epatite autoimmune di
tipo 2. I bersagli molecolari di ANA e SMA sono sconosciuti, mentre quello dell’anti-LKM1 e’ il citocromo
P4502D6 (CYP2D6).
In soggetti infetti da HCV la presenza di autoanticorpi e’ associata a danno epatico. Durante uno screening
per la presenza di segni clinici e/o laboratoristici di malattia di fegato in una popolazione non selezionata
di 7.000 soggetti, 226 furono trovati positivi per marcatori dell’HCV. Autoanticorpi non organo specifici
erano presenti nel 25% di questo gruppo, una prevalenza molto piu’ elevata di quella riscontrata in 226
soggetti non infetti dall’HCV, ma simili caratteristiche demografiche. La presenza di autoanticorpi era
significativamente associata con segni di malattia epatica sia clinici che di laboratorio.
Positivita’ per anti-LKM1 e’ stato ripetutatmente descritta in associazione allo sviluppo di effetti collaterali
durante la somministrazione di interferone, in particolare e’ stato comunemente descritto un flare delle
transaminasi, che puo’ portare alla necessita’ di sospendere il trattamento.
Recentemente, e’stato dimostrato che pazienti HCV positivi con anti-LKM1 hanno un rischio di sviluppare
tiroidite 10 volte piu’ elevato che quelli senza anti-LKM1.
Diversi sono i possibili meccanismi alla base delle manifestazioni autoimmuni in corso di infezione
HCV, anche se il mimetismo molecolare sembra essere il piu’ probabile essendo supportato da dati
sperimentali.
RELAZIONI
PRIMA SESSIONE
71
ATTUALITÀ SULLE VACCINAZIONI
A.G. Ugazio
Dipartimento di Medicina pediatrica Ospedale Bambino Gesù
lo sviluppo di nuovi vaccini sembrava essersi arrestato fino agli anni 90 dello scorso secolo, ma da allora
stiamo assistendo ad una crescente accelerazione delle ricerche di base, applicative ed alla produzione
di nuovi vaccini.
C’è alla base, certamente, la crescente consapevolezza che l’uso degli antibiotici genera resistenze, che la
produzione di nuovi antibiotici richiede sempre più tempo ed investimenti. Anche in termini meramente
economici, prevenire è meglio che curare.
Abbiamo assistito così alla nascita e stiamo assistendo allo sviluppo dei vaccini polisaccaridici coniugati:
dopo quello diretto contro i polisaccaridi dello Haemophilus influenzae, i vaccini antipneumococcico
e antimeningococcico. Attualmente non disponiamo di un vaccino polisaccaridico coniugato contro il
meningococco di tipo B che in questi ultimi anni ha superato il meningococco di tipo C come causa
principale di meningite meningococcica (fig.1).
Figura 1. Numero di casi di meningite meningococcica in Italia per anno dal 2002 al 2008
Grazie agli sviluppi di tecnologie basate sul DNA ricombinante (“riverse vaccinology”) è però già iniziata
la sperimentazione di un nuovo vaccino diretto contro il meningococco di tipo B e basato sull’impiego di
5 proteine ottenute dal DNA ricombinato (fig.2).
72
RELAZIONI
PRIMA SESSIONE
Figura 2. 5CVMB (Vaccino a 5 componenti contro il meningococco di gruppo B) Giuliani M.M. et Al., 2006
Quanto al vaccino antipneumococcico coniugato eptavalente contro lo pneumococco si è dimostrato
estremamente efficace e sicuro nella prevenzione delle malattie invasive del bambino (meningite, sepsi,
polmonite batteriemica e batteriemia febbrile).
Studi più recenti su ampie popolazioni, condotti soprattutto in Nord America, hanno dimostrato che il
vaccino è molto efficace anche nella prevenzione delle polmoniti e otiti medie acute pneumococciche.
Lo studio di ampie popolazioni ha inoltre dimostrato che la vaccinazione genera un rilevante “effetto
gregge” (herd immunity) proteggendo dalla polmonite in misura assai significativa anche gli anziani non
vaccinati. Riducendo drasticamente i sierotipi maggiormente circolanti, la vaccinazione ha anche ridotto
in misura significativa l’antibiotico resistenza. Unica preoccupazione sostanziale è quella che i sierotipi
attualmente più frequenti possano venir rimpiazzati come causa di malattia da altri sierotipi attualmente
più rari. I dati disponibili suggeriscono che questo fenomeno può essere favorito dalla vaccinazione su
larga scala e limitare, sia pure in misura assai modesta, l’efficacia complessiva della vaccinazione.
In realtà è ormai prossimo alla commercializzazione un vaccino 13-valente che comprende i sierotipi
frequenti nel nostro paese ma assenti dalla formulazione eptavalente.
Ha certamente rappresentato una autentica sorpresa il rapidissimo sviluppo del vaccino diretto contro
alcuni tipi di HPV, in particolare contro quelli maggiormente cancerogeni. L’impiego su larga scala di
questo vaccino è destinato a ridurre in misura sostanziale il cancro della cervice uterina. Numerosi altri
vaccini verranno resi disponibili nel prossimo futuro. Un vaccino anti-influenzale con virus vivo attenuato
somministrabile per via nasale, un vaccino tetravalente diretto contro morbillo, rosolia, parotite e
varicella…In particolare il vaccino antinfluenzale con virus vivo attenuato si è ormai ampiamente
dimostrato più efficace del vaccino inattivato che solitamente utilizziamo (fig.3).
RELAZIONI
PRIMA SESSIONE
73
Figura 3. Efficacia del vaccino antinfluenzale con virus vivi attenuati in confronto a quella del vaccino inattivato (Robert B.
Belshe et al. N Engl J. Med 356, 7; 2007)
Purtroppo questo vaccino è stato sperimentato soltanto nei bambini di età superiore ai 5 anni. Certamente,
se si dimostrasse efficace anche al di sotto di tale età, essendo per giunta somministrabile per spray nasale,
quindi senza necessità di iniezione alcuna, riproporrebbe in termini assai meglio praticabili l’opportunità
di una vaccinazione universale anche in età pediatrica.
La WHO stima che nel 2015 disporremo di un numero di vaccini doppio rispetto a quello di cui disponiamo
oggi. Dai nuovi vaccini ci aspettiamo soprattutto armi efficaci in grado di proteggere i bambini poveri del
mondo dai microrganismi che ancora mietono ogni anno milioni di vittime: la malaria, la tubercolosi e
l’HIV.
SECONDA SESSIONE
29 NOVEMBRE 2008
Presidenti: Pasquale Di Pietro, Claudio Fabris
Moderatori: Gerardo Chirichiello, Franco Messina, Luigi Orfeo, Gennaro Vetrano
Momenti congressuali
RELAZIONI
SECONDA SESSIONE
75
IL CORRETTO USO DEGLI ANTIBIOTICI IN TERAPIA INTENSIVA NEONATALE
M. Stronati, A. Borghesi
Neonatologia, Patologia Neonatale e Terapia Intensiva, Fondazione IRCCS Policlinico San Matteo, Pavia
Le infezioni costituiscono una delle principali cause di mortalità in epoca neonatale, e rappresentano la
causa di oltre due milioni di decessi ogni anno. Gli antibiotici sono l’arma più efficace a nostra disposizione
contro le infezioni, ma la loro somministrazione empirica e prolungata ad ampio spettro seleziona ceppi
batterici resistenti e favorisce l’insorgenza di infezioni fungine (1). Gli antibiotici sono ancora oggi i
farmaci più utilizzati in Terapia Intensiva Neonatale (UTIN) (2), e, nei paesi industrializzati, circa l’1% dei
neonati è sottoposto ad antibioticoterapia; si rende quindi necessario mettere in atto precise strategie
per prevenire e ridurre il fenomeno dell’antibioticoresistenza.
Il neonatologo di fronte al solo sospetto di una grave infezione neonatale ha l’esigenza di non somministrare
antibiotici non necessari per evitare il possibile sviluppo di resistenze, ma nello stesso tempo deve tener
presente che una grave infezione non trattata tempestivamente può avere conseguenze devastanti.
L’atteggiamento oggi ritenuto più corretto e confermato recentemente da Isaacs è quello di iniziare una
terapia empirica ogni qual volta vi sia il sospetto di una grave infezione, e di sospenderla non appena
questa possa essere esclusa (dopo 48-72 ore) (1, 3-4). È raccomandabile inoltre utilizzare antibiotici a
spettro ristretto quando possibile, e ad ampio spettro soltanto in pazienti selezionati; inoltre è necessario
tenere sempre in considerazione le caratteristiche del farmaco e le peculiarità cliniche del paziente.
Le sepsi early-onset (ad insorgenza nelle prime 72 ore di vita) sono causate più frequentemente da
microrganismi quali streptococchi di gruppo B, enterococchi, Enterobacteriaceae e Listeria monocytogenes,
ma comunque è necessario prendere sempre in considerazione l’eventuale microrganismo causa di
infezione materna.
Mtitimila e Cooke, in una meta-analisi Cochrane (5), hanno individuato solamente due piccoli studi che
hanno messo a confronto diversi regimi di terapia antibiotica (Timentin vs Piperacillina/Gentamicina e
Ceftazidime vs Benzilpenicillina/Gentamicina) per le sepsi neonatali early-onset, e concludono che non
esiste evidenza sufficiente per raccomandare una associazione antibiotica piuttosto che un’altra. Tuttavia
la maggior parte degli Autori sono concordi nell’affermare che l’associazione empirica da preferire nelle
sepsi early-onset è una penicillina o una penicillina semisintetica (ampicillina) con un aminoglicoside dal
momento che l’associazione risulta efficace nei confronti dei microrganismi più frequentemente isolati
(4).
Le sepsi late-onset (ad insorgenza dopo le prime 72 ore di vita, e a patogenesi nosocomiale) sono più
spesso causate da microrganismi quali gli stafilococchi coagulasi negativi (CONS), Enterobacteroaceae,
Pseudomonas e funghi. Per la scelta degli antibiotici è opportuno tener presente l’ecologia batterica del
proprio reparto e lo spettro di sensibilità dei microrganismi più comunemente isolati.
Gordon e Jeffery, in una meta-analisi Cochrane, non hanno individuato dati sufficienti per raccomandare
un determinato regime antibiotico (6). La maggior parte degli Autori sono concordi nell’utilizzare
un aminoglicoside associato ad una penicillina antistafilococcica (oxacillina, flucloxacillina, ecc.) in
associazione con un aminoglicoside e riservare la vancomicina associata ad un aminoglicoside ai casi di
infezione causata da stafilococchi meticillino-resistenti (MRSA) (1).
I dati della letteratura mettono in luce come l’uso prolungato e inappropriato degli antibiotici continui
ad essere diffuso nelle UTIN.
Grohskopf et al. (7) hanno effettuato uno studio per valutare l’utilizzo degli antibiotici nelle terapie
intensive neonatali e hanno quindi condotto una indagine di prevalenza in collaborazione con il Pediatric
Prevention Network per il progetto ICARE (Intensive Care Antimicrobial Resistance Epidemiology) in 29
UTIN. Il 54% dei neonati era in terapia antimicrobica; in particolare il 22, 7% riceveva 1 antimicrobico,
il 58, 5% ne riceveva 2, il 15, 5% ne riceveva 3, il 2, 9% ne riceveva 4 e lo 0, 4% ne riceveva 5 (7). In
tale studio l’antibiotico più utilizzato era la gentamicina (22, 3% dei pazienti), seguito da ampicillina (20,
76
RELAZIONI
SECONDA SESSIONE
4%), vancomicina (10, 9%), cefotaxime (6, 6%), tobramicina (3, 1%); l’associazione più frequente è stata
ampicillina/gentamicina (15, 5% dei pazienti), seguita da vancomicina/gentamicina (3, 8%) e ampicillina/
cefotaxime (2, 3%). Gli antibiotici in UTIN possono essere utilizzati come profilassi (definita come terapia
volta a prevenire un’infezione in un paziente sottoposto a intervento chirurgico o a procedure invasive),
come terapia mirata (terapia basata sui risultati delle emocolture e dell’antibiogramma) o come terapia
empirica (definita come terapia basata su segni e sintomi, in assenza di esami colturali o prima che
questi siano disponibili). Nell’indagine del Pediatric Prevention Network la prescrizione di gentamicina,
ampicillina, cefotaxime, tobramicina, metronidazolo e nistatina avveniva prevalentemente su base
empirica; l’uso di ceftazidime, amfotericina B, oxacillina e nafcillina era prevalentemente come terapia
mirata; l’uso dell’amoxicillina avveniva prevalentemente per profilassi. La vancomicina era prescritta nel
55% dei casi su base empirica.
In uno studio (8) condotto su 6956 neonati di peso molto basso alla nascita (VLBW) ricoverati tra il
1998 ed il 2000 nei centri che aderiscono al National Institute of Child Health and Human Development
(NICHD) Neonatal Research Network complessivamente il 56% di tutti i neonati inclusi nello studio ha
ricevuto almeno 1 ciclo di terapia antibiotica iniziato dopo la 3° giornata di vita, nonostante episodi di
sepsi tardiva dimostrati dalla positività di una emocoltura siano stati registrati soltanto nel 21% di tutti i
pazienti inclusi. Gli antibiotici più utilizzati sono stati gentamicina, vancomicina, cefotaxime, ampicillina
e tobramicina, ed il 44% di tutti i neonati inclusi nello studio ha ricevuto vancomicina dopo il 3° giorno di
vita. L’uso della vancomicina è stato tanto maggiore quanto più basso era il peso alla nascita (401-500 g,
78%; 501-750 g, 75%; 751-1000 g, 60%; 1001-1250 g, 36%; 1251-1500 g, 18%); il 93% dei pazienti con sepsi
microbiologica ha ricevuto la vancomicina, ma anche il 30% dei pazienti senza una infezione dimostrata
ha ricevuto lo stesso antibiotico.
Un recente studio basato su database elettronici di 56 diverse UTIN negli USA ha dimostrato una grande
variabilità nell’uso della vancomicina nelle diverse UTIN. In tale studio la percentuale di pazienti trattati
con vancomicina variava dal 18 al 70% (9).
Gli Stafilococchi coagulasi negativi (CONS) sono i principali agenti eziologici delle sepsi late-onset in
UTIN, e sempre più frequentemente sono segnalati ceppi di CONS resistenti ai β-lattamici, per i quali è
necessario utilizzare antibiotici quali i glicopeptidi. D’altra parte l’uso della vancomicina è un importante
fattore di rischio per l’emergenza di microrganismi resistenti (enterococco e S. aureus vancomicinoresistenti) (10) e per tale motivo i Centers for Disease Control and Prevention (CDC) (11) raccomandano
di evitarne l’uso su base empirica e di limitarne la somministrazione ai pazienti con infezione causata da
microrganismi con dimostrata resistenza alle penicilline.
Lawrence et al. (10), in uno studio retrospettivo hanno valutato gli effetti dell’uso in prima intenzione di
un regime costituito da vancomicina e gentamicina (utilizzato nella loro terapia intensiva tra gennaio e
dicembre 1999=periodo 1) rispetto a un regime costituito da cloxacillina e gentamicina (tra aprile 2000 e
marzo 2001=periodo 2) per le sepsi da CONS; durante il 2° periodo, la cloxacillina poteva essere sostituita
dalla vancomicina qualora l’antibiogramma dimostrasse un’infezione da parte di un microrganismo
resistente. Nel loro studio non si è potuta osservare alcuna differenza tra il primo ed il secondo periodo
nella durata della sepsi (3, 6+2, 5 vs 3, 4+3, 0 giorni); nel primo periodo non si sono registrati casi di
morte associata a sepsi da CONS, mentre nel secondo periodo è stato registrato un solo caso di morte
attribuibile alla sepsi da CONS. Gli Autori concludono che la limitazione dell’uso della vancomicina ai
casi di sepsi da CONS resistenti all’oxacillina è sicuro, efficace, ed è in grado di ridurre significativamente
l’utilizzo di tale antibiotico in UTIN.
La sempre maggiore diffusione all’interno delle UTIN di microrganismi resistenti agli antibiotici
comunemente utilizzati è riportata in letteratura anche per bacilli gram-negativi, in particolare quelli
produttori di ESBL (Extended Spectrum β-lactamase) che trovano nel tratto gastroenterico dei neonati
ricoverati il reservoir (12). La persistenza di tali microrganismi multiresistenti e la loro trasmissione
da paziente a paziente è favorita dalla scarsa igiene delle mani da parte del personale sanitario, dalla
RELAZIONI
SECONDA SESSIONE
77
contaminazione di oggetti inanimati, e dall’eccessivo uso degli antibiotici ad ampio spettro.
In uno studio prospettico di sorveglianza (13) condotto tra gennaio 2003 e gennaio 2004 il 55, 2%
dei neonati ricoverati è risultato colonizzato da bacilli gram-negativi multiresistenti. Gli antibiotici più
utilizzati erano Ampicillina/sulbactam e gentamicina (somministrati per un tempo medio rispettivamente
di 9, 2 giorni e 6, 8 giorni). La durata dell’esposizione di entrambi gli antibiotici presi singolarmente non
differiva significativamente tra neonati colonizzati da microrganismi multiresistenti, neonati colonizzati
da microrganismi sensibili agli antibiotici, e neonati non colonizzati. Tuttavia, considerando i giorni
complessivi di esposizione a qualsiasi antibiotico, la durata totale di esposizione era significativamente
maggiore nei neonati colonizzati da microrganismi multiresistenti rispetto alla durata di esposizione in
neonati non colonizzati o colonizzati da microrganismi sensibili (8, 0 giorni vs 5, 5 vs 2, 3; P<0, 1).
De Man et al. (14) in uno studio su 436 neonati hanno dimostrato che l’uso empirico di antibiotici ad ampio
spettro (amoxicillina-cefotaxime) seleziona più ceppi resistenti rispetto a regimi antibiotici costituiti da
una penicillina (Penicillina G o flucloxacillina) e tobramicina (41 casi di colonizzazione da parte di batteri
resistenti vs 3 casi, P<0, 0001).
Calil et al. (15) riportano un riduzione della colonizzazione dal 32% al 10, 8% e delle infezioni nosocomiali
da 18 a 2 casi/anno causate da batteri multiresistenti dopo l’attuazione di un programma educativo e la
sospensione dell’uso delle cefalosporine di terza generazione.
In un recente studio retrospettivo Clark et al. (2) hanno messo a confronto neonati con sospetta sepsi earlyonset trattati con ampicillina-cefotaxime e neonati trattati con ampicillina-gentamicina. La regressione
logistica multivariata identificava nel trattamento con ampicillina-cefotaxime un fattore di rischio
indipendentemente associato a morte prima della dimissione, anche se gli Autori stessi sottolineano che
non è possibile escludere che il risultato sia stato alterato da vizi di selezione dei pazienti.
Le et al. riportano una riduzione significativa delle infezioni causate da ceppi produttori di ESBL dopo
introduzione di un regime empirico costituito da vancomicina e tobramicina al posto di un regime
precedentemente usato costituito da vancomicina e cefotaxime (7, 8 vs 0, 8%, P=0, 008) (16).
Numerosi lavori hanno dimostrato che l’eccessivo uso di cefalosporine di 3° generazione aumenta il
rischio di infezioni fungine invasive.
Recentemente Cotten et al. (17) in uno studio su 3702 neonati ELBW hanno studiato il ruolo dell’uso
di antibiotici ad ampio spettro e della durata della terapia come fattori responsabili della differenza di
incidenza di candidiasi invasiva tra diversi centri. Nella loro indagine la differenza di incidenza di candidiasi
invasiva è correlabile alla durata dell’esposizione alle cefalosporine di 3° generazione (coefficiente di
correlazione 0, 67, P=0, 017).
Numerosi studi in vivo ed in vitro hanno dimostrato che l’utilizzo di carbapenemi (imipenem, carbapenem)
e delle cefalosporine di 3° generazione per brevi periodi è in grado di fornire copertura e protezione verso
un’ampia gamma di microrganismi, ma il loro uso intensivo e prolungato esercita una forte pressione
selettiva sui microrganismi favorendo la comparsa di ceppi produttori di β-lattamasi e multiresistenti;
non è pertanto raccomandabile iniziare un trattamento empirico della sepsi neonatale con cefalosporine
di 3° generazione o carbapenemici, ed è necessario limitare il loro utilizzo a peculiari situazioni cliniche (1)
anche se l’uso di una cefalosporina di 3° generazione in sinergia con un aminoglicoside può, in selezionati
casi, rappresentare una opzione terapeutica ragionevole.
In particolare le cefalosporine di 3° generazione, attive contro numerosi batteri gram-negativi, raggiungono
molto più facilmente e molto più velocemente concentrazioni terapeutiche nel liquor cefalorachidiano
(concentrazioni da 50 a 100 volte superiori alla MIC) rispetto ad altri antibiotici quali gli aminoglicosidi
(che nel liquor raggiungono concentrazioni circa 2, 5 volte superiori alla MIC) e possono quindi migliorare
la prognosi (18); in caso di meningite, in attesa degli esami colturali, può essere giustificato l’uso di una
tripla associazione: ampicillina/aminoglicoside/cefalosporina di 3° generazione (18-19).
L’uso dei carbapenemici andrebbe riservato, alla luce dei risultati colturali e dell’antibiogramma, a quelle
forme infettive causate da microrganismi resistenti ad altri regimi antibiotici. Oltre all’imipenem e al
78
RELAZIONI
SECONDA SESSIONE
meropenem ricordiamo l’ertapenem somministrato in monodose giornaliera il cui uso in epoca neonatale
è raro (4).
Un nuovo antibiotico, il Linezolid, appartenente alla classe degli oxazolidinoni, ha la stessa efficacia della
vancomicina nei confronti dei microrganismi resistenti ai β-lattamici ed è ben tollerato anche in età
neonatale, anche se il suo utilizzo in UTIN è ancora oggetto di studio in trials clinici (20).
L’uso di antibiotici “in rotazione” per ridurre il reservoir di batteri resistenti all’interno delle UTIN è stato
studiato da Toltzis et al. (21). Tuttavia gli Autori non hanno potuto osservare differenze di incidenza di
colonizzazione da parte di batteri resistenti tra il gruppo trattato ed il gruppo di controllo (55% vs 42%,
P=0, 09).
La profilassi antibiotica di neonati a rischio infettivo è stata oggetto di numerosi studi, ed in molti casi non
viene oggi considerata corretta.
In particolare, la somministrazione di antibiotici per via sistemica non sembra ridurre l’incidenza delle
infezioni legate a CVC (22), ed è fortemente sconsigliato dalle linee guida del 2002 dell’Hospital Infection
Control Policy Advisory Comitee dei CDC (23).
Cinque trials clinici presi in considerazione da una meta-analisi Cochrane (24) hanno valutato l’utilizzo
della vancomicina per la profilassi delle infezioni nosocomiali in pazienti portatori di Catetere Venoso
Centrale (CVC). Dati i minimi benefici clinicamente importanti, ed il rischio (teorico, ma non dimostrato)
della comparsa di ceppi batterici resistenti, gli Autori sconsigliano l’uso di routine della profilassi con
vancomicina.
Un approccio alternativo per la profilassi “locale” delle infezioni legate al CVC è la tecnica “antibiotic flush”
o “antibiotic lock”.
In un trial clinico prospettico randomizzato su 90 neonati (22), 0, 4 ml di soluzione fisiologica eparinata
contenente vancomicina (25mcg/ml) venivano instillati due volte al giorno nel catetere e lasciati in sede
per 20 minuti, quindi erano aspirati, ed il catetere veniva lavato con soluzione fisiologica. Gli autori hanno
potuto registrare una significativa differenza di incidenza tra il gruppo trattato ed il gruppo non trattato
(24, 9 vs 8, 2/1000 cateteri-giorno, RR 0, 33; 95% CI:0, 12-0, 80; P=0, 004) e non si è osservato un impatto
della profilassi sulla colonizzazione o infezione da parte di enterococchi o stafilococchi vancomicinaresistenti.
Benché vi sia iniziale evidenza dell’efficacia di tale tecnica nella profilassi delle sepsi CVC-correlate, è
necessario che i risultati vengano confermati da trials clinici randomizzati controllati perché possa essere
validata. Rimangono infatti aperte alcune problematiche; è necessario ancora definire con precisione: 1)
quali debbano essere i tempi ottimali di permanenza dell’antibiotico nel CVC, 2) l’esistenza di eventuali
incompatibilità tra l’antibiotico utilizzato e l’eparina, 3) se esista la possibilità che parte dell’antibiotico
rimanga legato al catetere perdendo la sua efficacia o passando nel torrente circolatorio durante le fasi
di lavaggio del catetere, ed infine 4) i rischi di emergenza di resistenze all’antibiotico e 5) di tossicità dei
farmaci utilizzati (25).
Particolarmente discussa oggi è l’utilità della profilassi antifungina, che si è dimostrata efficace per la
prevenzione della candidiasi invasiva nei neonati VLBW o ELBW.
Una revisione Cochrane sulla profilassi orale con antifungini prende in considerazione 3 studi che hanno
valutato rispettivamente l’uso di nistatina orale vs nessun trattamento, miconazolo orale vs placebo
o fluconazolo orale vs nistatina orale. Gli autori della review concludono che in assenza di trials clinici
randomizzati controllati non c’è sufficiente evidenza per consigliare la profilassi orale con antifungini nei
neonati VLBW (26).
Un recente studio condotto da Ozturk et al. su 3991 neonati ricoverati in UTIN ha valutato l’effetto
della profilassi orale con nistatina in neonati ricoverati in UTIN; gli Autori hanno potuto riscontrare una
significativa differenza di incidenza di candidiasi invasiva tra i tre gruppi di neonati: non trattati, trattati
solo se identificati come colonizzati, o trattati indipendentemente dalla colonizzazione (rispettivamente
14, 2%, 5, 6% e 1, 8%; P=0, 004) (27).
RELAZIONI
SECONDA SESSIONE
79
Una meta-analisi Cochrane del 2004 (28) dimostra un ridotto rischio di infezione fungina invasiva (RR=0,
20; 95% CI 0, 07-0, 64) e di morte (RR=0, 44; 95% CI 0, 21-0, 91) per i neonati VLBW che avevano ricevuto
la profilassi con fluconazolo e.v..
Di recente pubblicazione è uno studio retrospettivo su 465 neonati VLBW (29). Gli Autori hanno potuto
osservare tra il gruppo dei trattati ed il gruppo dei controlli una significativa riduzione della colonizzazione
da candida (RR=0, 406) e delle infezioni fungine invasive (RR=0, 233).
Benché vi sia iniziale evidenza dell’efficacia della profilassi con fluconazolo e.v. nei neonati ELBW, in
assenza di trials clinici randomizzati controllati multicentrici che definitivamente escludano la presenza
di effetti collaterali e la comparsa di resistenze al fluconazolo non è ancora possibile raccomandarla in
tutte le UTIN e deve essere limitata a gruppi selezionati di pazienti con elevato rischio di infezioni fungine
sistemiche (30).
È in fase di pubblicazione uno studio multicentrico randomizzato condotto dalla task force sulle infezioni
fungine del Gruppo di Studio di Infettivologia Neonatale della Società Italiana di Neonatologia; in tale
studio è stato possibile osservare una significativa riduzione della frequenza di colonizzazione da parte
di Candida tra neonati che avevano ricevuto la profilassi con fluconazolo e controlli (8, 8% vs 29, 2%, P<0,
001) e una minor frequenza di infezioni sistemiche fungine nei neonati che avevano ricevuto la profilassi
(3, 2% vs 13, 2%, P=0, 001).
Benché in letteratura non esista evidenza della superiorità di un antifungino rispetto a un altro (31), la
maggior parte degli Autori sono concordi nel consigliare come farmaco di scelta per la terapia delle
infezioni fungine invasive neonatali l’amfotericina B, eventualmente in associazione con la 5-fluorocitosina
che si impone in presenza di meningite.
Il caspopfungin sembra essere attivo verso specie di Candida resistenti ai comuni antifungini, e, in un
recente studio, sembra essere efficace, sicuro e ben tollerato anche in età neonatale, è tuttavia ancora
oggetto di valutazione (32).
In conclusione, riportiamo i dieci punti che Isaacs ritiene essenziali per favorire il corretto uso degli
antibiotici e ridurre i fenomeni di resistenza (Tabella); l’utilizzo giudizioso degli antibiotici secondo tali
regole rimane uno strumento di fondamentale importanza per la prevenzione delle infezioni nosocomiali
nelle UTIN.
Tabella
Dieci regole per ridurre l’antibioticoresistenza (modificato da Isaacs, Arch Dis Child Fetal Neonatal Ed,
2006).
1. Eseguire sempre esami colturali (sangue, liquor, ecc.. prima di iniziare una terapia antibiotica.
2. Usare sempre antibiotici a spettro più ristretto possibile (penicillina + aminoglicoside..
3. Come regola generale non iniziare terapie empiriche con una cefalosporina di terza generazione o un
carbapenemico.
4. Mettere in atto strategie mirate a ridurre l’uso di antibiotici ad ampio spettro.
5. Avere fiducia nei risultati degli esami colturali del proprio laboratorio.
6. Tests aspecifici, come l’aumento della PCR, non danno la certezza che il neonato sia affetto da sepsi.
7. Se le colture sono negative dopo 2 o 3 giorni, è generalmente opportuno e sicuro sospendere gli antibiotici.
8. Evitare di utilizzare antibiotici per lunghi periodi.
9. Trattare la sepsi, non la colonizzazione.
10. Fare tutto il possibile per prevenire le infezioni nosocomiali, migliorare le strategie di prevenzione, in modo
particolare l’igiene delle mani.
80
RELAZIONI
SECONDA SESSIONE
Bibliografia
1. Isaacs D. Unnatural selection: reducing antibiotic resistance in neonatal units. Arch Dis Child Fetal Neonatal
Ed. 2006 Jan;91(1):F72-4.
2. Clark RH, Bloom BT, Spitzer AR, Gerstmann DR. Empiric use of ampicillin and cefotaxime, compared with
ampicillin and gentamicin, for neonates at risk for sepsis is associated with an increased risk of neonatal death.
Pediatrics. 2006 Jan;117(1):67-74.
3. Stronati M, Lombardi G, Chirico G. Le infezioni nel neonato. Prospettive in pediatria. 2000;30:201-17.
4. Fanos V, Cuzzolin L, Atzei A, Testa M. Antibiotics and antifungals in neonatal intensive care units: a review. J
Chemother. 2007 Feb;19(1):5-20.
5. Mtitimila EI, Cooke RW. Antibiotic regimens for suspected early neonatal sepsis. Cochrane Database Syst Rev.
2004 Oct 18;(4):CD004495.
6. Gordon A, Jeffery HE. Antibiotic regimens for suspected late onset sepsis in newborn infants. Cochrane
Database Syst Rev. 2005 Jul 20;(3):CD004501.
7. Grohskopf LA, Huskins WC, Sinkowitz-Cochran RL, Levine GL, Goldmann DA, Jarvis WR; Pediatric Prevention
Network. Use of antimicrobial agents in United States neonatal and pediatric intensive care patients. Pediatr
Infect Dis J. 2005 Sep;24(9):766-73.
8. Stoll BJ, Hansen N, Fanaroff AA, Wright LL, Carlo WA, Ehrenkranz RA, Lemons JA, Donovan EF, Stark AR, Tyson
JE, Oh W, Bauer CR, Korones SB, Shankaran S, Laptook AR, Stevenson DK, Papile LA, Poole WK. Late-onset sepsis
in very low birth weight neonates: the experience of the NICHD Neonatal Research Network. Pediatrics. 2002
Aug;110(2 Pt 1):285-91.
9. Arnold C, Clark R, Bosco J, Shoemaker C, Spitzer AR. Variability in vancomycin use in newborn intensive care
units determined from data in an electronic medical record. Infect Control Hosp Epidemiol. 2008 Jul;29(7):66770.
10. Lawrence SL, Roth V, Slinger R, Toye B, Gaboury I, Lemyre B. Cloxacillin versus vancomycin for presumed
late-onset sepsis in the Neonatal Intensive Care Unit and the impact upon outcome of coagulase negative
staphylococcal bacteremia: a retrospective cohort study. BMC Pediatr. 2005 Dec 23;5:49.
11. Karlowicz MG, Buescher ES, Surka AE. Fulminant late-onset sepsis in a neonatal intensive care unit, 19881997, and the impact of avoiding empiric vancomycin therapy. Pediatrics. 2000;106:1387-1390
12. Almuneef MA, Baltimore RS, Farrel PA, Reagan-Cirincione P, Dembry LM. Molecular typing demonstrating
transmission of gram-negative rods in a neonatal intensive care unit in the absence of a recognized epidemic.
Clin Infect Dis. 2001 Jan 15;32(2):220-7.
13. Mammina C, Di Carlo P, Cipolla D, Giuffrè M, Casuccio A, Di Gaetano V, Plano MR, D’angelo E, Titone L, Corsell
G. Surveillance of multidrug-resistant gram-negative bacilli in a neonatal intensive care unit: prominent role of
cross transmission. Am J Infect Control. 2006; in press.
14. de Man P, Verhoeven B, HA V, MC V, van den Anker J. An antibiotic policy to prevent emergence of resistant
bacilli. Lancet. 2000 Mar 18;355(9208):973-8.
15. Calil R, Marba ST, von Nowakonski A, Tresoldi AT. Reduction in colonization and nosocomial infection by
multiresistant bacteria in a neonatal unit after institution of educational measures and restriction in the use of
cephalosporins. Am J Infect Control. 2001 Jun;29(3):133-8.
16. Cotten CM, McDonald S, Stoll B, Goldberg RN, Poole K, Benjamin DK Jr; National Institute for Child Health
and Human Development Neonatal Research Network. The association of third-generation cephalosporin use
and invasive candidiasis in extremely low birth-weight infants. Pediatrics. 2006 Aug;118(2):717-22.
17. Heath PT, Nik Yusoff NK, Baker CJ. Neonatal meningitis. Arch Dis Child Fetal Neonatal Ed. 2003
May;88(3):F173-8.
RELAZIONI
SECONDA SESSIONE
81
18. Stronati M, Rondini G. Antibiotherapy as first choice in neonatal septicemia. Arch Fr Pediatr. 1992 JunJul;49(6):593-4.
19. Kaufman D, Fairchild KD. Clinical microbiology of bacterial and fungal sepsis in very-low-birth-weight
infants. Clin Microbiol Rev. 2004; 17(3): 638-80.
20. Toltzis P, Dul MJ, Hoyen C, Salvator A, Walsh M, Zetts L, Toltzis H. The effect of antibiotic rotation on colonization
with antibiotic-resistant bacilli in a neonatal intensive care unit. Pediatrics. 2002 Oct;110(4):707-11.
21. Garland JS, Henrickson K, Maki DG; 2002 Hospital Infection Control Practices Advisory Committee Centers
for Disease Control and Prevention. The 2002 Hospital Infection Control Practices Advisory Committee Centers
for Disease Control and Prevention guideline for prevention of intravascular device-related infection. Pediatrics.
2002 Nov;110(5):1009-13.
22. O'Grady NP, Alexander M, Dellinger EP, Gerberding JL, Heard SO, Maki DG, Masur H, McCormick RD, Mermel
LA, Pearson ML, Raad II, Randolph A, Weinstein RA. Guidelines for the prevention of intravascular catheterrelated infections. The Hospital Infection Control Practices Advisory Committee, Center for Disese Control and
Prevention, u.s. Pediatrics. 2002 Nov;110(5):e51.
23. Craft AP, Finer NN, Barrington KJ. Vancomycin for prophylaxis against sepsis in preterm neonates. Cochrane
Database Syst Rev. 2000;(2):CD001971.
24. Toltzis P. Antibiotic lock technique to reduce central venous catheter-related bacteremia. Pediatr Infect Dis
J. 2006 May;25(5):449-50.
25. Austin NC, Darlow B. Prophylactic oral antifungal agents to prevent systemic candida infection in preterm
infants. Cochrane Database Syst Rev. 2004;(1):CD003478.
26. Ozturk MA, Gunes T, Koklu E, Cetin N, Koc N. Oral nystatin prophylaxis to prevent invasive candidiasis in
Neonatal Intensive Care Unit. Mycoses. 2006 Nov;49(6):484-92.
27. McGuire W, Clerihew L, Austin N. Prophylactic intravenous antifungal agents to prevent mortality and
morbidity in very low birth weight infants. Cochrane Database Syst Rev. 2004;(1):CD003850.
28. Manzoni P, Arisio R, Mostert M, Leonessa M, Farina D, Latino MA, Gomirato G. Prophylactic fluconazole is
effective in preventing fungal colonization and fungal systemic infections in preterm neonates: a single-center,
6-year, retrospective cohort study. Pediatrics. 2006 Jan;117(1):e22-32.
29. Fanaroff AA. Fluconazole for the prevention of fungal infections: get ready, get set, caution. Pediatrics. 2006
Jan;117(1):214-5.
30. Clerihew L, McGuire W. Systemic antifungal drugs for invasive fungal infection in preterm infants. Cochrane
Database Syst Rev. 2004;(1):CD003953.
31. Odio CM, Araya R, Pinto LE, Castro CE, Vasquez S, Alfaro B, Saenz A, Herrera ML, Walsh TJ. Caspofungin
therapy of neonates with invasive candidiasis. Pediatr Infect Dis J. 2004 Dec;23(12):1093-7.
82
RELAZIONI
SECONDA SESSIONE
INFEZIONI E SISTEMA IMMUNITARIO DEL NEONATO
G. Chirico
U.O. di Neonatologia e Terapia Intensiva Neonatale, Spedali Civili, Brescia
Introduzione
Le infezioni neonatali rappresentano la più importante conseguenza della difficoltà nell'adattamento
immunologico del neonato. Alla nascita il sistema immunitario è infatti in larga parte immaturo e,
soprattutto, inesperto dal punto di vista dei contatti con gli antigeni, in quanto il feto vive in un ambiente
"germ-free". Il deficit immunologico è più accentuato e persistente nel neonato pretermine.
Le possibili conseguenze negative dell’immunodeficienza neonatale sono attenuate da alcuni meccanismi
naturali di compenso. Il trasferimento di anticorpi di classe IgG ad alta avidità attraverso la placenta dalla
madre al feto nel corso della seconda metà della gravidanza assicura al neonato la protezione offerta dagli
anticorpi, mentre dopo la nascita il collegamento immunologico materno-neonatale viene mantenuto
grazie all’apporto delle proprietà immunomodulanti ed antinfettive del latte materno.
Le gravi conseguenze delle infezioni, nonostante i miglioramenti della terapia specifica e generale di
supporto, sono legate alle complesse interazioni tra organismo infettante ed ospite. Il quadro clinico della
sepsi, in particolare, viene innescato dal patogeno che induce l’attivazione della risposta infiammatoria
e coagulativa, ma la successiva evoluzione dei sintomi risulta strettamente correlata al complesso e
delicato equilibrio tra fattori pro- e anti-infiammatori. Le citochine e gli altri mediatori, quali trombossani,
leucotrieni, monossido d’azoto, PAF, prostaglandine, complemento attivano la cascata della coagulazione
e la liberazione di proteasi e sostanze ossidanti. Le complicanze a breve (risposta infiammatoria sistemica,
CID, shock settico e disfunzione multipla d’organo) o a lungo termine (sequele neurologiche, respiratorie
e disturbi dell’accrescimento) della sepsi neonatale dipendono dagli effetti di questi mediatori,.
La risposta immunitaria neonatale
Tra gli aspetti maggiormente studiati dell’immunodeficienza neonatale, ricordiamo l’immaturità dei T e B
linfociti, che presentano differente espressione fenotipica degli antigeni di superficie, ridotta capacità di
differenziazione verso cellule di memoria (Th1), minore sintesi di citochine, in particolare di Interferon-γ,
minore cooperazione ed attivazione dei B linfociti e ridotta sintesi anticorpale.
In presenza di stimoli appropriati tuttavia il neonato è in grado di attivare una valida risposta immunitaria,
il che suggerisce come l’immaturità dei linfociti sia soprattutto legata all’inesperienza antigenica più che
ad un vero e proprio deficit strutturale dei componenti del sistema immunitario.
Infatti, ad esempio, se da un lato la somministrazione dei vaccini in epoca neonatale non è in grado
di indurre una rapida risposta anticorpale, d’altra parte le vaccinazioni possono favorire una efficace
sensibilizzazione con migliore risposta ai richiami successivi. Le vaccinazioni nel neonato possono
pertanto favorire una precoce protezione, come è stato dimostrato nel caso della somministrazione al
momento della nascita del vaccino anti-epatite B, od anti-pertosse, anche nel pretermine.
I livelli sierici dei singoli fattori del complemento e l'attività funzionale della via classica e della via alterna
sono pure ridotti nel neonato, con una stretta correlazione con l'età gestazionale che condiziona un deficit
più spiccato nel pretermine. Inoltre l'innesco della "cascata" è ritardato nel neonato a termine, ed ancora
di più nel pretermine. Un deficit così complesso del complemento implica un'importante riduzione del
potere opsonizzante del siero.
I linfociti natural Killer (NK) nel neonato sono rappresentati prevalentemente da sottopopolazioni
immature e l'attività NK è ridotta, in particolare nel pretermine, e raggiunge valori normali verso i 4-5
anni.
I granulociti neutrofili sono particolarmente coinvolti nell’immunodeficienza neonatale: essi sono carenti
sia dal punto di vista quantitativo, per la riduzione del pool di riserva midollare, sia qualitativo, per il
deficit funzionale che comprende l’espressione dei recettori di membrana, l’adesione, la chemiotassi, la
fagocitosi, il metabolismo ossidativo e l’attività battericida.
RELAZIONI
SECONDA SESSIONE
83
La funzione dei leucociti è sotto lo stretto controllo dei fattori di crescita mieloidi, che stimolano la
differenziazione, proliferazione e sopravvivenza dei precursori midollari e modulano la funzione dei
monociti-macrofagi e neutrofili,,.
Nel neonato la produzione di questi fattori risulta insufficiente; il deficit potrebbe condizionare la
deplezione midollare e la neutropenia che si osservano in corso di sepsi neonatale, entrambi fattori di
aggravamento della prognosi. Inoltre, i livelli dei fattori mieloidi sono particolarmente ridotti nel neonato
pretermine, con una stretta correlazione tra livelli sierici e peso od età gestazionale e con bassa sintesi in
risposta alle infezioni.
Immunoterapia nelle infezioni
Queste premesse hanno giustificato gli studi eseguiti per valutare l’efficacia dell’impiego dei fattori di
crescita emopoietici G-CSF (Granulocyte Colony Stimulating Factor) e GM-CSF (Granulocyte-Macrophage
Colony Stimulating Factor).
Sono stati condotti diversi studi preliminari nelle seguenti condizioni: neutropenia nella sepsi del
neonato, allo scopo accelerare la risposta neutrofilica; neonati pretermine con infezione, anche in assenza
di neutropenia, per migliorare la funzione dei neutrofili; profilassi delle infezioni nel pretermine di peso
estremamente basso.
I risultati sembrano suggerire che il G-CSF o GM-CSF alla dose di 5-10 μg/kg/die per via sottocutanea o
endovenosa per 3-10 giorni siano in grado di migliorare la conta dei neutrofili in neonati neutropenici con
sepsi. I fattori di crescita emopoietici sono risultati ben tollerati e non sono stati osservati effetti collaterali
a breve termine o a distanza di due anni.
Queste ricerche sono state inserite per la valutazione in due metanalisi,, la più recente delle quali ha
considerato sette studi comprendenti 257 neonati con infezione e tre studi di profilassi su 359 neonati,
ed ha evidenziato le seguenti conclusioni:
Terapia della sepsi
Neonati non neutropenici: non è stato rilevato un vantaggio significativo sulla mortalità a 14 giorni
dell’impiego del G-CSF o GM-CSF in aggiunta all’antibioticoterapia ed alla terapia generale di supporto:
rischio relativo (RR) 0.71 (95% CI 0.38, 1.33); differenza del rischio (RD) -0.05 (95% CI -0.14, 0.04).
Neonati neutropenici (tre studi con 97 neonati): in questo caso è stata osservata una differenza
statisticamente significativa nella mortalità a 14 giorni dei trattati rispetto ai controlli: RR 0.34 (95% CI 0.12,
0.92); RD -0.18 (95% CI -0.33, -0.03); numero di pazienti da trattare per ogni neonato in più sopravvissuto
(NNT) 6 (95% CI 3-33).
Profilassi delle infezioni
L’impiego del GM-CSF non è apparso significativamente efficace: RR 0.59 (95% CI 0.24, 1.44); RD -0.03
(95% CI -0.08, 0.02).
Le conclusioni indicano che non ci sono al momento prove sufficienti per raccomandare l’uso dei fattori
di crescita mieloidi nel neonato, nella terapia o nella profilassi delle infezioni. Tuttavia, in considerazione
della possibile efficacia nelle infezioni accompagnate da neutropenia, e vista l’ottima tollerabilità di questi
farmaci, si ritengono giustificati studi ulteriori su casistiche più ampie.
Inoltre sono stati segnalati i primi risultati della valutazione dei fattori di crescita emopoietici (in particolare
di soluzioni contenenti G-CSF ed eritropoietina) somministrati per via enterale allo scopo di favorire la
maturazione dell’intestino in corso di nutrizione parenterale totale, o dopo enterocolite necrotizzante o
interventi chirurgici per anomalie del tratto gastroenterico.
La valutazione dell’associazione di differenti citochine o della loro combinazione con altri fattori, come le
immunoglobuline per uso endovenoso, potrebbe rappresentare un interessante argomento per la ricerca
neonatale.
Le immunoglobuline per uso endovenoso (IgG ev), in particolare, sono state utilizzate in numerose
ricerche effettuate per valutarne l’efficacia per la profilassi o la terapia delle infezioni nel neonato ad alto
84
RELAZIONI
SECONDA SESSIONE
rischio, di peso molto basso.
Gli studi riguardanti l’uso profilattico delle IgG ev sono stati valutati da Ohlsson e Lacy attraverso una
metanalisi comprendente più di 5000 neonati di peso molto basso. Il rischio relativo (RR) per l'incidenza
di infezioni era 0, 82, e gli intervalli di confidenza al 95% 0, 74-0, 92; non vi erano differenze significative
per la mortalità.
Un’altra metanalisi di Jenson and Pollock, effettuata su 4933 neonati pretermine, ha pure evidenziato
l’associazione negativa, statisticamente significativa (p=0.0193) tra uso di IgG ev ed incidenza di
infezioni.
La riduzione di incidenza di infezioni che questi dati dimostrano, anche se statisticamente significativa,
non sembra tuttavia sufficiente a giustificare l’impiego su larga scala della profilassi con IgG ev, a causa
del numero elevato di soggetti che risulta necessario trattare per prevenire un caso d’infezione: NNT
(number needed to treat)= 25 (95% CI= 17, 50).
Gli studi clinici sull'impiego delle immunoglobuline per uso endovenoso come terapia collaterale della
sepsi hanno fornito risultati incoraggianti, nonostante la difficoltà di studiare popolazioni di neonati
con caratteristiche omogenee ed in numero sufficiente per una valutazione statistica attendibile. Nella
metanalisi di Jenson e Pollock è stata evidenziata l’efficacia delle IgG ev nel ridurre di circa sei volte il
rischio di mortalità in corso di sepsi (p= 0.007, OR = 0.173, CI: 0.031 - 0.735). Ohlsson e Lacy in una più
recente metanalisi su 262 neonati con diagnosi d’infezione hanno osservato una riduzione significativa
della mortalità (RR 0.55; 95% CI: 0.31, 0.98).
Nella terapia della sepsi in neonati pretermine con bassi livelli di IgG e gravi complicanze settiche si può
pertanto prendere in considerazione il trattamento con IgG ev alla dose di 0, 5 g/kg/die per 4-5 giorni,
senza superare la dose totale di 2, 5 g/kg.
Le imunoglobuline specifiche anti-Stafilococco si sono rilevate inefficaci nella prevenzione della sepsi
tardiva nel neonato di peso molto basso.
In conclusione, le nuove conoscenze sull’immunodepressione fisiologica del neonato hanno consentito
di chiarire come questa sia legata più alla immaturità ed alla mancanza di esperienza e di stimolazione
antigenica che a veri deficit strutturali delle componenti del sistema immunitario. E’ stato inoltre possibile
mettere a punto efficaci strategie di prevenzione, in particolare grazie alla somministrazione precoce
della profilassi immunitaria attiva e passiva, e di terapia mediante utilizzo sostitutivo dei fattori, quali CSF
o immunoglobuline, transitoriamente carenti nel neonato.
Bibliografia
1. Remington JS, and Klein JO (eds), Infectious Diseases of the Fetus and Newborn Infant, Sixth Edition, Elsevier
Saunders Company, Philadelphia, 2006.
2. Lewis DB, Tu W: The physiologic immunodeficiency of immaturity. In Immunologic disorders in infants and
children. fifth Edition. Edited by Stiehm ER, Ochs HD, Winkelstein JA. Elsevier Saunders Company, Philadelphia.
2004: 687-760.
3. La Pine TR and Hill HR. Host defense mechanisms against bacteria. In: Polin RA, Fox WW, Abman SH, editors.
Fetal and Neonatal Physiology, 3th ed. Philadelphia: Saunders; 2004. p. 1475-1486.
4. Lewis DB. Host defense mechanisms against viruses. In In: Polin RA, Fox WW, Abman SH, editors. Fetal and
Neonatal Physiology, 3th ed. Philadelphia: Saunders; 2004. p. 1490-1511.
5. Chirico G. Development of the immune system in neonates. J A N F. 2005; vol. 2, issue 2.
6. Avanzini MA, Pignatti P, Chirico G, Gasparoni A, Jalil F, Hanson LA. Placental transfer favours high avidity IgG
antibodies. Acta Paediatr. 1998;87:180-5.
7. Russell JA. Management of Sepsis. N Engl J Med 2006; 355: 1699-713.
8. Stoll BJ, Hansen NI, Adams-Chapman I, Fanaroff AA, Hintz SR, Vohr B, et al. Neurodevelopmental and Growth
Impairment Among Extremely Low-Birth-Weight Infants With Neonatal Infection. JAMA 2004; 292: 2357-2365.
RELAZIONI
SECONDA SESSIONE
85
9. Hermansen MC, Hermansen MG. Perinatal Infections and Cerebral Palsy. Clin Perinatol 2006; 33: 315- 333.
10. Dammann O, Leviton A. Inflammation, brain damage and visual dysfunction in preterm infants. Semin Fetal
Neonatal Med. 2006; 11: 363-368.
11. Gasparoni A, Ciardelli L, Avanzini A, Castellazzi AM, Carini R, Rondini G, Chirico G. Age-related changes in
intracellular TH1/TH2 cytokine production, immunoproliferative T lymphocyte response and natural killer cell
activity in newborns, children and adults. Biol Neonate. 2003;84:297-303.
12. Chipeta J, Komada Y, Zhang XL, Azuma E, Yamamoto H, Sakurai M: Neonatal (cord blood) T cells can
competently raise type 1 and 2 immune responses upon polyclonal activation. Cell Immunol 2000;205:110-9.
13. Chirico G, Belloni C, Gasparoni A, Cerbo RM, Rondini G, Klersy C, Orsolini P, Filice G. Hepatitis B immunization
in infants of hepatitis B surface antigen-negative mothers. Pediatrics. 1993;92:717-9
14. Belloni C, De Silvestri A, Tinelli C, Avanzini MA, Marconi M, Strano F, Rondini G, Chirico G. Immunogenicity of
a three-component acellular pertussis vaccine administered at birth. Pediatrics. 2003;111:1042-5.
15. Belloni C, Chirico G, Pistorio A, Orsolini P, Tinelli C, Rondini G. Immunogenicity of hepatitis B vaccine in term
and preterm infants. Acta Paediatr. 1998;87:336-8.
16. Notarangelo LD, Chirico G, Chiara A, Colombo A, Rondini G, Plebani A, Martini A, Ugazio AG. Activity of
classical and alternative pathways of complement in preterm and small for gestational age infants. Pediatr Res.
1984;18:281-5.
17. Chirico G, Maccario R, Montagna D, Chiara A, Gasparoni A, Rondini G: Natural Killer cell activity in preterm
infants: effect of intravenous immune globulin administration. J Pediatr 1990;117:465-466.
18. Chirico G. Imunodepressione neonatale. In: Burgio G.R.; Ugazio A.G: Immunologia ed allergologia pediatrica.
UTET, Milano. 1996 pag 211-225.
19. Goldman S, Ellis R, Dhar V, Cairo MS: Rationale and potential use of cytokines in the prevention and treatment
of neonatal sepsis. Clinics in Perinatology 1998, 25: 699-709.
20. Chirico G, Ciardelli L, Marconi M, Cecchi P, Gasparoni A, Rondini G. Effect of Granulocyte Colony Stimulating
Factor on neutrophil bactericidal activity in preterm infants. Biol Neonate 1993, 64: 188.
21. Drossou-Agakidou V, Kanakoudi-Tsakalidou F, Sarafidis K, Tzimouli V, Taparkou A, Kremenopoulos G,
Germenis A. In vivo effect of rhGM-CSF And rhG-CSF on monocyte HLA-DR expression of septic neonates.
Cytokine. 2002;18:260-5.
22. Rondini G and Chirico G. Hematopoietic growth factor levels in term and pre-term infants. Curr Opin
Hematol 1999;6:192-197.
23. Chirico G, Ciardelli L, Cecchi P, De Amici M, Gasparoni A, Rondini G. Serum concentration of granulocyte
colony stimulating factor (G-CSF) in term and preterm infants. Eur J Pediatr 1997, 156: 269-271.
24. Banarjea MC, Speer CP. The current role of colony-stimulating factors in prevention and treatment of
neonatal sepsis. Semin Neonatol 2002; 7:335-349.
25. Rosenthal J, Healey T, Ellis R, Gillan E, Cairo MS. A two-year follow-up of neonates with presumed sepsis
treated with human granulocyte colony-stimulating factor during the first week of life. J Pediatr 1996, 128:
135-137.
26. Bernstein HM, Pollock BH, Calhoun DA, Christensen RD. Administration of recombinant granulocyte colonystimulating factor to neonates with septicemia: A meta-analysis.
27. J Pediatr. 2001 Jun;138(6):917-20.
28. Carr R, Modi N, Dore C. G-CSF and GM-CSF for treating or preventing neonatal infections. Cochrane Database
Syst Rev. 2003;(3):CD003066.
29. Chirico G. Utilizzo dei fattori di crescita mieloidi nel neonato. I Congresso Nazionale del Gruppo di Studio di
Ematologia Neonatale - Amalfi 3/4 Dicembre 2004.
86
RELAZIONI
SECONDA SESSIONE
30. Calhoun DA, Christensen RD. Hematopoietic growth factors in neonatal medicine: the use of enterally
administered hematopoietic growth factors in the neonatal intensive care unit. Clin Perinatol. 2004;31:169-82.
31. La Gamma EF, Simmonds A. Toward improving mucosal barrier defense: rhG-CSF plus IgG antibody.
Haematologica Reports 2006;2: 42-49
32. Ohlsson A, Lacy JB. Intravenous immunoglobulin for preventing infection in preterm and/or low-birthweight infants. Cochrane Database Syst Rev. 2004;(1):CD000361.
33. Jenson HB, Pollock BH. Meta-analyses of the effectiveness of intravenous immune globulin for prevention
and treatment of neonatal sepsis. Pediatrics. 1997;99(2):E2.
34. Ohlsson A, Lacy JB. Intravenous immunoglobulin for suspected or subsequently proven infection in
neonates. Cochrane Database Syst Rev. 2004;(1):CD001239
35. DeJonge M, Bloom BD, et al. Phase III, randomized, double-blind, placebocontrolled multi-center clinical
trial of safety and efficacy of INH-A21 for the prevention of nosocomial staphylococcal sepsis in premature
infants. J Pediatr 2007;151:260-5.
RELAZIONI
SECONDA SESSIONE
87
NEONATO DI PESO MOLTO BASSO E PROBLEMI MOLTO GRANDI:
SOPRAVVIVENZA E PROGNOSI
R. Paludetto, M.V. Andreucci, L. Capasso, A. Romano, F. Sauro, C. Mercogliano, T. Ferrara,
P. Di Martino, R. Pisanti, A. M. Spera, F. Landolfo, F. Raimondi
Dipartimento di Pediatria, Neonatologia e Terapia Intensiva Neonatale, Università Federico II, Napoli
Negli ultimi 40 anni a partire dall’introduzione della ventilazione meccanica sono stati fatti notevoli passi
in avanti nella gestione dei neonati prematuri (1). I progressi tecnologici e terapeutici hanno portato ad
un incremento sempre maggiore dei tassi di sopravvivenza dei neonati di peso estremamente basso,
soprattutto a partire dagli anni 90 (2). L’aumento dei tassi di sopravvivenza in neonati così prematuri
ha generato preoccupazione riguardo il possibile aumento degli esiti neuropsicomotori tra i bambini
sopravvissuti, con implicazioni mediche, etiche ed economiche molto dibattute nella comunità scientifica
(2).
Dagli anni 90, virtualmente in tutte le terapie intensive neonatali si è raggiunta una sopravvivenza ≥ 90%
in neonati di peso alla nascita > 1.000 gr. Anche nei neonati di peso estremamente basso la mortalità si
è ridotta rispetto alla decade precedente e tale miglioramento è risultato particolarmente evidente per
neonati di peso alla nascita compreso tra 450 e 700 gr, in cui il tasso di mortalità è comunque generalmente
più alto rispetto alle altre classi di peso (3).
Infatti, sebbene i neonati di peso alla nascita < 1.000 g costituiscano circa l’1% di tutti i nuovi nati,
questa categoria di neonati contribuisce in maniera cospicua alla mortalità e morbilità neonatale. Nella
nostra struttura, la Terapia Intensiva Neonatale della Università Federico II di Napoli, conformemente
all’andamento generale, si è assistito ad un incremento della sopravvivenza di neonati di peso alla nascita
< 1.500: dal 66% nel triennio 2001- 2003 all’81% nel 2007.
Il miglioramento dei tassi di sopravvivenza dei neonati pretermine negli ultimi 20 anni ha portato come
conseguenza alla rianimazione di soggetti in epoca gestazionale al limite della vitalità (4). Analizzando la
letteratura scientifica è interessante osservare come il tasso di sopravvivenza di nati vivi estremamente
pretermine mostri valori molto variabili tra i Paesi europei, l’Australia e il Canada. Una recente revisione
della letteratura mondiale di Hack e Fanaroff ha riportato, negli anni 90, una sopravvivenza tra il 2 e il
35% a 23 settimane di età gestazionale, del 17- 58% a 24 settimane e del 35- 85% a 25 settimane (5); nella
nostra struttura, nel 2007 abbiamo osservato una sopravvivenza pari al 40% in caso di neonati di 24 e 25
settimane di età gestazionale.
La presenza di range così ampi a livello mondiale è forse spiegabile analizzando le differenze nei livelli
decisionali per iniziare la rianimazione in sala parto e la variabilità della popolazione considerata per
calcolare i tassi (inclusione o meno di nati morti con malformazioni congenite, valutazione dei soli
neonati ammessi in terapia intensiva neonatale, definizione di “nato vivo” in neonati di peso ed età
gestazionali precedentemente indicativi di aborto, etc.) (6). Sono da considerare inoltre, nella valutazione
dei diversi studi della letteratura, alcuni fattori confondenti riguardanti la classificazione del neonato
quali l’età gestazionale ed il peso; infatti, la valutazione dell’età gestazionale soffre delle possibili
diversità di determinazione (calcolo in base alla data dell’ultima mestruazione, datazione ecografica della
gestazione, determinazione dell’età gestazionale in caso di fecondazione in vitro, difficile determinazione
post- natale in caso di neonati estremamente pretermine). Per quanto riguarda la classificazione di questi
neonati in base al peso è da considerare confondente la presenza di IUGR e SGA ed è importante valutare
la definizione dei sottogruppi di peso.
Come esempio del possibile effetto confondente di questi determinanti, è da citare il caso della piccola
Amillia Taylor, nata il 24 ottobre 2006 a Miami in Florida con peso alla nascita di 283 grammi ed EG di 21
wk e 6/7, considerata la neonata sopravvissuta maggiormente prematura. In questo famoso caso l’età
gestazionale era stata determinata sulla data del concepimento (mediante fecondazione in vitro) e non
sulla data dell’ultima mestruazione; ne è così derivata un’assegnazione di 2 settimane in meno, rispetto al
88
RELAZIONI
SECONDA SESSIONE
calcolo in base alla data dell’ultima mestruazione che invece corrisponde a 23 wk e 6/7.
Per neonati così piccoli le cause di morbilità con possibili conseguenze successive sullo sviluppo del
neonato sono costituite principalmente da: malattia cronica polmonare, danno cerebrale severo,
enterocolite necrotizzante, infezioni nosocomiali e retinopatia del prematuro. La malattia cronica
polmonare è associata a distrofia, scarsa alimentazione, ospedalizzazioni prolungate, infezioni nosocomiali.
La presenza di danno cerebrale è documentata principalmente dall’ecografia cerebrale effettuata nel
corso del ricovero in terapia intensiva neonatale; le lesioni associate a disabilità neurologica includono
emorragia periventricolare di 3° e 4° grado, infarcimento periventricolare, leucomalacia periventricolare
e/o dilatazione ventricolare persistente. Il tasso di retinopatia severa varia tra i diversi centri in base ai
criteri utilizzati per la diagnosi e terapia. Sebbene i tassi di cecità si siano ridotti in seguito all’introduzione
della laser e crioterapia, i bambini trattati possono presentare miopia severa residua e difetti della visione
periferica. La sepsi resta la causa principale di morbidità neonatale; la maggior parte delle infezioni sono
nosocomiali e associate a prematurità estrema, determinate principalmente dall’utilizzo di linee infusive
centrali e di altre manovre invasive. Le infezioni nosocomiali inoltre, sono associate a tassi maggiori di
malattia polmonare cronica, prolungata ospedalizzazione e scarsa crescita. L’enterocolite necrotizzante è
solitamente complicata da sepsi e scarsa crescita (6).
Mentre la sopravvivenza di neonati di peso ed età gestazionale sempre più bassi continua ad aumentare,
parallelamente si sta assistendo ad un incremento dei tassi di disabilità, con peggioramento della qualità
della vita per i sopravvissuti.
Un amento della prevalenza di danno cognitivo e di scarso rendimento scolastico con stati ripetutamente
riportati tra i bambini di età scolare di peso estremamente basso alla nascita, se comparati con i nati a
termine (7).
Lo studio EPICURE, uno studio osservazionale prospettico di dieci mesi effettuato nel 1995 con neonati
di età gestazionale 20- 25 settimane in Gran Bretagna, ha mostrato un numero relativamente alto di nati
vivi di 22- 25 settimane, rispetto ad altri studi effettuati negli anni 90 (4). La valutazione dell’outcome
a 30 mesi ha mostrato che il 24% dei sopravvissuti presentava disabilità severa. La presenza di una
prevalenza così alta ha indicato la necessità di una valutazione degli stessi bambini in età scolare, quando
il grado di disabilità può essere più chiaramente definito ed è maggiormente predittivo di problemi che
continueranno durante l’infanzia e nella vita successiva. Tale valutazione ha mostrato un’alta prevalenza
di disabilità anche a 6 anni: una disabilità severa era presente nel 22% dei casi, una percentuale analoga
a quella riscontrata a 30 mesi. La metà di questi casi presentava paralisi cerebrale con disabilità motoria
moderata o severa. (4).
Come già citato alla base dell’aumentata sopravvivenza di neonati sempre più piccoli di peso e di età
gestazionale sempre più bassa vi sono i progressi della terapia intensiva neonatale. Ma quali sono i
principali determinanti in gioco?
Il miglioramento della sopravvivenza dei neonati estremamente pretermine e di basso peso nella prima
metà degli anni 90 è solitamente attribuito a tre fattori prinicipali: l’esposizione prenatale agli steroidi, la
terapia con surfactante, la centralizzazione delle nascite a rischio.
I neonati pretermine sono ad alto rischio di malattia polmonare neonatale. La sindrome da distress
respiratorio, come risultato della immaturità del polmone, è la principale causa di mortalità neonatale
precoce. Un singolo ciclo di steroidi prenatali somministrati alla madre resta la più efficace strategia
prenatale per la riduzione di eventi avversi nel neonato pretermine essendo in grado di stimolare la
maturazione polmonare e la sintesi di surfactante nel polmone fetale (8). L’esposizione prenatale agli
steroidi riduce la severità della sindrome da distress respiratorio, la mortalità, l’utilizzo di surfactante e
l’emorragia intraventricolare nei nati a meno di 34 w di gestazione (9).
Dalla fine degli anni 90, la maggior parte dei neonati pretermine partoriti a meno di 34 settimane di età
gestazionale, ha ricevuto terapia steroidea prenatale; al momento questa è da considerare una terapia
standard per donne a rischio di parto pretermine. Lo studio EPICURE precedentemente citato ha mostrato
RELAZIONI
SECONDA SESSIONE
89
che più del 60% dei bambini sopravvissuti era stato esposto a terapia steroidea prenatale.
Recentemente, la letteratura scientifica sta valutando i possibili benefici derivanti dalla somministrazione
ripetuta di steroidi ma anche dei possibili rischi associati agli effetti avversi da uso ripetuto di steroidi sullo
sviluppo del SNC oltre a chiarire il reale rapporto costo/ benefici di tale strategia terapeutica. (8)
La terapia con surfactante ha cambiato in maniera significativa la pratica clinica neonatologica degli ultimi
25 anni. La somministrazione di surfactante è stata definita come terapia efficace e sicura per il deficit
di surfactante nel polmone immaturo a partire dai primi anni 90. Revisioni sistematiche di trial clinici
randomizzati e controllati hanno confermato che questo trattamento riduce la frazione inspiratoria di
ossigeno e la necessità di ventilazione così come l’incidenza di distress respiratorio, morte, pneumotorace
ed enfisema polmonare interstiziale.
Molti studi hanno investigato il timing ideale della somministrazione di surfactante. Una revisione
sistematica della letteratura scientifica internazionale ha mostrato una riduzione nell’incidenza di
pneumotorace, enfisema polmonare interstiziale, malattia polmonare cronica e mortalità in caso di
somministrazione precoce (a meno di 2 ore di vita) versus somministrazione tardiva e la riduzione di
pneumotorace e mortalità con la somministrazione profilattica versus la terapia rescue. (10)
E’ stato inoltre dimostrato che la terapia con surfactante, somministrato come profilassi o come terapia
rescue, riduce l’incidenza e la severità della sindrome da distress respiratorio, oltre all’outcome combinato
displasia broncopolmonare e morte. (9) Ne risulta pertanto che, dal punto di vista clinico, il surfactante
dovrebbe essere somministrato a neonati con sindrome da distress respiratorio non appena possibile
dopo l’intubazione indipendentemente dall’esposizione a steroidi prenatali o all’età gestazionale e che la
terapia profilattica con surfactante dovrebbe essere considerata per i neonati estremamente pretermine
ad alto rischio di sindrome da distress respiratorio, specialmente se non esposti a steroidi prenatali (9). Lo
studio EPICURE precedentemente citato ha mostrato che l’ 84% dei bambini sopravvissuti aveva ricevuto
surfattante in epoca neonatale.
Il surfactante maggiormente utilizzato e dai migliori risultati è di derivazione porcina. Le novità riguardanti
l’utilizzo di surfactanti sintetici sono promettenti, anche se al momento nessuna preparazione sintetica si
è dimostrata superiore ai surfactanti naturali. Un numero sempre maggiore di studi sta valutando inoltre
il ruolo di modalità alternative di somministrazione così come l’utilizzo della CPAP per minimizzare la
necessità di ventilazione meccanica. Nuove evidenze suggeriscono la possibilità che altre patologie,
come la sindrome da aspirazione da meconio, la polmonite neonatale e l’ernia diaframmatica possano
beneficiare di questa terapia (10).
Se per l’utilizzo della terapia con steroidi e con surfactante esiste ormai un accordo pressoché unanime
e un’aderenza ormai ventennale a tale tipo di comportamento, la situazione è certamente diversa per
quanto riguarda la centralizzazione delle nascite a rischio. Infatti, se è vero che anche in questo caso la
letteratura internazionale mostra evidenze riguardanti il miglioramento dell’outcome di sopravvivenza
in caso di adeguata razionalizzazione delle strutture di assistenza neonatale, tale obiettivo non è ancora
stato raggiunto appieno nel nostro Paese. L’Italia è caratterizzata da una marcata disomogeneità nella
distribuzione di numerosi indicatori socioeconomici, come il numero e l’outcome delle strutture sanitarie,
con un aumento della mortalità neonatale e infantile con un trend Nord- Sud. Lo studio di Corchia
pubblicato nel 2007 riguardante la situazione dei VLBW in Italia nel 2001 ha messo in evidenza come
nel Sud Italia, dove mortalità infantile e neonatale sono superiori rispetto a Nord Italia, Centro Italia e
media del Paese, vi sia un numero maggiore di punti nascita, con dispersione delle risorse della Sanità,
presenza di un alto numero di strutture per assistenza ai neonati di livello non adeguato e quindi maggior
numero di trasporti neonatali da queste strutture a quelle di III livello (11). Tale situazione non è migliorata
negli ultimi anni; riguardo la nostra regione nel 2007 erano ancora presenti in Campania ben 84 punti
nascita, con un Indice di Trasporto Neonatale (ITN) pari al 2, 8% (quindi più del doppio del ITN ideale, pari
all’1%), questo in difformità con quanto affermato nelle Linee Guida Regionali pubblicate nel 2005, che
indicavano come interventi prioritari la riduzione della dispersione dei punti nascita, l’accorpamento di
90
RELAZIONI
SECONDA SESSIONE
quelli con meno di 400 parti all’anno e quindi la riduzione dei Trasporti Neonatali.
Inoltre, esistono ormai evidenze scientifiche riguardanti la stretta correlazione presente anche tra volume
di attività dei centri per le cure intensive neonatali e mortalità nel neonato di peso alla nascita molto
basso. Sopra i 50 ricoveri all’anno i valori di mortalità di questi pazienti si abbassano sensibilmente,
mentre i risultati migliori si ottengono nei centri con un numero di accessi annuali di VLBW superiore a
100 (12); sempre nel 2007 tale volume di utenza è stato raggiunto in Campania da un unico centro laddove
nell’ambito delle cure intensive neonatali, in particolare per le più basse fasce di peso, è fondamentale
che l’assistenza venga erogata da personale sanitario altamente specializzato ed in un reparto con
attrezzature tecnologicamente avanzate.
Sembra, quindi, che la Regione di nascita rappresenti ancora in Italia un importante fattore predittivo
di mortalità neonatale e infantile. Secondo gli ultimi dati ISTAT del 2004 la regione italiana con risultati
migliori in termini di mortalità risulta il Friuli Venezia Giulia con una Mortalità Infantile (MI) pari a 1, 78 per
mille nati vivi e una Mortalità Neonatale (MN) pari a 1, 39 per mille nati vivi. La regione Campania presenta
invece rispettivamente valori di MI e MN pari a 4, 62 e 3, 49 per mille nati vivi, quindi ben superiori non solo
ai valori del Friuli, ma anche a quelli della media italiana (MI: 3, 7 per mille nati vivi; MN: 2, 71 per mille nati
vivi). E’ importante che la regione Campania applichi una politica volta al miglioramento dell’assistenza
del neonato, cominciando dall’attuazione delle Linee Guida Regionali ormai pubblicate da anni ma non
ancora correttamente applicate per raggiungere un adeguato livello di centralizzazione delle nascite al
fine di ridurre la mortalità neonatale nella nostra regione.
Bibliografia
1. Buchh B, Graham N, Harris B, Sims S, Corpus M, Lantos J, Meadow W. Neonatology has always been a bargain, even
when we weren’t very good at it. Acta Paediatrica 2007;96: 659- 663
2. Wilson- Costello D, Friedman H, Minich N, Fanaroff AA, Hack M. Improved survival rates with increased
neurodevlopmental disability for extremely low birth weight infants in the 1990s. Pediatrics 2005; 115: 997- 1003
3. Meadow W, Lee G, Lin K, Lantos J. Changes in mortality for extremely low birth weight infants in the 1990s:
implication for treatment decisions and resource use. Pediatrics 2004; 113: 1223- 1229.
4. Chiswick M. Infants of borderline viability: ethical and clinical considerations. Semin Fetal Neonatal Med 2008; 13:
8- 15
5. Vanhaesebrouck P, Allegaert K, Bottu J, Debauche C, Devlieger H, Docx M, Francois A, Haumont D, Lombet J, Rigo J,
SMets K, Vanherreweghe I, Van Overmeire B, Van Reempts P. The EPIBEL study: outcomes to discharge from hospital
for extremely preterm infants in Belgium. Pediatrics 2004; 114: 663- 675
6. Hack M and Fanaroff AA. Outcomes of children of extremely low birthweight and gestational age in the 1990s.
Semin Neonatol 2000: 5: 89- 106
7. Marlow N, Wolke D, Bracewell MA, Samara M. Neurologic and developmental disability at six years of age after
extremely preterm birth. N Engl J Med 2005; 352: 9- 19
8. Crowther CA, Haslam RR, Hiller JE, Doyle LW, Robinson JS. Neonatal respiratory distress syndrome after repeat
exposure to antenatal corticosteroids: a randomised controlled trial. The Lancet 2006; 367: 1913- 19
9. Engle WA and the Committee on fetus and newborn. Surfactant- replacement for respiratory distress in the preterm
and term neonate. Pediatrics 2008; 121: 419- 432
10. Been JV and Zimmermann LJI. What’s new in surfactant?. Eur J Pediatr 2007; 166: 889- 899
11. Corchia C and Orzalesi M. Geographic variations in outcome of very low birth weight infants in Italy. Acta Paediatr
2007; 96: 35- 38
12. Phibbs CS, Baker LC, Caughey AB, Danielsen B, Schmitt SK, Phibbs RH. Level and volume of neonatal intensive care
and mortality in very- low- birth- weight infants. N Engl J Med 2007; 356: 2165- 2175.
RELAZIONI
SECONDA SESSIONE
91
PROBLEMI DI ALIMENTAZIONE NEL NEONATO DI PESO MOLTO BASSO
P. Gancia, C. Dalmazzo
Terapia Intensiva Neonatale - Neonatologia, ASO S. Croce e Carle, Cuneo
L’obiettivo della nutrizione del pretermine è il raggiungimento di una velocità di crescita postnatale (taglia
e composizione corporea) prossima a quella del feto normale di pari età gestazionale (American Academy
of Pediatrics, 1998). In pratica, spesso si configura una restrizione di crescita extrauterina che rimane un
grave problema nei neonati pretermine. Nella nutrizione di questi neonati le proteine sono sempre un
fattore limite, mentre più di rado l’apporto di energia è fattore limite. Un intake insufficiente di minerali
e vitamine si riflette sulla composizione corporea. Il fabbisogno proteico del neonato pretermine è stato
rivalutato considerando che
(1) il guadagno di massa magra fetale e il contributo del guadagno proteico al guadagno di massa
magra sembrano riferimenti più affidabili dell’incremento ponderale assoluto (2) deve essere fornito un
supplemento di proteine per la crescita di recupero, a compenso del deficit cumulativo proteico che si
sviluppa nelle prime settimane di vita (3) un aumento del rapporto proteine-energia è essenziale per
migliorare l’accrezione di massa magra e limitare la deposizione di grassi (4) l’assorbimento frazionale
di azoto e l’efficienza proteica (rapporto ritenzione/assorbimento di N) variano a seconda della dieta (5)
l’apporto proteico deve essere adattato all’età postconcezionale invece che all’età gestazionale o al peso
alla nascita, per integrare gli aspetti dinamici della crescita e del metabolismo proteico
Quindi, l’apporto raccomandato per i pretermine di età postconcezionale compresa tra 26 e 30 settimane
è di 3.8 - 4.4 g di proteine/kg/die con un rapporto proteine-energia 3 - 3.3 g/100 kcal, in accordo con
la restrizione di crescita postnatale, e dovrebbe diminuire progressivamente fino la momento della
dimissione. Va sottolineato che i supplementi proteici non sono equivalenti in termini di utilizzo
(immaturità, qualità proteica, tecnologia)
Nel pretermine, la scarsa crescita dovuta ad un intake subottimale di nutrienti ha effetti sfavorevoli a
breve ed a lungo termine.
Gli effetti a breve termine comprendono una riduzione delle difese immunitarie, una ridotta produzione
di glutatione con danno da radicali liberi ed un aumento del fabbisogno ventilatorio. Gli effetti a lungo
termine incidono sullo sviluppo neuroevolutivo e sulla suscettibilità alle malattie cardiovascolari.
L’uptake nutrizionale in utero è notevole, non solo per la crescita di nuovi tessuti ma anche per la
sostituzione dell’acqua corporea con proteine e lipidi.
Il feto viene continuamente rifornito di aminoacidi (AA) attraverso il cordone ombelicale. Il parto
pretermine interrompe questa situazione, mentre nel feto di pari età la continuazione dell’apporto
rimane vitale per la crescita e lo sviluppo neuroevolutivo. Nel modello animale in condizioni fisiologiche
l’ossidazione intrauterina degli AA è molto elevata e l’uptake è molto superiore alle necessità di AA per
la crescita.
Le strategie nutrizionali attuali consigliano nel pretermine una dieta ricca di lipidi e carboidrati con una
moderata quota proteica. Sebbene una dieta altamente calorica possa stimolare la crescita del pretermine,
la composizione corporea che ne risulta è differente rispetto a quella del feto in utero. Una composizione
corporea più vicina a quella fetale implica un notevole apporto di aminoacidi, che deve essere raggiunto
prima possibile dopo la nascita.
In assenza di nutrizione parenterale (NP) e con insufficienti apporti enterali nel primo periodo postnatale,
il neonato è dipendente dalla proprie riserve proteiche. Nei neonati che ricevono solo glucosio, il
catabolismo proteico incide giornalmente per l’1-2% delle riserve proteiche, mentre un feto di pari età
accresce la sua composizione proteica di circa 1, 5 g/Kg/die.
In genere, l’apporto di AA nel pretermine viene iniziato tra 0 e 36 h dalla nascita, con ampie variazioni (0,
5-1 g/Kg/die) fino a 3 g/Kg/die. L’apporto di AA deve iniziare in prima giornata di vita, almeno a una dose
di 1.5 g/kg/die, che sembra sufficiente per evitare il catabolismo ed è ben tollerata dalla maggioranza dei
92
RELAZIONI
SECONDA SESSIONE
neonati.
Per ottenere un guadagno proteico in prima giornata, è necessaria una dose di almeno 2-2, 5 g/kg/die,
da aumentare ad almeno 3- 3, 5 g/kg/die in 2° - 3° giornata per ottenere una deposizione proteica simile
a quella intrauterina.
Non vi sono prove sperimentali a favore di un incremento più graduale della quantità di AA.
Richieste di aminoacidi condizionalmente essenziali nel neonato
I fabbisogni individuali di AA nei neonati pretermine in nutrizione parenterale non sono conosciuti, fatta
eccezione per la tirosina.
Un fattore importante nella nutrizione del pretermine è l’immaturità biochimica. Vari processi metabolici
non sono completamente sviluppati in utero e si attivano dopo la nascita. Vengono quindi considerati
condizionalmente essenziali alcuni aminoacidi (Tab. 1)
Non essenziali
Essenziali
Condizionalmente essenziali
Alanina
Valina
Cisteina
Serina
Leucina
Tirosina
Asparagina
Isoleucina
Glutamina
Aspartato
Metionina
Arginina
Glutamato
Fenilalanina
Prolina
Triptofano
Treonina
Glicina
Taurina
Lisina
Istidina
Tab. 1 - Classificazione degli aminoacidi
Arginina: è il precursore della sintesi di creatina, prolina, glutammato, poliamine e ossido nitrico (NO).
Nell’animale neonato, la sintesi endogena di arginina avviene a partire dalla glutamina della dieta o dalla
prolina negli enterociti del piccolo intestino. Dato che la NP totale è associata con atrofia degli enterociti,
la sintesi endogena di arginina è molto ridotta.
Il NO endoteliale ha attività anti-infiammatoria e vasodilatatrice, ed è coinvolto nel mantenimento
dell’integrità della mucosa, nella funzione di barriera e nella regolazione del flusso ematico in presenza
di danno o infiammazione. Nel tratto gastrointestinale degli animali prematuri la produzione di
NO è insufficiente a causa di un relativo deficit di nitrossido-sintetasi (NOS); inoltre nel pretermine la
concentrazione plasmatica di arginina è ridotta. Nei pretermine di peso < 1250 g e di EG < 32 settimane,
la supplementazione parenterale e orale con L-arginina riduce l’incidenza di NEC.
Cisteina: viene sintetizzata de novo a partire dalla metionina. È il precursore della taurina e del glutatione e
la sua sintesi è ridotta nel pretermine a causa di una ridotta o assente attività della cistationasi. La cisteina
è instabile in soluzione e si ossida a cistina, che è insolubile. Le soluzioni di aminoacidi sono povere o prive
di cisteina, mentre hanno una quota più elevata di metionina, che non viene però utilizzata per la sintesi
della cisteina. La metionina inoltre induce nell’animale un danno epatico strutturale e funzionale, e può
avere un ruolo nella colestasi associata alla NPT.
Glicina: si forma per conversione dalla serina, che viene sintetizzata de novo. È metabolizzata nel fegato
dove fornisce ammonio, nel sistema nervoso centrale si comporta come neurotrasmettitore inibitorio, e
come la cisteina, è un precursore del glutatione.
Il fabbisogno di glicina potrebbe essere almeno temporaneamente maggiore durante stress ossidativo.
RELAZIONI
SECONDA SESSIONE
93
Prolina: è sintetizzata de novo dal glutammato ed è l’aminoacido più rappresentato nelle proteine tissutali;
è un precursore del collagene, ha un ruolo nella riparazione del danno muscolare, connettivale e cutaneo,
e nella funzionalità tendinea ed articolare. I pretermine in NP non sintetizzano la prolina e presentano
concentrazioni plasmatiche ridotte.
Taurina: si forma a partire dalla cisteina, ed è importante per lo sviluppo neurologico fetale, ma non è
sintetizzata dal feto. Non è utilizzata nella sintesi proteica e rimane libera nell’acqua intracellulare. I bassi
livelli plasmatici conseguenti alla somministrazione di soluzioni prive di taurina possono condizionare uno
scarso assorbimento dei lipidi, un’insufficiente secrezione di acidi biliari e interferire con la funzionalità
epatica e retinica.
La decarbossilasi specifica è l’enzima limitante della sintesi della taurina e la sua attività è ridotta nel
pretermine, che si trova in condizioni di insufficiente apporto di cisteina.
Tirosina: è un aminoacido condizionalmente essenziale a causa della ridotta idrossilazione della
fenilalanina a tirosina. La sua scarsa solubilità rende difficile garantire un adeguato intake nei neonati in
NP. I neonati supplementati con fenilalanina mostrano un aumento dell’idrossilazione, ma non è chiaro
se vengano raggiunti livelli sufficienti di tirosina, tenuto conto del fatto che il fabbisogno rappresenta
il 3-4% degli AA totali. Le soluzioni commerciali di AA contengono <1% di tirosina, insufficiente per il
neonato in NPT.
Energia e proteine: si discute se considerare gli aminoacidi come fonte energetica. La loro principale
funzione è la sintesi proteica, ma non è chiaro fino a che punto sia fisiologica l’ossidazione degli AA per
produrre energia. Gli AA vengono ossidati per evitare accumulo nel caso che uno o più AA siano presenti
in eccesso rispetto alla quota necessaria per le proteine da sintetizzare.
La somministrazione di AA con 30 kcal/kg/die non-proteiche può portare il bilancio di azoto da negativo
a zero o anche a valori leggermente positivi.
Le strategie nutrizionali aggressive hanno modificato il rapporto proteine /calorie da 1 g AA per circa 30
kcal non-proteiche a 1 g AA per 15 kcal non-proteiche: dato che questo non è un rapporto ideale per la
sintesi proteica, verrà ossidata una notevole quantità di AA.
Un intake di 25-40 kcal non-proteiche per g di proteine aumenta la deposizione di proteine, benché questo
obiettivo non sia raggiungibile nel pretermine con il solo glucosio se l’apporto proteico è elevato.
L’effetto dell’aumento di intake energetico sulla deposizione proteica è maggiore al disotto di 50-60 kcal/
kg/die; oltre questo limite l’effetto dell’aumento di energia cessa.
La somministrazione precoce di lipidi potrebbe fornire calorie utili per la sintesi proteica, anche perchè
il neonato dipende dagli acidi grassi essenziali per lo sviluppo cerebrale. Il feto riceve una piccola
quota lipidica a partire dal 3° trimestre e ciò solleva la questione se il grande pretermine sia in grado di
metabolizzare un elevato apporto lipidico.
I dubbi sulla tolleranza metabolica e sulle relazioni con la BPD hanno condizionato un ritardo
nella somministrazione oltre le 24 ore di vita. Una recente review non mostra effetti positivi della
somministrazione precoce rispetto a quella ritardata. In realtà gli studi analizzati sono stati condotti senza
somministrare AA, che avrebbero potuto aumentare l’utilizzo dei lipidi.
Oggi vengono trattati neonati ELBW che hanno un deficit di proteine ed energia inversamente
proporzionale al peso alla nascita. Oltre agli effetti anabolici, la somministrazione di AA può aumentare
l’intake calorico non-proteico massimale, almeno in parte per lo stimolo alla secrezione insulinica
esercitato dagli AA, soprattutto arginina e leucina.
Lipidi: la quota di acidi grassi essenziali (EFA) presente nelle emulsioni lipidiche endovenose è sufficiente,
ma solo se l’apporto energetico è in grado di mantenere un metabolismo ed una crescita normale. In
caso contrario tutti gli acidi grassi vengono ossidati, aumentando il rischio di deficit di EFA, dannoso
soprattutto per i neuroni, le cellule della glia, la mielina e le membrane dei globuli rossi.
Esistono alternative alle emulsioni di olio di soia: gli MCT, l’olio di pesce, l’olio d’oliva.
L’uso di MCT o di olio d’oliva si propone di fornire una minore quota di acido linoleico e quindi di evitare
94
RELAZIONI
SECONDA SESSIONE
i possibili svantaggi di un eccesso di acidi grassi polinsaturi (PUFA) ω-6. L’uso di olio di pesce si propone
non solo di ridurre i livelli di ω-6, ma anche di fornire PUFA ω-3 che possono influenzare il metabolismo
lipidico, i processi infiammatori ed il sistema immunitario,
Gli studi in vitro e sull’animale mostrano che l’emulsione di olio d’oliva evita la depressione della funzione
immunitaria (specie della risposta delle cellule T) che si presenta con le emulsioni di olio di soia. Le
esperienze su neonati e adulti mostrano che l’emulsione di olio d’oliva aumenta il contenuto in acido
oleico dei lipidi ematici e che evita la deplezione di derivati dei PUFA ω-6 a lunga catena che si osserva
con le emulsioni a base di olio di soia.
La minore insaturazione dell’emulsione di olio d’oliva può ridurre la possibilità di stress ossidativo. Gli
studi di confronto non hanno però mostrato una differenza significativa nella perossidazione lipidica a
favore dell’emulsione di olio d’oliva. Uno studio suggerisce possibili vantaggi dell’emulsione di olio d’oliva
in termini di metabolismo glucidico nel pretermine.
Conclusioni
La maggioranza degli studi è stata condotta su pretermine “sani” o in condizioni stabili, e non vi sono molti
dati sull’impatto metabolico delle varie malattie, sulle differenze tra neonati AGA e SGA e sulle variazioni
dei fabbisogni condizionate da queste situazioni. I dati disponibili confermano gli effetti benefici della
somministrazione precoce di AA anche nel neonato estremamente pretermine.
Le quantità infuse devono essere sufficienti per sostenere una sintesi proteica simile a quella intrauterina.
Insieme agli AA va fornita una quota sufficiente di energia non-proteica. La migliore conoscenza dei
fabbisogni dei singoli AA potrà migliorare la composizione delle soluzioni commerciali di AA.
Le complicanze associate alla prematurità sono state messe in relazione con lo stress ossidativo e al danno
cellulare e tessutale dai radicali liberi.
Lo stress ossidativo può essere definito come uno sbilanciamento tra fattori pro- e antiossidanti che
risulta in un effetto complessivo proossidante. Per aumentare la difesa antiossidante nei neonati delle età
gestazionali più basse, da un lato deve essere migliorato l’apporto proteico postnatale per promuovere
lo sviluppo del sistema del glutatione, dall’altro occorre minimizzare lo stress ossidativo, dato che
l’incremento del contenuto cellulare di glutatione può essere lento e dipendente dal grado di maturità.
Le strategie possibili per ridurre lo stress ossidativo e stimolare le difese antiossidanti comprendono:
- inizio nei primi giorni di vita della NP e di una bassa dose di lipidi e vitamine resistenti alla perossidazione
lipidica, con un incremento graduale verso la dose piena da raggiungere entro breve tempo.
- somministrazione di lipidi endovenosi a ridotta insaturazione, e quindi maggiore resistenza alla
perossidazione (preparazioni a base di olio d’oliva); incorporazione nei lipidi di acidi grassi polinsaturi
immuno-modulatori ω-3, presenti nell’olio di pesce.
Vari studi hanno messo in evidenza i vantaggi del supporto nutrizionale precoce e dell’apporto di
aminoacidi fino dalle prime ore di vita per rendere positivo il bilancio azotato e aumentare l’apporto calorico.
Non sono riferiti effetti sfavorevoli quali acidosi metabolica, ipercolesterolemia o ipertrigliceridemia. Di
fronte a queste evidenze, rimangono tuttavia aperti vari problemi. La velocità di crescita fetale è 15-20
g/kg/die, molto difficile da ottenere in un neonato ELBW nelle prime settimane. L’incremento di peso
assoluto non riflette necessariamente una crescita corretta: l'obiettivo è la composizione corporea del feto
di riferimento. Infine, mancano linee guida per ottenere la velocità di crescita fetale: le pratiche correnti
variano ampiamente nei diversi centri. È possibile migliorare l’alimentazione iniziale del VLBW iniziando
la nutrizione parenterale subito dopo la nascita, con aminoacidi a concentrazioni superiori rispetto
all’utilizzo, glucosio per soddisfare le necessità energetiche e lipidi come ulteriore fonte di energia e di
acidi grassi essenziali.
RELAZIONI
SECONDA SESSIONE
95
Bibliografia
1. Rigo J, Senterre J : Nutritional needs of premature infants: current issues. J Pediatr 2006;149:S80-S88
2. te Braake FWJ,. van den Akker CHP, Riedijk MA, van Goudoever JB: Parenteral amino acid and energy
administration to premature infants in early life. Seminars in Fetal & Neonatal Medicine 2007:12, 11-8
3. van Goudoever JB: Amino acid metabolism and protein accretion. In: Thureen PJ, Hay Jr WW, eds. Neonatal
nutrition and metabolism. 2nd ed. Cambridge University Press; 2006. p. 115-21
4. Hay WW, Jr: Intravenous nutrition of the very preterm neonate. Acta Pædiatrica, 2005; 94 (Suppl 449): 47-56
5. Wu G, Jaeger LA, Bazer FW, Rhoads JM. Arginine deficiency in preterm infants: biochemical mechanisms and
nutritional implications. J Nutr Biochem 2004;15:442e51
6. Amin HJ, Zamora SA, McMillan DD, Fick GH, Butzner JD, Parsons HG, Brent Scott R: Arginine supplementation
prevents necrotizing enterocolitis in the premature infant. J Pediatr 2002;140:425-31
7. Shew SB, Keshen TH, Jahoor F, Jaksic T. Assessment of cysteine synthesis in very low-birth weight neonates
using a [13C6]glucose tracer. J Pediatr Surg 2005;40:52e6.
8. Miller RG, Jahoor F, Jaksic T. Decreased cysteine and proline synthesis in parenterally fed, premature infants.
J Pediatr Surg 1995;30:953e7
9. Roberts SA, Ball RO, Moore AM, Filler RM, Pencharz PB: The effect of graded intake of glycyl-L-tyrosine on
phenylalanine and tyrosine metabolism in parenterally fed neonates with an estimation of tyrosine requirement.
Pediatr Res 2001;49: 111e9
10. te Braake FW, van den Akker CH, Wattimena DJ, Huijmans JG, van Goudoever JB. Amino acid administration
to premature infants directly after birth. J Pediatr 2005;147:457e61
11. Simmer K, Rao SC. Early introduction of lipids to parenterally fed preterm infants. Cochrane Database Syst
Rev 2005; CD005256
12. Krohn K, Koletzko B: Parenteral lipid emulsions in paediatrics. Curr Opin Clin Nutr Metab Care 2006:9:31923
13. Sala-Vila A, Barbosa VM, Calder PC: Olive oil in parenteral nutrition. Curr Opin Clin Nutr Metab Care
2007;10:165-74
14. Göbel Y, Koletzko B, Böhles HJ, Engelsberger I, Forget D, Le Brun A, Peters J, Zimmermann A: Parenteral fat
emulsions based on olive and soybean oils: a randomized clinical trial in preterm infants. J Pediatr Gastroenterol
Nutr 2003; 37:161-7
96
RELAZIONI
SECONDA SESSIONE
VENTILAZIONE NON INVASIVA NEL NEONATO DI BASSO PESO
C. Moretti, R. Grossi, C.S. Barbàra
UOC di Pediatria d’Urgenza e di Terapia Intensiva Pediatrica
Policlinico Umberto I- Sapienza Università di Roma
Da molti anni la NCPAP (nasal continuous positive airways pressure) ha un ruolo fondamentale
nell’assistenza respiratoria del neonato.
La NCPAP aumenta la capacità funzionale residua, migliora la compliance polmonare, riduce le resistenza
delle vie aeree e del circolo polmonare e stabilizza la gabbia toracica; tali effetti migliorano la ventilazione
del bambino e riducono il lavoro del respiro. Mediante la NCPAP è quindi possibile realizzare una
assistenza respiratoria efficace e ridurre in maniera significativa il numero dei pazienti che necessitano di
intubazione tracheale e ventilazione meccanica.
La NCPAP è comunemente usata nel trattamento delle apnee della prematurità, nella fase di divezzamento
dal respiratore e nella terapia del distress respiratorio; quando associata a somministrazione di surfattante
esogeno (tecnica INSURE), riduce ulteriormente la necessità di ventilazione meccanica anche in neonati
di età gestazionale <30 settimane (1). Malgrado la sua efficacia rimane però un 30-40% di neonati di
basso peso (VLBW) affetti da RDS in cui bisogna ricorrere alla ventilazione meccanica invasiva perché la
sola CPAP, anche se associata al surfattante, non è sufficiente ad arrestare l’evoluzione della malattia verso
l’insufficienza respiratoria; tale percentuale di fallimento aumenta in maniera inversamente proporzionale
al ridursi dell’età gestazionale.
Tale constatazione ha portato allo sviluppo di tecniche più efficaci di ventilazione non invasiva ed in
particolare alla realizzazione della NIPPV (nasal intermittent positive pressure ventilation). La NIPPV è
una modalità di ventilazione non invasiva che eroga dei cicli di pressione positiva sovraimposti alla CPAP
e la sua maggior efficacia è probabilmente dovuta all’applicazione di una pressione media più elevata a
livello delle vie aeree. Già nei primi anni ’80 il nostro gruppo aveva utilizzato con successo la NIPPV nasale
per il trattamento di neonati con peso alla nascita <1200 g che presentavano crisi di apnea intrattabili (2):
tale tecnica è stata (3) ed è ancora oggi largamente utilizzata in molte TIN al fine di evitare l’intubazione
tracheale.
Negli ultimi anni i progressi della tecnologia hanno permesso di ottimizzare questa tecnica permettendo
di sincronizzare gli atti del respiratore con il respiro spontaneo del bambino (SNIPPV). Tale aspetto è di
grande importanza nella ventilazione non invasiva in quanto manca, con tale tecnica, una connessione
diretta tra circuito di ventilazione e vie aeree del paziente; la sincronizzazione fa si che l’onda di pressione
(e quindi il flusso aereo verso i polmoni) venga erogata dal respiratore esattamente durante la fisiologica
dilatazione delle glottoide durante la fase inspiratoria. Al contrario, durante la fase espiratoria la glottide
tende a chiudersi, in particolare nel neonato con distress (grunting), ed il flusso aereo viene così deviato
prevalentemente verso lo stomaco.
In tre trials controllati e randomizzati sono state messe a confronto l’efficacia della SNIPPV realizzata con la
capsula di Graseby (sensore che rileva l’aumento della pressione addominale durante la fase inspiratoria)
vs. la NCPAP per l’assistenza respiratoria nel neonato prematuro nella fase post-estubazione (4). In tutti
e tre gli studi la percentuale di pazienti estubati con successo era significamente più alta nel gruppo dei
neonati trattati con SNIPPV (~ 90%) rispetto al gruppo trattato con NCPAP (~ 60%). Gli autori di questi
trials concludono che la SNIPPV può aumentare il successo dell’ estubazione nei neonati prematuri, senza
effetti collaterali.
Alla metà degli anni ’90 nel nostro centro è stato realizzato un sensore di flusso da applicare a livello delle
cannule nasali e collegato ad un respiratore pressumetrico fornito di un software in grado di leggere il
segnale del flusso malgrado la presenza di perdite variabili dalla bocca del paziente. Rispetto alla capsula
il sensore di flusso ha il vantaggio di rilevare un segnale determinato direttamente dalla inspirazione
spontanea del paziente, mentre il segnale proveniente dalla capsula è sensibile anche a movimenti della
RELAZIONI
SECONDA SESSIONE
97
parete addominale non finalizzati alla respirazione con frequenti fenomeni di “autotrigger”.
Sono stati poi analizzati gli effetti di questa tecnica di ventilazione non invasiva flusso-sincronizzata sulla
fisiologia respiratoria di neonati con peso alla nascita <1500 g subito dopo l’estubazione, confrontandoli
con la NCPAP (5). Nel confronto è emerso che la SNIPPV aumenta significativamente il volume corrente e il
volume minuto e riduce lo sforzo inspiratorio. Inoltre, durante la SNIPPV è stata osservata una diminuzione
della frequenza respiratoria e dei valori di pCO2.
CPAP e SNIPPV sono state poi confrontate nella fase di divezzamento dal respiratore in neonati con peso
alla nascita < 1250 g (6). In questi pazienti la SNIPPV ha permesso di estubare con successo il 92% dei
neonati vs. il 56% ottenuto con la nCPAP (p <0.05).
In conclusione, la SNIPPV flusso-sincronizzata sembra essere una tecnica promettente di assistenza
respiratoria, anche se sono necessari ulteriori studi randomizzati controllati su una popolazione di neonati
prematuri per poter comprendere appieno le sue potenzialità.
Bibliografia
1. Verder H, Robertson B, Greisen G, et al. Surfatant therapy and nasal continuous positive airway pressure for
newborns with respiratory distress syndrome. N Engl J Med 1994; 331:1051.
2. Moretti C, Marzetti G, Agostino R, et al. Prolonged intermittent positive pressure ventilation by nasal prongs
in intractable apnea of prematurity. Acta Paediatr Scand l981; 70:211.
3. Lin CH, Wang ST, Lin YJ et al.. Efficacy of nasal intermittent positive pressure ventilation in treating apnea of
prematurity. Pediatr Pulmonol 1998; 26: 349.
4. Davis PG, Lemyre B, de Paoli AG. Nasal intermittent positive pressure ventilation (NIPPV) versus nasal
continuous positive airway (CPAP) for preterm neonates after extubation. Cochrane Database Systematic
Reviews 2001.
5. Moretti C, Gizzi C, Papoff P, et al. Comparing the effects of nasal synchronized intermittent positive pressure
ventilation (nSIPPV) and nasal continuous positive airway pressure (nCPAP) after extubation in very low birth
weight infants. Early Hum Dev 1999; 56: 167.
6. Moretti C, Giannini L, Fassi C, et al. Nasal flow-synchronized intermittent positive pressure ventilation to
facilitate weaning in very low-birthweight infants: Unmasked randomized controlled trial. Pediatr Int. 2008;
50(1): 85-91.
TERZA SESSIONE
29 NOVEMBRE 2008
XVI International Workshop on Neonatal Nephrology
Presidenti: Luigi Cataldi
Moderatori: Rino Agostiniani, Vassilios Fanos
Momenti congressuali
RELAZIONI
TERZA SESSIONE
99
ATUBULAR GLOMERULI IN THE PROGRESSION OF CONGENITAL RENAL
DISORDERS
L. Robert Chevalier
Department of Pediatrics, University of Virginia, Charlottesville, VA, USA
Increasing evidence suggests that the long-term outcome of many renal disorders is worse if the number
of nephrons is reduced. Whereas it was previously thought that there are normally one million nephrons
in each kidney, it is now clear that the number varies nearly 10-fold (from 200, 000 to nearly 2, 000, 000).
1
While nephron number can be decreased due to fetal maldevelopment, nephrons can also be lost
postnatally. This can occur through glomerular sclerosis, but also by a process of glomerulotubular
disconnection, resulting in the formation of atubular glomeruli (ATG). Significant numbers of ATG have
been described in kidneys of patients with renal artery stenosis and pyelonephritis.
2, 3
Dramatic changes develop at the glomerulotubular junction of nephrons in children with nephropathic
cystinosis, and cystine induces apoptosis of renal proximal tubular cells in vitro.
4, 5
Examination of kidneys from a 10 year-old child who died with cystinosis showed many ATG (J. Thoene,
personal communication). This is consistent with cystinosis-induced injury to the glomerulotubular
junction, leading to the formation of ATG.
Glomerulotubular disconnection follows proximal tubular injury, due to ischemia, hypoxia, oxidant, or
toxic injury. Proximal tubules are particularly prone to hypoxia in the neonate, 6 and depletion of ATP
causes apoptosis or necrosis in proximal tubular cells. 7 We have reported recently that kidneys from
neonatal mice with knock out of endothelial nitric oxide synthase (eNOS) develop focal areas of proximal
tubular apoptosis and necrosis. 8 These progress to focal renal scars in the adult containing large numbers
of ATG. 8 Importantly, although eNOS is localized to the endothelium in the adult, expression of this
enzyme is restricted to the proximal tubules in the neonatal mouse. 8 This suggests that eNOS acts as
a tubular survival factor, and that reduced renal eNOS in the fetus or neonate may lead to formation of
ATG later in life. Reports of more severe progression of renal disease in patients with mutations of the
eNOS gene are consistent with this view, 9, 10 and underscore the importance of genetic factors in the
progression of congenital renal disorders.
Congenital obstructive nephropathy is a major cause of renal failure in infants, and proximal tubules
produce the majority of renal transforming growth factor-β1 (TGF-β1) following experimental ureteral
obstruction. 11 Production of TGF-β1, in turn, leads to tubular apoptosis in the obstructed kidney.
12
Chronic partial ureteral obstruction in the neonatal mouse leads to apoptosis and necrosis of the
proximal tubule, and to the formation of ATG. 13 Similar lesions have been described in children with
congenital obstructive nephropathy. 14
We conclude that both genetic or environmental factors may contribute to damage of the glomerulotubular
junction in congenital renal disorders, thereby leading to the formation of nonfunctional ATG.15 There
are a number of factors which may increase susceptibility of the fetal or neonatal kidney to such injury.
These include ischemia, hypoxia, generation of reactive oxygen species (ROS), and activation of the
renin-angiotensin system. 15 Manipulation of such factors may provide a new therapeutic approach to
improving the long-term outcome of patients with congenital nephropathies.
Bibliografia
1. Hughson, M. D., Farris, A. B., Douglas-Denton, R., Hoy, W. E. & Bertram, J. F. 2003. Glomerular number and size
in autopsy kidneys: The relationship to birth weight. Kidney Int. 63, 2113-2122.
2. Marcussen, N. 1991. Atubular glomeruli in renal artery stenosis. Lab. Invest. 65, 558-565.
RELAZIONI
100 TERZA SESSIONE
3. Marcussen, N. & Olsen, T. S. 1990. Atubular glomeruli in patients with chronic pyelonephritis. Lab. Invest. 62,
467-473
4. Darmady, E. M. & Stranack, F. 1957. Microdissection of the nephron in disease. Br. Med. Bull. 13, 21-26
5. Park, M., Helip-Wooley, A. & Thoene, J. 2002. Lysosomal cystine storage augments apoptosis in cultured
human fibroblasts and renal tubular epithelial cells. J. Am. Soc. Nephol. 13, 2878-2887
6. Freeburg, P. B. & Abrahamson, D. R. 2004. Divergent expression patterns for hypoxia-inducible factor-1beta
and aryl hydrocarbon receptor nuclear transporter-2 in developing kidney. J. Am. Soc. Nephol. 15, 2569-2578
7. Lieberthal, W., Menza, S. A. & Levine, J. S. 1998. Graded ATP depletion can cause necrosis or apoptosis of
cultured mouse proximal tubular cells. Am. J. Physiol. 274, F315-F327
8. Forbes, M. S., Thornhill, B. A., Park, M. H. & Chevalier, R. L. 2007. Lack of endothelial nitric-oxide synthase leads
to progressive focal renal injury. Am. J. Pathol. 170, 87-99
9. Noiri, E., Satoh, H., Taguchi, J., Brodsky, W. V., Nakao, A., Ogawa, Y., Nishijima, S., Yokomizo, T., Tokunaga, K. &
Fujita, T. 2002. Association of eNOS Glu298Asp polymorphism with end-stage renal disease. Hypertension 40,
535-540
10. Persu, A., Stoenoiu, S., Messiaen, T., Davila, S., Robino, C., El-Khattabi, O., Mourad, M., Horie, W., Feron, O.,
Balligand, J. L., Wattiez, R., Pirson, Y., Chauveau, D., Lens, X. M. & Devuyst, O. 2002. Modifier effect of eNOS in
autosomal dominant polycystic kidney disease. Hum. Mol. Genet. 11, 229-241
11. Fukuda, K., Yoshitomi, K., Yanagida, T., Tokumoto, M. & Hirakata, H. 2001. Quantification of TGF-b1 mRNA
along rat nephron in obstructive nephropathy. American Journal of Physiology 281, F513-F521
12. Miyajima, A., Chen, J., Lawrence, C., Ledbetter, S., Soslow, R. A., Stern, J., Jha, S., Pigato, J., Lemer, M. L.,
Poppas, D. P., Vaughan, E. D., Jr. & Felsen, D. 2000. Antibody to transforming growth factor-b ameliorates tubular
apoptosis in unilateral ureteral obstruction. Kidney Int. 58, 2301-2313
13. Thornhill, B. A., Forbes, M. S., Marcinko, E. S. & Chevalier, R. L. 2007. Glomerulotubular disconnection in
neonatal mice after relief of partial ureteral obstruction. Kidney Int. 72, 1103-1112
14. Garcia, C. H., Krueger, K., Landing, B. H. & Wells, T. R. 1986. Microdissection demonstration of the lesion of the
endocrine kidney in children. Pediatr. Pathol. 5, 45-54
15. Chevalier, R. L. & Forbes, M. S. 2008. Generation and evolution of atubular glomeruli in the progression of
renal disorders. J. Am. Soc. Nephol. 19, 197-206
RELAZIONI
TERZA SESSIONE
101
BIOMARKERS IN ACUTE KIDNEY INJURY: THE ROLE OF PROTEOMICS
M. Mussap
Laboratorio Centrale, Azienda Ospedaliera Universitaria San Martino, Genova (Italy)
Introduction
Acute kidney injury (AKI) is a term proposed to reflect the entire spectrum of acute renal failure (ARF),
a complex disorder that occurs in a wide variety of settings with clinical manifestations ranging from a
minimal elevation in serum creatinine to anuric renal failure (1). AKI represents a significant but underrecognized problem in clinical medicine, with devastating immediate and long-term consequences (2-5).
The incidence of AKI varies from 5% of hospitalized patients to 30-50% of patients in intensive care units.
There is substantial indication that the incidence of AKI is rising at an alarming rate, and the associated
mortality and morbidity have remained high despite improvements in clinical care (6). While the worst
outcomes in AKI have traditionally been associated with dialysis requirement, there is now mounting
evidence to suggest that even very small increases in serum creatinine portend a significant amplification
in mortality and morbidity rates (7). While recent advances have suggested novel mechanistic insights
and therapeutic approaches in animal models, translational efforts in humans have yielded disappointing
results. The reasons for this include a lack of a consensus definition of AKI, an incomplete understanding
of the underlying pathophysiology, and the lack of early biomarkers for AKI, akin to troponins in acute
myocardial disease, leading to an unacceptable delay in initiating therapy (8). In current clinical practice,
AKI is typically diagnosed by measuring serum creatinine. Unfortunately, creatinine is an unreliable
indicator during acute changes in kidney function (9). First, serum creatinine levels can vary widely
with age, gender, muscle mass, muscle metabolism, medications, and hydration status. Second, serum
creatinine concentrations may not change until about 50% of kidney function has already been lost.
Third, at lower rates of glomerular filtration, the amount of tubular secretion of creatinine results in
overestimation of renal function. Fourth, during acute changes in glomerular filtration, serum creatinine
does not accurately depict kidney function until steady state equilibrium has been reached, which may
require several days. However, animal studies have shown that while AKI can be prevented and/or treated
by several maneuvers, these must be instituted very early after the initiating insult, well before the serum
creatinine even begins to rise. Not surprisingly, the lack of early biomarkers has negatively impacted on a
number of landmark clinical trials investigating highly promising therapies for AKI in humans.
Conventional urinary biomarkers such as casts and fractional excretion of sodium have been insensitive
and non-specific for the early recognition of AKI. The concept of developing a new toolbox for earlier
diagnosis of disease states is also prominently featured in the NIH Road Map for biomedical research (10).
Fortunately, the application of innovative technologies such as functional genomics and proteomics to
human and animal models of kidney disease has uncovered several novel candidates that are emerging
as biomarkers and therapeutic targets (11-14).
Desirable properties of Aki Biomarkers
In addition to aiding in the early diagnosis and prediction, biomarkers may serve several other purposes
in AKI. Thus, biomarkers are also needed for:
(a) identifying the primary location of injury (proximal tubule, distal tubule, interstitium, or vasculature);
(b) pinpointing the duration of kidney failure (AKI, chronic kidney disease, or “acute-on-chronic”);
(c) discerning AKI subtypes (pre-renal, intrinsic renal, or post-renal);
(d) identifying AKI etiologies (ischemia, toxins, sepsis, or a combination);
(e) differentiating AKI from other forms of acute kidney disease (urinary tract infection, glomerulonephritis,
interstitial nephritis);
(f ) risk stratification and prognostication (duration and severity of AKI, need for renal replacement therapy,
length of hospital stay, mortality);
(g) defining the course of AKI;
RELAZIONI
102 TERZA SESSIONE
(h) monitoring the response to AKI interventions.
Furthermore, AKI biomarkers may play a critical role in expediting the drug development process. The
Critical Path Initiative issued by the FDA in 2004 stated that “Additional biomarkers (quantitative measures
of biologic effects that provide informative links between mechanism of action and clinical effectiveness)
and additional surrogate markers (quantitative measures that can predict effectiveness) are needed to
guide product development”. Desirable characteristics of clinically applicable AKI biomarkers include:
(a) they should be non-invasive and easy to perform at the bedside or in a standard clinical laboratory,
using easily accessible samples such as blood or urine;
(b) they should be rapidly and reliably measurable using a standardized assay platform;
(c) they should be highly sensitive to facilitate early detection, and with a wide dynamic range and cut-off
values that allow for risk stratification;
(d) they should be highly specific for AKI, and enable the identification of AKI sub-types and etiologies;
(e) they should exhibit strong biomarker properties on receiver-operating characteristic (ROC) curves.
The search for novel Aki Biomarkers
The biomarker development process has typically been divided into five phases (15). The preclinical
discovery phase requires high-quality, well-characterized tissue or body fluid samples from carefully
chosen animal or human models of the disease under investigation. Typically, tissue analysis utilizes
genomic approaches whereas body fluids are best analyzed by proteomic techniques. Identifying
biomarkers in the serum or urine is most desirable, since these samples are easily obtained and allow for
non-invasive testing. Urine is more likely to contain biomarkers arising from the kidney, more applicable
for easy patient self-testing, and more amenable to proteomic screening due to the limited number of
protein species present. However, urine samples are more prone to protein degradation, and biomarker
concentrations may be confounded by changes in urine flow rate. Serum samples are readily available
even in anuric patients, and serum biomarkers exhibit better stability. On the other hand, serum markers
may reflect the systemic response to a disease process rather than specific organ involvement, and the
presence of a large number of normally abundant proteins (such as albumin and immunoglobulins) in
blood renders proteomic approaches difficult.
The widespread availability of enabling technologies such as functional genomics and proteomics has
accelerated the rate of novel biomarker discovery. The advent of the microarray, or cDNA chip, allows
investigators to search through thousands of genes simultaneously, making the process very efficient.
Such gene expression profiling studies have identified several genes whose protein products have
emerged as AKI biomarkers, as detailed below. However, microarray-based methods cannot be used
for the direct analysis of biological fluids, and usually require downstream confirmation by proteomic
techniques prior to clinical use. Proteomics is the study of both the structure and function of proteins by
a variety of methods, such as gel electrophoresis, immunoblotting, mass spectrometry, and enzymatic or
metabolic assays. Each method is used to determine different types of information and has its own set
of strengths and limitations. Advancing technologies have radically improved the speed and precision of
identifying and measuring proteins in biological fluids, and proteomic approaches are also beginning to
yield novel AKI biomarkers (16), as detailed below.
Conclusions
The tools of contemporary proteomics have provided us with promising novel biomarkers for the
clinical investigation of AKI in humans. These include a plasma panel (NGAL and cystatin C) and a urine
panel (NGAL, KIM-1, IL-18, cystatin C, α1-microglobulin, Fetuin-A, Gro-α, and meprin) (17-30). Since they
represent tandem biomarkers, it is likely that the AKI panels will be useful for timing the initial insult
and assessing the duration and severity of AKI (analogous to the cardiac panel for evaluating chest
pain). Based on the differential expression of the biomarkers, it is also likely that the AKI panels will help
distinguish between the various types and etiologies of AKI, and predict clinical outcomes. However, they
RELAZIONI
TERZA SESSIONE
103
have hitherto been tested only in small studies and in a limited number of clinical situations. It will be
important in future studies to validate the sensitivity and specificity of these biomarker panels in clinical
samples from large cohorts and from multiple clinical situations. Such studies will be markedly facilitated
by the availability of commercial tools for the reliable and reproducible measurement of biomarkers
across different laboratories. Ongoing and future proteomic studies will likely yield additional sensitive
and specific biomarkers for the investigation of AKI resulting from diverse etiologies. Such tools will be
indispensable for the early diagnosis and initiation of timely therapeutic measures.
References
1. Mehta RL, Kellum JA, Shah SV, et al. Acute Kidney Injury Network: report of an initiative to improve outcomes
in acute kidney injury. Crit Care. 2007;11:R31.
2. Lameire N, Van Biesen W, Vanholder R. Acute renal failure. Lancet. 2005;365:417-430.
3. Uchino S, Kellum JA, Bellomo R, et al. Acute renal failure in critically ill patients: a multinational, multicenter
study. JAMA. 2005;294:813-818.
4. Palevsky PM. Epidemiology of acute renal failure: the tip of the iceberg. Clin J Am Soc Nephrol. 2006;1:6-7.
5. Liangos O, Wald R, O’Bell JW, et al. Epidemiology and outcomes of acute renal failure in hospitalized patients:
a national survey. Clin J Am Soc Nephrol. 2006;1:43-51.
6. Waikar SS, Curhan GC, Wald R, et al. Declining mortality in patients with acute renal failure, 1988 to 2002. J Am
Soc Nephrol. 2006;17:1143-1150.
7. Lassning A, Schmidlin D, Mouhieddine M, et al. Minimal changes of serum creatinine predict prognosis in
patients after cardiothoracic surgery: a prospective cohort study. J Am Soc Nephrol. 2004;15:1597-1605.
8. Hewitt SM, Dear J, Star RA. Discovery of protein biomarkers for renal diseases. J Am Soc Nephrol. 2004;15:16771689.
9. Bellomo R, Kellum JA, Ronco C. Defining acute renal failure: physiological principles. Intensive Care Med.
2004;30:33-37.
10. Zerhouni E. The NIH Roadmap. Science. 2003;302:63-65.
11. Schaub S, Wilkins JA, Rush D, Nickerson P. Developing a tool for noninvasive monitoring of renal allografts.
Expert Rev Proteomics. 2006;3:497-509.
12. Thongboonkerd V. Proteomics in nephrology: Current status and future directions. Am J Nephrol.
2004;24:360-378.
13. Vidal BC, Bonventre JV, Hsu SIH. Towards the application of proteomics in renal disease diagnosis. Clin Sci.
2005;109:421-430.
14. O’Riordan E, Gross SS, Goligorsky MS. Technology insight: renal proteomics - at the crossroads between
promise and problems. Nat Clin Prac Nephrol. 2006;2:445-458.
15. Pepe MS, Etzioni R, Feng Z, et al. Phases of biomarker development for early detection of cancer. J Natl
Cancer Inst. 2001;93:1054-1061.
16. Nguyen M, Ross G, Dent C, et al. Early prediction of acute renal injury using urinary proteomics. Am J Nephrol.
2005;25:318-326.
17. Cheng C-W, Rifai A, Ka S-M, et al. Calcium-binding proteins annexin A2 and S100A6 are sensors of tubular
injury and recovery in acute renal failure. Kidney Int. 2005;68:2694-2703.
18. Thakar CV, Zahedi K, Revelo MP, et al. Identification of thrombospondin 1 (TSP-1) as a novel mediator of cell
injury in kidney ischemia. J Clin Invest. 2005;115:3451-3459.
19. Ichimura T, Bonventre JC, Bailly V, et al. Kidney Injury Molecule-1 (KIM-1), a putative epithelial cell adhesion
molecule containing a novel immunoglobulin domain, is up-regulated in renal cells after injury. J Biol Chem.
RELAZIONI
104 TERZA SESSIONE
1998;273:4135-4142.
20. Muramatsu Y, Tsujie M, Kohda Y, et al. Early detection of cysteine rich protein 61 (CYR61, CCN1) in urine
following renal ischemic reperfusion injury. Kidney Int. 2002;62:1601-1610.
21. Zahedi K, Wang Z, Barone S, et al. Expression of SSAT, a novel biomarker of tubular cell damage, increases in
kidney ischemia-reperfusion injury. Am J Physiol Renal Physiol. 2003;284:F1046-F1055.
22. Mishra J, Dent C, Tarabishi R, et al. Neutrophil gelatinase-associated lipocalin (NGAL) as a biomarker for
acute renal injury following cardiac surgery. Lancet. 2005;365:1231-121238.
23. Mishra J, Ma Q, Kelly C, et al. Kidney NGAL is a novel early marker of acute injury following transplantation.
Pediatr Nephrol. 2006;21:856-863.
24. Parikh CR, Mishra J, Thiessen-Philbrook H, et al. Urinary IL-18 is an early predictive biomarker of acute kidney
injury after cardiac surgery. Kidney Int. 2006;70:199-203.
25. Parikh CR, Jani A, Mishra J, et al. Urine NGAL and IL-18 are predictive biomarkers for delayed graft function
following kidney transplantation. Am J Transplant. 2006;6:1639-1645.
26. Bachorzewska-Gajewska H, Malyszko J, Sitniewska E, et al. Neutrophil gelatinase-associated lipocalin (NGAL)
correlations with cystatin C, serum creatinine and eGFR in patients with normal serum creatinine undergoing
coronary angiography. Nephrol Dial Transplant. 2007;22:295-296.
27. Han WK, Bailly V, Abichandani R, et al. Kidney injury molecule-1 (KIM-1): a novel biomarker for human renal
proximal tubule injury. Kidney Int. 2006;62:237-244.
28. Liangos O, Perianayagam MC, Vaidya VS, et al. Urinary N-Acetyl-b-(D)-Glucosaminidase activity and
Kidney Injury Molecule-1 level are associated with adverse outcomes in acute renal failure. J Am Soc Nephrol.
2007;18:904-912.
29. Caron A, Desrosiers RR, Beliveau R. Kidney ischemia-reperfusion regulates expression and distribution of
tubulin subunits, β-actin and rho GTPases in proximal tubules. Arch Biochem Biophys. 2004;431:31-46.
30. Aufricht C. Heat-shock protein 70: molecular supertool? Ped Nephrol. 2005;20:707-713.
RELAZIONI
TERZA SESSIONE
105
L’IPONATREMIA IPOTONICA EUVOLEMICA NEL NEONATO: DIAGNOSI E
MANAGEMENT
M.A. Marcialis, M.C. Pintus, A. Dessì, S. Contu, S. Spada, A. Cuccu, V. Fanos
Introduzione
L’iponatremia neonatale è un problema clinico complesso che presenta ancora molti lati oscuri riguardo
sia la fisiopatologia sia la frequenza e può essere causato da scenari opposti.
Un abbassamento della concentrazione sierica di sodio può essere secondario ad aumentate perdite
(deplezionale) o ad aumentato apporto idrico (diluizionale); può associarsi ad alti valori di AVP (Arginin
Vasopressina) oppure a bassi valori di AVP. Qualora l’AVP sia elevato occorre stabilire se questo aumento
è secondario ad uno stimolo osmotico o meno e, in caso negativo, sarà necessario chiedersi perché.
Curiosamente anche la terapia dell’iponatremia può basarsi su una restrizione idrica o, viceversa, su un
aumentato apporto di fluidi. La correzione di un’iponatremia infine, può essere rapida, qualora si voglia
trattare un edema cerebrale oppure lenta se si vuole prevenire la demielinizzazione osmotica.
La frequenza dell’iponatremia, ben conosciuta nel pretermine (variabile dal 25 al 65% dei ricoverati in
Terapia Intensiva), e nei bambini più grandi ospedalizzati (3% dei ricoverati), è meno conosciuta nel nato
a termine. La stessa definizione di iponatremia (sodio sierico <135mEq/l) presenta dei limiti perché si
basa sulla concentrazione sierica del sodio e non ci dà indicazioni quantitative sul liquido extracellulare
(LEC) né tanto meno sullo stato effettivo del contenuto sodico corporeo totale. E’ molto importante
sottolineare che la concentrazione sodica è determinata dal rapporto sodio/acqua nel compartimento
ematico e non dal valore assoluto del sodio. Un eccesso d’acqua si accompagna infatti a iponatremia,
viceversa un difetto può portare ad un’ipernatremia.
L’iponatremia è un importante problema clinico in quanto può causare gravi problemi a livello cerebrale,
tali meccanismi sono ben conosciuti nell’adulto, meno nel neonato:
1. Entro pochi minuti dall’inizio di un’iponatremia si verifica un edema cerebrale.
2. Dopo alcune ore segue un adattamento rapido che risulta da una fuoriuscita di elettroliti dalle cellule.
3. Entro diversi giorni (adattamento lento) si verifica una fuoriuscita compensatoria di osmoliti organici
dalle cellule (aminoacidi e fosfolipidi).
L’elevata compliance del cranio neonatale (legata alla presenza di fontanelle e ossa craniche non
ancora ossificate), rappresenta un meccanismo che si oppone alla rapidità con la quale si instaura una
sintomatologia legata all’iponatremia, non si conoscono inoltre i tempi necessari in età neonatale affinché
si instauri il meccanismo di adattamento lento.
Classificazione dell’iponatremia
Esistono tre tipi di iponatremia classificati sulla base dell’osmolarità plasmatica:
- L’iponatremia isotonica (280-295mOsm/L) è rara in età pediatrica ed è dovuta solitamente ad un errore
di laboratorio. Sono infatti rarissime, nel neonato, le pseudoiponatremie secondarie a iperlipemia e
iperproteinemia.
- L’iponatremia ipertonica (>295mOsm/L) si può verificare occasionalmente in caso di iperglicemia con
conseguente spostamento di fluido dal liquido intracellulare (LIC) al LEC ed è aggravata dalla diuresi
osmotica che si verifica in questi casi.
- L’iponatremia ipotonica è la forma più frequente nel neonato e si può verificare in un contesto di LEC
contratto (ipovolemia), normale o espanso.
Di conseguenza differenti quadri patologici possono presentare lo stesso sintomo: l’iponatremia. La
valutazione del LEC si basa sullo studio della la storia clinica, dei segni clinici e di risultati degli esami di
laboratorio.
Le cause di iponatremia ipovolemica possono essere renali o extrarenali, dovute a perdita di sodio
renale (cerebral salt wasting CSW). o gastrointestinale (vomiti, diarrea), perdite nel terzo spazio
(ostruzione intestinale ed enterocolite necrotizzante), uso di diuretici, emorragia surrenalica, deficienza
RELAZIONI
106 TERZA SESSIONE
di mineralcorticoidi.
In caso di iponatremia ipovolemica (LEC contratto) andranno ricercati nel neonato segni clinici di
contrazione di volume quali:
- bassa pressione arteriosa;
- elevata frequenza cardiaca, fontanella depressa, mucose asciutte, ridotto turgore cutaneo;
- ridotto riempimento delle camere cardiache e bassa gittata all’ecocardio;
- ridotto tempo di refill capillare alla digito-pressione.
Per quanto riguarda gli esami di laboratorio possiamo riscontrare:
- > livelli sierici di urea, creatinina e acido urico;
- < escrezione frazionata del Sodio (FENa) (<1%);
- < concentrazione urinaria di sodio in uno spot urinario (< 30 mmol/L) a meno che il rene non rappresenti
la causa della perdita di sodio.
L’iponatremia ipotonica ipervolemica può essere secondaria ad insufficienza cardiaca acuta o cronica e a
insufficienza renale acuta o cronica. Quest’ultima è caratterizzata da segni clinici quali:
- edema sottocutaneo;
- ascite;
- edema polmonare;
- versamento pericardico e/o pleurico.
Gli esami di laboratorio saranno caratterizzati, come nella forma ipovolemia, da bassi livelli di FeNa e
sodio urinario.
L’iponatremia euvolemica
L’iponatremia euvolemica nel neonato è un’iponatremia da diluizione, generalmente legata ad un
eccessivo apporto idrico e esacerbata dalla difficoltà del rene neonatale a smaltire un carico d’acqua. Si
tratta di una diagnosi di esclusione.
Possiamo parlare infatti di iponatremia euvolemica in caso di assenza di segni clinici di deplezione o di
espansione di volume associati a:
- >FE Na (>3%);
- concentrazione urinaria di sodio > 30 mmol/L.
Le malattie che causano sofferenza respiratoria (comprese le perdite d’aria, enfisema interstiziale,
pneumotorace e pneumomediastino) e la stessa ventilazione meccanica, si associano a elevati livelli di
AVP, la cui secrezione è stimolata dall’abbassamento della pressione arteriosa e dalla successiva attivazione
dei barocettori aortici, carotidei e polmonari. In tutti questi casi l’iponatremia è in genere transitoria e
scompare col trattamento della causa sottostante.
In altri casi alla base vi è la Sindrome da Inappropriata Secrezione di Adiuretina (SIADH), la deficienza
isolata di glucocorticoidi e l’ipotiroidismo.
La SIADH è una causa comune di iponatremia individuata nel 1967 da Bartter e Schwartz. I criteri
diagnostici sono specifici e includono: l’iponatremia, l’ipotonicità, l’inappropriata concentrazione delle
urine (>100mOsm/Kg di acqua), l’elevata concentrazione urinaria di sodio (>20 mEq/L), l’euvolemia e la
normale funzione renale, surrenalica e tiroidea.
Dal momento che difficilmente si osservano casi che soddisfano tutti i punti necessari per la diagnosi la
sua frequenza nel neonato è probabilmente sovrastimata. In ogni caso più frequentemente la SIADH,
malattia nel neonato generalmente transitoria e autolimitante, si associa a un’iponatremia acuta (della
durata inferiore a una settimana). In età pediatrica (ma in nessun caso neonatale), sono stati osservati solo
15 casi di SIADH cronica (della durata superiore a una settimana).
La deficienza isolata di glucocorticoidi è un disordine ipotalamico che si può osservare in caso di
malformazioni cerebrali quali oloprosencefalia oppure ipofisario che interessa la secrezione di ACTH
ma si accompagna a una normale secrezione di aldosterone. In questi casi la presenza di aldosterone
impedisce la perdita di sodio renale, l’ipovolemia e l’ipercaliemia. Il meccanismo che causa la ritenzione
RELAZIONI
TERZA SESSIONE
107
idrica sarebbe secondario all’aumento dell’AVP non secondario a uno stimolo ipovolemico e neanche
osmotico. In adulti trattati con inibitori del recettore si osserva una quasi completa normalizzazione
dell’iponatremia.
L’iponatremia da ipotiroidismo è rara nel neonato, nonostante la più elevata frequenza dell’ipotiroidismo
rispetto alle due malattie già citate. La causa dell’iponatremia sarebbe legata, secondo alcuni autori,
al fatto che gli ormoni tiroidei regolano la Na/K ATPasi a livello dei tubuli renali; secondo altri, sarebbe
invece da attribuire un’alterata escrezione dell’acqua secondaria a variazioni della perfusione renale e
della filtrazione glomerulare dovute agli effetti dell’ipotiroidismo sulla gittata cardiaca e sulle resistenze
periferiche vascolari.
Nei casi in cui la valutazione del LEC non sia facile, oppure le urine abbiano una concentrazione di sodio
< 40mmol/L sarà utile fare una prova dinamica con soluzione salina isotonica poiché l’iponatremia
ipovolemica si correggerà, mentre l’euvolemica no.
Un caso clinico di iponatremia neonatale precoce, severa e persistente
Riportiamo di seguito un caso clinico di iponatremia neonatale precoce, severa e persistente che potrà
forse risultare utile ai neonatologi che affrontano tale disturbo elettrolitico.
Lorenzo è primogenito di genitori non consanguinei, nasce asfittico, con parto spontaneo, dopo una
gravidanza fisiologica. Dopo rianimazione cardio-polmonare con intubazione e massaggio cardiaco
esterno, il paziente viene trasferito presso il Reparto di Terapia Intensiva Neonatale dell’Università di
Cagliari. All’ingresso presenta un grave quadro di sofferenza neurologica caratterizzato da ipotonia
diffusa, letargia, debolezza dei riflessi arcaici, scarsa reazione agli stimoli. Dopo circa 7 ore dalla nascita
compaiono inoltre convulsioni tonico-cloniche. Tale quadro è inquadrabile in una encefalopatia-ipossicoischemica di grado II secondo Sarnat e Sarnat.
Nei primi tre giorni la diuresi è contratta, per cui il piccolo viene sottoposto ad un elevato carico idrico
onde forzare la diuresi. Nei giorni successivi presenta una rapida ripresa della funzione respiratoria, per cui
viene estubato e anche le sue condizioni neurologiche migliorano tanto che, dal momento che il piccolo
mostra capacità di suzione, la sua alimentazione è mista: in parte spontanea per il resto parenterale. Molto
precocemente il neonato presenta valori di sodio sierico bassi che richiedono supplementazione con 8
mEq/L/Kg di NaCl. Nei giorni successivi la sodiemia si mantiene bassa (con valori compresi tra 130-132
mEq/l nella prima settimana di vita) nonostante la supplementazione. Il paziente è un nato asfittico e i
neonati asfittici presentano una escrezione sodica elevata associata ad una bassa capacità di eliminare
un carico idrico. I quozienti idrici ai quali il piccolo viene sottoposto nei primi giorni di vita sono elevati
(60ml/Kg in prima, 90ml/Kg in seconda e 120ml/Kg in terza giornata) allo scopo di forzare la diuresi che è
contratta. Alla fine della prima settimana il piccolo non presenta calo fisiologico e il suo peso, al contrario,
aumenta di 500 grammi. Dopo la prima settimana, nonostante l’apporto idrico e l’introito di sodio siano
normali, l’iponatremia, non solo persiste ma diventa severa (120 mEq/l), l’osmolarità plasmatica è bassa e
la natriuresi elevata. Il primo provvedimento terapeutico adottato è la restrizione idrica (70% dell’apporto
fisiologico per l’età) associata ad un normale apporto sodico. Tale tentativo terapeutico si rivela ben presto
inefficace e, alla fine della terza settimana di vita, i livelli di sodio plasmatici sono drammaticamente bassi
(109 mEq/L). Dopo aver consultato esperti nefrologi pediatri si tenta normalizzare il sodio sierico con
infusioni endovenose di soluzione fisiologica isotonica, normalizzazione dell’apporto idrico e due dosi
estemporanee di diuretici (Lasix 1 mm/Kg dose), in questo modo i livelli di sodio plasmatici salgono
lentamente fino a valori lievemente più bassi della norma (130 mEq/L). Considerati i dati anamnestici
di encefalopatia ipossico-ischemica, iponatremia e ipernatrieuresi viene presa in considerazione
inizialmente la diagnosi differenziale tra SIADH e Cerebral Salt Wasting. Sia la CSW che la SIADH si possono
associare ad un danno cerebrale. Nella CSW (visto che l’evento scatenante è la perdita di sodio nelle urine
con secondaria riduzione del volume intravasale e successivo aumento dell’AVP), l’iponatremia è di tipo
ipovolemico e si associa a segni di disidratazione (ridotto turgore cutaneo, ipotensione, aumento della
frequenza cardiaca, ematocrito alto, uricemia normale).
Il piccolo non presenta né segni clinici né di laboratorio di disidratazione per cui, una volta escluse le cause
RELAZIONI
108 TERZA SESSIONE
sintomatiche di iponatremia euvolemica quali: ipotiroidismo, mancata produzione di glucocorticoidi, si
valuta l’uricemia che risulta bassa.
Di seguito riportamo un algoritmo da noi approntato che riteniamo utile, a nostro avviso, in caso di
iponatremia euvolemica neonatale prolungata. L’approccio diagnostico si basa sulla valutazione clinica
del volume di liquido extracellulare e sull’escrezione sodica.
Fig. 1. Algoritmo per la diagnosi differenziale delle iponatremie neonatali
Nel nostro caso l’orientamento clinico depone per la SIADH. Si dosa pertanto l’AVP che risulta
inaspettatamente normale.
Alla luce di questi risultati ci orientiamo verso la diagnosi di Nephrogenic Syndrome of Inappropriate
Antidiuresis. Lo studio molecolare per la ricerca della mutazione del gene R137C risulta positivo per la
mutazione in emizigosi del bambino ed in eterozigosi della madre confermando il sospetto clinico.
Successivamente il piccolo viene trattato con una soluzione orale di urea al 30% alla dose 0.1g/Kg/die
divisa in quattro dosi, aumentata progressivamente fino a 1.2g/Kg/die, come suggerito da Huang e coll.,
e si assiste a una progressiva normalizzazione della natremia.
A 9 mesi l’urea viene discontinuata e successivamente sospesa a causa della normalizzazione della
sodiemia ma il piccolo è portatore di gravi esiti neurologici legati presumibilmente alla encefalopatia
ipossico-ischemica pregressa (paralisi cerebrale di tipo distonico).
Il paziente descritto rappresenta il quarto caso di NSIAD causato da mutazioni del gene AVPR2 finora
descritto in bambini e il primo caso ad esordio neonatale. L’evoluzione clinica del nostro caso è diversa
rispetto alle due segnalazioni della letteratura, poiché il decorso neonatale è stato complicato da una
grave sindrome ipossico-ischemica.
RELAZIONI
TERZA SESSIONE
109
Nephrogenic Syndrome of Inappropriate Antidiuresis (NSIAD)
Nel maggio 2005 Feldman e altri autori, hanno descritto due lattanti con sintomi suggestivi di SIADH, ma
con valori di adiuretina sierica non misurabili. Nel primo paziente la malattia era esordita a tre mesi di età
con irritabilità e nel secondo a due mesi e mezzo con convulsioni. Entrambi i pazienti avevano presentato
un normale decorso neonatale.
L’esame fisico e gli esami di laboratorio avevano mostrato una lieve ipertensione sistolica e iponatremia
associata a potassio sierico e bicarbonato nella norma. I piccoli presentavano inoltre un’osmolarità sierica
bassa con aumento inappropriato dell’osmolarità e dei livelli di sodio urinario.
Altre caratteristiche includevano urea plasmatici bassa, livelli di aldosterone normali e attività reninica
bassa o soppressa.
Gli autori, dopo aver ipotizzato una mutazione del gene V2R, identificano due differenti mutazioni
nel gene AVPP2 (R137C e R137L) che causano eccesso di funzione del gene del recettore dell’ormone
antidiuretico arginina-vasopressina (AVPR2) localizzato nel cromosoma X e coniano il termine di
Nephrogenic Sindrome of Inappropriate Antidiuresis. La peculiarità della NSIAD sta nel fatto che differenti
mutazioni nel gene AVPR2 consistenti nella sostituzione di un unico aminoacido, determinano due forme
morbose caratterizzate da una patogenesi opposta. Nel Diabete Insipido Nefrogenico di tipo 1 (CNDI),
la mutazione è detta inattivante poiché comporta l’inattivazione del recettore V2, mentre nella NSIAD si
verifica un’attivazione del recettore V2 che si associa ad una eccessiva funzionalità (TAb.1).
Successivamente Bes ha riscontrato la malattia in un bambino di 5 anni che aveva presentato saltuarie
convulsioni iponatremiche trattate con restrizione idrica e somministrazione di NaCl.
Nel nostro paziente l’ecografia cerebrale evidenzia inizialmente un’ecogenicità dei talami e dei gangli
della base seguita da uno slargamento marcato del terzo ventricolo (indice di atrofia talamica) associato
a modesto slargamento dei ventricoli laterali e della scissura interemisferica.
La Risonanza Magnetica conferma tale reperto evidenziando una lieve ectasia delle camere ventricolari
associata a un’ anomala intensità di segnale a livello dei gangli della base e dei talami compatibile
con esiti di grave encefalopatia ipossico-ischemica. L’EEG evidenzia anomalie epilettiformi plurifocali
biemisferiche.
La NSIAD potrebbe non essere rara, la sua frequenza è probabilmente sottostimata e, a nostro avviso,
dovrebbe essere inclusa nella diagnosi differenziale delle iponatremie neonatali euvolemiche, a decorso
protratto, associate a natriuresi elevata e a livelli normali o bassi di AVP.
CNDI (tipo1)
NSIAD
Genetica
X linked
Gene
AVPR2*
Istidina
X linked
Gene
AVPR2*
Leucina o
Cisteina
Conseguenza
Inattivazione
recettore V2
Iperattivazione
recettore V2
Sintomi
Poliuria, disidratazione
ipernatremica,
ipertermia, difetto di crescita,
ritardo mentale e morte
Irritabilità e convulsioni
Dati di laboratorio
Ipernatremia, iperosmolarità,
bassa osmolarità
urinaria
Iponatremia, iposmolarità,
aumentata osmolarità urinaria
Terapia
Aumentato apporto idrico,
basso apporto di sodio e
idroclortiazide
Ridotto apporto idrico, elevato
apporto di sodio e urea orale
Tab.1 Confronto tra Diabete Insipido Nefrogenico Congenito e Sindrome da Inappropriata Antidiuresi Renale
RELAZIONI
110 TERZA SESSIONE
Bibliografia
1. Robertson GL (2001) Antidiuretic hormone: normal and disordered function. Endocrinol Metab Clin North
Am 30: 671-694.
2. Morello JP, Bichet DG (2001) Nephrogenic diabetes insipidus. Annu Rev Physiol 63: 607-630.
3. Rosenthal W, Antaramian A, Gilbert S, Birnbauer M (1993) Nephrogenic diabetes insipidus: a V2 vasopressin
receptor unable to stimulate adenylyl cyclase. J Biol Chem 268: 13030-13033.
4. Bartter FC, Schwartz WB (1967) The syndrome of inappropriate secretion of antidiuretic hormone. Am J Med
42: 790-806.
5. Baylis PH (2003) The syndrome of inappropriate antidiuretic hormone secretion. The International Journal of
Biochemistry and Cell Biology 35: 1495-1499.
6. Heng AE, Lautrette A, Deteix P, Souweine B (2006) Syndrome de secretion inappropriée d’hormone
antidiurétique: diagnostic et prise en charge. New approaches to detect and manage the syndrome of
inappropriate antidiuretic hormone secretion (SIADH). Réanimation 15: 490-496.
7. Ellison DH, Berl T (2007) The syndrome of inappropriate antidiuresis. N Engl J Med 356: 2064-72.
8. Feldman BJ, Rosenthal SM, Vargas GA, Fenwick RG, Huang EA, Matsuda-Abedini M, Lusting RH, Mathias RS,
Portale AA, Miller WL, Gitelman SE (2005) Nephrogenic syndrome of inappropriate antidiuresis. N Engl J Med
352:1884-1890.
9. Gitelman SE, Feldman BJ, Rosenthal SM (2006) Nephrogenic syndrome of inappropriate antidiuresis: a novel
disorder in water balance in pediatric patients. Am J Med 119(7Suppl 1):S54-8.
10. Decaux G, Vandergheynst F, Bouko Y, Parma J, Vassart G, Vilain C (2007) Nephrogenic syndrome of
inappropriate antidiuresis in adults: high phenotypic variability in men and women from a large pedigree. J Am
Soc Nephrol 18: 606-612.
11. Bes DF, Mendilaharzu H, Fenwick RG, Arrizurieta E (2007) Hyponatremia resulting from Arginine Vasopressin
Receptor 2 gene mutation. Pediatr Nephrol 22:463-466.
12. Faa’ V, Pellegrini Bettoli P, Demurtas M, Zanda M, Ferri V, Cao A, Rosatelli MC (2006) A new insertion/deletion
of the cystic fibrosis transmembrane conductance regulator gene accounts for 3.4% of cystic fibrosis mutations
in Sardinia: implication for population screening. J Mol Diagn 8: 499-503.
13. Sanger F, Miicklen S, Coulson AR (1977) DNA sequencing with chain terminating inhibitors. Proc Natl Acad
Sci USA 74: 5463-5467.
14. Huang EA, Feldman BJ, Schwartz ID, Geller DH, Rosenthal SM, Gitelman SE (2006) Oral urea for the treatment
of chronic syndrome of inappropriate antidiuresis in children. J Pediatr 148: 128-131.
15. Probst WC, Snyder LA, Schuster DI, Brosius J, Sealfon SC (1992) Sequence alignment of the G-protein coupled
receptor superfamily. DNA Cell Biol 11: 1-20.
16. Rosenthal SM, Gitelman SE, Vargas GA, Feldman BJ (2007) Gain-of-function mutation in the V2 vasopressin
receptor. Horm Res 67 (Suppl.1): 121-125.
17. Robertson GL, Regulation of arginine vasopressin in the syndrome of inappropriate antidiuresis Am J Med
(2006)Vol119(7A), S36-S42).
18. Marcialis MA, Faà V, Fanos V, Puddu M, Pintus MC, Cao A, Rosatelli MC Neonatal onset of nephrogenic
syndrome of inappropriate antidiuresis. Pediatr Nephrol 12 July 2008.
RELAZIONI
TERZA SESSIONE
111
PROSTAGLANDINS, NSAIDs AND RENAL FUNCTION IN NEWBORN
J. V. Aranda, K. Beharry
Division of Neonatology, State University of New York Downstate Medical Center, New York and University
of California, Irvine
The prostanoids exert a major role in regulating renal blood flow and function. The prostaglandin
genes are expressed early in the first trimester of fetal life and perturbations in PG synthesis may lead
to anatomical and functional abnormalities in the developing kidneys. PG receptors are also developed
early in fetal and neonatal period. Drugs such as indomethacin and ibuprofen that alters PGST1 (COX1)
and PGST2 (COX2) impair renal function. Differences in the effects of these drug in the molecular and
clinical levels have been shown and may be considered in the selection of these therapeutic agents in
newborn infants.
QUARTA SESSIONE
29 NOVEMBRE 2008
Presidenti: Carlo Vosa, Giuseppe Caianiello
Moderatori: Fiorina Casale, Carla Navone, Lodovico Perletti, Alberto Podestà
Fiorina Casale
RELAZIONI
QUARTA SESSIONE
113
BAMBINO E SOCIETÀ: ASPETTI STORICI, ARTISTICI, CULTURALI E
SOCIALI
G. Parisi, G. Senese
U.O. Pediatrico-Neonatologica Vasto (Ch), A.S.L. 03 Lanciano-Vasto, Regione Abruzzo
Premessa
Il 2008 è stato designato dalle Nazioni Unite e dall’IDF come l’Anno del bambino ; i termini iniziali del titolo
della presente relazione potrebbero tranquillamente essere invertiti senza rischio alcuno di distorsione
semantica (Società per i bambini), se si volesse porre l’accento su come i bambini sono influenzati dalla
Società e su come la Società possa migliorare e migliorarsi attraverso l’investimento e l’attenzione sui
bambini: appunto la Società per i bambini. Investire sui bambini significa creare nuove prospettive di
sviluppo economico, culturale, sociale e di stabilità mondiale. Per quanto ovvia e scontata possa oggi
apparire questa affermazione, pur tuttavia sappiamo bene che non è stato sempre così.
Le radici del problema
Andando a ritroso nel tempo, Lloyd de Mause (1983)ci ricorda che “la storia dell’infanzia è un incubo dal
quale solo di recente abbiamo cominciato a destarci. Più si va addietro nella storia, più basso appare il
grado di attenzione per il bambino…..”. Ragion per cui la famosa massima di Giovenale (55-137 D.C.)della
XIV Satira, “Maxima debetur puero reverentia “, lungi dal rappresentare una presa d’atto di comportamento
o costume acquisito, suona piuttosto come monito ed esortazione per la realtà di quell’epoca. Nei primi
decenni del II Secolo d. C. Adriano emanava un editto sugli stranieri che chiedessero la cittadinanza
romana per sé e per i propri figli, condizionando la concessione dello status civitatis ai componenti di
questi nuclei familiari, compresi figli impuberi o non conviventi, indipendentemente dall’attribuzione
della potestas al padre, qualora questa risultasse non di giovamento ai figli (criterio del “si expedit
filis”); col che l’ordinamento giuridico antico compì uno straordinario passo in avanti sull’organismo
familiare ma anche sui figli. Altri progressi in termini di riconoscimento giuridico e considerazione sociale
provennero dal “Corpus Juris Civilis” di Giustiniano (535 ca d. C.). Ma bisognerà attendere l’editto di Rotari
(643 D.C.) ed i “Capitularia” di Carlo Magno (802 D.C.) perché il concetto di infanzia e quello di adolescenza
trovassero una più precisa delimitazione (età “legittima”) traducentesi in un minimo di tutela. Quelli che
con espressione retorica ma inevitabile vengono chiamati “i secoli bui del Medioevo”, vedono senz’altro
una infanzia negletta ed una adolescenza negata. Ciò è sicuramente vero se si considera che persino la
rappresentazione figurativa ed artistica dei bambini era deficitaria e deformata (“adulto miniaturizzato”):
bisognerà arrivare fino al secolo XVI per trovare una singolare narrazione del mondo dell’infanzia, credibile
anche dal punto di vista della medicina costituzionalistica, nell’opera del grande maestro fiammingo Pieter
Bruegel il Vecchio (1525-1569)quando fissò sulle sue tele torme di fanciulli affaccendati in infiniti giochi e
passatempi, più di 80, in una sorta di allegoria dell’infanzia, o satira del genere umano, dove comunque
grandi e piccoli si mescolano insieme senza distinzione di età o separazione ludica o di occupazione.
Sviluppi ed evoluzione della tematica
J.C. Schmitt (1982) ha ricordato che “l’infanzia non costituisce ancora nel Medioevo una categoria
ben definita….”. Ma, nei secoli terminali, è individuabile il germe, in determinate circostanze, di un
riconoscimento e delimitazione benché confusi di fasi diverse nell’infanzia e persino di investimenti
genitoriali di risorse nella loro prole (S.Shahar, 1990). Solo a far tempo dal XVIII secolo, il cosiddetto
“secolo dei lumi”, osserva Burgio (2007), la dimensione dell’infanzia nel mondo occidentale è giunta
ad acquisire un decoroso livello di dignità e di considerazione (“scoperta” dell’infanzia da parte della
società borghese, valorizzazione Illuministica dell’uomo e del bambino) che ha generato nel successivo
XIX secolo la Pediatria, disciplina medico-scientifica specificamente indirizzata alla tutela della salute
dei bambini. Occorre però rammentare e sottolineare lo sfruttamento minorile che segnò il sorgere e
lo svilupparsi della società industriale dell’epoca, con deprecabili diffusi fenomeni di impiego di minori
RELAZIONI
114 QUARTA SESSIONE
come “forza lavoro” (nelle fabbriche, da 9 anni in su), ferocemente stigmatizzati da scrittori come C.
Dickens (“Oliver Twist”) in Inghilterra, mentre il conflitto della libertà e spontaneità fanciullesca con gli
schemi convenzionali soffocanti della società dell’epoca era ironicamente tematizzato in America da M.
Twain (“Le avventure di Tom Sawyer “) e, in Italia, gli accenti lirici e di dolente partecipazione da parte di
Matilde Serao per l’infanzia sofferente (“Il ventre di Napoli”) si affiancavano all’ideale di scrittore popolare
e pedagogico attento all’infanzia di E. De Amicis (“Cuore”). Il XX secolo appena spirato è quello delle grandi
enunciazioni di principio ufficiali nazionali e sopranazionali, entusiasticamente accolte ed universalmente
diffuse, condivise e codificate allo scopo di sancire e difendere i diritti dei bambini ovunque, nel mondo. Il
trattato sui diritti umani “maggiormente ratificato nella storia”, la Dichiarazione ONU sui Diritti dei Bambini
(Convenzione Internazionale di New York, novembre 1989) ha visto “a cascata” susseguirsi azioni concrete,
come la nascita dell’Unicef ed altre organizzazioni internazionali, allo scopo di proseguire e rafforzare
l’azione intrapresa a divulgazione e difesa di una nuova moderna Cultura dell’Infanzia.
A che punto siamo?
Oggi, agli albori del XXI secolo, qual è e come si può valutare la situazione acquisita? il bambino del III
millennio è “stella supernova o buco nero” o l’una e l’altra cosa assieme? in quanti paesi od aree geografiche
ancora molta infanzia rimane negletta, sfruttata e privata di diritti e di una degna qualità di vita?
La considerazione che larghe fasce di bambini vivono ancora in profondo disagio socio-familiare ed
ambientale, molto spesso in povertà (c.d. Paesi in via di sviluppo, ampi segmenti di disagio, diseguaglianza
e nuova povertà nel mondo occidentale per fenomeni autoctoni o legati a flussi migratori e/o a difficoltà di
integrazione e scollamento sociale), mentre chiama in causa precise responsabilità sia istituzionali che di
variegata soggettualità (forme vecchie e nuove della socialità e della scienza), costituisce comunque prima
di tutto per il pediatra una “chiamata alle armi” o, meglio, una “convocazione-evocazione-ordinazione”,
secondo la visione di Emmanuel Lévinas, il filosofo franco-lituano dell’alterità e dell’accoglienza, che
parte dal “visage” interrogante del bambino sofferente e genera una risposta di coscienza ed empatia.
Molteplicita’ di compiti, specificita’ di funzioni, unicita’ di ruolo
A tali compiti occorre essere preparati, ampliando l’angolo visuale ed acuendo la sensibilità emozionale
della nostra osservazione (pediatra come ”antenna sociale”, alleato ed avvocato del bambino e della sua
famiglia) ma anche espandendo i confini delle nostre funzioni (non solo medico ed uomo di scienza
ed esperto di evidenze ma un educatore proiettato nel socio-psico-affettivo-pedagogico, un “bridgethrower” di salute benessere e cultura che conosce Montessori, Piaget, Winnicott e Freud ma riconosce
l’Internet Addiction Disorder (K.Young), che ha risolto l’antinomia tra teoria riduttivista-razionalistica e
quella fenomenologico-relazionale, personalista (come radice filosofica della Scienza Medica), a favore
della seconda, che pratica l’”Ermeneutica “ di Gadamer e mitiga l’aspro rigore della medicina dell’evidenza
con la dolcezza e l’umanità di quella “Narrativa”; in definitiva e soprattutto un intellettuale, capace in
ogni momento di sentire la centralità del binomio bambino-famiglia, agire nel rispetto di un principio di
equità perseguendo l’obiettivo di “guadagnare salute”, generando una rinnovata attitudine ad utilizzare
conoscenze, riconoscere bisogni, esprimere competenze, attivare strategie di interventi: un pediatra
nuovo per una società nuova, a misura di bambino.
Bibliografia
1. De Toni, E. :”L’adolescente nella cultura e nell’arte”. Min.Ped., 2000; 9, 52: 429-435.
2. Fanos, V., Corridori, M., Cataldi, L. :”Unresolved questions regarding the Mediaeval child”.Min.Ped., 2002; 4,
54: 335-342.
3. Filipponio, M.A. :” Il tempo dell’infanzia. Bambini nell’arte e nella cultura. Il gioco dell’arte”. Da : Internet.
4. Burgio, G.R., Bertelloni, S.:” Una pediatria per la società che cambia”. Tecniche nuove ed., 2007: capitoli vari.
RELAZIONI
QUARTA SESSIONE
115
CANCRO IN ETÀ PEDIATRICA: PROGETTO GUARIGIONE
P. Indolfi, M. Di Martino, E. Pota, D. Di Pinto, C. Fusco, M.C. Affinita, R. Savarese, M. Oreste,
G. Pecoraro, F. Casale
Servizio di Oncologia Pediatrica Dipartimento di Pediatria - Seconda Università degli Studi di Napoli
Attualmente, in circa il 70% dei bambini affetti da tumore, l’obiettivo guarigione rappresenta un obiettivo
reale, per cui, se negli anni ’80 l’obiettivo degli oncologi pediatri era costituito dalla guarigione ad ogni
costo, oggi l’obiettivo è spostato nel garantire un’ottimale qualità della guarigione, anche a lungo termine.
Tale problematica è ancora più pressante che si considera che nel 2010 un giovane adulto su 1000 sarà un
soggetto guarito da un tumore contratto in età pediatrica.
La strategia terapeutica alla base dei risultati attuali può essere racchiusa nell’evoluzione delle armi
terapeutiche tradizionalmente impiegate: chirurgia, chemioterapia, radioterapia e terapia di supporto.
Attualmente la chirurgia viene utilizzata in maniera diversificata rispetto al passato, limitandosi ad una
biopsia diagnostica nel caso di neoplasie voluminose e sempre più spesso utilizzata in associazione
a chemio e/o radioterapia. Per quanto riguarda la chemioterapia, la sua evoluzione nel tempo è
rappresentata dall’impiego di nuove molecole più specifiche, oltre a dosaggi, talvolta molto più elevati
grazie alla possibilità del supporto con cellule staminali. Anche la radioterapia si è modificata nel tempo
con l’utilizzo di nuove tecniche e dosaggi e tempi di impiego sicuramente più mirati rispetto al tipo
di neoplasia ed allo stadio di presentazione della stessa, oltre all’età del paziente. La stessa terapia di
supporto ha contribuito notevolmente al miglioramento dei risultati con la scoperta di nuove molecole
contro le infezioni da batteri, virus e miceti, causa frequente di morte in questo tipo di pazienti.
In relazione al progressivo aumento del numero dei pazienti guariti, è emersa una serie di problematiche,
i cosiddetti danni tardivi, risultato dell’interazione tra i mezzi terapeutici impiegati e la risposta dell’ospite.
Molteplici sono gli organi o apparati che possono risultare coinvolti nel prezzo da pagare alla guarigione,
non solo, ma con l’allungarsi del follow-up di sorveglianza sono emerse anche altre problematiche
quali i secondi tumori, la prole dei soggetti guariti e gli aspetti psicologici e psico-sociali connessi a
tale popolazione. Tra gli organi compromessi, sicuramente il polmone e il cuore rappresentano quelli
che necessitano di un attento e prolungato monitoraggio. I danni tardivi a carico del polmone sono
correlati essenzialmente all’impiego della radioterapia e della chemioterapia, anche se è importante l’età
all’erogazione delle cure. Per quanto riguarda la radioterapia, gli effetti sul parenchima polmonare sono
correlati non solo al volume irradiato, ma anche alla dose totale erogata, al frazionamento di essa e, non
ultimo, alla sua qualità. Per quanto riguarda la chemioterapia, la Bleomicina rappresenta il prototipo della
tossicità polmonare da farmaci. Le antracicline ancora oggi rappresentano un’efficace arma terapeutica
contro la maggior parte delle neoplasie pediatriche, anche se il loro impiego, fin dai primi anni ’60, è
stato limitato da una tossicità talvolta acuta, ma più spesso tardiva. Difatti è stata dimostrata l’insorgenza
di una cardiotossicità che può verificarsi da alcune settimane fino a molti anni dalla sospensione delle
terapie, che può evolvere verso un’ insufficienza cardiaca congestizia (ICC), ad evoluzione spesso fatale.
Molteplici sono i fattori che possono determinare una ridotta tolleranza cardiaca alle antracicline. E’
ormai opinione comune che il più importante è rappresentato dalla dose cumulativa dei farmaci, anche
se diversi altri fattori sono stati identificati quali la modalità degli schemi di somministrazione dei farmaci,
la concomitante o precedente irradiazione del mediastino, l’impiego di Ciclofosfamide o Ifosfamide ad
elevati dosaggi oltre all’età, il sesso e, non ultimo, la lunghezza del follow-up di sorveglianza.
Anche sotto il profilo igienico-dietetico sicuramente questi pazienti devono evitare fattori aggiuntivi di
rischio cardiologico, quali diete ricche in grassi, l’assunzione di alcool, il fumo o, ancor peggio, l’uso di
droghe anche leggere.
Ancora oggi non abbiamo risposte chiare relativamente ad alcune problematiche quali:
Dobbiamo sconsigliare ai pazienti trattati con antracicline, sports faticosi, agonistici, soprattutto muscolari
o pesistica?
RELAZIONI
116 QUARTA SESSIONE
È necessario ravvicinare i controlli cardiologici nei periodi di maggior rischio, quali la crescita puberale, o,
per le femmine, la gravidanza?
Bisogna temere problemi cardiologici durante l’invecchiamento?
Attualmente, i bambini trattati per tumore, grazie alla maggiore attenzione verso le problematiche esposte,
possono diventare adulti sani, ben integrati nel tessuto sociale e capaci di assumere responsabilità sia
personali che professionali.
RELAZIONI
QUARTA SESSIONE
117
GLI SCENARI DEGLI STATI DI SHOCK NEL NEONATO
P. Giliberti, A. Santantonio, G. Chello
U.O.C. di Neonatologia e Terapia intensiva neonatale dell’A.O. V. Monaldi di Napoli
Col termine di shock si definisce una complessa disfunzione della perfusione d’organo che si riflette in un
insufficiente apporto di ossigeno e di nutrienti ai tessuti.
La compromissione della perfusione d’organo si esprime sul piano clinico col prolungamento > 3 secondi
del tempo di riempimento capillare1, valutato nel distretto superiore ed inferiore, col rilievo di estremità
fredde2, con modifiche del colorito (cianosi, pallore) o con lo stabilizzarsi di una cute marmorata.
Completano il quadro clinico dello shock la comparsa di segni respiratori, che esprimono un aumento
del lavoro respiratorio o il suo esaurimento, di alterazioni della frequenza cardiaca (dalla bradicardia alla
tachicardia), di anomalie dei polsi (polsi deboli, polsi scoccanti, differenze distrettuali), di contrazione
della diuresi e di segni neurologici di letargia.
In presenza di questa costellazione clinica, completa od incompleta che sia, è fondamentale tener presente
tutte le cause possibilmente in gioco, che tra l’altro possono essere contemporaneamente presenti, dalle
cause ipovolemiche, rappresentate dalle emorragie intrapartum e post - natali, alle cause cardiache, alle
cause infettive3.
Gli scenari dello shock: esami strumentali e di laboratorio
Nella valutazione del neonato critico, oltre ad una accurata anamnesi, che da sola può permettere
un rapido orientamento e ad un esame obiettivo completo ed accurato, spesso ripetuto, si aggiunge
inevitabilmente un insieme di esami strumentali e di laboratorio, possibilmente mirati.
Questi comprendono :
Gli esami di laboratorio del neonato critico [ Ht, Emocromo, Indicatori infettivi (PCRq), Esami colturali,
Test della coagulazione, Glicemia, Calcemia, Elettrolitemia (Sodio, Potassio, Cloro, Calcio), Emogasanalisi4,
Indici della funzione renale, Controllo della diuresi, Emogasanalisi, Esami della funzione epatica, Esami
per gli errori congeniti del metabolismo (Ammoniemia, aminoacidogramma, ricerca degli acidi organici,
sindrome adreno - genitale), etc. ]
L’Ecocardiogramma5
Rx del torace6
L’ECG7
Terapia degli stati di shock
L’approccio terapeutico dovrà essere necessariamente mirato con l’obiettivo della normalizzazione
della gittata cardiaca attraverso l’uso razionale della somministrazione di volume8 e degli inotropi, della
normalizzazione della perfusione e dell’ossigenazione, dell’interruzione del metabolismo anaerobico e
dello smaltimento del carico in acido lattico, fino alla normalizzazione del pH ematico.
Il principio della personalizzazione della terapia degli stati di shock presuppone il riconoscimento dei
meccanismi fisio - patologici in atto. Ciò è possibile sul piano clinico con l’inquadramento del singolo caso
negli scenari clinici tipici dello shock nel neonato :
A.Il neonato di peso alla nascita < 1500 g nell’immediato periodo post - natale, nel quale agiscono nel
determinismo di un basso flusso sistemico la disregolazione del tono vasomotorio e l’immaturità del
miocardio, incapace di reggere all’aumento del post - carico.
B.Il neonato a termine o pretermine depresso da cause asfittiche, il cui meccanismo principale è
la disfunzione miocardica, che impedisce allo stesso di rispondere agli effetti delle catecolamine
endogene.
C.Il neonato pretermine con pervietà del dotto di Botallo, in cui il meccanismo predominante è il furto
diastolico di perfusione della maggior parte degli organi e l’effetto dello shunt sn - dx sul parenchima
polmonare con aumento del rischio di emorragia
RELAZIONI
118 QUARTA SESSIONE
D.Il neonato con shock settico, il cui meccanismo è l’ipovolemia relativa, la disfunzione miocardica e la
vasodilatazione periferica.
E.Il neonato pretermine con ipotensione resistente ai farmaci, di solito a partire dal secondo giorno di
vita, il cui meccanismo è il deficit relativo di cortisolo, l’insufficienza e la down - regulation dei recettori
adrenergici.
Nel primo caso, il neonato di peso alla nascita < 1500 g nell’immediato periodo post - natale, oltre a
correggere tutti i fattori inotropi negativi, quali l’ipossia, l’acidosi, l’ipoglicemia ed eventualmente
l’ipocalcemia9 ed a regolare la pressione media delle vie aeree in caso di ventilazione assistita, la terapia
dell’ipotensione prevede, in attesa delle misurazioni ecocardiografiche, l’uso della dobutamina alla dose
di 5 - 10 mcg/Kg/min, che, se senza effetto entro 30 minuti, sarà seguito da un’espansione di volume di
10 ml/Kg/dose di Ringer lattato in 30 minuti10. Il mancato incremento della pressione arteriosa media >
30 mm Hg a 30 minuti dal termine della correzione di volume, condurrà all’uso della dopamina, partendo
da 2.5 - 10 mcg/Kg/min11.
Nel caso del neonato a termine o pretermine depresso da cause asfittiche e con disfunzioni multiorganiche,
oltre a prestare attenzione al management degli apporti idro - elettrolitici al fine di prevenirne un
sovraccarico ed il conseguente scompenso cardiaco, l’inotropo di prima scelta è la dobutamina ed
eventualmente il milrinone. Tale terapia può essere completata con la dopamina a 2.5 mcg/Kh/min per
utilizzarne gli effetti dopaminergici. Particolare attenzione va inoltre prestata allo stato della circolazione
polmonare12, ricorrendo in presenza di una ipertensione polmonare persistente, all’utilizzazione
dell’ossido nitrico nei neonati di EG > 34 settimane
Nel caso del neonato pretermine con pervietà del dotto di Botallo e shunt sn - dx, il principale obiettivo
è la chiusura del dotto con l’uso dell’ibuprofene. Quando sono presenti segni ecocardiografici di
compromissione della contrattilità, l’inotropo di prima istanza è la dobutamina o il milrinone, da titolare
in base ai valori della pressione arteriosa. Va inoltre regolata la pressione di fine espirazione per contenere
l’entità dello shunt sn - dx, in attesa degli effetti dell’ibuprofene.
Nel caso di neonato in shock settico, il primo provvedimento terapeutico è l’infusione di volume alle dosi
di 10 - 20 ml/Kg/dose di Ringer - lattato, da somministrare in 30 minuti per pompa a siringa. L’espansione
volumetrica è seguita dall’uso della dopamina alla dose iniziale di 5 mcg/Kg/min, incrementabili in assenza
di risposta fino a 15 - 20 mcg/Kg/min. La mancata risposta può condurre all’adrenalina13 partendo da
0.05 mcg/Kg/min ed incrementando i dosaggi fino a 0.3 mcg/Kg/min in base ai valori pressori. Nei casi più
gravi, non rispondenti ai farmaci precedenti va considerata la terapia steroidea a bassi dosaggi
Nel caso del neonato pretermine con ipotensione resistente ai farmaci, di solito a partire dal secondo terzo giorno di vita, l’idrocortisone14 alla dose di 3 mg/Kg/die per 3 - 5 giorni si rivela efficace in ~ 2 ore.
Letteratura
1. Al Aweel I. et al. : J. Perinatol., 21, 272, 2001
2. Allan L.D. et al. : Br. Heart. J., 57, 528, 1987
3. Barr P.A. et al. : Pediatrics, 60, 282, 1977
4. Baure K. Et al. : Arch.Dis.Child., 69, 521, 1993
5. Engle W.D. et al. : Early Hum. Dev., 62, 97, 2001
6. Evans N. Et al. : Arch. Dis. Child., 72, F156, 1995
7. Fauser A. et al. : Eur. J. Pediatr., 152, 354, 1993
8. Goldenstein R.F. : Pediatrics, 95, 238, 1995
9. Helbock H.J. et al. : Pediatrics, 92, 715, 1993
10. Heckmann M. Et al. : Acta Paediatr., 91, 566, 2002
11. Heuchan A.M: et al. : Arch. Dis. Child., 86, F86, 2002
12. Hoffman T.M. et al. : Circulkation, 107, 996, 2003
RELAZIONI
QUARTA SESSIONE
119
13. Hunt R.W. et al. : J. Pediatr., 145, 588, 2004
14. Kimble K.J. et al. : Anesthesiology, 54, 423, 1981
15. Kissack C.M. et al. : Pediatr. Res., 55, 400, 2004
16. Kluckow M. et al. : Arch. Dis. Child., 82, F188, 2000
17. Kluckow M. et al. : Semin. Neonatol., 6, 75, 2001
18. Kluckow M. et al. : J. Pedaitr., 137, 68, 2000
19. Kopelman A.E. et al. : J. Pediatr., 135, 345, 1999
20. LeFlore J.L. et al. : Early Hum. Dev., 59, 37, 2000
21. Leviton A. Et al. : Pediatrics, 91, 1083, 1993
22. Osborn D.A. et al. : J. Pediatr., 140, 183, 2002
23. Osborn D.A. etr al. : Arch. Dis. Child., 88, F477, 2003
24. Osborn D.A. et al. : Arch. Dis. Child., 89, F168, 2004
25. Osborn D.A. et al. : Cochrane database Syst. Rev., CD002055, 2004
26. Padbury J.F. et al. : In Polin R.A. and Fox W.W.(eds) Fetal and Neonatal Physiology, 2nd ed. W.B. Sanders, pag.
194, 1998
27. Paradisis M. Et al. : Pediatr. Res., 55, 525A, 2004
28. Patel J. et al. : Pediatr. Res., 47, 36, 2000
29. Pellicer A. et al. : Pediatrics, 115, 1501, 2005
30. Perkin R.M. et al. : J. Pediatr., 101, 163, 1982
31. Pladys P. et al. : Eur. J. Pediatr., 158, 817, 1999
32. Munro M.J. et al. : Pediatrics, 114, 1591, 2004
33. Ng P.C. et al. : Arch.Dis.Child., 84, F122, 2001
34. Nuntnarumit P. et al. : Clin. Perinatol., 26, 981, 1999
35. Ramanathan R.et al. : Pediatr. Res., 39, 240°, 1996
36. Seri I. et al. : Curr. Opin. Pediatr., 13, 116, 2001
37. Seri I. et al. : Pediatrics, 107, 1070, 2001
38. Strozik K.S. et al. : Arch.Dis. Child., 76, F193, 1997
39. Subhedar N.V. er al. : Cochrane Datatbase of Systematic Reviews, CD001242, 2003
40. Teitel D.F. : In Polin R.A. and Fox W.W.(eds) Fetal and Neonatal Physiology, 2nd ed. W.B. Sanders, pag. 827,
1998
41. Tibby S.M. et al. : Arch. Dis. Child., 80, 163, 1999
42. Tsuji M. et al. : Pediatrics, 106, 625, 2000
43. Tyszczuk L. et al. : Pediatrics, 104, 1258, 1999
44. Weindling A.M. et al. : Biol. Neonate, 79, 241, 2001
45. Zhang J. et al. : Arch.Dis.Child., 81, F99, 1999
RELAZIONI
120 QUARTA SESSIONE
Le influenze ambientali in TIN
R. Antonucci, V. Fanos
Patologia Neonatale e Terapia Intensiva Neonatale - Università degli Studi di Cagliari
Introduzione
La presenza di un ottimale ambiente fisico, psicologico, e sociale nelle Unità di Terapia Intensiva Neonatale
(UTIN) è essenziale per il raggiungimento del miglior outcome neonatale.
L’ambiente fisico delle UTIN è del tutto peculiare, in quanto i neonati in esse ricoverati (prematuri o
neonati con rilevanti patologie) sono esposti a molteplici stimoli, siano essi visivi, uditivi, vestibolari, tattili,
dolorifici, termici, o campi elettromagnetici, che possono causare stress o vere e proprie patologie.
La principale interfaccia tra ambiente della UTIN e neonato è rappresentata dall’incubatrice,
apparecchiatura che crea un particolare microambiente intorno al neonato stesso, influenzandone il
benessere e la salute.
Verrà di seguito discusso l’impatto delle principali variabili fisiche sul neonato ricoverato in UTIN, e si farà
infine un breve cenno alla developmental care, approccio assistenziale finalizzato a minimizzare lo stress
generato dall’ambiente della UTIN in tale categoria di neonati.
Temperatura ed umidità
La temperatura e l’umidità dell’ambiente che circonda il neonato influenzano notevolmente la
sopravvivenza di quest’ultimo, specie se è un neonato pretermine. Tale concetto è supportato da una
lunga serie di studi clinici condotti nell’arco temporale di oltre un secolo.
Partendo da tale consapevolezza, sono state progettate e costruite delle apparecchiature, definite
incubatrici neonatali, preposte ad assicurare al neonato, specie se prematuro o affetto da gravi patologie,
un microambiente a temperatura ed umidità adeguatamente controllate. Nell’ultimo secolo si sono
registrati notevoli progressi nella realizzazione delle incubatrici neonatali, le quali hanno acquisito
caratteristiche di efficienza, sicurezza e comfort sempre maggiori.
Un’incubatrice moderna è un’apparecchiatura in grado di assicurare al neonato un ambiente chiuso,
controllato, in cui egli viene riscaldato attraverso una circolazione di aria calda che entra a contatto con
la sua cute. Il calore viene poi trasferito all’interno del corpo del neonato per conduzione tessutale e
convezione ematica. Le attuali incubatrici dispongono di diverse modalità di controllo della temperatura:
1) servocontrollo della temperatura cutanea del neonato; 2) servocontrollo della temperatura dell’aria; 3)
servocontrollo misto (variabili multiple in ingresso); 4) controllo manuale.
Il bilancio termico del neonato è in equilibrio quando la produzione di calore eguaglia le perdite di calore.
Se, al contrario, le perdite di calore superano la produzione, la temperatura corporea si abbassa. Le 4
modalità con cui il neonato perde calore sono la conduzione, la convezione, la radiazione e l’evaporazione.
Di particolare importanza è la perdita di calore per evaporazione: essa avviene attraverso la cute ed i
polmoni, ed è influenzata dall’età gestazionale e dall’età postnatale del neonato, e dall’umidità relativa
dell’ambiente. Nel primo periodo neonatale, i neonati pretermine, specie i più immaturi, hanno elevate
perdite evaporative di calore a causa di una elevata perdita transepidermica d’acqua. Infatti, la cute
del prematuro ha uno strato corneo sottile, scarsamente cheratinizzato, che offre scarsa resistenza alla
diffusione dell’acqua. La vita post-natale accelera notevolmente lo sviluppo della barriera epidermica nel
neonato pretermine, [1] con conseguente rapido declino della perdita transepidermica d’acqua durante
la prima settimana di vita, ed ulteriori sue riduzioni con l’aumentare dell’età postnatale.[2] Il management
clinico dei neonati con prematurità di alto grado, nella prima settimana di vita, è reso difficile dalle peculiari
caratteristiche della loro cute: il provvedimento più importante per ridurre l’elevata perdita evaporativa
di calore e prevenire la disidratazione è quello di aumentare l’umidità relativa (fino all’80-90%) all’interno
dell’incubatrice.
Esiste un range di temperatura ambientale, definito range termoneutrale, all’interno del quale
la produzione di calore del neonato è al suo minimo, la temperatura corporea è normale, e non vi è
RELAZIONI
QUARTA SESSIONE
121
sudorazione. I neonati sono assistiti nel modo migliore ad una temperatura ambientale compresa in
questo range. Quando la temperatura ambientale scende al di sotto di esso, il neonato mette in atto
una risposta omeotermica per mantenere costante la temperatura corporea profonda, che si basa su
reazioni fisiologiche mediate dal SN simpatico (non-shivering thermogenesis, vasocostrizione periferica)
e su risposte comportamentali (aumento dell’attività motoria, riduzione del sonno, postura in flessione).
Se la temperatura ambientale diminuisce oltre le capacità metaboliche massime del neonato, egli va
incontro ad ipotermia.
Ambiente sonoro
Il rumore ha un impatto negativo sulla salute del neonato pretermine. Infatti esso può essere causa di
disturbi uditivi, disturbi del sonno (frequenti risvegli, cambiamenti dello stato di sonno, stress), effetti
somatici (tachicardia, tachipnea, apnea, cali di SaO2, aumento della press. arteriosa), [3, 4] ed effetti
negativi sulla percezione uditiva e sullo sviluppo emozionale.
Per quanto concerne gli effetti del rumore sull’apparato uditivo, è stato documentato che i neonati
ricoverati in UTIN hanno un rischio 10 volte maggiore di sviluppare una perdita uditiva neurosensoriale
o mista rispetto ai non ricoverati in UTIN, [5] e che l’esposizione al rumore, da sola o in sinergia con altri
fattori di rischio (ipossia o farmaci ototossici), potrebbe contribuire alla perdita uditiva.[4] Molteplici sono
le fonti di rumore in UTIN: alcune di esse sono strettamente legate all’attività umana (conversazione ad alta
voce dello staff, apertura o chiusura brusca degli sportelli dell’incubatrice, contatti volontari o involontari
con l’incubatrice, attività infermieristiche ecc.), mentre altre sono rappresentate dalle apparecchiature
utilizzate (motori delle incubatrici, lettini riscaldati, ventilatori, allarmi, aspiratore ecc.). In considerazione
delle possibili conseguenze, sui prematuri e sul personale di assistenza, dell’esposizione al rumore,
l’American Academy of Pediatrics ha stabilito per le UTIN un livello massimo di rumore pari a 45 dB.[6]
Tuttavia, anche nelle UTIN costruite di recente con un’attenzione particolare all’abbattimento del suono,
il livello di rumore continua ad essere superiore a quello raccomandato dall’AAP, essendo compreso tra 60
e 90 dB, con picchi fino a 120 dB.[7-9]
Misure utili per attenuare il rumore nelle UTIN sono rappresentate da una progettazione di tali reparti
secondo criteri acustici di abbattimento del suono, [10] dallo sviluppo di un programma di controllo e
riduzione del rumore, [11] dall’introduzione nelle UTIN di un allarme luminoso di rumore, [12] e da un
adeguato training dello staff.[6, 7] E’ stato dimostrato che interventi ambientali mirati a ridurre il rumore
in UTIN si associano ad una minor durata della ventilazione e dell’ossigenoterapia in neonati VLBW.[13]
Un altro aspetto di particolare rilevanza per il neonato concerne il livello di rumore che si viene a
creare all’interno dell’incubatrice, dove confluiscono i suoni provenienti dall’esterno, quelli generati dal
funzionamento dell’incubatrice e quelli prodotti dal neonato. A tal proposito, occorre sottolineare che
le incubatrici sono considerate ambienti riverberanti, capaci di amplificare il pianto del neonato ed altri
rumori prodotti al loro interno.[14]
L’esposizione al rumore del neonato in incubatrice può essere minimizzata attraverso misure ambientali,
uso di incubatrici moderne, [15] implementazione di pannelli fono-assorbenti[14] o di schiuma
acustica[16] nelle incubatrici, copertura di queste ultime, [17] o applicando al neonato cuffie auricolari
protettive.[18]
Ambiente luminoso
Solo in anni recenti è stato riconosciuto che l’esposizione incontrollata alla luce ambientale ha un
impatto negativo sulla salute del neonato ricoverato in UTIN. Molti neonati prematuri sono esposti ad
un’illuminazione continua anzichè ciclica, poichè la maggior parte delle UTIN vengono illuminate con
luce intensa e continua per facilitare le procedure assistenziali. E’ stato documentato che l’esposizione
dei neonati prematuri ad un’illuminazione ciclica a bassa intensità in una nursery induce distinti patterns
riposo-attività già evidenti entro la prima settimana dopo la dimissione, mentre la comparsa di tali patterns
è ritardata nei neonati esposti ad un’illuminazione continua.[19] Pertanto, l’esposizione circadiana alla
RELAZIONI
122 QUARTA SESSIONE
luce sembra essere di beneficio per i neonati pretermine.
Riguardo il ruolo del livello di illuminazione ambientale in UTIN nello sviluppo di retinopatia della
prematurità (ROP), esistono dati contrastanti. Molti studi indicano che l’esposizione retinica dei
neonati pretermine alla luce ambiente non svolge alcun ruolo nello sviluppo di ROP.[20-22] Inoltre, in
un recente trial randomizzato controllato, la riduzione dell’esposizione alla luce non ha avuto alcun
effetto sull’incidenza di ROP.[23] D’altro canto, è stato stabilito che la fotoeccitazione può condurre ad
un’aumentata produzione di radicali liberi nella retina costantemente esposta alla luce, [24, 25] che
potrebbe condurre ad un danno dei vasi retinici in sviluppo ed all’insorgenza di ROP.[26] Recentemente,
è stata segnalata una ridotta incidenza di ROP, [25] o un miglioramento del suo decorso clinico, [27] in
prematuri esposti ad una limitata illuminazione ambientale. In conclusione, sono necessari studi ulteriori
per definire il ruolo dell’esposizione alla luce nella patogenesi della ROP, e quindi per stabilire standard
sicuri per l’illuminazione delle UTIN.
L’uso di covers per incubatrici sembra avere un certo effetto a breve termine sui patterns del sonno in
neonati prematuri in fase di stabilità, anche se il significato clinico ed i possibili effetti a lungo termine di
tale misura non sono noti.[28]
Campi elettromagnetici
Gli effetti dell’esposizione dei neonati in incubatrice ai campi elettromagnetici (CEM) sono scarsamente
conosciuti.
Dati contrastanti sono stati pubblicati sulla possibile associazione tra esposizione dei neonati in
incubatrice a CEM a bassissima frequenza e sviluppo di leucemia.[29, 30] Inoltre, i CEM potrebbero
aumentare il rischio a lungo termine di sviluppare tumore al seno, alterazioni della riproduzione e
depressione, alterando la funzione della ghiandola pineale.[31] Assai recentemente, è stato dimostrato
che i CEM generati dal motore delle incubatrici influenzano l’attività del sistema nervoso autonomo del
neonato, ed in particolare la variabilità della sua frequenza cardiaca.[32]
L’esposizione ai CEM del neonato ricoverato in UTIN dipende dal tipo di incubatrice usata, [33] dalla
posizione del sistema di controllo elettronico, del riscaldatore elettrico, e della spina elettrica principale
nell’incubatrice, [33, 34] dalla posizione del neonato nell’incubatrice, [33] e infine dal tipo di apparecchiature
elettroniche di monitoraggio e terapia usate e dalla loro posizione rispetto all’incubatrice.[33, 34]
L’esposizione ai CEM di un neonato ricoverato in UTIN può essere ridotta attraverso l’impiego di moderni
criteri nella costruzione delle incubatrici, l’implementazione di pannelli ferromagnetici nelle stesse
incubatrici, [35] e l’allontanamento (almeno 20-30 cm) dal neonato delle sorgenti di CEM, interne ed
esterne all’incubatrice.
Developmental care
L’ambiente fisico dell’UTIN e le procedure in essa utilizzate possono influenzare negativamente lo sviluppo
cerebrale dei neonati prematuri e di quelli a rischio, per cui l’assistenza a tali neonati dovrebbe prevedere
un approccio finalizzato a ridurne il livello di stress.
La developmental care include un’ampia categoria di interventi medici ed infermieristici finalizzati a
minimizzare lo stress generato dall’ambiente dell’UTIN.[36] I principali tra questi interventi comprendono
il controllo degli stimoli esterni (vestibolari, visivi, uditivi, tattili ecc), il “clustering” delle attività assistenziali,
ed il posizionamento o il contenimento del neonato pretermine. Dalla combinazione di singole strategie
sono stati elaborati dei programmi come il “Neonatal Individualized Developmental Care and Assessment
Program” (NIDCAP).
Secondo una recente revisione sistematica Cochrane sull’argomento, sono necessarie più forti evidenze a
supporto degli effetti favorevoli della developmental care su importanti outcomes clinici a breve e lungo
termine, prima che possa essere raccomandato il suo impiego nella pratica clinica.[36]
Conclusioni
Negli ultimi decenni, i notevoli progressi nell’assistenza ai neonati ad alto rischio ricoverati nelle UTIN
RELAZIONI
QUARTA SESSIONE
123
hanno determinato una drastica riduzione della mortalità e della morbosità neonatale. Ciò nondimeno,
tale categoria di neonati è tutt’oggi esposta ad una ampia gamma di noxae fisiche potenzialmente
patogene, che sono spesso misconosciute o sottovalutate dal personale di assistenza medico ed
infermieristico. Solo una maggiore sensibilizzazione al riguardo e l’attuazione di programmi integrati
volti al monitoraggio e ad un più rigoroso controllo di tali noxae renderanno le UTIN più sicure, a tutto
vantaggio della salute dei neonati.
Bibliografia
1. Evans NJ, Rutter N. Development of the epidermis in the newborn. Biol Neonate. 1986;49(2):74-80.
2. Hammarlund K, Sedin G, Strömberg B. Transepidermal water loss in newborn infants. VII. Relation to post-natal
age in very pre-term and full-term appropriate for gestational age infants. Acta Paediatr Scand. 1982;71(3):36974.
3. Nair MNG, Gupta G, Jatana SK. NICU environment: can we be ignorant? MJAFI. 2003;59:93-5.
4. Surenthiran SS, Wilbraham K, May J, Chant T, Emmerson AJ, Newton VE. Noise levels within the ear and postnasal space in neonates in intensive care. Arch Dis Child Fetal Neonatal Ed. 2003;88:F315-F318.
5. Davis A, Wood S. The epidemiology of childhood hearing impairment: factor relevant to planning of services.
Br J Audiol. 1992;26(2):77-90.
6. American Academy of Pediatrics. Committee on Environmental Health. Noise: a hazard for the fetus and
newborn. Pediatrics. 1997;100:724-7.
7. Byers JF, Waugh WR, Lowman LB. Sound level exposure of high-risk infants in different environmental
conditions. Neonatal Netw. 2006;25:25-32.
8. Thomas KA, Uran A. How the NICU environment sounds to a preterm infant: update. MCN Am J Matern Child
Nurs. 2007;32:250-3.
9. Williams AL, van Drongelen W, Lasky RE. Noise in contemporary neonatal intensive care. J Acoust Soc Am.
2007;121:2681-90.
10. Philbin MK. Planning the acoustic environment of a neonatal intensive care unit. Clin Perinatol. 2004;31:33152.
11. Graven SN. Sound and the developing infant in the NICU: conclusions and recommendations for care. J
Perinatol. 2000;20:S88-S93.
12. Chang YJ, Pan YJ, Lin YJ, Chang YZ, Lin CH. A noise-sensor light alarm reduces noise in the newborn intensive
care unit. Am J Perinatol. 2006;23:265-71.
13. Als H, Lawhon G, Brown E, Gibes R, Duffy FH, McAnulty G, et al. Individualized behavioral and environmental
care for the very low birth weight preterm infant at high risk for bronchopulmonary dysplasia: neonatal
intensive care unit and developmental outcome. Pediatrics. 1986;78:1123-32.
14. Bellieni CV, Buonocore G, Pinto I, Stacchini N, Cordelli DM, Bagnoli F. Use of sound-absorbing panel to reduce
noisy incubator reverberating effects. Biol Neonate. 2003;84:293-6.
15. Robertson A, Cooper-Peel C, Vos P. Sound transmission into incubators in the neonatal intensive care unit.
J Perinatol. 1999;19:494-7.
16. Johnson AN. Neonatal response to control of noise inside the incubator. Pediatr Nurs. 2001;27:600-5.
17. Saunders AN. Incubator noise: a method to decrease decibels. Pediatr Nurs. 1995;21:265-8.
18. D'Agati S, Adams JA, Zabaleta IA, Abreu SJ, Sackner MA. The effect of noise reduction on behavioral states
in newborns. Pediatr Res. 1994;35:221A.
19. Rivkees SA, Mayes L, Jacobs H, Gross I. Rest-activity patterns of premature infants are regulated by cycled
lighting. Pediatrics. 2004;113:883-9.
RELAZIONI
124 QUARTA SESSIONE
20. Fielder AR, Moseley MJ. Environmental light and the preterm infant. Semin Perinatol. 2000;24:291-8.
21. Phelps DL, Watts JL. Early light reduction for preventing retinopathy of prematurity in very low birth weight
infants. Cochrane Database Syst Rev. 2001;(1):CD000122.
22. Tasman W, Patz A, McNamara JA, Kaiser RS, Trese MT, Smith BT. Retinopathy of prematurity: the life of a
lifetime disease. Am J Ophthalmol. 2006;141:167-74.
23. Braz RR, Moreira ME, de Carvalho M, Lopes JM, Rodrigues MA, Cabral JA. Effect of light reduction on the
incidence of retinopathy of prematurity. Arch Dis Child Fetal Neonatal Ed. 2006;91:F443-4.
24. Delmelle M. Possible implication of photooxidation reactions in retinal photodamage. Photochem Photobiol
1979;29:713-6.
25. Weinberger B, Laskin DL, Heck DE, Laskin JD. Oxygen toxicity in premature infants. Toxicol Appl Pharmacol.
2002;181:60-7.
26. DiBiasie A. Evidence-based review of retinopathy of prematurity prevention in VLBW and ELBW infants.
Neonatal Netw. 2006;25:393-403.
27. Gaynon MW. Rethinking STOP-ROP: is it worthwhile trying to modulate excessive VEGF levels in prethreshold
ROP eyes by systemic intervention? A review of the role of oxygen, light adaptation state, and anemia in
prethreshold ROP. Retina. 2006; 26:S18-23.
28. Hellstrom-Westas L, Inghammar M, Isaksson K, Rosen I, Stjernqvist K. Short-term effects of incubators covers
on quiet sleep in stable premature infants. Acta Paediatr. 2001;90:1004-8.
29. Cermakova E. Study of extremely low frequency electromagnetic fields in infant incubators. Int J Occup Med
Environ Health. 2003;16:215-20.
30. Soderberg KC, Naumburg E, Anger G, Cnattingius S, Ekbom A, Feychting M. Childhood leukemia and
magnetic fields in infants incubators. Epidemiology. 2002;13:45-9.
31. Bullough J., Rea MS., Stevens RG., Light and magnetic fields in a neonatal intensive care unit.
Bioelectromagnetics. 1996;17:396-405.
32. Bellieni CV, Acampa M, Maffei M, Maffei S, Perrone S, Pinto I, Stacchini N, Buonocore G. Electromagnetic
fields produced by incubators influence heart rate variability in newborns. Arch Dis Child Fetal Neonatal Ed.
2008;93(4):F298-301.
33. Aasen SE, Johnsson A, Bratlid D, Christensen T. Fifty-Hertz magnetic fields exposure of premature infants in
a neonatal intensive care unit. Biol Neonate. 1996;70:249-64.
34. Riminesi C, Andreuccetti D, Fossi R, Pezzati M. ELF magnetic fields exposure in a neonatal intensive care unit.
Bioelectromagnetics. 2004;25:481-91.
35. Bellieni CV, Bagnoli F, Pinto I, Stacchini N, Buonocore G. Reduction of exposure of newborns and caregivers
to very high electromagnetic fields produced by incubators. Med Phys. 2005;32:149-52.
36. Symington A, Pinelli J. Developmental care for promoting development and preventing morbidity in
preterm infants. Cochrane Database Syst Rev. 2006;(2):CD001814.
RELAZIONI
QUARTA SESSIONE
125
NUOVE LINEE GUIDA NEL TRATTAMENTO DELL’ASMA DEL BAMBINO
F. Paravati, A. Cirisano, M. Cretella, G. Frandina, N. Lazzaro, C. Pacenza, A.F. Palermo, S. Sisia
Struttura Complessa di Pediatria, Azienda Sanitaria Provinciale di Crotone
L’asma è la principale malattia cronica tra i pazienti pediatrici dei paesi industrializzati. Esistono diverse
linee guida (LG) sulla diagnosi e il trattamento dell’asma bronchiale, la più nota è il documento GINA
(Global Initiative on Asthma) introdotto nel 1992 allo scopo di fornire ai medici strumenti interpretativi
semplici per riconoscere la malattia, definire la sua gravità ed impostare quindi una corretta terapia. Tali
linee guida vengono aggiornate periodicamente ed ultimamente sono stati presentati gli aggiornamenti
italiani, di questi una sezione è dedicata all’asma in pediatria.
Altre LG di recente pubblicazione sono quelle della British Thoracic Society e la consensus Practall voluta
dall’ European Academy of Allergy and Clinical Immunology e dalla American Academy of Allergy, Asthma
and Immunology per trovare un consenso per servire come guida per la pratica clinica in Europa così
come in Nord America.
Le novità delle ultime LG GINA rispetto alle precedenti stesure sono:
- la classificazione secondo il livello di controllo della malattia.
Infatti viene proposta la rilevazione della gravità iniziale dell’asma (espressa rigidamente nei vari livelli
secondo la frequenza dei sintomi, la presenza di sintomi notturni e la rilevazione del FEV1 e del PEF),
poi, nel paziente in trattamento, viene considerato, nel giudizio di gravità dell’asma, il livello di terapia
necessario per ottenere il controllo dell’asma. Questo perchè la precedente classificazione era statica,
mentre nella vita reale occorre una valutazione dinamica che risulta maggiormente predittiva della
risposta al trattamento.
Nella nuova classificazione, il “buon controllo” dell’asma costituisce l’obiettivo principale del trattamento,
viene rilevato da tutte le principali misure cliniche e funzionali (fig.1) e la sua determinazione periodica
permette di modificare la terapia, con riduzione della stessa in caso di buon controllo (step-down) oppure
aumento in caso di cattivo controllo (step-up).
Resta sempre, rispetto alle precedenti stesure delle LG, l’indicazione al controllo dei fattori di rischio per
l’asma (infezioni, allergeni, inquinanti ambientali, comorbidità, etc) al fine di prevenire, da un lato, lo
sviluppo della malattia e dall’altro le riacutizzazioni.
- La possibilità di utilizzo in monoterapia del montelukast nella terapia di fondo nell’asma non controllata
dal β2 agonista (figg. 2-3).
Viene consigliato (evidenza A) per i pazienti che non possono / vogliono utilizzare gli steroidi inalatori.
Un’ulteriore segnalazione indica che “l’uso intermittente del montelukast ai primi segni di una
riacutizzazione asmatica o di una infezione delle vie aeree superiori comporta un risparmio della
utilizzazione di risorse sanitarie”.
- L’aumento dei livelli di trattamento (da 4 a 5) (figg. 2-3).
- La revisione delle dosi giornaliere equipotenti di steroidi inalatori (Fig.4),
che vengono per alcune molecole riviste a dosaggi più bassi.
RELAZIONI
126 QUARTA SESSIONE
Fig. 1. GINA: livelli di controllo dell’asma
Fig. 2. GINA:trattamento dell’asma nei bambini maggiori di 12 anni
RELAZIONI
QUARTA SESSIONE
Fig. 3. GINA: trattamento dell’asma nei bambini minori di 12 anni
127
RELAZIONI
128 QUARTA SESSIONE
Fig. 4. GINA: Dose giornaliera comparativa degli steroidi inalati in età pediatrica
L’impatto delle LG sulla gestione della malattia (valutata dal ricorso di visite dal curante o di visite di
emergenza al Pronto Soccorso, dalla prescrizione di farmaci anti-asmatici) in età pediatrica non sempre è
stato soddisfacente, occorrono nuove strategie per implementare la diffusione delle LG sull’asma in età
pediatrica tra i medici.
Bibliografia
1. National Heart, Lung and Blood Institute (NHLB). International Consensus report on diagnosis and
management of asthma. NIH publication n° 92-3569, 1992GINA International Guidelines. Update 2007. www.
ginasthma.org
2. British Thoracic Society Scottish Intercollegiate Guidelines Network. British Guideline on the Management of
Asthma. Thorax. 2008 May;63 Suppl 4:iv1-121
3. Bacharier LB, Boner A, Carlsen KH, Eigenmann PA, Frischer T, Götz M, Helms PJ, Hunt J, Liu A, Papadopoulos
N, Platts-Mills T, Pohunek P, Simons FE, Valovirta E, Wahn U, Wildhaber J; European Pediatric Asthma Group.
Diagnosis and treatment of asthma in childhood: a PRACTALL consensus report. Allergy. 2008 Jan; 63(1):5-34.
QUINTA SESSIONE
29 NOVEMBRE 2008
Presidenti: Giuseppe Claps, Alessandro Settimi
Moderatori: Antonio Campa, Alfio Cristaldi, Maurizio Ivaldi, Antonio Vitale
xxxx
RELAZIONI
130 QUINTA SESSIONE
ASPETTI FARMACO ECONOMICI DELL’IMMUNOTERAPIA SPECIFICA
D. Minasi
U.O C di Pediatria-Polistena Azienda Sanitaria Provinciale di Reggio Calabria
Il forte incremento dei costi dell’assistenza sanitaria, la scarsità delle risorse disponibili e l’esigenza di
razionalizzare la spesa sono alcuni dei fattori alla base del crescente interesse nei paesi industrializzati
per i temi di economia sanitaria e della necessità di applicare, anche in questo settore, le tecniche di
valutazione tipiche dell’analisi economica(1). Il medico è uno dei principali attori nei processi di spesa
sanitaria e farmaceutica ed è pertanto indispensabile che sia coinvolto nelle analisi di farmaco economia,
o che almeno ne acquisisca gli elementi fondamentali, per poter operare le scelte relative alla cura
dei propri pazienti non soltanto in funzione dell’efficacia del trattamento ma anche in considerazione
del miglior rapporto costo-beneficio(2-4). Questo può determinare un miglioramento delle capacità
prescrittive e, di conseguenza, una riqualificazione della spesa farmaceutica nel contesto più ampio della
spesa sanitaria globale. In tal senso quindi una particolare attenzione dovrebbe essere prestata nella
gestione terapeutica delle malattie, soprattutto di quelle ad elevato impatto sociale come ad esempio
l’asma e la rinite allergica. La spesa per queste malattie, come dimostrano studi recenti, è difatti molto
elevata specie per quanto riguarda i costi diretti (farmaci, visite mediche, test diagnostici, ricorso a Pronto
Soccorso (PS), ricovero (ordinario o day hospital) stimati negli USA tra i 2 ed i 5 miliardi di dollari(5-6).
Se a questi costi si aggiungono quelli indiretti (assenza da scuola/lavoro, ridotto rendimento a scuola/
lavoro) queste cifre possono addirittura raddoppiare, senza considerare poi i costi intangibili legati alla
riduzione della qualità della vita(7-10). E’pertanto evidente che ogni strategia preventiva finalizzata a
ridurre la severità delle allergopatie respiratorie ha come effetto quello di diminuire la spesa per le cure
delle stesse
L’Immunoterapia specifica(ITS) è l’unico trattamento che può modificare la storia naturale delle malattie
respiratorie allegiche ed è stata associata ad un miglioramento dei sintomi in pazienti con rinite allergia
e asma, ad una riduzione statisticamente significativa del rischio di comparsa di asma in bambini con
rinite allergica, alla riduzione della comparsa di nuove sensibilizzazioni o ad entrambe. I suoi effetti
benefici persistono da 3 a 12 anni dopo la sospensione del trattamento(11-24).. L’ITS limitando nel lungo
periodo i sintomi delle allergopatie respiratorie ed il consumo dei farmaci è pertanto in grado di ridurne
i costi. Recenti studi hanno affrontato questa problematica applicando all’ITS i diversi tipi di analisi
farmaco economica, in particolare quella costo efficacia(24-29) Gli studi non sono numerosi, riguardano
prevalentemente casistiche di pazienti adulti, si riferiscono all’ITS per via sottocutanea mentre i più recenti
riguardano la terapia per via orale.
Canonica e coll.(27) hanno condotto in quattro paesi europei (Spagna, Francia, Italia e Austria) l’ analisi
farmacoeconomica costo-efficacia di una nuova formulazione di immunoterapia specifica per via orale
in pazienti adulti con rinocongiuntivite allergica. End-point primario era la qualità della vita espressa in
QALYs.Nei pazienti con con rinite allergica la qualità della vita è risultata migliore nel pazienti trattati con
ITS rispetto a quelli con trattamento farmacologico esclusivo cosi come gli altri end-points di efficacia
considerati(riduzione dei sintomi, ridotto consumo dei farmaci, minor numero di ore perse al lavoro).
L’analisi farmacoeconomica ha inoltre dimostrato che l’ITS è un intervento costo-efficace se confrontato
con il trattamento tradizionale.
In alcuni paesi del nord Europa(30), nell’ambito di uno trial multicentrico su un gruppo di pazienti adulti
con rinite allergica stagionale è stata effettuata un analisi costo efficacia del trattamento con ITS per via
sottocutanea. Anche in questo lavoro i risultati dimostrano che il trattamento con ITS per via sottocutanea
è costo-efficace con un controvalore economico stimato tra 10000 e 25000 euro/QALY.
Schadlich(31) invece ha condotto uno studio in Germania per determinare, in un follow up di 10 anni,
le conseguenze economiche di tre anni di trattamento con ITS nei confronti di un terapia sintomatica
continua in pazienti adulti con rinite allergica da acari o pollini. Sono stati calcolati i costi diretti ed indiretti,
RELAZIONI
QUINTA SESSIONE
131
il “break even point “dei costi totali, il rapporto incrementale costo beneficio(ICER) per i pazienti senza
sintomi di asma. Il “break even point” fu raggiunto tra 6 e 8 anni dall’inizio ella terapia con un risparmio
netto tra 650 e 1190deutschmarks(DM) per paziente dopo 10 anni, mentre l’ICER dell’ITS fu tra -3640DM
e7410DM in funzione del tipo di allergia. Questi dati evidenziano come un trattamento per 3 anni con ITS
sia economicamente vantaggioso, in un follow up di 10 anni, nei pazienti con rinite da pollini o acari che
non controllano adeguatamente i sintomi con l’ uso continuo di farmaci
Anche Ariano e coll, (32) hanno confrontato l’immunoterapia allergene specifica per via sottocutanea con
i farmaci sintomatici in un gruppo di pazienti adulti con rinite allergica Già dopo un anno una significativa
differenza di costi era evidente nel gruppo dell’Immunoterapia associata al trattamento farmacologico
rispetto a quello della sola terapia farmacologica usuale (-15%). A partire dal terzo anno la riduzione
diventava evidente e significativa (- 48%) per arrivare all’80% al sesto anno, tre anni dopo l’interruzione
dellITS Il risparmio netto per ogni paziente allo fine dello studio è stato valutato in €623/anno
In un recente studio costo-efficacia condotto in Italia(33) sono stati valutati i costi e le conseguenze
dell’Immunoterapia Sublinguale (SLIT) ad alte dosi associata con trattamenti sintomatici cronici nella
rinite ed asma allergiche rispetto al solo trattamento farmacologico. Lo studio, effettuato in 25 Centri
italiani su 2230 pazienti con rinite(68%) ed asma(32%) per 6 anni, ha evidenziato che i costi per i pazienti
che eseguivano terapia farmacologica associata alla SLIT rispetto a quelli in esclusivo trattamento
farmacologico erano rispettivamente €2, 400 e €3, 026 per i costi diretti, €1, 913 e €3, 400 per quelli
indiretti. L’utilizzo della SLIT risulta pertanto economicamente più vantaggioso rispetto alla sola terapia
con farmaci sintomatici con un “break even point” a 3 anni e mezzo dall’inizio della terapia.
Non sono molti gli studi che, ad oggi, hanno utilizzato la farmacoeconomia applicata all’immunoterapia
allergene specifica per confrontarla con i farmaci sintomatici in bambini con rinite allergica e asma Uno
studio condotto recentemente in USA(34) su un gruppo di bambini con rinite allergica ha valutato i patterns
di cura, l’utilizzo di farmaci ed i costi diretti prima e dopo il trattamento con ITS per via sottocutanea
In questi soggetti nei 6 mesi successivi al periodo di cura il consumo dei farmaci($330vs $60)(P<.0001)
ed il ricorso a visite specialistiche ($735vs $270)(P <.0001) è stato significativamente minore rispetto a
quello dei mesi antecedenti. Anche i costi totali(compresi quelli per l’ITS) sono risultati ridotti ($1850
vs $1635)(P <.0001).L’impatto economico del trattamento con alte dosi di immunoterapia sublinguale
(SLIT) è stato invece valutato in un gruppo di bambini italiani (35) con rinite allergica ed asma da almeno
un anno senza trattamento con SLIT e con tre anni successivi di trattamento Sono stati valutati i costi
diretti (spesa per farmaci, visite specialistiche, SLIT) che indiretti (i costi risultanti dalle assenze dal lavoro
dei familiari legate alle assenze da scuola dei ragazzi) di 135pazienti, 46 con allergie perenni e 89 con
allergie stagionali comparabili per sesso ed età. Durante il trattamento con SLIT i costi indiretti medi
per anno per paziente sono risultati meno onerosi (€506 vs 224) rispetto al pre-trattamento e la somma
complessiva dei costi diretti ed indiretti è è stata 3 volte più bassa (€ 629 vs 2.672). In questi studi l’analisi
farmaco-economica dell’immunoterapia specifica ha determinato dei risultati favorevoli, sia dal punto
di vista clinico che dell’effetto sui costi diretti e indiretti, rispetto ai trattamenti sintomatici cronici ed ha
evidenziato che l’Immunoterapia Specifica può consentire un risparmio economico (minor costo globale
di patologia) rispetto all’uso esclusivo dei farmaci nel trattamento a lungo termine dell’asma e della rinite
allergica
Bibliografia
1. Marini A., Colombo G.L., Pana’ A., Govoni S., Zacchetti G., Fuga F., Terranova L., Il costo sociale delle malattie
Rivista di Igiene e Sanità Pubblica Volume LVIII N. 5 Settembre / Ottobre 2002
2. Arrigo C- Epidemiology and economics of allergy treatment Clin Exp All Rev 2005; 5:36-39
3. K.B.Weiss, S.D Sullivan The Health economics of asthma and rinitis. Assessing the economics impact.I J Allergy
Clin Immuno2001, 107;3-8
3. Malone DC, Lawson KA, Smith DH, et al. A cost of illness study of allergic rhinitis in the United States. J Allergy
RELAZIONI
132 QUINTA SESSIONE
Clin Immunol99:22-27, 1997.
4. S.D.Sullivan, K.B.Weiss The Health economics of asthma and rinitis.II Assessing the value of interventions J
Allergy Clin Immuno2001, 107;203-210
5. Reed SD, Lee TA, McCrory DC. The economic burden of allergic rhinitis: a critical evaluation of the literature.
Pharmacoeconomics2004; 22:345-61.
6. Law AW, Reed SD, Sundy JS, Schulman KA. Direct costs of allergic rhinitis in the United States: estimates from
the 1996 Medical Expenditure Panel Survey. J Allergy Clin Immunol 2003;111:296-300.
7. Cisternas MG, Blanc PD, Yen IH et al. A comprehensive study of the direct and indirect costs of adult asthma.
J Allergy ClinImmunol 2003; 111:1212-8.
8. Schramm B, Ehlken B, Smala A, Quednau K, Berger K, Nowak D. Cost of illness of atopic asthma and seasonal
allergic rhinitis in Germany: 1-year retrospective study
9. Greenberger PA, Ballow M, Casale TB, Platts-Mills TA, Sampson HA. Sublingual immunotherapy and
subcutaneous immunotherapy: issues in the United States. J Allergy Clin Immunol. 2007 Dec;120(6):1466-8..
10. Ray NF, Baraniuk JN, Thamer M, Rinehart CS, Gergen PJ, Kaliner M, et al. Direct expenditures for the treatment
of allergic rhinoconjunctivitis in 1996, including the contributions of related airway illnesses. J Allergy Clin
Immunol 1999;103:401-7.
11. JointTaskForce onPractice Parameters. Allergen immunotherapy: a practice parameter.AmericanAcademy
of Allergy, Asthma andImmunology.AmericanCollege ofAllergy, Asthma and Immunology. Ann Allergy Asthma
Immunol 2003;90:1-40.
12. Novembre E, Galli E, Landi F, Caffarelli C, Pifferi M, De Marco E, et al. Coseasonalsublingual immunotherapy
reduces the development of asthma in childrenwith allergic rhinoconjunctivitis. J Allergy Clin Immunol
2004;114:851-7.
13. Moller C, Dreborg S, Ferdousi HA, Halken S, Host A, Jacobsen L, et al. Pollen immunotherapy reduces the
development of asthma in children with seasonal rhinoconjunctivitis (the PAT-study). J Allergy Clin Immunol
2002;109:251-6.
14. Niggemann B, Jacobsen L, Dreborg S, Ferdousi HA, Halken S, Host A, et al. Fiveyear follow-up on the PAT
study: specific immunotherapy and long-term prevention of asthma in children. Allergy 2006;61:855-9.
15. Des Roches A, Paradis L, Menardo JL, Bouges S, Daures JP, Bousquet J. Immunotherapy with a standardized
Dermatophagoides pteronyssinus extract. VI. Specific immunotherapy prevents the onset of new sensitizations
in children. J Allergy Clin Immunol 1997;99:450-3.
16. Marogna M, Spadolini I, Massolo A, Canonica GW, Passalacqua G. Randomized controlled open study of
sublingual immunotherapy for respiratory allergy in real-life: clinical efficacy and more. Allergy 2004;59:120510.
17. Eng PA, Reinhold M, Gnehm HP. Long-term efficacy of preseasonal grass pollen immunotherapy in children.
Allergy 2002;57:306-12.
18. Valovirta E, Jacobsen L, Niggemann B, et al. A 3-year course of subcutaneous specific immunotherapy results
in long-termprevention of asthma in children. Ten year follow-up on the PAT-study. J Allergy Clin Immunol
2006;117(3):721.
19. Eng PA, Borer-Reinhold M, Heijnen IA, Gnehm HP. Twelve-year follow-up after discontinuation of preseasonal
grass pollen immunotherapy in childhood. Allergy2006;61:198-201.
20. Pajno GB, Barberio G, De Luca F, Morabito L, Parmiani S. Prevention of new sensitizations in asthmatic
children monosensitized to house dust mite by specific immunotherapy. A six-year follow-up study. Clin Exp
Allergy 2001;31:1392-7
21. Di Rienzo V, Marcucci F, Puccinelli P, Parmiani S, Frati F, Sensi L, et al. Long-lasting effect of sublingual
RELAZIONI
QUINTA SESSIONE
133
immunotherapy in children with asthma due to house dust mite: a 10-year prospective study. Clin Exp Allergy
2003;33:206-10.
22. Durham SR, Yang WH, Pedersen MR, Johansen N, Rak S. Sublingual immunotherapy with once-daily grass
allergentablets: a randomized controlled trial in seasonal allergicrhinoconjunctivitis. J Allergy Clin Immunol
2006;117:802-9.
23. Marogna M, Bruno M, Massolo A, Falagiani P. Long-Lasting effects of sublingual immunotherapy for house
dust mites in allergic rhinitis with bronchial hyperreactivity: a long-term (13-year) retrospective study in real
life. Int Arch AllergyImmunol 2007;142:70-8.
23. Mauro M, Russello M, Alesina R, Sillano V, Alessandrini A, Dama A, Passalacqua G, Senna G. Safety and
pharmacoeconomics of a cluster administration of mite immunotherapy compared to the traditional one.
Allerg Immunol (Paris). 2006 Jan;38(1):31-4.
24. Cox L.Sublingual immunotherapy in pediatric allergic rhinitis and asthma: efficacy, safety, and practical
considerations.Curr Allergy Asthma Rep. 2007 Nov;7(6):410-20. Review.
25. Trippoli S., Santarlaschi B., Messori A., Scroccaro G.-L’analisi costo-efficacia come strumento per la definizione
del prezzo dei prodotti innovativi: cenni metodologici ed esempio di applicazione ai dispositivi medici Giornale
italiano di Farmacia clinica, 20, 4, 2006
26. Weinstein MC, Siegel JE, Gold MR, Kamlet MS, Russell LB. Recommendations of the Panel on Costeffectiveness
in Health and Medicine. JAMA 1996;276:1253-8.
27. G.W. Canonicaa, P.B. Poulsenb, _, U. Vestenbækc -Cost-effectiveness of GRAZAXs for prevention of grass
pollen induced rhinoconjunctivitis in Southern Europe Respir. Med. 2007, 101, 1885-1894
28. Rak S, Yang WH, Pedersen MR, Durham SR. Once-daily sublingual allergen-specific immunotherapy improves
quality of life inpatients with grass pollen-induced allergic rhinoconjunctivitis:a double-blind, randomised
study. Qual Life Res 2007;16:191-201
29. Schoenwetter WF, Dupclay L, Appajosyula S, Botteman MF, Pashos CL. Economic impact and quality-of-life
burden of allergic rhinitis. Curr Med Res Opin 2004; 20:305-17.
30. H, Keiding, KP. Jørgensen A cost-effectiveness analysisof immunotherapy with SQallergen extract for
patientswith seasonal allergicrhinoconjunctivitis in selected European countries Curr. Med. Res. and Opin.
2007, 23, 1113-1120
31. P. K. Schädlich, J. G. Brecht Economic Evaluation of SpecificImmunotherapy Versus Symptomatic Treatment
of Allergic Rhinitis in Germany
Pharmacoeconomics 2000 Jan; 17 (1): 37-52
32. Ariano R, Berto P, Tracci D, Incorvaia C, Frati F. Pharmacoeconomics of allergen immunotherapy compared
with symptomatic drug treatment in patients with allergic rhinitis and asthma. Allergy Asthma Proc 2006;27:15963.
33. Berto P, Passalacqua G, Crimi N, Frati F, Ortolani C, Senna G, et al. Economic evaluation of sublingual
immunotherapy vs symptomatic treatment in adults with pollen-induced respiratory allergy: the Sublingual
Immunotherapy Pollen Allergy Italy (SPAI) study. Ann Allergy Asthma Immunol 2006;97:615-21.
34.C.S. Hankin, L. Cox, D. Lang, A. Levin, Allergy immunotherapy among Medicaid-enrolled children with allergic
rhinitis: Patterns of care, resource use, and costs J Allergy Clin Immunol 2008, 121:227-230
35. Berto P, Bassi M, Incorvaia C, Frati F, Puccinelli P, Giaquinto C, et al. Cost effectiveness of sublingual
immunotherapy in children with allergic rhinitis and asthma. Allerg Immunol (Paris) 2005;37:303-8.
RELAZIONI
134 QUINTA SESSIONE
INFEZIONI NOSOCOMIALI IN TIN
A. Scarcella
Dipartimento di Pediatria - Università di Napoli “Federico II”
Le infezioni nosocomiali sono un’importante causa di mortalità, morbidità e disabilità a lungo termine,
prolungano i tempi di degenza e comportano un notevole incremento della spesa sanitaria. In Terapia
Intensiva Neonatale sono favorite da numerosi fattori fra cui le ridotte difese immunitarie dei neonati,
soprattutto pretermine e/o di basso peso, il sovraffollamento delle strutture e la sempre più ampia varietà
di procedure mediche e tecniche invasive che se da un lato permettono la sopravvivenza di neonati
sempre più pretermine, dall’altro facilitano l’insorgenza e la trasmissione di infezioni. Quanto più il
neonato è pretermine e di basso peso tanto più i sintomi di infezione sono sfumati e difficili da riconoscere
precocemente ed è necessario spesso iniziare una terapia ad ampio spettro sulla base del minimo
sospetto clinico. La prognosi è inversamente proporzionale all’età gestazionale ed al peso alla nascita ed
è influenzata dal microrganismo in causa. Le sepsi ad insorgenza tardiva hanno un rischio di mortalità
più elevato. L’atteggiamento terapeutico che presenta il più vantaggioso rapporto costo-beneficio è
quello di iniziare una terapia antibiotica empirica con l’associazione ampicillina/aminoglicoside sostituita
dalla terapia antibiotica mirata. Per le infezioni fungine vengono consigliate le formulazioni lipidiche di
amfotericina B, perché presentano meno effetti tossici e consentono pertanto di somministrare dosaggi
più elevati.
La strategia vincente è però rappresentata dalla prevenzione che si realizza attraverso sistemi di
sorveglianza attiva orientata al paziente e ai dati di laboratorio e mediante una politica di formazione
continua del personale mirata al monitoraggio dei patogeni responsabili di infezione ed alla loro modalità
di trasmissione.
RELAZIONI
QUINTA SESSIONE
135
L’ASMA E’ SEMPRE DA RICOVERARE?
G. Messi, F. Mastrobuoni, M. Copertino, S. Norbedo
SC Pediatria d’Urgenza con Servizio di Pronto Soccorso, Irccs materno infantile Burlo Garofolo, Trieste
L’asma è una malattia cronica delle vie aeree caratterizzata da infiammazione, aumento della reattività
bronchiale e bronco-ostruzione reversibile, spontaneamente o dopo trattamento. All’interno di una storia
cronica, l’asma si può caratterizzare per accessi acuti (AAA) scatenati da numerose cause ambientali quali
esposizione a sostanze irritanti o allergeni, cambiamenti climatici, esercizio fisico, emozioni.
L’AAA è un episodio ingravescente che si evidenzia clinicamente con distress respiratorio, ridotto ingresso
d’aria, tosse, respiro sibilante (wheezing) e/o senso di costrizione toracica. Vi è quasi sempre riduzione del
flusso espiratorio, misurabile (nei soggetti di età > a 5 anni) mediante le prove di funzionalità respiratoria
(PEF e FEV1) e circa tutti gli episodi di asma acuto si caratterizzano per una più o meno grave desaturazione
da ipossia.
L’approccio e il trattamento dell’AAA è stato puntualizzato dall’elaborazione di linee guida (LG) che
includono le evidenze scientifiche sul trattamento dell’ accesso asmatico acuto (AAA) patologia che
molto spesso rappresenta un’urgenza-emergenza respiratoria, (1-2-3-4). Esse in particolare aiutano
a definire i criteri per le decisioni sulla destinazione dei bambini che accedono al Pronto Soccorso per
questa patologia. L’utilizzo dell’Osservazione Temporanea e Breve incidono sui comportamenti tanto
da determinare una progressiva diminuzione dei ricoveri senza un peggioramento nella qualità delle
cure (4, 5). Nel tempo più recente c’è quindi stato un miglioramento nella qualità delle cure dell’AAA,
raggiunta attuando percorsi di prevenzione, trattamento terapeutico e di procedure decisionali, basati
sulle indicazioni dell’Evidence Based Medicine (EBM).
Le indicazioni delle LG per il primo intervento
L’attacco d’asma acuto può presentarsi con livelli di gravità differenti che valutabili secondo le linee
guida internazionali in base a parametri soggettivi ed oggettivi (Tab 1). Il grado di distress, la frequenza
respiratoria e cardiaca, la saturazione dell’Ossigeno, l’intensità dello sforzo respiratorio, il colorito, la
terapia già eseguita a domicilio, la durata della crisi. forniscono gli elementi già indirizzare verso un
diversificato approccio terapeutico dell’AAA. Come riportato in letteratura, la saturazione che all’ingresso
risulta essere <92%, di per sé significa che l’AAA in questione è grave e che verosimilmente non vi sarà un
miglioramento del paziente nella prima ora tale da permettere una dimissione (1).
Le LG concordano che le priorità iniziali sono (tab 2): somministrare O2, qualora la saturazione riscontrata
all’ingresso sia <94%; iniziare prontamente una terapia broncodilatante con salbutamolo 0, 15 mg/kg
per via aerosolica. Se la risposta non è soddisfacente e, di fronte ad un quadro clinico moderato o grave,
nella prima ora possono essere ripetuti fino a 3 aerosol con broncodilatatore, corticosteroidi per os
(betametasone 0, 1mg/kg), e se il bambino ha un’età > 1 anno è possibile aggiungere l’ipatropio bromuro
nell’aerosol.
Dopo la prima ora di trattamento, a seconda dell’evoluzione del distress e dei parametri si può decidere
cosa fare
I criteri per le decisioni operative dopo il primo trattamento in PS
Il paziente è dimissibile quando, dopo il primo ciclo di terapia broncodilatante aerosolica (fino a 3 aerosol
in un 1 ora), si raggiunge stabilmente per 1-2 ore una normalità della FR, FC e una saturazione >95%.
Come criterio aggiuntivo in letteratura viene riportato il raggiungimento del PEF > 70-80%, con una
stabilità del risultato per almeno 3-4 ore del suo valore normale e con variabilità circadiana <20-25%. Per
chi ha esperienza di PS, è però poco verosimile realizzare una misurazione del PEF in PS tanto che nell’area
di emergenza solitamente non viene usualmente eseguito.€
Le indicazioni per trattenere il bambino in Osservazione Breve sono rappresentati dalla necessità di
mantenere un supporto di O2 per raggiungere delle saturazioni adeguate (possibilmente >95%), da
RELAZIONI
136 QUINTA SESSIONE
un’ insoddisfacente risposta ai beta-2-agonisti, uno scarsa garanzia assistenziale a domicilio sostegno
familiare o infine se il distress respiratorio non si risolve in PS e non richiede un supporto rianimatorio.
Il paziente inoltre potrà essere ricoverato nel caso in cui vi sia una ridotta percezione dei sintomi o
appartenga al gruppo di pazienti ad alto rischio per asma grave.
Il ricovero va riservato a quei quadri clinici difficilmente risolvibili nelle 24 ore previste come durata
massima dell’OB Fanno parte di questo gruppo i bambini con un’insufficienza respiratoria importante
dopo somministrazione di broncodilatatore (dispnea associata all’uso della muscolatura accessoria,
cianosi) confermata da una persistenza dell’alterazione dei parametri clinici, quali una SaO2 < 92%, ed un
PEF basale <33% o PEF<60% (valori riferiti al valore personale migliore) oppure gli accertamenti radiologici
evidenzino la presenza di complicanze (pneumotorace, pneumomediastino, atelectasie, polmonite).
Questi pazienti richiedono un adeguato trattamento e monitoraggio clinico e laboratoristico.
L’aggravamento della sintomatologia nonostante la terapia in atto o la presenza delle condizioni che
indichino il rischio di un imminente arresto respiratorio richiedono l’invio all’unità di terapia intensiva
(UTI). I criteri di ricovero in TI sono rappresentati da una persistenza di deterioramento del PEF (< 50%)
o SaO2 < 90, dopo terapia adeguata, un peggioramento o persistenza dell’ipossia, ipercapnia (PCO2 >
45 mm Hg), segni di affaticamento muscolare: respiro flebile, confusione, sonnolenza., ed infine coma.
E’ chiaro che laddove vi sia stato un arresto respiratorio con pronta risoluzione dopo rianimazione, sarà
comunque inevitabile l’invio in ambiente protetto quale la TI.
La nostra esperienza
IL Pronto Soccorso dell’Irccs materno infantile Burlo Garofolo rappresenta per le sue peculiari caratteristiche
un ottimo osservatorio per valutare i riflessi e l’efficacia dell’approccio all’asma acuto proposto dalle
recenti linee guida e della riduzione dei ricoveri conseguente. Rappresenta l’unico riferimento per una
popolazione pediatrica, ha un alto indice di attrazione e comprende tra le altre offerte ospedaliere un
Centro di riferimento regionale per le malattie allergiche che è in costante contatto con la pediatria
territoriale. Per questi motivi abbiamo ritenuto indicativo analizzare le caratteristiche, aggiornate al 2007,
delle prestazioni per distress respiratorio da broncospasmo acuto infettivo e non per valutare l’efficacia
ma soprattutto l’effetto dell’approccio terapeutico decisionale attuato secondo le indicazioni della
recente letteratura (3-4). Sono stati esclusi dall’indagine i bambini con età inferiore ad un anno e quelli
tra 1-2 anni con quadri clinici ed epidemiologicamente o clinicamente associabili ad infezioni da Virus
Respiratorio Sinciziale.
Gli accessi in PS per quadro asmatico acuto, nel periodo 1 gennaio-31 dicembre 2008 nel nostro ospedale,
sono stati 189 su 18.500 prime visite (1%). L’età prevalente è stata al di sotto dei 5 anni di vita (tab. 3). 155
bambini (82.0%) sono stati dimessi dal PS dopo un primo trattamento, consistito nella somministrazione
di corticosteroide per os nel 79.3%, in 1 aerosol con broncodilatatore nel 67 bambini (43.2%), in 2 aerosol
in 20 (12.9%), in 3 aerosol in 26 26.7%. 4 bambini sono stati ricoverati direttamente dal PS; 30 casi, le cui
caratteristiche parametriche all’ingresso sono descritte nella tabella 5, sono stati trattenuti in Osservazione
e di essi 4 sono poi stati dimessi entro 6 ore dall’ingresso, 23 sono rimasti in Osservazione Breve (OB) e
sono tornati a domicilio tra le 6 e le 36 ore dall’accesso; 3 sono stati, dopo un periodo di OB, ricoverati per
persistenza della necessità di ossigenoterapia. Complessivamente sono stati quindi ricoverati 7 bambini
(3.7%). Questi dati risultano ancora migliori di quelli precedentemente pubblicati dalla nostra équipe,
quando confrontando i ricoveri per AAA del 1993 con quelli del 2003 si è constatata una flessione nei
ricoveri dal 10, 6% al 7.7%. C’è da segnalare che dal 2006 la terapia aerosolica d’attacco che si esegue PS,
prima di prendere decisioni sulla destinazione, è passata a 1-3 somministrazioni, a seconda della gravità.
Commento
I dati più recenti evidenziano come l’andamento dei ricoveri per accesso asmatico acuto sia in progressivo
calo e sempre più limitato rispetto agli anni scorsi. Questo è stato possibile per la probabile riduzione
epidemiologica della gravità delle crisi, ad una terapia più aggressiva già dalla fase iniziale, indicata
RELAZIONI
QUINTA SESSIONE
137
dalle linee guida recenti, e ad un efficace follow-up quando questo coinvolge nella gestione la medicina
pediatrica del territorio.
Bibliografia
1. Cincinnati Children Hospital Medical Center. Evidence-Based Clinical Practice Guideline for managing un
acute Exacerbation of Asthma, 2002. www.cincinnatichildrens.org
2. Global Iniziative for asthma. Global strategy for asthma managemnent and prevention.(GINA) National
Health, Lung And Blood Institute Pubblicaztion 1995 Bethesda. Revised 2006 in www. ginasthma.org.
3. British Thoracic Society, Scottish Intercollegate Guidelines Network. British guideline on the management of
asthma. Revised 2007
4. Indinnimeo L, Barbato A, Cutrera R et al. Linee Guida SIP: Gestione dell’attacco acuto di asma in età pediatrica.
Area Pediatrica, 2008; 5: 13
5. Marchi A.G, Guglia E, Norbedo S, Bassanese S, Messi G.i L’Osservazione temporanea: riflessioni. Pediatria
d’Urgenza 2005; n. 1
6. Guglia E., Marchi A.G. Messi G. Osservazione temporanea: ruolo e prospettive in pediatria Medico e Bambino
marzo 2004
7. Piccinini R., Mastrobuoni F., Messi G., L’ asmaIN Atti: 6° Congresso nazionale Simeup, Trieste 18-20 settembre
2008, Rivista di Emergenza Urgenza Pediatrica 0 (suppl): 30-2
Tabella 1. Classificazione di gravità dell’asma acuto (3-4)
RELAZIONI
138 QUINTA SESSIONE
Tabella 2. Approccio terapeutico decisionale (3-4-7)
ATTACCO LIEVE
RELAZIONI
QUINTA SESSIONE
ATTACCO MODERATO
139
RELAZIONI
140 QUINTA SESSIONE
ATTACCO GRAVE
2007
Accessi in PS
1-2 aa
84
3-5 aa
59
6-9 aa
27
>10 aa
19
Totali
189
Tabella 3. Accessi in PS per asma nel 2007: distribuzione per età
RELAZIONI
QUINTA SESSIONE
pazienti in osservazione
valori
n. pazienti
≤ 90 %:
10
91-95 %
18
>95%
2
1 aa
149, 5
8
2-5aa
140
13
>5 aa
126
9
1 aa
55
8
2 aa
60
13
>3 aa
44
9
<6h
4
>6h
26
saturazione
fc valore medio per età
fr per età
numero di ore in ot
Tabella 4. Descrizione parametri all’ingresso dei 30 pazienti trattenuti in Osservazione
141
PRIMA SESSIONE INFERMIERISTICA
29 NOVEMBRE 2008
Presidenti: Arturo Giustardi, Ippolito Pierucci, Carlo Cioffi
Moderatori: Raffaele Coppola, Domenico Perri, Giuseppe Della Corte
Francesco Raimondi, Edoardo Bancalari, Roberto Paludetto
RELAZIONI
PRIMA SESSIONE INFERMIERISTICA
143
ASSISTENZA AL BAMBINO CON MENINGOENCEFALITE ACUTA:
UN LAVORO D’EQUIPE
C. Russo1, P. De Ninno1, R. Coppola2, R. Mormile1
1
2
UOC di Pediatria e Neonatologia - P.O. San G. Moscati - Aversa
Università Campus Biomedico - Roma
Le meningoencefaliti sono entità nosologiche relativamente frequenti in età pediatrica, caratterizzate da
una infiammazione non purulenta dell’encefalo con la contemporanea compromissione delle meningi.
Sono provocate più frequentemente da infezioni virali dirette (con replicazione virale intracerebrale:
Coxackie, Echovirus, HSV I e II, HHV6, Adenovirus, EBV, CMV, morbillo, parotite, etc), in rari anche da quelle
batteriche, fungine o protozoarie. Tuttavia nella maggior parte dei casi il microrganosmo non può essere
identificato. Esse possono essere causate anche da una reazione immunologica insorta a seguito di una
infezione prevalentemente virale o a vaccinazione (morbillo), con una fase di latenza tra la malattia e
l’esordio dei sintomi neurologici. Questo tipo di encefaliti sono siglate con l’acronimo ADEM (Acute
Disseminated Encephalo-Myelitis). Le meningoencefaliti talvolta vengono classificate più per la
localizzazione anatomica che per l’agente eziologico così ad esempio viene distinta l’encefalite del
troncoencefalico con deficit dei nervi cranici, quella limbica con disturbi di comportamento, quella
frontale con convulsioni focali caratteristiche etc. Il quadro anatomopatologico delle meningoencefaliti
acute da infezione virale diretta o primaria è rappresentato da infiammazione perivascolare associata a
distruzione neuronale, neuronofagia, necrosi tissutale prevalentemente della sostanza grigia, mentre
quello delle meningoencefaliti post-infettive, secondarie a meccanismo immunomediato, consiste in
lesioni demielinizzanti della mielina che circonda le vene di piccolo calibro, con essudazione perivascolare
e proliferazione neurogliale diffusa con precipuo interessamento della sostanza bianca ma talvolta anche
della sostanza grigia. Non vi sono segni clinici e paraclinici specifici di meningoencefalite acuta per cui si
tratta il più delle volte di una diagnosi di esclusione. L’esordio più comune è sotto forma di malattia
sistemica con febbre, vomito, cefalea ed astenia. Il sospetto clinico si pone davanti a un quadro ad
insorgenza acuta di interessamento neurologico con alterazione dello stato di coscienza (da letargia a
coma), crisi convulsive o altro deficit neurologico focale con eventuali segni infiammatori clinici (febbre).
Segni specifici di alterazione della sostanza grigia sono un esordio clinico brutale, turbe della coscienza
sino al coma, crisi epilettiche frequenti, segni piramidali ed extrapiramidali, mentre quelli di localizzazione
della sostanza bianca sono costituiti da moderate turbe della coscienza, crisi epilettiche poco frequenti.,
coinvolgimento dei nervi cranici. In regime di ricovero è importante fare tempestivamente una diagnosi
differenziale con altre patologie che presentano una sintomatologia simile e che necessitano di un
trattamento specifico urgente, in particolare le meningiti batteriche, la meningite tubercolare, gli ascessi
e gli empiemi intracranici, lo stroke, l’encefalopatia uremica e/o epatica, la sindrome di Reye, l’ ipoglicemia,
la sindrome di Miller-Fisher. La raccolta anamnestica e la presenza di segni peculiari all’esame obiettivo
possono orientare verso la diagnosi. La gestione del bambino con meningoencefalite acuta richiede un
lavoro di equipe medico-infermieristico. Bisogna eseguire immediatamente la puntura lombare o
rachicentesi per escludere una meningite batterica a meno che non siano presenti segni neurologici
focali o evidenza di aumento della pressione endocranica. In tal caso è indicato prima lo studio dell’encefalo
mediante RMN o TAC, preferibilmente con mezzo di contrasto poiché l’estrazione del liquor, comportando
una diminuzione della pressione liquorale, potrebbe provocare l’incuneamento delle tonsille cerebellari
attraverso il grande forame occipitale con sofferenza bulbare, crisi toniche e/o morte immediata. La RMN
encefalo è di maggior sensibilità diagnostica rispetto alla TAC permettendo di differenziare una forma
virale diretta da una forma post-infettiva. Prima do eseguire la puntura lombare, dovrebbero essere
escluse anche piastrinopenie e/o deficit emocoagulativi per il rischio di ematomi spinali. La puntura
lombare è una tecnica diagnostica che consente il prelievo del liquor o liquido cefalorachidiano
RELAZIONI
144 PRIMA SESSIONE INFERMIERISTICA
normalmente presente all’interno dello strato meningeo (pia madre) dal canale midollare. L’analisi del
liquor fornisce informazioni essenziali sul coinvolgimento del SNC in un eventuale processo patologico
rivelando la presenza di danno tissutale e/o infiammazione. La chiave per eseguire tale procedura è la
corretta posizione del paziente e pertanto è essenziale la collaborazione dello staff infermieristico nel
tenere il bambino in posizione immobile ma non troppo stretto per il rischio di un arresto cardiocircolatorio.
Il paziente deve essere posizionato al bordo del lettino da visita in decubito laterale, mantenuto fisso in
posizione fetale con il collo flesso a toccare lo sterno e le ginocchia raccolte sul petto. Le spalle e il dorso
devono essere perpendicolari al lettino. Alternativamente il bambino può essere messo in posizione
seduta con le gambe penzoloni al bordo del lettino con un cuscino contro l’addome da abbracciare il più
possibile per arrotondare il dorso e facilitare l’apertura degli spazi interspinosi. Nel neonato, si adotta
principalmente la posizione verticale con il collo parzialmente esteso poiché la flessione completa di
questo può provocare ipoventilazione. La regione lombare sino alle creste iliache deve essere detersa con
una soluzione chirurgica (iodopovidone) richiedendo tale indagine la massima sterilità. Al fine di rendere
meno traumatico l’esame, soprattutto nei bambini al di sopra dei 5 anni, è consigliabile applicare della
crema anestestica locale (EMLA) o anche una piccola anestesia locale con un sottilissimo ago circa un’ora
prima dell’esame sul punto dove sarà effettuata la puntura. Inoltre, avvenendo tale manovra in entrambe
le posizioni, “dietro le spalle del bambino”, egli sarà inevitabilmente spaventato e pertanto bisognerà
rassicurarlo e confortarlo. Dopo aver identificato con la palpazione l’apofisi spinosa posto in linea con la
parte postero-superiore della cresta iliaca che corrisponde al processo spinoso di L4 si inserisce
gradualmente l’ago nello spazio a livello di L4-L5, in un piano rigorosamente sagittale e appena inclinato
di 15°-20° verso l’alto, in direzione dell’ombelico. L’ago può essere introdotto anche uno spazio sopra o
sotto ossia negli interspazi lombari/sacrali L3-L4 e L5-S1 poiché a questi livelli comunque si ha la certezza
di non provocare danni alle strutture midollari che si estendono sino al margine superiore della seconda
vertebra lombare. Deve essere usato un ago spinale con mandrino, in genere di calibro 20-22 G a seconda
dell’età. E’ sconsigliato l’uso di un ago semplice per il rischio di inoculazione di frammenti di epidermide
nel canale midollare. Il liquor (circa 1-2 ml) deve essere raccolto in apposite provette per l’esame colturale
e chimico-fisico. Sia la puntura che il prelievo devono essere eseguite con materiale sterile per prevenire
infezioni meningee. Il raggiungimento dello spazio subaracnoideo è identificato sia dall’improvvisa
cessazione di resistenza all’inserimento dell’ago per il superamento delle strutture legamentose e della
dura madre, sia per la fuoriuscita di liquor. Quest’ultimo viene raccolto in apposite provette sterili con una
leggera aspirazione. Le alterazioni del liquor in corso di meningoencefalite acuta sono modeste e spesso
aspecifiche. Generalmente si rilevano pleiocitosi, lieve proteinorrachia, glicorrrachia normale o lievemente
aumentata. Al termine della procedura il bambino deve essere riadagiato lentamente e deve restare
disteso per almeno 2-4 ore per il rischio di cefalea, vomito, lipotimia legati all’abbassamento della
pressione intrarachidea. Incovenienti della rachicentesi sono anche il dolore da puntura accidentale di
una radice spinale e/o una piccola emorragia locale. L’EEG evidenzia un generico rallentamento dell’attività
elettrica cerebrale e può essere di aiuto nella eziologia; nelle forme erpetiche c’è il rilievo di complessi
lenti periodici focali a localizzazione tipicamente temporale mentre nelle encefaliti post-infettive si
rilevano generalmente onde delta lente polimorfe generalizzate. La sintomatologia varia con l’età. Tra i 6
mesi e i 2 anni di vita è frequente l’encefalite e/o meningoencefalite erpetica; dopo i 4 - 5 anni sono più
comuni le meningoencefaliti post-infettive. Nel bambino al di sotto dei 3 aa, crisi localizzate brachiofaciali o segni di emilato con febbre, che si ripetono, con secondaria alterazione dello stato di coscienza e
paralisi, fanno sospettare un’infezione erpetica. L’encefalite erpetica frequentemente trova come agente
eziologico l’HVS I labialis nel bambino mentre nel neonato l’HSVII genitalis. Aspetti peculiari della presenza
del virus erpetico sono i segni neurologici di interessamento del lobo temporale caratterizzati da
allucinazioni visive, uditive e olfattive e l’ideazione alterata con comportamento “bizzarro”. Il paziente con
meningoencefalite acuta richiede uno stretto monitoraggio dei parametri vitali e dell’equilibrio idroelettrolitico. Vanno controllati continuamente lo stato di alterazione del sensorio, l’eventuale insorgenza
RELAZIONI
PRIMA SESSIONE INFERMIERISTICA
145
di crisi epilettiche, la gravità dei disturbi neurovegetativi (PA, FC, FR, TC). In presenza di peggioramento
dello stato di coscienza e dei sintomi di ipertensione endocranica (aggravamento del coma, alterazione
parametri vitali, crisi toniche, appiattimento del tracciato EEG) è necessario il trasferimento in rianimazione.
La terapia sintomatica per l’ipertensione endocranica prevede il mannitolo, corticosteriodi, restrizione
idrica. Il fenobarbital è impegato nelle crisi epilettiche e acyclovir nelle forme erpetiche. La presa in carico
di un bambino con meningoencefalite prevede anche un idoneo supporto psicologico alle famiglie dei
pazienti. I casi di meningoencefaliti acute devono essere notificati per Legge.
Bibliografia
1. RM Barkin - P Rosen Emergenze pediatriche - Edizioni Minerva Medica 2007.
2. EF Crain - JC Gershel - Manuale Clinico delle Urgenze pediatriche - Piccin 2006.
3. V Cumitech. Laboratory diagnosis of Central Nervous System Infections. Am Soc. Microbiol. 1-16.1993.
4. Negrini B., Kelleher K.J. Wald E. R. Cerebrospinal fluid findings in aseptic versus bacterial meningitis. Paediatrics,
105:316-319, 2000.
5. Pavone L. Ruggeri M. Neurologia Pediatrica - Masson 2006.
6. R. Riccardi - Vademecum di Diagnosi e Terapia Pediatrica - Margiacchi -Galeno Editore 2008.
RELAZIONI
146 PRIMA SESSIONE INFERMIERISTICA
GESTIONE DEL BAMBINO IN FOTOTERAPIA
P. Errico, D. Meoli
L’ittero neonatale è una condizione nota da molto tempo, cui viene dedicata particolare attenzione solo
agli inizi del 900. Fu Schmorl nel 1903 che attraverso uno studio anatomo-patologico condotto su un
gruppo di neonati deceduti per ittero o sopravvissuti ma con gravi esiti neurologici a coniare il termine
di “KERNICTERUS” (dal greco: nucleo giallo). Per ittero s’intende una colorazione giallastra presente alle
sclere, sulle mucose e sulla cute dovuta all’accumulo nel sangue della bilirubina.
La bilirubina è una sostanza che viene prodotta dall’organismo in seguito alla distruzione dei globuli
rossi invecchiati. Così formatasi, la bilirubina viene definita “indiretta” o “non coniugata”, questa essendo
liposolubile circola nel sangue legata all’albumina; così legata viene captata dal fegato, metabolizzata
e trasformata in “bilirubina diretta” ed idrosolubile per cui eliminabile in parte attraverso le feci ed in
parte per azione di alcuni batteri viene deconiugata a bilirubina libera. Quest’ultima può essere eliminata
tale oppure, riassorbita, viene nuovamente captata dal fegato (circolo entero-epatico). Nel neonato la
maggiore produzione di bilirubina è legata al turnover dei globuli rossi (vita media eritrocitaria 80-90gg
rispetto ai 120gg dell’adulto) e alla ridotta capacità di escrezione dovuta ad una limitata coniugazione.
Si considera così meritevole di attenzione in un neonato un livello di bilirubina che superi i 12, 9mg/dl e
naturalmente la gravità dell’ittero è valutabile in funzione di alcuni fattori:
- Inizio precoce;
- Incremento del valore della bilirubinemia >5mg/dl/die;
- un picco troppo elevato(>12-13mg/dl nel neonato a termine e >15mg/dl neonato pretermine;
- persistenza oltre i limiti cronologici usuali.
Ogni qualvolta esistono queste condizioni ci troviamo di fronte ad un ittero patologico ed una delle cause
più frequenti è la malattia emolitica neonatale (MEN) conseguente ad incompatibilità per il sistema ABO
o per il fattore Rh. In questi casi la diagnosi si avvale della determinazione immediata della BT, degli
emogruppi e dell’esecuzione di un Test di Coombs diretto.
Tutt’altro evento è “l’ittero fisiologico“ che si manifesta di solito dopo 2-3 gg di vita, dura circa 7-10 gg e
solitamente regredisce spontaneamente.
Una considerazione meritano anche gli itteri cosiddetti “protratti”come l’ittero da latte materno che
compare più tardivamente, può durare fino a 3-10 settimane, non compromette lo stato di salute del
bambino, non necessita di terapia e della sospensione del latte materno.
L’ittero da “latte materno” non deve essere confuso con l’ittero del neonato allattato al seno perché questo
è legato non all’allattamento al seno ma ad un insufficiente apporto di calorie nei primi giorni di vita.
In conclusione gli itteri nel neonato possono classificarsi in:
Itteri a Bilirubina indiretta (itteri da iperemolisi, da accentuato circolo entero-epatico, da deficit della
captazione da parte del fegato, da deficit della glicuronazione).
Itteri a Bilirubina diretta o coniugata (itteri da deficit di escrezione della bilirubina dall’epatocita, da
ostruzioni della vie biliari).
Itteri a Bilirubina mista (itteri da cause dismetaboliche, da sepsi).
L’ittero indipendentemente dalle cause che lo hanno provocato è pericoloso quando i valori della BT
tendono a superare i 20mg/dl nel nato a termine e valori nettamente inferiori nel nato pretermine perché
insorge il rischio di neurotossicità.
Nel 1958 sister Ward, una infermiera inglese, notò che i bambini affetti da ittero neonatale miglioravano
se esposti alla luce solare. Il suo capo, Cremer, divenne famosissimo per questa scoperta e oggi migliaia di
bambini vengono curati in questo modo.
Il trattamento consiste nell’esposizione della cute alle radiazioni emesse da lampade fluorescenti con
lunghezza d’onda tra 420 e 480 nm.
La Bilirubina sotto l’influenza della luce va incontro a processi di fotoossidazione e fotoisomerizzazione
RELAZIONI
PRIMA SESSIONE INFERMIERISTICA
147
con formazione di prodotti di degradazione più semplici, idrosolubili e di pronta eliminazione.
Esistono diversi tipi di apparecchi: a luce bianca, a luce blu, a luce bianca e blu ed ultimamente è stata
proposta l’utilizzazione anche di una luce verde fluorescente. Il tipo più usato per la sua efficacia è quello
a luce blu. Per ottenere il massimo rendimento bisogna usare fototerapie costituite da almeno 8 tubi che
siano schermati per motivi di sicurezza da una superficie di plexiglass.
La fototerapia è usata in tutti i neonati, anche in quelli di basso peso e nelle varie forme di iperbilirubinemia
come profilassi in attesa o meno di exanguinotrasfusione. Nell’indicazione alla fototerapia si tiene
solitamente conto dell’età del bambino, del peso alla nascita e del tasso di BT Alcuni studi hanno dimostrato
modificazioni del comportamento del neonato e dell’interazione madre-bambino durante la fototerapia,
non è facile definire quanto sia da attribuire all’iperbilirubinemia piuttosto che alla fototerapia.
L’infermiera nell’ assistenza al neonato in fototerapia deve tener conto del distacco traumatico per la
diade madre-figlio per cui deve rendere partecipi i genitori ed in particolare la madre non può che essere
di giovamento sia per l’aspetto relazionale che per favorire la conservazione dell’allattamento al seno.
Utile informare i genitori sulla normalità di alcuni eventi quali: il bendaggio degli occhi quando il piccolo
è in fototerapia, sulla presenza di scariche spesso diarroiche e verdastre, sulla comparsa di esantema
cutaneo o di colorito bronzeo.
Nel nostro reparto, durante l’esposizione alla fototerapia, la mamma può rimanere vicino al figlio dopo la
poppata, per tutto il tempo necessario a consolarlo e calmarlo.
Durante la fototerapia è necessario che siano seguite con scrupolo determinate norme:
Controllo periodico dell’apparecchio per la fototerapia con fotomisuratori dell’energia radiante delle
lampade (420-450mn) e delle ore di funzionamento (le lampade vanno cambiate ogni 200-300 ore di
attività).
E’ preferibile l’uso di incubatrici dotate di servo-controllo della temperatura, diversamente si raccomanda
il rilievo della temperatura corporea ogni 3-4 ore.
Esporre il neonato nudo, la distanza consigliata delle lampade rispetto al bambino è di 50cm.
La copertura degli occhi deve essere eseguita con benda confortevole e non trasparente alla luce
(attenzione agli sfregamenti causa talvolta di lesioni corneali o di congiuntiviti), viene rimossa durante
l’allattamento e la visita dei genitori.
Cambiare ad intervalli regolari la postura e preferire una esposizione continua e non intermittente perché
meno efficace.
Lo stato di idratazione ed il peso del neonato devono essere controllati 1-2 volte al giorno per compensare
le perdite idriche.
Il controllo della BT deve essere eseguito almeno ogni 12 ore, in nessun caso il colorito cutaneo può
essere preso come parametro per giudicare l’entità dell’ittero.
A conclusione si consideri che occorre adottare criteri guida univoci sui livelli di bilirubina da considerare
per il trattamento con fototerapia.
RELAZIONI
148 PRIMA SESSIONE INFERMIERISTICA
INFEZIONI OSPEDALIERE IN NEONATI CON PESO ALLA NASCITA
INFERIORE A 1500 GRAMMI
G. Cecere1, R. Frontini1, G. Latorre2, L. Esposito2
1
IP referente CIO
Dir. Medico
U.O.C. di Neonatologia - Terapia Intensiva Neonatale - Ente Ecclesiastico Ospedale Generale Regionale "Miulli"
- Bari
2
Introduzione
Le infezioni ospedaliere rappresentano una delle principali cause di morbosità e mortalità nelle terapie
intensive neonatali (TIN) con una incidenza tra l’11% e il 32%, con differenze significative tra le TIN. I
neonati con peso alla nascita inferiore a 1500 g sono quelli a più alto rischio di infezione. 1 L'adozione
di pratiche assistenziali "sicure", che sono state dimostrate essere in grado di prevenire o controllare la
trasmissione di infezioni, comporta la riduzione del 35% almeno della frequenza di queste complicanze.
Per questo motivo, le infezioni ospedaliere rappresentano un indicatore della qualità dell'assistenza
prestata in ospedale.
Materiali e metodi
Dal 1 gennaio 2000 al 31 dicembre 2007 abbiamo condotto una sorveglianza delle infezioni nosocomiali
nei nati pretermine con peso inferiore a 1500 g. I dati sono stati raccolti nel nostro database (NEOCARE
®). Sono stati considerati gli eventi “sepsi”, “polmonite”, “infezione delle vie urinarie (IVU)” definiti secondo
i criteri del Center of Disease Control (CDC) 2 e “SIRS”, quest’ultima definita come incremento della PCR
in un neonato con segni clinici di infezione che hanno indotto il clinico ad utilizzare terapia antibiotica
empirica in assenza o negatività di esami colturali.
E’ stata calcolata l’incidenza cumulativa (IC) totale e dei singoli eventi.
Risultati
I risultati sono riportati nella Tab I e nella Fig 1
Anno
2000
2001
2002
2003
2004
2005
2006
2007
No ricoveri
42
56
46
48
41
30
48
46
IC (%)
47, 6
39, 3
67, 3
52, 0
80, 5
76, 6
45, 8
47, 8
SIRS
2, 3
7, 1
15, 2
10, 4
36, 6
23, 3
8, 3
26, 1
Sepsi
26, 2
12, 5
13
12, 5
7, 3
6, 6
8, 3
2, 2
Polmoniti
9, 5
8, 9
13
10, 4
7, 3
6, 6
4, 1
2, 2
IVU
9, 5
10, 7
26
18, 7
29, 3
40
22, 9
17, 3
RELAZIONI
PRIMA SESSIONE INFERMIERISTICA
149
Discussione
Come mostrato in tabella, nel triennio 2002-2005 abbiamo registrato un incremento del numero di
infezioni. Le possibili cause di tale incremento sono molte e non sempre identificabili. Si è comunque
ritenuto indispensabile iniziare una verifica di tutte le procedure ed i comportamenti utilizzati in reparto
(sino a quel momento esistevano solo procedure non scritte) al fine di proporre, anche sulla scorta di
dati della letteratura, nuove procedure assistenziali. Si è inoltre provveduto ad una valutazione dei
disinfettanti in uso presso il nostro ospedale al fine di ottenere ed utilizzare quelli più idonei. Tutti i nuovi
protocolli e le nuove procedure sono state scritte e poste in rete (intranet). Per la attuazione dei protocolli
sono state realizzate alcune riunioni con lo scopo sia formativo che organizzativo. In particolare sono
stati indicati quali requisiti preliminari per il raggiungimento degli obiettivi: la precisa attribuzione dei
compiti e la ottimizzazione della organizzazione. L’applicazione delle nuove procedure e il nuovo assetto
organizzativo hanno consentito una riduzione del numero totale delle infezioni.
Conclusioni
Sebbene i progressi in terapia intensiva neona­tale abbiano portato a un miglioramento nella
sopravvivenza dei neonati con peso molto basso alla nascita le sepsi ad esordio tardivo, costituiscono
ancora un’importante e potenzialmente letale complicazione per i neonati con peso alla nascita inferiore
a 1500 g.
Con la crescente sopravvivenza di neonati pretermine le sepsi tardive continueranno a rappresentare
una complicanza problematica in grado di influire su altre morbilità, sulla durata della degenza, sui costi
dell’assistenza e sui tassi di mortalità.
Bibliografia
1. Stoll BJ, Hansen N, Fanaroff AA et al. Late-onset sepsis in very low birth weight neonates: a report from
the National Institute of Child Health and Human Development Neonatal Research Network. Pediatr
2002;14:1291:349
2. Horan TC, Gaynes RP. Surveillance of nosocomial infections. In:Hospital Epidemiology and Infection Control,
3rd ed., Mayhall CG, editor. Philadelphia:Lippincott Williams & Wilkins, 2004:1659-1702.ve
RELAZIONI
150 PRIMA SESSIONE INFERMIERISTICA
INFERMIERI PEDIATRICI: I MOTIVI DELLA NOSTRA SCELTA
E. Bernabei1, M. Elena Capasso2
1
2
U.O.C. Pediatria e Neonatologia Ospedale S.G.Moscati - Aversa
Seconda Università di Napoli
Partiti da una situazione e una considerazione del tutto ausiliare e subalterne, oggi gli infermieri e le infermiere
italiane sono giunti alla conquista di una professionalità e di una autonomia che li pone fra gli strumenti più
essenziali del sistema sanitario nazionale.
Il cammino è stato lungo ed ancora non è terminato, grazie al decreto de 2 dicembre 1991 si sono aperte le
porte delle Università per gli infermieri e nel ’99 sono stati tolti i vincoli ormai anacronistici ed inopportuni,
dando più autonomia all’assistenza infermieristica con la premesse di far decollare la stessa.
Tutto questo ci porta lontano, ma a volte ci allontana anche dalle motivazioni che anni fa ci hanno portato su
questa strada.
La situazione critica in cui lavoriamo, la perenne carenza di personale ormai cronicizzata e purtroppo invisibile
agli occhi dei dirigenti, la scarsa gratificazione economica, ci portano inevitabilmente ogni giorno a dimenticare
un po’ alla volta perché siamo diventate infermiere e soprattutto come svolgere il nostro lavoro.
Tra i motivi di maggiore insoddisfazione nello svolgere oggi la professione infermieristica, non c’è tanto la
posizione di ausiliarietà rispetto al medico, quanto la presa di coscienza di essere forzati, dall’organizzazione
sanitaria nel suo insieme, ad interpretare un ruolo inadeguato e insufficiente alle necessità espresse dai pazienti.
Anche i rapporti con i colleghi costituiscono una dimensione critica, a volte sono tesi altre critici altri conflittuali,
nel contempo, stare bene con i colleghi è uno dei principali motivi che fanno rimanere a lungo in un contesto.
Solitamente una forte motivazione e le gratificazioni che si ricevono dagli assistiti, sono la chiave per fare di
questo lavoro una fonte di soddisfazioni a cui, poi, diventa difficile rinunciare, contribuendo, inoltre, a favorire
gli esiti delle terapie.
La biografia professionale degli infermieri però non può non considerare il modo di stare nel mondo del lavoro,
i pazienti costituiscono la priorità della professione infermieristica,, le organizzazioni, l’ambito in cui tali priorità
possano esprimersi, tutti questi contesti dovrebbero aiutare gli infermieri a dare il meglio di se e a sentirsi
valorizzati per il contributo che offrono.
Secondo alcuni autori, il clima organizzativo è determinante per le motivazioni che ci portano a perseguire i
nostri obbiettivi ed è composto dai seguenti fattori:
i rapporti con i capi, con l’azienda, con i colleghi ed il contenuto del lavoro, la modalità del lavoro e l’autovalutazione
della prestazione lavorativa.
Il primo fattore che definisce la qualità del rapporto con il proprio capo, è correlato alla qualità della
comunicazione, al grado di coinvolgimento nelle decisioni ed alla sua capacità di tenere in giusta considerazione
e valutazione il lavoro che gli altri svolgono.
Il secondo fattore si riferisce alla valutazione di come vengono fatte le cose nell’organizzazione, si configura
come la percezione dell’attenzione che l’azienda rivolge alle risorse umane, attraverso la comunicazione ed alla
valutazione dell’equità distributiva.
Il terzo fattore si riferisce soprattutto al grado di cooperazione esistente nell’ambiente di lavoro.
Questi primi tre fattori, pare siano quelli maggiormente influenti sulla percezione del clima lavorativo.
In fine, da un’indagine condotta dai vari collegi IPASVI è emerso che la gran parte degli infermieri hanno la
volontà di approfondire la comunicazione con l’assistito, le competenze in area critica ed i fattorini rischio per
l’assistenza. La frequenza dei corsi con ECM incoraggiano gli infermieri ad autovalutarsi e a riflettere sulle priorità
formative. Questo impegna in una nuova progettualità che non è determinata da altri ma che è sostenuta
prioritariamente da come quanto ciascun infermiere vuole investire.
Le condizioni di lavoro attuali consentono appena la risposta ai bisogni essenziali, mentre per prendersi cura
del paziente ci vuole tempo: tempo per ascoltare, tempo per parlare, tempo per coltivarci, tempo per studiare,
tempo per fermarci a riflettere se il nostro agire è coerente con il nostro sentire.
RELAZIONI
PRIMA SESSIONE INFERMIERISTICA
151
Gli ospedali sono ancora troppo spesso basati su un’organizzazione del lavoro per compiti, in cui prevale la
logica delle tante cose da fare, più che dei risultati da raggiungere o delle priorità da garantire. I tempi sono
ancora troppo spesso scanditi dalle esigenze che non sono quelle dei nostri piccoli pazienti. Il lavoro diventa
caotico, fatto di corse, interruzioni con un ritmo frenetico in cui molti faticano a definire qual è il loro contributo.
Se da una parte gli infermieri vorrebbero investire sui momenti più critici come l’accertamento, la dimissione,
la continuità, la presa in carico, dall’altra è sempre più difficile conciliare questi propositi con tutte le pressioni
quotidiane.
Altro fattore importante è quello generazionale, le generazioni, infatti hanno sempre avuto rapporti
conflittuali tra loro. Indipendentemente dal punto in cui ci si trova, sembra quasi una costante che si ritiene,
presuntuosamente che la propria sia la generazione migliore.
Nell’ambito professionale, non si tratta solo di fare i conti con età anagrafiche diverse, ma soprattutto di conciliare
modelli di infermieri totalmente diversi ciascuno frutto del proprio momento formativo e della migliore pratica,
ne consegue una profonda disunità e come accade in molte situazioni, sentirsi parte di qualcosa che fa fatica a
stare insieme, rischia di alimentare i timori di una possibile prevaricazione tra infermieri di serie “A” e di serie “B”.
La formazione accademica è profondamente diversa dalla pratica. La scuola non insegna ad analizzare le
situazioni, a porsi dei quesiti sulla pratica, a discutere quando il paziente non va come dovrebbe, a lavorare
con altri professionisti in una posizione paritaria, perché non è tanto il contributo di un operatore ad essere
rilevante, ma la ricerca continua di risultati integrati.
Questa è un'altra fonte di tensione perché la conoscenza dei nuovi infermieri è formale e rigorosa, il neo laureato
non ha ancora quel bagaglio di esperienze che è patrimonio dei vecchi, ma come dice un vecchio adagio “
bisogna salire sulle spalle dei giganti per guardare lontano”.
Ed indipendentemente dal fatto che ci si senta “grandi” o “piccoli” lasciar salire i giovani sulla proprie spalle è una
delle gratificazioni più forti che ci possano essere.
In ogni caso, a prescindere dalle motivazioni che ci hanno spinto in tempi più o meno lontani alla scelta del
nostro lavoro, stare con i bambini, prendersi carico di loro è uno dei privilegi per contribuire allo sviluppo della
pratica ed è uno dei maggior motivi che spingono gli infermieri a restare nella professione. Un privilegio perché
permette, attraverso i pazienti, di approfondire la conoscenza della vita e le sue potenzialità. Stare vicino ai
nostri piccoli pazienti è un privilegio, ma anche molto difficile. Le pressioni che riceviamo ogni giorno sono
tante, la fatica emotiva è continua e a volte schiacciante. Occuparsi degli altri partendo da un elevato concetto
di nursing e fare i conti poi con la routine delle cosa fatte in fretta ci può far sentire falliti e questo senso di
fallimento può far scegliere di abbandonare la strada del nursing. La fuga può essere un meccanismo di difesa
individuale, ma rischia di diventare un fenomeno collettivo quando coinvolge molti nella ricerca delle vere
ragioni della professione.
La nostra professione è radicalmente cambiata il buon cuore e l'intraprendenza che bastavano qualche anno fa,
non possono ovviamente essere sufficienti: essere infermieri non vuol certo dire rincuorare la gente che soffre,
bensì intervenire con tempismo e competenza in casi di urgenza e rendere la migliore possibile la qualità della
vita dei pazienti ricoverati in ospedali sempre più affollati.
In ogni caso essere infermieri richiede notevoli doti morali e di autocontrollo, capaci di sostenere l'innegabile
bagaglio di pressioni psicologiche ed emotive alle quali è sovente sottoposto e dalle quali riceve, altrettanti
benefici in termini di crescita personale.
Questo e tanti altri, i motivi per cui continuare la nostra professione.
Essere infermieri vuol dire: sostenere la vita, salvare la vita, aiutare la vita…a mantenere il suo posto in questo
mondo. Aiutiamo la vita a restare tale. E’ un compito immenso e, che se ne dica, è uno dei lavori più difficili che
esistano.
Bibliografia
1. I quaderni dell’infermiere - Maggio 2004
2. In & out IPASVI Padova - Maggio 2001
RELAZIONI
152 PRIMA SESSIONE INFERMIERISTICA
Promozione dell’ Allattamento al Seno
M. Stablum1, R. Coppola
1
2
Neonatologia Ospedale Bressanone
Università Campus Biomedico - Roma
Numerose ricerche, soprattutto negli anni più recenti, hanno documentato i numerosi ed indubbi
vantaggi dell’allattamento materno per i neonati, le madri, le famiglie e la società. Tutti conosciamo infatti
i benefici di salute, nutrizionali, immunologici e sullo sviluppo del bambino, ma anche quelli psicologici,
sociali, economici e ambientali. Il latte materno è specie specifico e possiede caratteristiche uniche che
lo contraddistinguono notevolmente dagli altri alimenti possibili nel primo anno di vita. Numerose
ricerche di tipo epidemiologico hanno dimostrato che il latte materno e l’allattamento al seno assicurano
molteplici vantaggi in termini di salute generale, sulla crescita e sullo sviluppo, diminuendo nello stesso
tempo il rischio di contrarre numerose malattie acute e croniche sia nel bambino che nella madre. Il latte
materno nel neonato diminuisce l’incidenza e la severità di diarrea, di stenosi ipertrofica del piloro, di
enterocolite necrotizzante, di ernia inguinale, di malattie delle basse vie respiratorie, di otite, di sepsi, di
meningite batterica, di botulismo e di infezioni delle vie urinarie. Inoltre altri studi hanno provato che
il latte materno nel neonato possiede effetto protettivo verso la SIDS, il diabete mellito tipo I, il morbo
di Crohn, la colite ulcerosa, altre malattie croniche gastrointestinali, i linfomi e le malattie allergiche.
Infine, stimola e migliora lo sviluppo cognitivo e comportamentale del bambino. Per quanto concerne la
madre l’allattamento al seno procura alla donna diversi benefici come una migliore involuzione uterina, il
ritorno ad un peso ideale più veloce, una migliore remineralizzazione ossea un minor rischio di K ovarico
e mammario e numerosi altri benefici. Nel nostro paese la gran parte delle nascite avviene negli ospedali
pubblici e privati, per cui un'attenzione speciale va diretta all'incoraggiamento ed al sostegno dell'avvio
dell'allattamento al seno in queste strutture, indipendentemente dalla precocità della dimissione del
neonato dopo il parto. E' noto che il cambiamento delle procedure assistenziali che riguardano la madre
ed il neonato sono in grado di promuovere l'allattamento al seno nelle strutture sanitarie anche se sono
altrettanto note le difficoltà ad esso collegate. Nel percorso nascita il pediatra-neonatologo, con la sua
cultura e la sua competenza può giocare un ruolo determinante nella promozione dell'allattamento al seno,
a livello individuale e/o nell'ambito dell'organizzazione dei servizi sanitari, con particolare riferimento alle
attività formative e di aggiornamento professionale rivolte al personale dei ruoli sanitari, agli ostetrici/
che, infermieri/e, vigilatrici d'infanzia/puericultrici. Il pediatra/neonatologo dovrebbe organizzare corsi
di educazione prenatale per le donne che in modo da informare, prima ancora della nascita, sui benefici
dell'allattamento al seno anche per motivare le future madri soprattutto se adolescenti primipare,
prospettando anche le difficoltà più frequentemente incontrate e le possibili soluzioni, attuando una
istruzione pratica sulle tecniche dell'allattamento al seno per rafforzare le competenze e la sicurezza
materna che deriva dal fare qualcosa di veramente speciale per il proprio bambino (empowerment). Un
effetto positivo sull’allattamento al seno è dato per certo dal contatto precoce fra madre e figlio subito
dopo la nascita, inoltre, riduce la pratica di somministrare supplementazioni e riduce il pianto del bambino
senza pregiudicare il suo adattamento alla nuova vita extrauterina. Il contatto pelle-a-pelle supervisionato
dal personale addetto alle cure immediate alla nascita va proposto non appena possibile dopo il parto ed
idealmente protratto durante le prime 2 ore, creando le condizioni microclimatiche favorenti la suzione
del bambino al seno, che non sempre avviene spontaneamente nella prima ora di vita. L'intervento degli
operatori sanitari deve attenersi a criteri di sicurezza e di opportunità. Nel promuovere l'allattamento al
seno in sala parto ed i primi contatti fra madre e bambino non si deve infatti rinunciare alla valutazione
delle condizioni di benessere del neonato. Inoltre, l'avvio dell'allattamento al seno non deve essere
forzato nei modi e nella precocità, per evitare effetti controproducenti. Un’altra pratica che favorisce
un buon inizio per l’allattamento al seno è il rooming-in, con cui si intende la permanenza di madre e
bambino nella stessa stanza per il periodo di tempo più lungo possibile nelle 24 ore, sia di giorno che di
RELAZIONI
PRIMA SESSIONE INFERMIERISTICA
153
notte, ad eccezione del tempo strettamente necessario alle procedure assistenziali, e con inizio a partire
dal momento in cui la madre risulti in grado di rispondere dopo il parto alle richieste del suo bambino. Il
rooming-in è suggerito come modello organizzativo valido a promuovere l'allattamento al seno in quanto
favorisce le poppate al seno a domanda, riduce il bisogno di supplementi diversi dal latte materno, è
un'utile periodo di conoscenza fra madre e neonato e di addestramento della madre nella gestione del
bambino nell'affrontare e superare le varie difficoltà dell’allattamento al seno come rifiuto di succhiare,
pianto, ritmi di poppata frequenti. L'allattamento a domanda del bambino, con attaccamento corretto
per evitare una poppata inefficiente e l'insorgenza di ragadi mammarie anticipa e stimola la galattopoiesi,
aiuta a prevenire l'ingorgo mammario, diminuisce l'incidenza e l'entità dell'ittero neonatale, riduce il
calo ponderale, anticipa il successivo recupero di peso, aumenta la durata dell'allattamento al seno, ma
l'esclusività dell'allattamento al seno correttamente intesa (WHO 1993) è un elemento predittivo positivo
della durata dell'allattamento al seno e va per quanto possibile incoraggiata. Secondo un'accezione
allargata di rooming-in, si possono includere nella stessa stanza il padre ed altri membri della famiglia
(specialmente se le stanze sono ad un letto solo). Così, quando la madre non sia disponibile, il padre od un
altro familiare può condividere la cura del neonato. Un'altra caratteristica positiva del rooming-in è quella
di poter contare sulla capacità materna di rilevare precocemente nel neonato le manifestazioni proprie
dei comuni disturbi dell'adattamento neonatale e segni di allarme di eventuali patologie. Il rooming-in
risulta nel complesso gradito alle donne, nonostante fattori di carattere sociale e culturale possano creare
concrete difficoltà di implementazione. In letteratura è riportato che la durata dell'allattamento materno
si correla positivamente sia con la salute infantile, sia con la salute materna. Le madri devono essere
correttamente e compiutamente informate non solo sui vantaggi dell'allattamento al seno, ma anche
sulle modalità di conduzione e sulle possibili difficoltà e relative soluzioni. La competenza del personale
sanitario e del neonatologo/pediatra sulla gestione dell'allattamento al seno risulta determinante a
differenti livelli per una corretta educazione sanitaria con elaborazione di protocolli di promozione
all'interno delle strutture sanitarie e per aiutare la donna a risolvere problemi relativi all'allattamento.
Bibliografia
1. Giustardi A. Rooming -in(stare in camera con la madre) Rivista Italiana di Medicina Perinatale Volume 4 n°1
Gennaio 2002.
2. Giustardi A. collaboratore libro:” l’ allattamento al seno del tuo bambino come e perchè “ marzo 2003
Editeam.
3. Neifert MR:Prevention of breastfeeding tragedies.Pediare Clin North Am. 2001 Apr 2001.
4. Davanzo R., Giustardi A. Il romming-in. Strumento organizzativo essenziale per promuovere l’allattamento al
seno. Pediatrics & Neonatology Review 4, 29-32, 1999.
5. Tully MR :Raccomandations for handling of mother’s own milk. J Hum Lact 2000;16:149. Arnold
LDW:Racommendations for Collection, Storage and Handling of a Mother’s Milk for Her Own Infant in the
Hospital Settino.Colorado, the Human Milk Banking Association of North America, 1999.
6. Pisacane A et al. Il counselling per il sostegno all’ allattamento al seno.Prospettive in Pediatria 30;349356;2000.
7. Hale T. Medications and Mother’s Milk 10 th Ed. Amarillo, Texas, Pharmasoft, 2002.
8. Lawrence RM, Lawrence RA Given the benefits of breastfeeding, what controindications exist ?Pediatr Clin
North Am 48 (1), 235-252, 2001.
9. Leon-Cava N.et al. Quantifying the benefits of breastfeeding:a summary of the evidence. Washington, DC:
PAHO, 2002.
10. Giustardi A. coll.Raccomandazioni sull’ allattamento materno per i nati a termine di peso appropriato, sani.
Rivista Italiana di Medicina Perinatale vol 4 -n°2 maggio2002.
RELAZIONI
154 PRIMA SESSIONE INFERMIERISTICA
STRATEGIE ORGANIZZATIVE DEL LAVORO NELLE UTIN
D. Pisano
Unità di Patologia e Terapia Intensiva Neonatale - Azienda Ospedaliero-Universitaria Cagliari
Premessa
L’assistenza al neonato critico, in particolare al pretermine o di basso peso alla nascita, ha subito in questi
ultimi decenni un radicale cambiamento dovuto alle incessanti acquisizioni della neonatologia. Sono
cambiate le strategie di diagnosi e terapia, sono cambiate le prospettive di sopravvivenza e la qualità
della vita, difficilmente ipotizzabili in passato.
In questo processo di crescita, hanno sicuramente giocato un ruolo chiave lo sviluppo di nuove e sofisticate
tecniche di assistenza respiratoria rivolta ai neonati con immaturità polmonare, l’introduzione di nuovi
farmaci salvavita, ma anche l’alta specializzazione del personale sanitario, sia medico che infermieristico
dedicato all’assistenza al neonato critico.
In questo contesto di crescita e sviluppo, emergono per la terapia intensiva neonatale nuove sfide al
quale è necessario rispondere in maniera sinergica e multidisciplinare e, non di meno, con un’azione
infermieristica globale ed efficace.
Infermieri nelle TIN: dove tutti fanno tutto
Pur riconoscendo aree di eccellenza e grandi professionalità nei vari gruppi di lavoro infermieristico delle
TIN diffuse sul territorio nazionale, raramente si tiene conto dell’esigenza di valorizzare le risorse umane
ed economiche, di contenere i rischi professionali e clinici e di una distribuzione razionale dei carichi di
lavoro. Nella maggioranza dei casi, l’attività infermieristica è attuata attraverso l’applicazione di piani di
lavoro secondo compiti e protocolli condivisi, nella quale, ad ogni singolo infermiere è richiesto, oltre
all’assistenza al neonato, anche la gestione di tutte le attività ad essa correlate. In altre parole, ad uno stesso
infermiere compete prestare assistenza specializzata al neonato critico e, allo stesso tempo, provvedere
alla manutenzione delle attrezzature, alla gestione delle emergenze, alla formazione e all’addestramento
di nuovo personale, ai rapporti con i genitori dei piccoli ricoverati, ecc; Il tutto, senza alcuna specificità di
ruoli e senza una formazione specifica.
Ogni operatore si trova così a farsi carico quotidianamente di un segmento casuale di queste attività con
un’evidente dispersione di energie e, spesso, in assenza di una linea di condotta pianificata. Si tratta di
un’eccessiva mole di lavoro, afferente all’assistenza al neonato, che non è solo associabile al numero di
infermieri impegnati nelle strutture, ma è anche conseguenza di modelli organizzativi obsoleti. Infatti,
se è vero che la cronica carenza di personale infermieristico, è un elemento che ostacola in maniera
significativa la qualità dell’assistenza, non meno determinante è il “modo” con il quale si lavora in equipe.
È altresì evidente che una malripartizione del carico di lavoro ha serie ripercussioni sul fisico, sulla spinta
motivazionale e sulla qualità del lavoro del team ed espongono il neonato (e l’infermiere) a rischi che
possono essere evitati.
Una fotografia realistica della TIN
Nella realtà quotidiana del nostro gruppo di lavoro, si è assistito ad un progressivo aumento del numero
di attribuzioni e del carico di lavoro. Alla base di ciò, una concomitanza di fattori sia legati alla carenza di
personale (insufficiente turn-over del personale trasferito o in pensione, mancata o parziale sostituzione
del personale in maternità, maggiore ricorso alla legge 104/92 e ai contratti part-time, lunghe assenze per
malattia e infortunio, assenza di figure di supporto, ecc.), sia conseguenti a nuove acquisizioni in campo
neonatale: ad esempio la maggiore flessibilità nelle strategie di assistenza respiratoria, nuovi protocolli
per l’alimentazione del neonato, studi e ricerche sul campo che prevedono la collaborazione di tutto il
gruppo infermieristico, ecc.
Nel loro insieme questi fattori non sono però del tutto sufficienti a giustificare una condizione di maggiore
impegno infermieristico. È facile quindi supporre che esista un ragionevole margine di miglioramento
RELAZIONI
PRIMA SESSIONE INFERMIERISTICA
155
dell’efficacia assistenziale, attuabile in tempi relativamente brevi e che potrebbe compiersi attraverso un
cambiamento nelle dinamiche organizzative.
Un progetto, ad esempio
Partendo dal presupposto che “lavorare in team” significa lavorare in squadra, è ipotizzabile che i
componenti della squadra abbiano tutti lo stesso ruolo? È possibile valorizzare razionalmente le diverse
esperienze e attitudini di ogni componente del gruppo di infermieri, per dare maggiore incisività all’azione
assistenziale?
Un progetto, ancora in fase iniziale di studio, propone un’attività infermieristica per aree di riferimento,
ovvero la diversificazione di ruoli e competenze in base alle diverse attività infermieristiche di terapia
intensiva.
Ogni area di riferimento, costituita da 2-4 professionisti appartenenti al team, studia e propone soluzioni
migliorative inerenti al proprio ambito al resto dell’equipe individuando i progetti che meritano priorità
di intervento e studio.
In questa prima fase abbiamo individuato le seguenti macro-aree di intervento:
- emergenze, trasporto neonatale e pratiche invasive;
- analgesia e Care neonatale;
- allattamento e nutrizione;
- protocolli e linee guida;
- farmaci, terapia e rischio clinico;
- sorveglianza microbiologica e infezioni;
- documentazione infermieristica;
- materiali, presidi e attrezzature;
- comunicazione genitore-infermiere e dimissione.
L’adesione del singolo infermiere ad un gruppo piuttosto che ad un altro è basata su scelte volontarie
legate essenzialmente alla sensibilità/attitudine degli operatori verso un particolare settore di attività.
Ogni area è rappresentata da un referente, scelto all’interno del gruppo di lavoro, che coordina e promuove
i progetti pertinenti alla sua area di riferimento.
Naturalmente è indispensabile una costante interazione, con un flusso continuo di informazioni, sia con
gli altri gruppi che con la caposala ed il direttore.
Un’organizzazione infermieristica per aree di riferimento, potrebbe avere effetti positivi diretti; ad
esempio:
- Ridurrebbe il carico di lavoro quotidiano di ogni singolo componente del team per ripartizione razionale
delle attribuzioni;
- motiverebbe e responsabilizzerebbe gli operatori impegnati;
- creerebbe un rapporto di collaborazione critico tra gli operatori e tra i gruppi;
- aumenterebbe le occasioni di aggiornamento professionale;
- produrrebbe risultati divulgabili all’esterno ed il confronto specifico con altre realtà;
- migliorerebbe l’integrazione del personale di nuova assunzione.
Allo stesso tempo, tuttavia, vi sono alcuni aspetti che devono essere presi in considerazione e
che potrebbero rappresentare un ostacolo al raggiungimento degli obiettivi prefissati; tra questi,
evidenziamo:
- situazioni di conflittualità (interpersonali e tra i gruppi) per aspettative di efficienza;
- impegno personale degli operatori (in termini di tempo) non sempre ottenibile o sufficiente;
- scarso interesse per gli obiettivi e per i risultati raggiungibili.
Occorre sottolineare inoltre, che i cambiamenti che agiscono su consuetudini consolidate in anni di
attività, specie se introducono nuove dinamiche di gruppo, sono sempre accolti con particolare diffidenza
e scetticismo dagli operatori e, nella maggior parte dei casi, necessitano di un avvio a piccoli passi, a partire
ad esempio dalla sperimentazione di progetti-pilota che portino a risultati dimostrabili e condivisibili.
RELAZIONI
156 PRIMA SESSIONE INFERMIERISTICA
In conclusione, riteniamo sia indispensabile la ricerca di nuove strategie che siano capaci di implementare
un ottimale management delle risorse umane per offrire una migliore e più qualificata assistenza ai nostri
neonati con il minore impatto fisico e psicologico per gli operatori.
In una terapia intensiva neonatale, un’impostazione del lavoro che comprenda sia l’assistenza diretta al
neonato che la diversificazione dei ruoli e dei campi di attribuzione nelle attività, potrebbe tradursi in
un miglior utilizzo delle risorse umane e delle attitudini professionali e, in ultima analisi, in maggiore
efficienza: tutto a beneficio del neonato e del gruppo di lavoro.
RELAZIONI
PRIMA SESSIONE INFERMIERISTICA
157
TRATTAMENTO DELLE LESIONI DA STRAVASO DI FARMACI:
DESCRIZIONE DI UN CASO CLINICO
T. Carra, C. Coppola, A. Pagluica, R. Mormile
UOC di Neonatologia e Pediatria - Ospedale San G. Moscati - Aversa
Lo stravaso dei farmaci rappresenta un evento avverso della terapia infusionale di una certa rilevanza
nella pratica clinica il cui aspetto peculiare è rappresentato dalla formazione delle ulcerazioni cutanee.
Secondo gli ”Intravenous Nursing Standards of Practice” realizzato dalla “Infusion Nursery Society”,
per stravaso si intende la fuoriuscita accidentale dal sito della venipuntura nei tessuti perivenosi di un
farmaco o di una soluzione vescicante ossia di quegli agenti che per il loro meccanismo di azione si
fissano nei tessuti permanendovi a lungo causando una grave reazione locale. Quando invece si assiste
alla fuoriuscita di agenti non vescicanti si parla di infiltrazione. Lo stravaso realizza una cellulite chimica.
Esso rappresenta un’emergenza medica a tutti gli effetti che richiede nella presa in carico l’attuazione
di norme procedurali e comportamentali specifiche. Il processo di distruzione tissutale inizialmente è
caratterizzato da una temporanea irritazione con bruciore o dolore locale, a cui nelle ore successive fanno
seguito la possibile comparsa di eritema, gonfiore, indurimento cutaneo, desquamazione secca o flittene.
Dopo 1 o 4 settimane si assiste allo sviluppo di necrosi con formazione di escara o di ulcerazione, la
quale può estendersi in modo tale da interessare i tessuti sottostanti con coinvolgimento anche di nervi
e tendini con gravi danni estetico-funzionali a distanza. L’incidenza di stravaso da vene periferiche viene
stimata intorno allo 0, 6 - 6% di tutte le reazioni avverse in corso di terapia infusionale; tale percentuale
arriva al 30% in età pediatrica. I bambini sono maggiormente a rischio di sviluppo di lesioni cutanee
in relazione ad una immaturità della cute con predisposizione delle cellule all’ipossia con conseguente
facilità al cedimento dell’integrità cutanea. I neonati presentano danni più gravi in relazione alla necessità
di infondere soluzioni elettrolitiche e nutrizioni parenterali ed inoltre per l’incapacità di riferire bruciore e
dolore nella sede di infusione. Agenti vescicanti di comune utilizzo in età neonatale sono le soluzioni di
destrosio al 10%, il gluconato di calcio, il bicarbonato di sodio. E’ stato riportato che circa un terzo degli
stravasi evolve in ulcerazione. La gravità delle lesioni è correlata al potenziale vescicante del farmaco, al
volume di materiale stravasato, alla concentrazione del farmaco. Più precoce è il riconoscimento di uno
stravaso minore saranno i danni e ciò in relazione ad un minore volume di stravaso e ad una tempestiva
messa in opera di tutta quella serie di interventi richiesti a contrastare l’azione lesiva del farmaco in causa.
Bisogna sospendere immediatamente l’infusione in caso di segni di sospetto stravaso (bruciore, dolore,
eritema, gonfiore, mancanza di reflusso ematico) tentando di aspirare delicatamente ogni residuo di
farmaco stravasato mediante il dispositivo endovena utilizzato per l’infusione e se ciò non fosse possibile,
si procede alla rimozione dello stesso. Non si devono mai applicare né compressione umida o impacchi
né alcool sull’area interessata da stravaso. Le aree cutanee con scarso tessuto sottocutaneo presentano
una più elevata morbilità per la più facile esposizione di nervi e tendini. La lesione da stravaso deve essere
mantenuta pulita e coperta e se la cute è integra si dovrebbe utilizzare un film trasparente per proteggere
l’area interessata dall’ attrito e dalle forze di tensione. Le lesioni a spessore parziale o totale richiedono
secondo i principi del Moist Wound Healing e sui principi del Wound-Care, la rimozione di tessuto
necrotico, il controllo dell’infezione, la gestione dell’essudato in eccesso, il riempimento degli spazi cavi,
il mantenimento del letto della lesione costantemente umido e la protezione della stessa da ulteriori
traumi e batteri. Tra i prodotti da medicazione più frequentemente utilizzati per il trattamento delle
lesioni tissutali stravaso-correlate si annoverano placche di idrocolloidi, alginato e idrogel. L’approccio
terapeutico conservativo prevede l’utilizzo di antidoti da somministrare nell’area della lesione. Gli antidoti
attualmente consigliati dalla Letteratura sono la jaluronidasi, la fentolamina, il DMSO topico, il tiosolfato
di sodio. La jaluronidasi rappresenta l’antidoto più usato in pediatria trovando impiego negli stravasi
di destrosio al 10%, sali di calcio e potassio, nutrizioni parenterali totali. Questo enzima sembra ridurre
l’estensione del danno tissutale poiché è in grado di modificare la permeabilità favorendo il riassorbimento
RELAZIONI
158 PRIMA SESSIONE INFERMIERISTICA
sistemico della sostanza stravasata. Dovrebbe essere somministrata entro un’ora dall’evento per via
endovenosa o sottocutanea. Come approccio alternativo viene utilizzata la tecnica invasiva del “ flush
out “di pertinenza del chirurgo plastico indicata nei danni da stravaso più severi. Il persistere del gonfiore,
eritema e dolore dopo la terapia conservativa e/o il rilievo di necrosi cutanea con o senza ulcerazione,
indirizzano verso l’intervento chirurgico. L’uso della sulfadiazina nel trattamento delle ulcere cutanee è
scoraggiato nell’età neonatale a causa della mancanza di studi che confermino la sua reale efficacia e in
particolare per la potenziale tossicità. Il mantenimento dell’integrità della cute viene considerato come
una priorità della ricerca infermieristica ed un indicatore di qualità dell’assistenza erogata al paziente.
Lo sviluppo della professione infermieristica in Italia ha significato anche il progresso in particolari aree
come il “ Wound Care” (WOUND: alterazione dell’integrità cutanea, CARE: prendersi cura). L’infermiere,
secondo il codice deontologico, deve fondare il proprio operato su conoscenze validate e aggiornate, così
da garantire al paziente le cure e l’assistenza più efficaci. Il profilo professionale pone l’attenzione sulla
formazione post-base, intesa a fornire agli infermieri di assistenza generale conoscenze cliniche avanzate
che diano loro la capacità di eseguire prestazioni dedicate per patologie specifiche. L’infermiere esperto
è un professionista che opera in autonomia decisionale e in collaborazione con altre figure professionali.
Egli deve raggiungere gli obiettivi inerenti alla prevenzione e alla cura delle lesioni cutanee, avvalendosi
delle sperimentazioni più recenti, sicure ed efficaci allo scopo di garantire i risultati migliori.
Riportiamo la nostra esperienza circa un neonato che, in corso di terapia infusiva reidratante con
soluzione di destrosio al 10% contenente calcio gluconato, presentava una zona di eritema nella sede
limitrofa all’accesso venoso profondo, in corrispondenza del terzo medio della gamba sinistra. Rilevato
ciò, si sospendeva immediatamente l’infusione con rimozione dell’agocannula e sostituzione della sede
di infusione. Veniva eseguita la disinfezione prima mediante ipoclorito di sodio a diluizione appropriata,
indi lavaggio con soluzione fisiologica allo 0.9%. Dopo alcune ore dall’evento, la zona che era stata
interessata dallo stravaso appariva bluastra e progressivamente si assisteva alla formazione di un’escara.
Venivano eseguite medicazioni giornaliere con stimolatori della crescita tissutale. Veniva effettuata anche
la consulenza di un chirurgico plastico. La guarigione della lesione con caduta dell’escara avveniva in circa
10 giorni. Residuavano esiti estetici.
Secondo la recente Letteratura le nuove metodiche di trattamento per la cura delle lesioni cutanee da
stravaso consentono una più efficace riparazione tissutale con una netta riduzione degli esiti a distanza.
Grande successo sta riscuotendo l’utilizzo del collagene, modalità di approccio già in uso da alcuni anni
presso diversi centri ospedalieri italiani.
Il collagene è la proteina che prevale in percentuale più elevata nella composizione del corpo umano.
Esistono diversi tipi di collagene ognuno dei quali è preposto a svolgere una partcocolare funzione:
- emostasi: il collagene, che si trova nello strato sotto endoteliale dei vasi sanguigni, si lega al recettore
specifico sito sulle membrane cellulari delle piastrine, che si dissolvono e liberano sostanze necessarie
per iniziare l’emostasi;
- debridment: il collagene funziona da chemiotattico per i monociti e i leucociti. I monociti si trasformano
in macrofagi che fagocitano i corpi estranei e i tessuti morti;
- granulazione e angiogenesi: questa proteina richiama i monociti che stimolano la fibroplasia e
l’angiogenesi ;
- attività fibroblastica: il collagene si lega alla fibronectina, che promuove l’ancoraggio delle cellule e
la fibrinogenesi. Inoltre è una sostanza chemiotattica nei confronti dei fibroblasti, che presiedono alla
preparazione del nuovo tessuto;
- riepitelizzazione: in questa fase il collagene supporta direttamente la crescita, l’attecchimento, la
differenziazione e la migrazione dei cheratinociti;
- rimodellamento della ferita: il collagene riduce la dimensione della cicatrice, orientando opportunamente
le fibre.
Viste le molteplici funzioni del collagene, è apparso ovvio l’impiego di tale proteina nella guarigione delle
RELAZIONI
PRIMA SESSIONE INFERMIERISTICA
159
lesioni cutanee.
Attualmente esistono in commercio prodotti a base di collagene facilmente applicabili e in grado di
ridurre la frequenza delle medicazioni consentendo una buona guarigione delle lesioni cutanee.
L’infermiere ricopre un ruolo specifico che prevede mansioni ben definite nella presa in carico di ogni
paziente con lesioni cutanee da stravaso di farmaci:
pianificazione e valutazione dell’assistenza infermieristica, mirata alla prevenzione e cura delle lesioni
cutanee;
monitoraggio dei dati epidemiologici relativi alle lesioni;
collaborazione con altre figure professionali nella gestione delle lesioni cutanee;
aggiornamento continuo;
collaborazione nell’acquisizione dei presidi e degli ausili di più recente introduzione e di più dimostrata
efficacia.
Bibliografia
1. American Nurses Association. (1995). Nursing care report card for acute care. Washington, DC: American
Nurses Publishing.
2. Baharestani M.M. An Overview of Neonatal and Pediatric Wound Care Knowledge and Considerations.
Ostomy Wound Manage. 2007; 53: 34-55.
3. Garland JS, Dunne WM, Havens P, et al. Peripheral intravenous catheter complications in critically ill children :
a prospective study. Pediatrics 1992; 89:1145-50.
4. Harrison, M. B. et al. Practice guidelines for the prediction and prevention of pressure ulcers: Evaluating the
evidence. Applied Nursing Research 1996;9:9-17.
5. INS Intravenous Nursing Standards of Practice. Journal of intravenous Nursing 1998, 21.
6. Mc Lane KM, et al. The 2003national pediatric pressare ulcer and skin breakdown prevalence survey: a
multisite study. J Wound Ostomy Continence Nurs. 2004;31:168-78.
7. Noonan C, et al. Skin Integrity in Hospitalized Infants and Children: A Prevalence Survey. J Ped Nurs. 2006;
21.
8. Kessner E. Evaluation and treatment of chemotherapy extravasation injuries. J Pediatr Oncol Nurs 2000; 17(3):
135-48.
RELAZIONI
160 PRIMA SESSIONE INFERMIERISTICA
VALUTAZIONE DELLA COMPLESSITÀ ASSISTENZIALE IN PEDIATRIA:
METODO PANDA APPLICABILITÀ ED IMPLICAZIONI.
L. Morganti
Dipartimento Materno-Infantile - Area Pediatrica/Neonatologia - Ascoli Piceno
Parole chiave
Gestione infermieristica, analisi dei bisogni, complessità assistenziale, dotazione organica, risorse, gravità
dei pazienti, classificazione dei pazienti, carico di lavoro.
L’impianto normativo attualmente in vigore ha attribuito all’infermiere la responsabilità di pianificare,
gestire e valutare le attività assistenziali, riconoscendolo come portatore esclusivo della specificità relativa
al processo di assistenza infermieristica. Per poter pianificare le proprie attività e quelle del personale di
supporto, coinvolto in modo sempre più significativo nelle cure, l’infermiere pertanto ha necessità di
disporre di strumenti che gli permettano di misurare il grado di dipendenza del paziente e dei care givers,
di poter documentare, controllare e verificare l’efficacia dell’intervento assistenziale.
Per questo motivo, l’implementazione di un metodo di rilevazione del grado di dipendenza del paziente
assistito concepita in modo da poter essere utilizzata come strumento per il cambiamento organizzativo,
è ritenuta la metodologia migliore, per raggiungere l’obiettivo di coinvolgere il personale infermieristico
rendendolo proattivo, partecipe ed attore principale, nella pratica quotidiana, di tutti i mutamenti che oggi
sono stati enunciati dalla normativa. A tal fine risulta fondamentale monitorizzare una variabile icastica
in ogni modello assistenziale qual’ é la complessità dei pazienti e l’intensità del lavoro (carico di lavoro),
onde ottimizzare la distribuzione delle risorse infermieristiche, ridurre la spesa, quindi uniformare i servizi
offerti e la qualità della care. Aumentano, infatti, pur nella loro debolezza metodologica, gli studi che
sostengono l’associazione tra esiti clinici e quantità/qualità degli infermieri che erogano assistenza diretta
(il termine di confronto non è più gli infermieri in organico), pertanto in un’ ottica di implementazione del
sistema Qualità e nel rispetto del Risk Management risulta efficace definire il numero massimo o atteso di
pazienti che ciascun infermiere dovrebbe gestire.
Il compito primario nel classificare le tipologie di pazienti è quello di riuscire a cogliere tutte
le varietà e i costanti mutamenti dei bisogni delle persone assistite. I sistemi per la classificazione dei
pazienti solitamente si basano o su studi incentrati sul tempo (time studies), che prevedono ad esempio
la campionatura delle mansioni, oppure su studi incentrati sia sul tempo che sui gesti (time and motion
studies).
Misurare il “peso” assistenziale del paziente significa analizzare nel dettaglio:
- gravità della patologia;
- acuità della patologia;
- instabilità della patologia;
- livello di dipendenza dalle cure infermieristiche;
- tempo necessario a compiere le azioni infermieristiche;
- livello delle procedure necessarie;
- tecnologia necessaria per erogare l’assistenza;
- competenze prof.li/livello di formazione necessari.
Il primo ostacolo rilevato nell’analisi dei suddetti fattori attiene alla individuazione della complessità
assistenziale, un concetto ambiguo dove le certezze sono davvero poche:
mancano definizioni univoche del concetto di complessità assistenziale, il modello che definisce la C.
deve tener conto delle specificità dell’approccio infermieristico, orientato ai bisogni e all’autonomia più
che alla patologia, è necessaria una misurazione/valutazione della complessità anche dal punto di vista
infermieristico, non solo clinico.
Infatti complessità clinica e complessità assistenziale infermieristica NON necessariamente coincidono.
Mentre la complessità clinica viene definita in base ad alcuni criteri standardizzati quali:
RELAZIONI
PRIMA SESSIONE INFERMIERISTICA
161
- durata degenza
- DRG
- spese per farmaci
- spese per esami diagnostici
- spese per consulenze,
- quella infermieristica a tutt’oggi in Italia non è determinata da criteri standard univocamente
riconosciuti.
La valutazione dell’ intensità assistenziale infermieristica può essere definita come una misura dei bisogni
individuali di assistenza dei pazienti presenti in reparto e gli atti e le misure adoperate dagli infermieri
per soddisfarli in un dato periodo di tempo (Fagerström & Bergbom Engberg, 1998; Fagerström e coll.,
1998a).
La difficoltà di definire standard certi e riproducibili deriva essenzialmente dalla molteplicità e complessità
delle variabili che influenzano il fenomeno.
In letteratura sono indicate le seguenti variabili:
- Expertise dello staff: la tipologia di formazione, le competenze specialistiche presenti e le esperienze
professionali maturate dal gruppo;
- Autonomia gestionale: la possibilità di assumere decisioni assistenziali, la distribuzione dei pazienti in
rapporto all’intensità assistenziale; etc….;
- Caratteristiche dei pazienti: la tipologia dei bisogni assistenziali, il numero di prescrizioni diagnostiche
e terapeutiche, la durata della degenza, il livello di compliance, l’indice di turn over dei pazienti, le
caratteristiche e bisogni dei care giver, la tipologia di dimissione del paziente; etc….;
- Intensità del lavoro: la mancanza di apparecchiature e materiali sanitari, l’organizzazione caotica del
lavoro, le continue interruzioni; i tempi di inattività collegati agli approvvigionamenti, alle risposte degli
esami, alle richiesta dei medici,..;
- Struttura architettonica: la disposizione degli spazi, l’ubicazione dei materiali, la necessità di percorsi
ripetuti; la distanza dai servizi diagnostici, la disponibilità di servizi igienici, …;
- Ulteriori risorse: la disponibilità di altro personale di assistenza strutturato o volontario;
- Presenza di studenti/tirocinanti;
- Elementi organizzativi: lo stile di leadership del coordinatore; la capacità di lavorare in gruppo; la
resistenza allo stress; la stabilità / instabilità del posto di lavoro, i flussi informativi ed il passaggio delle
comunicazioni all’interno dell’equipe (contraddittorietà/incoerenza), la difficoltà di interpretazione delle
prescrizioni, la presenza/assenza delle linee guida, procedure e protocolli di lavoro.
La principale difficoltà incontrata nella ricerca di uno strumento valido allo scopo è legato alla criticità
attinente la specificità assistenziale pediatrica, difatti i vari metodi di rilevazione validati sono pertinenti
per l’adulto, scarsamente applicabili in ambito pediatrico.
Il sistema PANDA Paediatric Acuity and Nursing Dependency Assessment (2006) Great Ormond
Street Hospital, Londra risulta essere l’ Unico sistema di misurazione della complessità assistenziale
PEDIATRICO.
Il Sistema Panda parte da uno standard qualitativo definito a priori derivante da quelle codificate dal
National Health Service britannico (numero di pazienti per infermiere, secondo le Linee Guida del RCN)
e, attraverso la rilevazione della complessità dei pazienti di un reparto, mediante, una scheda a matrice
consente di stabilire se quel reparto rispetta lo standard minimo assistenziale.
Tale scheda a matrice riporta sulle righe i bambini ricoverati e sulle colonne 50 possibili caratteristiche
assistenziali del paziente, le 50 caratteristiche sono raggruppate in 9 categorie, contrassegnate da un
diverso colore. Ognuna delle 50 possibili caratteristiche assistenziali è descritta in un'apposita Guida.
RELAZIONI
162 PRIMA SESSIONE INFERMIERISTICA
RCN CATEGORIES standard minimo
Categoria
Rapporto numerico Infermiere/pazienti secondo
il RCN
Necessità di cure intensive in reparto non TI
01:01
Livello di dipendenza infermieristica alto
01:02
Livello di dipendenza infermieristica normale, età 01:03
inferiore a 2 anni
Livello di dipendenza infermieristica, età superiore 01:04
a 2 anni
Tabella 1
Il Goshman Panda tools
Il tools è basato su 50 item ‘‘care categories’’ dei quali 44 derivano dal DoH document che è raggruppato
in 9 “ colour - coded systems’’ e 6 di identificazione di “nursing care”
I 9 gruppi di categoria colour - coded ‘‘systems’’ analizzano:
1. Via aerea 2. Respiratorio 3. Post-intervento/Procedure 4. Cardiaco/Aritmie 5 Monitoraggio/Terapia 6.
Shock/sepsi/Immunodeficienza 7. Renale/bilancio idrico- 8. Neurologico 9. Altro. A loro volta ogni gruppo
classifica ulteriori campi attinenti le macroaree di apparteneza.
I 6 gruppi di dipendenza di nursing care sono suddivisi:
Fasce di età - collocazione/bisogno clinico -complessità emotiva- complessità psichica -complessità
sociale - mobilità.
In Italia, per stabilire la quantità di personale da assegnare alle diverse strutture sanitarie sono stati
emanati numerosi provvedimenti che, per motivi diversi, difficilmente hanno trovato applicazione:
-DPR 128/1969 - Ordinamento interno dei servizi ospedalieri - superato da successive norme legislative;
-Delibera CIPE 20.12. 1984;
-Decreto 13/9/1988 - Determinazione degli standard del personale ospedaliero -contestato e non
applicato dalle regioni.
- Successivamente, le norme non hanno più definito standard; il fabbisogno di personale (dotazione
organica) è stato correlato ai carichi di lavoro (DL n. 29, 3 febbraio 1993 e successive modificazioni).
In California, ma anche in altri Stati Americani, l’American Nurses Association ha condotto una dura battaglia
politica per definire il numero massimo o atteso di pazienti che ciascun infermiere dovrebbe gestire.
Questo rapporto (nurse to patient ratio) esprime una misura di sintesi che deve essere garantita sulle 24
ore: include solo infermieri e non gli operatori di supporto, aiuta la dirigenza degli ospedali a negoziare
la migliore quantità di risorse per i pazienti; garantisce omogenei livelli assistenziali (paradossalmente
proprio in un sistema non pubblico) e la possibilità per gli infermieri di lavorare, esprimendo le massime
potenzialità dell’assistenza, che comprendono la capacità di giudizio, di monitoraggio e di sorveglianza.
Gestire pochi pazienti, infatti, permette agli infermieri di conoscerli bene, di individuare precocemente
variazioni cliniche, di monitorarle, di ipotizzare problemi potenziali e di attivare strategie efficaci. Un buon
rapporto infermieri/pazienti dovrebbe aggirarsi su 1 a 5 o comunque inferiore a 6, per ridurre il rischio
di complicanze e di mortalità dei pazienti. (Aiken LH, Clarke SP, Sloane DM, Sochalski J, Silber J. Hospital
nurse staffing and patient mortality, nurse burnout and job dissatisfaction. JAMA 2002; 288: 1987-93.)
Conclusioni
I manager del personale infermieristico oggi hanno bisogno di strumenti pratici per l’amministrazione del
personale dato che i servizi sanitari e l’assistenza infermieristica sono in uno stato dinamico che coinvolge
sia dei grandi cambiamenti organizzativi sia dei tagli economici radicali. Sono stati creati dei sistemi di
classificazione dei pazienti come metodo per una pianificazione efficiente del personale in grado di
RELAZIONI
PRIMA SESSIONE INFERMIERISTICA
163
rispondere ai bisogni di assistenza dei pazienti in continuo cambiamento. Secondo Hoffman (1998), la
creazione di sistemi per la classificazione dei pazienti è stata influenzata da una linea di pensiero tipica
dell’industria e le limitazioni di tali misurazioni non sono state prese sufficientemente in considerazione.
Per la creazione di sistemi per la classificazione dei pazienti sarebbe opportuno tenere a mente le
assunzioni ideologiche di base dell’assistenza infermieristica (Athlin e coll., 1992; Fagerström & Bergbom
Engberg, 1998) ed essi dovrebbero essere compatibili con la filosofia predominante della leadership.
La leadership professionale nel frattempo deve imporre al potere politico di inserire nell’agenda la
questione del rapporto numerico infermiere/paziente e del benessere lavorativo degli infermieri in
quanto strettamente correlato alla sicurezza del paziente.
Bibliografia
1. Editoriale 204 Assistenza infermieristica e ricerca, 2006, 25, 4.
2. Aiken LH, Clarke SP, Cheung RB, Sloane DM, Silber JH. Educational levels of hospital nurses and surgical
patient mortality. JAMA 2003; 290: 1617-23.
3. Aiken LH, Clarke SP, Sloane DM, Sochalski J, Silber J. Hospital nurse staffing and patient mortality, nurse
burnout and job dissatisfaction. JAMA 2002; 288: 1987-93.
4. Doran D, Kerr M, McGillis Hall L, Zina M, Butt M, Ryan L. Commitment and care: The benefits of a healthy
workplace for nurses, their patients and the system. Rapporto presentato al Canadian Health Services Research
Foundation, Ottawa, ON, 2001.
5. Palese, L. Saiani: Carenza di infermieri, standard assistenziali, sicurezza dei pazienti.Assistenza infermieristica
e ricerca, 2006, 25, 4 205.
6. Aiken LH, Clarke SP, Sloane DM, Sochalski J, Silber J. Hospital nurse staffing and patient mortality, nurse
burnout and job dissatisfaction. JAMA 2002; 288: 1987-93.
7. Doran D, Kerr M, McGillis Hall L, Zina M, Butt M, Ryan L. Commitment and care: The benefits of a healthy
workplace for nurses, their patients and the system. Rapporto presentato al Canadian Health Services Research
Foundation, Ottawa, ON, 2001.
8. Defining staffing levels for children’s and young people’s services.RCN guidance for clinical professionals and
service managers.2003.
9. Ellis J, Joyce C.Identifying patient acuity and nursing dependency in paediatrics:The GOSHman PANDA
project. Great ormond Street Hospital NHS trust.
10. Guccione A., Morena A., Pezzi A., Iapichino G., “I carichi di lavoro infermieristico” Min Anestesiol 2004; 70:
411-6.
11. Cavaliere B., “Sistema integrato di misurazione della complessità assistenziale” Management Infermieristico
2006; 2:13-22.
12. Agency for Healthcare Research and Quality “Nurse staffing and Quality of patient care” AHRQ Pubblication
n° 07- E005 March 2007.
SECONDA SESSIONE INFERMIERISTICA
29 NOVEMBRE 2008
Presidenti: Andrea Colella, Gabriella De Cicco, Luciano Musi
Moderatori: Franca Piccolo, Maria Franzese, Raffaella Mormile
Gennaro Vetrano, Carla Navone, Marzia Duse
RELAZIONI
SECONDA SESSIONE INFERMIERISTICA
165
ASSISTENZA INFERMIERISTICA PRE- E POST-OPERATORIA AL
NEONATO AFFETTO DA ERNIA DIAFRAMMATICA CONGENITA (CDH)
C. Cervoni, G. D’Agostino
U.O. TIN-Immaturi - Ospedale Pediatrico Bambino Gesù - IRCCS - Roma
Obiettivi
L’ernia diaframmatica congenita (CDH) è una malformazione che consiste nella mancata o incompleta
chiusura del diaframma, con fuoriuscita dei visceri dall’addome verso la cavità toracica attraverso
una breccia nel diaframma. Oggi è possibile effettuare la diagnosi prenatale tramite l’ecografia. Tale
diagnosi consente di attuare un trattamento precoce volto sia alla predisposizione del parto cesareo, sia
all’assistenza del bambino che al supporto psicologico ai genitori.
La tipologia del paziente è particolarmente delicata e richiede una appropriata gestione di tipo
infermieristico.
Materiali e metodi
L’assistenza del neonato con CDH ha inizio in sala parto dove l’infermiere collabora con il neonatologo
all’immediata intubazione del neonato e successivo posizionamento di un catetere centrale in un vaso
ombelicale (venoso o arterioso).
All’arrivo in TIN il neonato viene posto in culla aperta e l’infermiera inizia il monitoraggio delle funzioni
vitali, esegue i prelievi pre-operatori, imposta le infusioni di farmaci (sedativi, isotropi se necessari). Quando
le condizioni cliniche del neonato si sono stabilizzate il chirurgo neonatologo procederà all’intervento
chirurgico direttamene in TIN. Dopo l’intervento si procederà al prelievo di sangue, all’esecuzione di un
RX torace-addome e alla rilevazione continua dei parametri vitali.
Risultati
Con la collaborazione del personale infermieristico, delle caposala e del personale medico, si è cercato di
“standardizzare” alcune procedure per la gestione del paziente critico ed in particolare di quello affetto
da CDH, tenendo conto di un aspetto fondamentale dell’assistenza infermieristica pre-, intra- e postoperatoria di questi pazienti che è il controllo del dolore e, più in generale del “discomfort”.
I genitori ai quali è stata già diagnosticata la malformazione in utero, vengono seguiti costantemente
dal tutto il personale sanitario, in particolare da quello infermieristico, che li accompagna nel difficile
percorso pre- e post-operatorio del loro bambino.
Conclusioni
La sopravvivenza nei casi di CDH isolata, cioè non associata ad altri difetti, è del 70%; qualora siano presenti
altre anomalie varia dal 40 al 70%. I bambini, in genere, sono in grado di condurre una vita di relazione,
scolastica e sportiva normale. Le complicanze possono riguardare una certa difficoltà di alimentazione,
deformità della gabbia toracica, scoliosi.
RELAZIONI
166 SECONDA SESSIONE INFERMIERISTICA
LA FORMAZIONE A DISTANZA COME RISORSA PER L’EDUCAZIONE
CONTINUA IN MEDICINA: POTENZIALITÀ DELLA FORMAZIONE A
DISTANZA (FAD / E-LEARNING)
M. Di Martino1, F. Caserta2
1
2
Azienda Ospedaliera Universitaria "Federico II" Napoli
Seconda Università di Napoli
Introduzione
Il programma del Ministero della Salute: “Educazione Continua in Medicina” (ECM) è di particolare attualità
nel nostro Paese, esso comprende “l’insieme organizzato e controllato di tutte quelle attività formative,
sia teoriche sia pratiche, allo scopo di mantenere elevata e al passo con i tempi la professionalità degli
operatori della Sanità”.
Come previsto dal Ministero della Salute, l’ECM offre l’opportunità agli operatori sanitari di maturare crediti
formativi, intesi come “una misura dell’impegno e del tempo che ogni operatore della Sanità ha dedicato
annualmente all’aggiornamento e al miglioramento del livello qualitativo della propria professionalità”.
L’ECM può essere veicolata da corsi a carattere residenziale (seminari, workshop o altro), da congressi e
convegni, da materiali editoriali di tipo tradizionale (riviste o monografie) o innovativi, come: la formazione
a distanza (FAD) che ha subito nel corso degli anni una notevole evoluzione (Tabella 1).
Attualmente gli “studenti a distanza” hanno la possibilità di scegliere fra diverse offerte: corrispondenza,
CD-Rom, video, teleconferenze, educazione via web.
Tabella 1. Dalla FAD all’e-learning: passaggio storico
La comunicazione mediata dal computer
Esistono due modalità di comunicazione mediata dal computer (CMC): quella sincrona e quella asincrona
(Tabella 2). Si ha una CMC sincrona quando la comunicazione avviene simultaneamente fra due o più
persone, in tutti gli altri casi si parla di CMC asincrona.
La differenza fondamentale tra le due tipologie è legata alla presenza di una connessione in tempo reale
tra i computer degli utenti coinvolti. Ciascuna delle due soluzioni ha punti di forza e punti di debolezza.
RELAZIONI
SECONDA SESSIONE INFERMIERISTICA
167
Tabella 2. Principali tipologie di CMC.
Le soluzioni adottabili per realizzare formazione on line variano per tempi, contenuti, strumenti utilizzati
e modalità di fruizione, le scelte sono condizionate sia dagli obiettivi e dalle caratteristiche degli utenti
sia dalle risorse a disposizione.
Entrambe le suddette forme di CMC, sincronica e asincronica, sono duttili, hanno carattere interattivo e
modulare e possono ricorrere alla figura di uno o più tutor.
Elementi di flessibilita’
La FAD introduce nel processo formativo diversi elementi di flessibilità:
- Temporale: in quanto ciascuno può seguire i corsi negli orari a lui più consoni e secondo i propri ritmi di
apprendimento;
- Geografica: ogni allievo segue il corso da casa, dall’ufficio…, evitando eventuali problematici
spostamenti;
- Dei materiali didattici: i materiali presentati in forma modulare, consentono una fruizione semplice e
personalizzata.
Si parla d’interattività, invece, quando docenti, tutor e studenti si confrontano costantemente, si scambiano
informazioni, esperienze e materiali. Le soluzioni tecniche utilizzate a tale scopo possono essere strumenti
di comunicazione asincrona (forum, mailing list, e.mail) e/o sincrona (chat, videoconfereze etc).
Si ha interazione anche attraverso un’organizzazione e articolazione dei contenuti che preveda la libera
esplorazione ipertestuale dei materiali offerti e infine attraverso la possibilità di verificare il proprio
personale percorso attraverso una gamma articolata di operazioni di feed-back.
La modularità è intesa come suddivisione dei contenuti oggetto di apprendimento in moduli didattici.
La struttura informatizzata e le potenzialità della rete Internet possono favorire:
- la progettazione dei percorsi d’apprendimento;
- le attività di controllo in itinere, tramite test e verifiche cui sottoporre periodicamente gli allievi
- la verifica e valutazione delle funzionalità del modulo.
- L’individualizzazione dei percorsi da parte degli allievi.
Il Blended Learning
Le strategie pure di formazione in rete, anche se ad alta interazione, non sempre sono consone a ogni
situazione educativa. Ci sono, ad esempio, contenuti che sono poco adatti a essere trattati in rete o
persone che non riescono a prendere confidenza con il tipo di comunicazione che s’instaura attraverso il
collegamento online, basato quasi esclusivamente sul testo scritto. Anche un intervento in sola presenza
porta con sé alcuni elementi problematici: un corso di poche settimane non può avere la pretesa di
rendere il partecipante competente a tal punto sugli argomenti trattati da riuscire autonomamente ad
approfondire i contenuti e ad applicare ciò che ha appreso nel suo contesto lavorativo.
La formazione mista o blended, ha lo scopo di dare “la possibilità di condurre un’azione formativa che
possa avvalersi delle caratteristiche specifiche sia della formazione in presenza (lezione frontale) sia
quella in rete (esercitazioni assistite a distanza ecc.) ”.
Una formazione mista permette anche di sopperire alle difficoltà insite nel processo di valutazione, poiché
RELAZIONI
168 SECONDA SESSIONE INFERMIERISTICA
fornisce la possibilità di interagire periodicamente e di osservare da vicino le attività svolte dai partecipanti
e, grazie alla comunicazione scritta on line, permette di usufruire degli apporti di ogni singolo corsista ad
esempio con la computer conferencing.
La formazione on line non si deve intendere come una metodologia sostitutiva all’ aula, ma si dovrebbe
pensare ad un sistema che integri le due forme e che, quindi, non annulli completamente la dimensione
fisica dell’ interazione tra gli studenti e tra questi ed il docente. Il mantenimento d’incontri in presenza può
favorire il riconoscimento degli attori del processo e può quindi sostenere le relazioni, la socializzazione,
ma anche la motivazione a partecipare alle fasi via rete.
Vantaggi della Fad
Non c’è dubbio che lo sviluppo delle tecnologie per la comunicazione abbia migliorato, in termini di
tempo ed efficienza, la trasmissione dei messaggi, offrendo un enorme contributo allo sviluppo della
formazione a distanza.
Dal punto di vista economico, i mezzi di comunicazione di massa (radio, TV, stampa,
ecc.) come sostituti dei docenti in aula, si sono rilevati dei canali appropriati per
l’insegnamento a distanza, consentendo anche economie di scala, dal momento che un dato messaggio
può essere ricevuto da un numero elevato di potenziali allievi. La FAD, infatti, consente di ottimizzare la
gestione delle risorse e di eliminare le spese di trasferta riducendo notevolmente i costi (Tabella 3).
Tabella 3. Principali vantaggi della FAD.
Svantaggi della Fad
Tra i problemi più rilevanti dei corsi FAD (Tabella 4), c’è quello dell’elevato numero di abbandoni (per
cause diverse) da parte degli allievi, rispetto alle forme più tradizionali d’istruzione. L’abbandono può
essere ridotto fornendo adeguati materiali didattici, informando adeguatamente gli allievi affinché siano
perfettamente a conoscenza del corso che stanno per intraprendere, fornendo attività di supporto,
tutoraggio durante lo svolgimento del corso stesso, mantenendo elevati motivazioni e interessi, creando
un clima coinvolgente.
Tabella 4. Principali svantaggi della FAD.
RELAZIONI
SECONDA SESSIONE INFERMIERISTICA
169
Conclusioni
Affinché, l’insegnamento a distanza, possa essere efficiente è necessario che:
- la metodologia utilizzata e le tecnologie scelte siano conformi agli obiettivi cui è finalizzato
l’apprendimento;
- Sia assicurata l’interazione costante fra gli studenti e tra gli allievi e i docenti/tutor;
- Si abbia la possibilità di far riferimento a materiali organizzati e figure professionali in grado di favorire
l’orientamento, evitando una frammentazione smisurata e disarticolata dei contenuti, che fungano da
supporto nei momenti di difficoltà e che aiutino nella fruizione dei materiali offerti.
I benefici in termini di riduzione dei costi e di maggiore flessibilità spaziale e
temporale nella fruibilità degli argomenti fanno dell’e-Learning la nuova frontiera
della formazione. La scarsa dimestichezza all’interattività e il rischio di demotivazione individuale, tuttavia,
impongono la massima cautela dal punto di vista delle aspettative di
crescita del fenomeno.
Dal punto di vista delle potenzialità, l’ambiente esterno di riferimento evolve in una
direzione assolutamente favorevole alla diffusione dell’e-Learning, grazie allo
sviluppo di fattori abilitanti quali la banda larga e l’informatizzazione.
La FAD è particolarmente adatta a rispondere alle esigenze di adulti che hanno l’obiettivo di rinnovare
la propria formazione, di aggiornarsi o semplicemente per interesse personale. In particolare sono le
aziende che godono delle opportunità offerte dall’e-learning, ricorrendo alla formazione online per i
propri programmi di formazione e riqualificazione del personale.
Bibliografia-Sitografia
1. Alfredo Pisacane, Isabella Continisio Come fare educazione continua in medicina: Dalla individuazione dei
bisogni alla valutazione degli eventi formativi (a cura di) Il Pensiero Scientifico Editore, Roma 2007.
2. Federici A Educazione continua in medicina. In: Le parole della nuova sanità A Federici (a cura di) Il Pensiero
Scientifico Editore, Roma 2002.
3. Valerio Eletti, Che cos’è l’e-learning, Carocci, Roma, 2002.
4. Antonio Calvani, Mario Rotta, Fare formazione in Internet. Manuale di didattica on-line, Trento, Erickson,
2000.
5. Guglielmo Trentin, Fare formazione in Internet, Zanichelli, Bologna, 1998.
www.ecm.sanità.it
www.asfor.it
www.wbt.it
www.epict.it
RELAZIONI
170 SECONDA SESSIONE INFERMIERISTICA
IL NEONATO PATOLOGICO: STABILIZZAZIONE E TRASPORTO
C. Sollo
TIN. / TNE. AORN “ S. Anna e S. Sebastiano” di Caserta
Il Trasporto neonatale d’emergenza rappresenta, fin dalla sua istituzione, il necessario anello di
congiunzione fra il centro nascita e il reparto di patologia neonatale o TIN. Da allora sono trascorsi dodici
anni, durante i quali la mortalità perinatale è diminuita del 50 % circa, sicuramente grazie anche al nostro
piccolo contributo.
Team del Trasporto Neonatale
Il team d'assistenza è composto da un neonatologo e da una vigilatrice che devono avere esperienza di
terapia intensiva neonatale e devono essere in grado di fronteggiare qualunque problema che si presenti
durante il trasporto. In ogni caso è l’U.O. di TIN. che fornisce il personale sia medico che infermieristico
ed istituisce corsi di addestramento che prevedono un tirocinio pratico a fianco di operatori già esperti.
Sono inoltre necessarie particolari competenze, come la perfetta conoscenza di tutte le attrezzature in
dotazione così da individuare prontamente e rimuovere, quando è possibile già in itinere, qualsiasi causa
di malfunzionamento. Un adeguato numero di trasporti alternando periodi di “training “ in TIN consente
di conservare e migliorare queste capacità.
Attrezzature
Il mezzo di trasporto in dotazione è un ambulanza allestita come un centro di rianimazione mobile; un’
incubatrice da trasporto fornita di un ventilatore, cardiomonitor, pompa di infusione, aspiratore, bombole
di O2 ;valigia da trasporto che contiene i presidi sanitari indispensabili per garantire in qualsiasi luogo,
anche al di fuori dell’ambulanza la prima assistenza al neonato ;borsa farmaci da trasporto che contiene
farmaci da portare al seguito in ogni trasporto, considerando che alcuni di essi devono essere conservati
abitualmente in frigorifero.
Chi trasferire?
I neonati trasferiti mediante TNE sono quelli che hanno bisogno subito dopo la nascita di assistenza
adeguata che non può essere erogata dal centro nascita essendo questi di I° livello. E’ importante dunque
che tutti i neonati per i quali si prevedono cure intensive nascano nei centri di III° livello e, che il trasporto
avvenga prima della nascita, cioè nel grembo materno.Poiché ciò non è sempre possibile, perchè il
rischio non è sempre prevedibile in ogni caso, può accadere che anche i centri nascita con centri T.I.N
possono trasferire il neonato verso centri ad alta specializzazione (cardiochirurgia, neurochirurgia) o, non
accogliere il neonato, per saturazione temporanea dei posti letto.
Dai dati raccolti il TNE di Caserta dal 1/1/2007 al 31/12/2007 ha eseguito 523 trasporti ; di cui: 269 patologia
respiratoria, 179 prematurità, 58 patologie varie, 32 cardiopatie congenite, 43 affezioni chirurgiche e
malformazioni. Le condizioni cliniche del neonato all’arrivo del team di trasporto al centro nascita sono
per il 58 % discrete; 23 % gravi ; 11 % critiche.
Assistenza al neonato prima del trasporto (stabilizzazione)
L’attività per un servizio di trasporto neonatale inizia già al momento della chiamata con la disponibilità
a fornire consigli telefonici per la stabilizzazione. All’arrivo nel centro trasferente, valutate le condizioni
cliniche, l’ anamnesi e gli esami disponibili, si provvede ad assicurare, il mantenimento della temperatura
corporea, la funzione cardiorespiratoria, l’equilibrio metabolico, si valutano la condizione neurologica
del neonato, si provvede ad assicurare un accesso vascolare ed a somministrare, se richiesto, farmaci
o soluzioni glucosate, con l’ obiettivo non solo di trattare la patologia già esistente ma anche prevenire
l’eventuale deterioramento delle condizioni cliniche durante il trasporto.
Mantenimento dell’omeostasi termica
L’attuazione delle manovre di rianimazione e stabilizzazione nonché il trasporto stesso sono situazioni
RELAZIONI
SECONDA SESSIONE INFERMIERISTICA
171
ad alto rischio di stress termico, quindi è necessario adottare tutte le misure idonee a limitare la perdita
di calore e assicurare al neonato un ambiente termico neutro. Tutte le manovre di rianimazione vanno
eseguite sotto una fonte di calore radiante. Il passaggio dall’incubatrice di reparto all’ incubatrice da
trasporto deve avvenire ad una temperatura di 20-22° C e in assenza di correnti d’ aria. L’apertura dell’
incubatrice da trasporto deve essere limitata al tempo strettamente necessario per posizionare il neonato,
mentre tutte le altre manovre vanno effettuate attraverso gli oblò.
Stabilizzazione della funzione respiratoria
In presenza di insufficienza cardiorespiratoria, è molto problematico, date le circostanze, eseguire
eventuali accertamenti diagnostici, e quindi la condotta terapeutica più razionale consiste in:
Assicurare la pervietà delle vie aeree.
Assicurare un’adeguata ventilazione.
Fornire una supplementazione di ossigeno, se necessario.
Eseguire un EAB.
Se necessario correggere un' eventuale acidosi.
Intraprendere un’infusione di glucosio
Monitorizzare FC, PA, e SpO2.
Per garantire la pervietà delle vie aeree e migliorare la respirazione, la Vigilatrice eseguirà un’ accurata
aspirazione nasale, faringea utilizzando un sondino monouso provvisto di raccordo che permetta
l’ interruzione del flusso e con depressioni non superiori a 40 cmH2O. Il piccolo sarà collegato al
cardiomonitor per il rilievo della saturazione, FC e PA. Tutti i neonati con distress respiratorio dovrebbero
eseguire un EAB, se possibile, al fine di stabilire le corrette modalità e parametri di ventilazione e di
supplementazione di ossigeno. A questo scopo il T.N.E. di Caserta ha in dotazione, in ambulanza, un
apparecchio per l’emogasanalisi portatile. Funziona a batteria e a rete, non richiede riscaldamento,
utilizza cartucce monouso e offre dei risultati precisi e riproducibili. L’emogasanalisi fornisce i valori del
pH ematico, della pressione parziale di ossigeno (PaO2) ed anidride carbonica (PaCO2), la concentrazione
di bicarbonati (HCO3) e l’ eccesso basi (BE). Il campione può essere arterioso (sede più frequente l’arteria
radiale), venoso (sede più frequente la vena cefalica) o capillare arterializzato (sede tallone dopo
opportuno riscaldamento). Il prelievo può essere fatto anche dai vasi ombelicali, nel caso siano stati
incannulati; ovviamente i valori della PaO2 e della PCO2 sono differenti a seconda il tipo di campione, ma
non l’ equilibrio acido-base. La PaO2 è correlata, comunque, alla saturazione periferica di O2, in condizioni
di perfusione adeguata e di temperatura corretta. Se non è possibile eseguire un EAB, la valutazione della
quantità di ossigeno da somministrare si può basare sul dato del saturimetro.
La somministrazione di O2 può essere effettuata:
A flusso libero in incubatrice: è opportuno l’ uso di un ossimetro. I limiti derivano dalle percentuali limitate
di ossigeno che è possibile raggiungere (30 - 50 %) e dalla perdita ogni qualvolta si aprono gli oblò dell’
incubatrice.
Con cappetta: con tale metodo è possibile raggiungere elevate concentrazioni di ossigeno, ma con bassi
flussi di gas fresco ; ciò aumenta la percentuale di anidride carbonica nell’aria ispirata.
Il supporto ventilatorio può essere manuale o meccanico. Diviene necessario quando l’attività spontanea
non sia sufficientemente valida e può essere somministrato mediante:
Mascherina: non indicata durante il trasporto perché di uso scomodo e difficile in ambulanza ; infatti
perde efficacia se non é tenuta ben aderente al volto del bambino ;
CPAP nasofaringea: consiste nella somministrazione di una pressione positiva continua (PPC) mediante
una cannula posizionata nel naso-faringe.
Ventilazione meccanica convenzionale: é somministrata previa intubazione oro-tracheale.
RELAZIONI
172 SECONDA SESSIONE INFERMIERISTICA
Stabilizzazione della funzione cardio-circolatoria
Stabilizzazione metabolica
Ipoglicemia
Prima di ogni trasferimento va reperito un accesso venoso: periferico oppure centrale seconda delle
condizioni cliniche. Vanno determinati i valori glicemici a tutti i neonati di cui si richiede il trasporto.
La diagnosi si avvale obbligatoriamente del destrostix, non essendo disponibili immediatamente altre
tecniche di laboratorio. In caso d'ipoglicemia (glucosio plasmatico < 40 mg/dl) va somministrato un bolo
di glucosio endovena seguito da un infusione continua.
Acidosi metabolica
L’asfissia perinatale comporta un aumento di produzione di acido lattico con conseguente stato di
acidosi metabolica. Un' acidosi grave determina una diminuzione della contrattilità del miocardio ed
una vasocostrizione polmonare, riducendo ulteriormente l’ossigenazione del sangue. I bicarbonati da
somministrare vanno sempre diluiti al 50% con acqua bidistillata ed infusa lentamente in vena.
Valutazione neurologica
I neonati critici sottoposti a rianimazione possono andare incontro a encefalopatia ipossico-ischemica.
Un neonato con indice di Apgar al 5’< 5 probabilmente può andare incontro a una patologia neurologica
acuta o cronica. Un altro parametro importante e predittivo è l’entità dell’acidosi metabolica rilevata
con EAB arterioso entro 1h di vita: un pH = 7.1, e/o un BE di - 10 vengono considerati valori limite per
l’instaurarsi successivo di un danno neurologico.
Un deficit neurologico può essere dovuto anche a cause metaboliche o squilibri idroelettrolitici.
La compromissione neurologica può manifestarsi inizialmente con ipotonia, ma in seguito possono
comparire ipertono e convulsioni.
Un'adeguata valutazione clinica può inizialmente essere fatta adottando la stadiazione di Sarnat-Sarnat.
Chiaramente la valutazione del tracciato EEG andrà rimandata alla fase successiva del ricovero in TIN.
Andranno poi valutati il Destrostix e gli Elettroliti dall 'EAB per escludere cause metaboliche.
Sindrome da astinenza: Il problema delle donne tossicomani gravide in questi ultimi tempi sta
presentandosi con sempre maggiore frequenza nei reparti di maternità per il diffondersi dell’uso degli
stupefacenti. I sintomi sono comuni, qualunque sia la droga o il farmaco assunto dalla madre. I più frequenti
sono: iperagitazione, tremori, ipertonia, iperreflessia, sudorazione, suzione rabbiosa e concitata ma meno
valida, diarrea e vomito, tachipnea, febbre, convulsioni. Per permettere al centro TIN di accoglienza è
opportuno prelevare dei campioni di sangue materno per le ricerche sierologiche e un campione di
urine materne per la ricerca cromatografica della sostanza stupefacente. Durante il trasporto il piccolo
sarà ovviamente monitorato nei suoi parametri vitali, incannulata una vena per la somministrazione di
soluzione glucosata al 10% e di eventualmente farmaci anticonvulsivanti.
Accessi vascolari
Durante il trasporto è importante che sia reperito un accesso venoso “sicuro”, per somministrare farmaci
o soluzioni glucosate.
Pungere una vena in condizioni d’urgenza negli spazi angusti di un'ambulanza, è un esperienza
sicuramente da evitare. Data per scontata, quindi, di reperire un accesso venoso rimane da decidere se
incanalare una vena periferica o piuttosto una vena ombelicale.
Accesso venoso periferico: Andrebbe limitato a casi meno critici (somministrare solo soluzioni glucosate
5-10%); si preferiscono utilizzare i vasi della piega del gomito o sulla mano che opportunamente fissati
possono essere stabili durante il trasporto.
Accesso venoso centrale (vena ombelicale): permette l’infusione di grosse portate e di soluzioni
ipertoniche, va reperita in condizioni di assoluta sterilità utilizzando il kit chirurgico per ombelicale in
dotazione nel borsone TNE.
RELAZIONI
SECONDA SESSIONE INFERMIERISTICA
173
Analgo-sedazione
Il controllo del dolore e dello stress nel neonato è stato ampiamente sottostimato fino a venti anni fa.
Oggi è invece accertato che non solo il neonato percepisce il dolore giacché possiede tutte le componenti
anatomiche e funzionali necessarie per la percezione degli stimoli dolorosi fin dalla nascita, ma ha anche
memoria delle esperienze dolorose. Il dolore ha poi delle conseguenze: il rilascio di amminoacidi eccitatori e
l’aumento della pressione arteriosa sono fattori di rischio di danno celebrale, comportando una maggiore
incidenza di emorragie intraventricolari e di leucomalacia periventricolare. I farmaci sicuramente i più
efficaci rimane gli oppioidi (Fentanil) e le benzodiazepine (Midazolam). Il nostro problema (organizzativo
e normativo) maggiore durante il trasferimento di un neonato è legato al trasporto e all’uso degli
oppioidi al di fuori della struttura ospedaliera, per cui la pratica dell’analgo-sedazione finisce per essere
trascurata.
Neonato stabilizzato
Il neonato stabilizzato presenta, quindi:
- Ventilazione adeguata;
- Cute e mucose rosee;
- FC tra 120-160 b/m;
- TC ascellare di 36, 5-37° C;
- Problemi metabolici corretti;
- Problematiche particolari affrontate.
Altre incombenze
1) Cartella clinica
Prima della partenza dal Centro Trasferente vanno raccolte, su un' apposita cartella clinica di trasferimento,
le varie anamnesi (familiare, materna, ostetrica, e perinatale), i radiogrammi e gli esami di laboratorio
disponibili ; inoltre, è sempre utile prelevare un campione di sangue materno.
2) Counselling
Prima di partire dal Centro nascita è nostro compito informare adeguatamente i genitori del piccolo
paziente, in maniera sintetica ma chiara, sui suoi problemi, sull’assistenza effettuata e sul centro dove
sarà ricoverato.Le abilità tecniche nella gestione della patologia del trasporto neonatale non possono
prescindere da una considerazione essenziale: il nostro incontro nell’emergenza del trasporto non è tra
il team e una qualsiasi delle patologie descritte (RDS, sepsi, ecc.). Noi non trasportiamo “patologie” bensì
tanti “Francesco, Maria, Luca ecc…”, piccoli esseri che sono venuti al mondo circondati dai loro familiari,
quindi da un' infinità di diverse ansie, aspettative, desideri, contesti socio-culturali. L’intervento medicoinfermieristico dovrà essere rispettoso prioritariamente della vita del neonato, ma non può prescindere
dalla sua famiglia.
Assistenza del neonato durante il trasporto
Durante il trasferimento bisogna controllare continuamente le condizioni del neonato valutandone la
FC, la FR, il colorito cutaneo, la temperatura e l’ossigenazione. Ogni manovra d'assistenza complessa
deve essere effettuata ad ambulanza ferma. Inoltre anche durante il trasporto vanno ridotte al minimo le
perdite di calore. La temperatura del vano sanitario dell’autoambulanza dovrà essere mantenuta fra 2024° C. Per tenere sotto stretto controllo la velocità d’infusione, e quindi la quantità di liquidi da infondere,
viene utilizzata una pompa a siringa funzionante a rete e a batteria.
Giunti al centro TIN ricevente il piccolo é affidato alle cure del personale con relativa documentazione del
caso inclusa una copia della cartella clinica del trasporto, correttamente compilata in ogni sua parte.
Conclusioni
Il TNE è ormai da dodici anni una realtà ben radicata nella regione Campania.E’ un' attività molto
complessa che comprende non solo la gestione e il trasporto di neonati gravi, se non critici, ma anche
l’ interazione con diversi operatori sanitari (medici e personale infermieristico del centro nascita e del
RELAZIONI
174 SECONDA SESSIONE INFERMIERISTICA
centro accogliente)e con i familiari del piccolo paziente. E’ necessario pertanto un team esperto e affiatato
che disponga di attrezzature moderne e idonee per ottimizzare il prezioso lavoro eseguito.
Bibliografia
1. Vademecum del trasporto neonatale d’emergenza III Edizione di L. Falco a cura di M. Panico, 2008.
2. “American Accademy of Pediatrix: Textbook of Neonatal Resuscitation” Ed 4 Elk Grove Village, Ill, American
Accademy of Pediatrics, 2001.
3. “Assistenza Infermieristica in patologia e terapia intensiva neonatale” di C.Poggi Clivio, Professore Giovanni
Serra ed. CSH Srl. 1999.
RELAZIONI
SECONDA SESSIONE INFERMIERISTICA
175
LE INFEZIONI DELLE VIE URINARIE: METODI DI RACCOLTA DELLE URINE
M.C. Regia Corte
U.O. Pediatria-Nido Osp. S. Pio da Pietralcina Vasto (Ch)
L’interesse per le infezioni delle vie urinarie (IVU), è legato alla loro morbilità e all’enorme impatto
economico-sanitario ad esse relativo. Le vie urinarie, ad eccezione dell’ultimo tratto dell’uretra, sono
sterili. I pazienti con IVU presentano in genere una batteriuria pari o superiore a 105 unità formanti colonie
(UFC)/ml (batteriuria significativa), mentre una carica inferiore a 104 UFC/ml in pazienti asintomatici
indica l’assenza di infezione (batteriuria non significativa) o una contaminazione. Il concetto di batteriuria
deve essere comunque interpretato in relazione al quadro clinico e a tutti i possibili fattori interferenti
sulla diagnosi microbiologica, primo fra tutti la modalità di raccolta delle urine, il contenitore impiegato
per la raccolta, il tempo trascorso tra il prelievo e l’esame, l’entità della diuresi, il pH urinario, la recente
assunzione di farmaci antibatterici ed infine una elevata leucocituria, con numerosi batteri che sfuggono
al conteggio in quanto adesi alla superficie dei globuli bianchi. La batteriuria può associarsi a sintomi
indicativi di un’IVU o essere del tutto asintomatica. Un’accurata anamnesi infermieristica consentirà
di conoscere perfettamente le condizioni cliniche del bambino e i motivi dell’esecuzione del prelievo
delle urine. Si potrà cosi evitare il posizionamento del catetere vescicale nel paziente pediatrico con
fratture di bacino documentate o supposte, in quanto tale manovra potrebbe aumentare le possibilità
di complicanze quali danni ad organi interni o le cosiddette “false strade”. In questi casi il cateterismo
avverrà in presenza di un medico specialista (urologo). Prima di iniziare qualsiasi manovra i genitori
vanno educati ed informati dettagliatamente sulla procedura che si intende attuare e se il bambino
è cosciente e in grado di capire bisogna informarlo del procedimento e degli scopi di tale manovra. I
metodi di raccolta delle urine per eseguire una urinocoltura variano in base all’età del bambino e alla sua
capacità di controllare la minzione.
- Raccolta tramite mitto intermedio;
- Raccolta tramite sacchetto autoadesivo;
- Raccolta tramite cateterismo;
- Puntura sovrapubica.
Per avere risultati attendibili, la raccolta delle urine mediante BARATTOLO, è importante che venga
eseguita nel modo più corretto possibile, e, come nella nostra esperienza, facendo una attenta formazione
e informazione completa ed esaustiva al bambino e ai genitori, anche con brochure scritta.
Se si è da soli o si hanno delle difficoltà a procedere con il metodo classico, è possibile raccogliere le urine
con il SACCHETTO AUTOADESIVO (questa modalità, anche se eseguita scrupolosamente, può dare dei
risultati dubbi, per cui può essere talora necessario ripetere l'esame).
I CATETERI VESCICALI utilizzati nei pazienti pediatrici sono di materiale al 100% silicone definiti come
categoria di cateteri molli.
Su ogni catetere vescicale sono stampati due numeri, il primo corrisponde al diametro esterno espresso
in CHARRIER (CH) o in FRENCH (F) che equivale a 1/3 mm.
Nel paziente pediatrico vengono utilizzati C.V. con diametro variabile da CH 8 - CH 10 - CH 12.Il secondo
numero corrisponde alla quantità minima/ massima contenibile nel palloncino d’ancoraggio del C.V. in
numero è espresso in ml.
CH 8 - 3 ml; CH 10 - 3/5 ml; CH 12 - 5/10 ml
I cateteri vescicali di misura CH 8 e CH 10 sono dotati di guida semirigida plastificata definito mandrino
che aiuta il posizionamento del catetere molle pediatrico, il quale deve essere necessariamente sfilato
dopo la valutazione di una corretta introduzione.
Poiché la raccolta tramite cateterismo è considerata manovra invasiva, l’infermiere deve possedere abilità
manuale e capacità tecnica.
La raccolta del campione rappresenta un momento critico nella diagnosi perchè numerosi fattori quali
RELAZIONI
176 SECONDA SESSIONE INFERMIERISTICA
una cattiva pulizia, tempi lunghi di raccolta, inadeguata conservazione prima della semina possono
comportare una diagnosi scorretta di IVU. L’utilizzo del sacchetto per la raccolta delle urine comporta un
rischio di inquinamento molto alto se si pensa che soggetti senza IVU a cui è stata raccolto un campione
urine mediante sacchetto presentavano una percentuale di falsi positivi del 10%. E’ quindi preferibile per
ridurre il rischio di falsi positivi eseguire due raccolte consecutive e, quando possibile, raccogliere le urine,
anche nel bambino piccolo, mediante barattolo. La raccolta del campione nel bambino piccolo mediante
catetere o puntura sovrapubica riduce notevolmente il rischio di inquinamento del campione ma trova
delle resistenze sia nel personale medico e paramedico che nei genitori dei pazienti vista l’invasività della
manovra.
RELAZIONI
SECONDA SESSIONE INFERMIERISTICA
177
LO SCREENING UDITIVO IN TIN
A.Filippelli, A. Coccia
A.O.R.N. “San Sebastiano e Sant’Anna” di Caserta
Obiettivo
Studi recenti hanno evidenziato che lo screeening uditivo neonatale rappresenta il migliore metodo per
la diagnosi precoce di ipoacusia infantile. Ciò garantirà un trattamento riabilitativo entro il sesto mese di
vita e avrà influenze positive sulle competenze uditive, sul linguaggio, sul futuro inserimento sociale e
scolastico del bambino.
Ad oggi i mezzi a disposizione in epoca neonatale per ridurre al minimo l’incidenza di deficit dell’udito
sono la prevenzione primaria e secondaria.
Le procedure elettrofisiologiche attualmente più utilizzate per lo screening uditivo dei neonatio sono:
- le TEOAE (Transient Evoked Otoacoustic Emissions)
- l’ ABR (Auditory Brainstem Responses)
Metodi e materiali
Attualmente per l’esecuzione dello screening neonatale sono raccomandati test di valutazione fisiologica
della funzione uditiva periferica che utilizzano le otoemissioni acustiche.
La registrazione avviene nelle prime 48-72 ore di vita. In caso di primo test positivo (REFER), l’indagine
viene ripetuta prima della dimissione e, se necessario, in base a considerazioni cliniche, viene effettuato
anche un terzo controllo a distanza di 10 -15 giorni.
I soggetti che passano il test (PASS) sono dimessi senza programmi di ulteriori controlli presso il punto di
nascita.
I genitori sono tuttavia informati con documentazione scritta al momento della dimissione che la
presenza di un esame otoacustico negativo non esclude il possibile rischio futuro di ipoacusia di tipo
neurosensoriale.
Tutti i pazienti screenati vengono segnalati, con apposita scheda, alla struttura di audiologia per
programmare l’esecuzione di una visita specialistica all’età di 8-9 mesi.
I neonati che sono confermati come “REFER” eseguono, dopo il 2° mese di vita, il controllo degli ABR
presso la sezione di Audiologia della Centro di Riferimento Regionale.
Risultati
In Regione Campania negli anni 2006-2008 l’incidenza di sordità è stata di 33/42116 neonati testati = 0.08
x 100.
Tali neonati sono stati protesizzati entro il 6-7 mese di vita in modo da intervenire rapidamente per
migliorare la prognosi a distanza.
I reparti di Terapia Intensiva Neonatale (TIN) in Campania coinvolti nel progetto dello screening sono
18, avendo un ruolo rilevante in quanto tra i neonati ricoverati in TIN la frequenza di ipoacusia è circa 10
volte più frequente rispetto ad altri neonati (si passa ad una incidenza di 1 ogni 1000 nati e circa 1 ogni
100 nati).
Problematiche
Alcune TIN inviano i propri nati con fattori di rischio per la sordità (peso nascita < 1500g, ventilazione
assistita, sepsi, familiarità per ipoacusia, uso di farmaci ototossici, infezioni connattali, iperbilirubinemia,
sindromi malformative) presso strutture per una conferma della diagnosi, le quali purtroppo non
comunicano l’esito del test ABR nè inviano i bambini, per i quali l’esito di tale test fosse dubbio, al Centro
di Riferimento Regionale.
RELAZIONI
178 SECONDA SESSIONE INFERMIERISTICA
PROFILO ASSISTENZIALE DEL NEONATO SANO.
LA RIORGANIZZAZIONE DEL PERCORSO NASCITA VERSO
L’UMANIZZAZIONE DELL’ASSISTENZA: L’ESPERIENZA DEL
DIPARTIMENTO MATERNO INFANTILE DELLA AUSL 3 PISTOIA
D. Ammazzini
Responsabile Aziendale Implementazione Modelli e Percorsi Assistenziali - AUSL 3 PISTOIA
Background
Tra la fine degli anni ’60 e gli inizi degli anni ’70 il parto è stato fortemente caratterizzato da una massiccia
medicalizzazione che ha condotto le donne a partorire in ospedale. Parallelamente a questa corrente
nacquero i primi gruppi femminili che rivendicavano: maggior controllo sulla loro esperienza della nascita,
continuità dell’assistenza e libera scelta su dove, come e con chi partorire. Contemporaneamente medici
ed ostetriche, consapevoli degli effetti nocivi iatrogeni dell’uso sistematico delle procedure tecnologiche
invasive, si attivarono per riportare la donna ed il bambino al centro della loro assistenza, considerando
prioritario il principio etico della medicina “…Non nuocere..” (Ippocrate), fu così che fu avviato il processo
di umanizzazione dell’evento nascita.
Negli anni ’80 anche l’Evidence Based Medicine (Cochrane Data Base) sottolineò l’importanza del modello
dell’assistenza appropriata, riportando il care sulla donna e sul bimbo.
L'approccio alternativo, di supporto e sostegno, considera infatti la gravidanza ed il parto eventi naturali;
si parte dall'assunzione che la donna è competente e adeguata e viene coinvolta nelle decisioni.
L'assistenza dell'ostetrica è sufficiente a promuovere la fisiologia e a seguire in autonomia gravidanze
e parti normali, mentre il medico specialista interviene nella gestione del rischio, secondo le modalità
consolidate dall'evidenza scientifica.
Anche il Changing Childbirth (Commissione Governativa del Ministero della Sanità Inglese) nel 1992
affermava che l’assistenza all’evento nascita doveva attivarsi ed offrire sostegno tramite la scelta informata,
il controllo, la cura centrata sulla donna e sul bambino e la continuità dell’assistenza e quindi lo stabilirsi fra
donne e professionisti di una efficace relazione d’aiuto e di fiducia nel tempo. L’Organizzazione Mondiale
della Sanità nel 1996 ribadì l’aspetto fisiologico della nascita affermando che: "Il fine di una moderna
assistenza perinatale è quello di ottenere una mamma ed un bambino in perfetta salute con il livello di
cure più basso compatibile con la sicurezza".
In Italia, la necessità di sviluppare un approccio umanizzato al Percorso Nascita è stata riconosciuta, a
livello istituzionale e normativo, attraverso il Progetto Obiettivo Materno Infantile (P.O.M.I.) previsto dal
DM 24 aprile 2000.
La Regione Toscana ha recepito il progetto dedicando particolare attenzione nei Piani Sanitari Regionali
ai temi della sicurezza, del rispetto della fisiologia e della continuità assistenziale attraverso i Punti
Nascita. Il Piano Sanitario Regionale 2008/2010 ribadisce l’importanza di garantire alti livelli qualitativi
delle prestazioni erogate attraverso percorsi assistenziali omogenei e condivisi tra ospedale e territorio.
La revisione del percorso nascita però è una necessità correlata anche ai cambiamenti che ci sono
stati all’interno dei vari gruppi professionali, vedi ad esempio la formazione universitaria e ed il Profilo
Professionale degli Infermieri ed Ostetriche che definiscono nuovi ruoli e nuovi approcci assistenziali
mirati alla personalizzazione delle prestazioni erogate.
Inoltre nel tempo anche la domanda di assistenza e le aspettative degli utenti sono modificate, è diventata
sempre più pressante la richiesta di prestazioni personalizzate e la completezza delle informazioni relative
al programma terapeutico ed assistenziale, delle possibili alternative e dei risultati ottenibili.
Obiettivi specifici del progetto
Il progetto della nuova organizzazione del Percorso Nascita della AUSL 3 di Pistoia si colloca all’interno
del nuovo scenario sanitario con l’intento di rispondere ai vari bisogni emergenti, ottimizzando la risposta
RELAZIONI
SECONDA SESSIONE INFERMIERISTICA
179
assistenziale e l’organizzazione del lavoro.
Gli obiettivi individuati prevedono:
l’adozione di un modello assistenziale che assicuri la presa in carico della triade mamma, neonato, padre,
attraverso l’integrazione dei professionisti che intervengono nel percorso garantendo la continuità
assistenziale nelle fasi della gravidanza-parto-puerperio,
l’uso di strumenti informativi, condivisi da tutti i professionisti, che garantiscono un flusso delle
informazioni appropriato al fine di assicurare la correttezza delle decisioni di cura ed assistenza.
Materiali e metodi
Modelli e Percorsi
Il modello assistenziale attuale pone il consultorio come punto di riferimento del Percorso Nascita, l'intera
équipe accompagna la donna durante le fasi della gravidanza e del puerperio, sostenendola fisicamente
ed emotivamente. Presso il consultorio è stato istituito l’ambulatorio della gravidanza fisiologica dove la
donna può essere seguita esclusivamente dall’ostetrica.
Intorno al settimo mese di gestazione la donna può partecipare gratuitamente e su prenotazione, ad
un corso di educazione alla nascita organizzato dalle ostetriche del consultorio o dei punti nascita che
prevede dodici incontri: tale corso prepara fisicamente e psicologicamente la donna all’evento nascita,
fornisce preziose informazioni che vanno dall'alimentazione all'allattamento ed a tutto ciò che concerne
la cura del bambino.
Ogni donna può visitare il punto nascita con il proprio partner, attraverso un incontro programmato
durante il quale il personale del reparto illustra la struttura, i servizi erogati e la modalità di presa in carico
durante il ricovero.
L’innovazione del Percorso Nascita è relativa al progetto della nuova organizzazione dell’assistenza
ospedaliera che prevede l’implementazione del modello della Midwifery Care e Primary Nursing:
l’Ostetrica e l’Infermiere di Riferimento.
Questo modello garantisce la presa in carico della mamma e neonato da parte dell’Ostetrica e
dell’Infermiera, che diventano per loro di Riferimento e sono responsabili di tutta l’assistenza programmata,
dei risultati raggiunti, ed anche per la programmazione della continuità assistenziale alla dimissione.
L’Ostetrica e l’Infermiera di Riferimento elaborano il programma assistenziale per garantire lo sviluppo
dell’autonomia della mamma nella cura del proprio bambino attraverso una stretta collaborazione ed
integrazione sul percorso. L’Ostetrica di Riferimento si prende carico della donna, se possibile già dalla
fase del parto nel caso questo avvenga di mattino o di pomeriggio, mentre per le donne che partoriscono
di notte l’ostetrica di riferimento è la collega che entra in servizio la mattina successiva (questa modalità
garantisce una maggiore presenza dell’ostetrica di riferimento durante il ricovero).
L’Infermiera di riferimento invece si prende carico del bambino, infatti nel Punto Nascita sono state
inserite le Infermiere che fino ad ora lavorano nella Nursery, struttura fisicamente distaccata dalle stanze
di degenza delle mamme.
Con la riorganizzazione sono state apportate modifiche architettoniche e logistiche, i neonati con le
proprie culle sono stati trasferiti definitivamente all’interno delle stanze di degenza delle mamme. In
questo modo si è voluto intensificare il già avviato Rooming in, in quanto viene garantita la possibilità alla
neo mamma di tenere il bimbo nella propria stanza 24 ore su 24 e occuparsi fin da subito dei suoi bisogni
e necessità, ovviamente nel caso la mamma lo desideri può affidare il neonato alle cure del personale per
il tempo che lei ritiene opportuno.
E’ stata modificata anche la modalità della visita pediatrica per i neonati, infatti ogni mattina il Pediatria,
dopo il briefing tenuto con l’Infermiera e l’Ostetrica di Riferimento, si reca con loro al letto della mamma
ed in sua presenza controlla il neonato, garantendole così la completezza delle informazioni ed il massimo
coinvolgimento e condivisione nelle scelte del percorso personale.
La nuova organizzazione permette inoltre di sviluppare ulteriormente alcuni programmi assistenziali già
esistenti come ad esempio: il “ contatto pelle-pelle” e “allattamento al seno”.
RELAZIONI
180 SECONDA SESSIONE INFERMIERISTICA
Il “contatto pelle -pelle” prevede che la mamma appena dopo il parto possa accogliere il suo bambino,
prenderlo in braccio e portarlo a se, verso il suo corpo nudo. Il bambino viene così scaldato, nutrito e
coccolato dalla pelle, dal corpo e dalla voce della madre. Fisiologicamente è ciò che il bambino si aspetta
di ricevere: essere accolto, protetto, contenuto, (nutrito a livello sensoriale), così da rispettare la legge del
continuum (delle aspettative genetiche).
Questo è utile poi per proseguire nel periodo successivo al parto con l’assistenza ostetrica ed infermieristica
rivolta alla promozione dell’allattamento al seno. L’Ostetrica e l’Infermiera di Riferimento infatti impostano
insieme un programma di informazione, educazione personalizzato alla mamma e neonato che prevede
la spiegazione dei vantaggi dell’allattamento materno, le modalità relative alla postura, al contatto con il
proprio bambino, il rispetto dell’ambiente confortevole, ecc.. 1
Ai fini della dimissione l’Infermiera e l’Ostetrica di Riferimento verificano con la mamma quali sono stati i
risultati raggiunti e la mamma viene informata sull’opportunità di ricevere l’assistenza ostetrica puerperale
anche al proprio domicilio. Nel caso la donna sia favorevole l’Ostetrica attiva, attraverso una richiesta via
fax, la continuità assistenziale per il puerperio alle colleghe del consultorio. Il percorso assistenziale nel
puerperio prevede una visita a domicilio dell’ostetrica che valuta il bisogno della mamma e neonato,
elabora un programma assistenziale, garantisce la consulenza telefonica, propone il corso dopo-parto
per sviluppare ulteriormente le competenze della mamma nel prendersi cura del proprio bambino.
Da qualche anno nel percorso nascita si pone molta attenzione alle problematiche delle donne straniere,
relative a difficoltà inerenti la
comunicazione e la cultura del paese di provenienza. In risposta alle esigenze specifiche sono state
individuate un gruppo di mediatrici linguistico-culturali che sostengono e lavorano con il personale
ostetrico, infermieristico e le mamme al fine di garantire una socializzazione ed integrazione che superi le
difficoltà legate alla non conoscenza della lingua e cultura di appartenenza di ogni donna.
Strumenti Informativi
Il progetto della riorganizzazione del ricovero ospedaliero nel Punto Nascita prevede l’adozione di nuovi
strumenti informativi che garantiscono la tracciabilità del percorso progettato e realizzato alla mamma
ed al neonato.
L’obiettivo è quello di elaborare ed adottare la cartella clinica integrata (C.C.I.) della mamma e del neonato,
che contenga tutta la documentazione medica ed assistenziale ostetrica ed infermieristica.
La C.C.I. è uno strumento di lavoro uniforme che tiene conto comunque delle specificità proprie dei vari
professionisti che intervengono e che apportano il proprio contributo nel Percorso Nascita.
In particolare la documentazione assistenziale infermieristica ed ostetrica prevede:
la scheda per l’accertamento generale della mamma e del neonato, che ha lo scopo di definire le condizioni
generali, le eventuali alterazioni fisiologiche, e le competenze possedute dalla donna per gestire con
serenità e consapevolezza l’evento nascita e la cura del proprio bambino,
lo schema del programma assistenziale, contenente l’individuazione del bisogno assistenziale, gli aspetti
da considerare, i risultati attesi, gli interventi programmati e realizzati, la verifica finale del risultato
ottenuto. Questo schema permette di tracciare e documentare tutto il percorso progettato e le effettive
prestazioni erogate in base al bisogno identificato. Questa modalità apporta valore aggiunto ai fini della
valutazione della qualità dell’assistenza erogata, infatti nei precedenti documenti queste informazioni
non venivano trascritte in modo strutturato, con la conseguente difficoltà nel rilevare i risultati di salute,
relativi all’assistenza ostetrica ed infermieristica, raggiunti dalla mamma e dal neonato,
la scheda della dimissione ospedaliera della coppia madre-bambino, che dovrà contenere (attualmente
non ancora definita) tutte le informazioni necessarie ai colleghi del consultorio ed agli altri professionisti
che si prenderanno carico della mamma e del neonato e che dovranno assicurare la continuità
assistenziale.
RELAZIONI
SECONDA SESSIONE INFERMIERISTICA
181
Strategie progettuali
Una volta elaborato il progetto, abbiamo ritenuto indispensabile individuare le giuste strategie che
potevano garantire il raggiungimento degli obiettivi previsti.
I principi che ci hanno guidato e che abbiamo ritenuto essere vincenti sono stati:
1.la condivisione di tutto il progetto (obiettivi, interventi, strategie, risultati attesi, vantaggi, svantaggi,
vincoli, ecc.) con tutto il personale interessato al cambiamento,
2.il coinvolgimento nell’elaborazione della documentazione assistenziale delle Ostetriche ed Infermiere
che lavorano insieme nel Punto Nascita, nella Pediatria e nella Patologia Neonatale.
Una volta definiti i principi di riferimento ritenuti le pietre miliari per la gestione delle attività progettuali,
abbiamo individuato tre modalità di intervento:
1.corso “Nuova Assistenza Percorso Nascita” rivolto a tutte le Coordinatrici, Infermiere, Ostetriche ed
O.S.S. dell’Area Materno Infantile (130 operatori). Il corso, organizzato come evento formativo, è stato
strutturato in cinque giornate di quattro ore ciascuna, durante le quali è stato presentato il progetto e
ribaditi alcuni contenuti ritenuti importanti per guidare il cambiamento, quali: l’evoluzione dell’assistenza
alla triade madre-bambino-padre, lo sviluppo della professione ostetrica ed infermieristica, nuovi modelli
assistenziali: il Primary Nursing e Midwifery Care e le innovazioni del processo organizzativo assistenziale
previste;
2.laboratori per l’elaborazione della documentazione assistenziale. Sono stati creati tre gruppi di lavoro,
costituiti da Infermiere ed Ostetriche che attualmente stanno lavorando insieme per definire le schede
sopra descritte. Gli incontri programmati sono dieci per un totale di trenta ore. Gli operatori hanno fatto
una ricerca bibliografica, si sono confrontati con altri colleghi di altre strutture esterne alla nostra AUSL, al
fine di raccogliere strumenti descritti in letteratura e/o utilizzati in altri Punti Nascita;
3.laboratori per ridisegnare l’organizzazione dell’assistenza ospedaliera del Percorso Nascita. Anche per
questa attività sono previsti dieci incontri, e i partecipanti ai gruppi di lavoro saranno gli stessi colleghi
che attualmente stanno elaborando la documentazione assistenziale, questo poiché essi hanno acquisito
ed interiorizzato i contenuti teorici del nuovo modello, e riteniamo pertanto che la loro competenza possa
facilitare il proseguimento dei lavori, ottimizzando tempi e risorse impiegate.
Risultati
Il cammino verso il cambiamento non è ancora terminato, sono state comunque realizzate alcune attività
previste dal progetto: la condivisione del cambiamento in atto e del nuovo modello da implementare,
la ristrutturazione architettonica del nuovo reparto, l’integrazione del personale, infatti le Infermiere del
Nido sono state inserite definitivamente nell’organico dell’Ostetricia.
Sono in corso i laboratori per definire la cartella Clinica Integrata e le nuove modalità organizzative, che
prevediamo si concludano per la fine dell’anno.
La fase finale del progetto prevede la sperimentazione del nuovo modello per un periodo di sei mesi, la
valutazione dei risultati raggiunti ed implementazione a regime.
Il progetto sarà valutato attraverso indicatori di processo ed esito, rivolti a rilevare:
il numero di casi presi in carico in ospedale dalle Infermiere ed Ostetriche di Riferimento
il numero di casi segnalati al consultorio con la dimissione correttamente documentata
il livello di competenza in autocura raggiunto dalle mamme dimesse
gli atteggiamenti e la soddisfazione del personale relativamente al miglioramento dell’assistenza
il gradimento dell’assistenza percepito dalle mamme.
Conclusioni
Il modello che implementiamo nel Dipartimento Materno Infantile ha la potenzialità di sviluppare la
competenza infermieristica ed ostetrica, di migliorare la relazione interpersonale infermiere-ostetrica
assistito, ma anche quella interprofessionale.
In letteratura, ad oggi non ci sono certezze scientifiche che dimostrino quale modello assistenziale sia
RELAZIONI
182 SECONDA SESSIONE INFERMIERISTICA
più efficace in base ai costi sostenuti ed i benefici ottenuti in termini di soddisfazione del personale, esiti
di salute delle mamme e neonati, ecc. Pertanto al termine della fase sperimentale del progetto dovremo
realizzare i necessari studi di approfondimento.
Bibliografia
1. D’Innocenzo M., “Nuovi Modelli organizzativi per l’assistenza infermieristica” Centro Scientifico Editore Torino
2002
2. Patrizia Di Giacomo, Luisa Anna Rigon “Assistenza infermieristica e ostetrica in area materno-infantile” Casa
Editrice Ambrosiana, Milano 2002
3. Placenti F., P. Giacomuzzi “L’immagine degli Infermieri: investire sul gruppo più che sulle procedure” in Nursing
Oggi, N. 2, 2005 p. 14
4. Terranova G, Cortesi E, Briani S, Giannini R. Analisi di qualità della cartella clinica come strumento del risk
management. Ig San Pubbl, 2006; 4(62): 371-85
5. Zanotti R. Uso ottimale delle risorse. Infermiere ed OTAA nella nuova organizzazione dell’assistnza. Padova,
Edizioni SUMMA, 2003
6. Barelli P., Pallaoro G., Perli S., Strimmer S., Zattoni M.L., “Modelli di organizzazione dell’assistenza: sono
efficaci?”, 2006, 25, 1, 37-38
7. Zanotti R. “”Modelli Organizzativi dell’assistenza centrati sulla persona per il contesto italiano”, Mondo
Infermieristico, 2004, 1, 2-6
8. Piano Sanitario Regione Toscana 2005/07 e 2008/10
9. Agenzia Sanitaria Regione Emilia Romagna “Il Profilo assistenziale neonato sano” Dossier 137/2006
http://asr.regione.emilia-romagna.it/wcm/asr/collanadossier/doss 137.htm (8 ottobre 2008)
10. Marco Rotondi “Facilitare l’apprendere. Modi e percorsi per una formazione di qualità” Franco Angeli 2000
11. Bury B. Staffing maternity wards: Where are the new posts? BMJ. 2007 Nov 10;335(7627):953.
12. P. Maghella - S. Venuti “Formazione ed integrazione per l’umanizzazione del percorso nascita”
http://www.mipaonline.com/rubriche/parto/Formazione%20ed%20integrazione%20degli%20operatori.pdf
(10 ottobre 2008)
13. Marzia Basso - “Procedure assistenziali al neonato sano”
http://www.marsupioscuola.it/ostetrica_informa/modules.php?name=News&file=article&sid=6
(16 ottobre 2008)
XII PREMIO DI STUDIO
CITTÀ DI AVERSA - OSPEDALE REAL CASA SANTA DELL’ANNUNZIATA
SAN G. MOSCATI
Gianni Bona assegna il Premio Città di Aversa
PREMI
184 XII PREMIO DI STUDIO - CITTÀ DI AVERSA
GRUPPO NORMANNO DI NEFROUROLOGIA NEONATALE E PEDIATRICA
È un gruppo di studio apolitico, senza scopi di lucro, che intende perseguire i seguenti scopi:
- promuovere e favorire lo studio, la diagnosi, le cure e la prevenzione nel campo della nefrourologia
pediatrica e neonatale, sin dal periodo prenatale;
- favorire lo sviluppo, la standardizzazione e la valutazione delle metodologie di ricerca e di applicazione
clinica in nefrourologia neonatale e pediatrica;
- promuovere un'attiva collaborazione scientifica, didattica, organizzativa ed assistenziale con operatori
ospedalieri, extraospedalieri ed universitari, con gruppi e società italiane e straniere ed in particolare con
altre società o gruppi operanti nel campo neonatale e pediatrico, favorendo anche la formazione
scientifica di giovani ricercatori, stabilendo, in particolare, stretta collaborazione con il Gruppo di Studio
di Nefrologia Neonatale della Società Italiana di Neonatologia e con la Società Italiana di Chirurgia ed
Urologia Pediatrica;
- promuovere e favorire la diffusione di conoscenze e l'insegnamento nel campo della nefrourologia
neonatale e pediatrica attraverso riunioni di gruppo, convegni e corsi di aggiornamento in sede e fuori
sede. Favorire iniziative rivolte alla prevenzione delle malattie nefrourologiche (dando maggiore impulso
alla medicina perinatale);
- promuovere una più accurata preparazione dei medici del gruppo e soprattutto stimolare la già attiva e
valida "taskforce" Normanna ad operare con una preparazione sempre più qualificata;
- assegnare borse di studio a giovani medici, a giovani specialisti ed a studenti delle scuole superiori che
si affacciano al mondo universitario, affinché la conoscenza del problema possa essere uno stimolo ad
impegnarsi in tali studi;
- favorire con incontri regionali e nazionali la conoscenza del territorio aversano e delle sue peculiarità
artistiche, gastronomiche, culturali e sociali. Far conoscere ad un agro di circa mezzo milione di abitanti che
gli operatori ospedalieri sono stati sempre impegnati attivamente e con pochi mezzi a loro disposione
nella ricerca clinica, nello studio e nel progresso;
- promuovere gemellaggi culturali con ospedali ed istituzioni universitarie italiane e straniere allo scopo di
favorire contatti professionali ed interscambi per una migliore reciproca preparazione e qualificazione.
PREMI
XII PREMIO DI STUDIO - CITTÀ DI AVERSA
185
CONSIGLIO DIRETTIVO
Presidente
Salvatore VENDEMMIA
Presidente onorario
Robert CHEVALIER(USA)
Vice Presidente
Sergio CERRATO
Vice Presidente onorario
Alberto G.UGAZIO (Roma)
Tesoriere:
Carlo CIOFFI
Consiglieri onorari
Fiorina CASALE (Napoli)
Luigi CATALDI (Roma)
Vincenzo Pio COMUNE (Giugliano - Na)
Rosanna COPPO (Torino)
Roberto DELGADO (Napoli)
Alberto EDEFONTI (Milano)
Vassilios FANOS(Cagliari)
Mario LIMA(Bologna
Antonio MARTE (Napoli)
Luciano MUSI (Vicenza)
Carmine PECORARO (Napoli)
Antonio SAVANELLI (Napoli)
Alessandro SETTIMI (Napoli)
Umberto SIMEONI (Marsiglia)
Consiglieri
Gennaro GOLIA
Maria VENDEMMIA
Nicola VENDEMMIA
Revisori dei Conti
Andrea COLELLA
Raffaele COPPOLA
Franca PICCOLO
Consulenti legali onorari
Nicola CANTONE (Aversa)
Francesco VENDEMMIA (Napoli)
Segretario Generale
Maria Pia CAPASSO
Sede
81031 AVERSA - Piazzetta Madonna di Casaluce, 239
Tel. 081 890 14 94 (ore 16-18)
Codice Fiscale: 90008920614
Coordinate bancarie
italiane E 01030 74790 5129-09
europee IT92 R 01030 74790 512909
Consulenza Fiscale Amministrativa
C/o Studio Commercialisti “Guida & Pezone”
Via Salvo D’acquisto, 117 - 81031 Aversa
Tel. 081/5044999
PREMI
186 XII PREMIO DI STUDIO - CITTÀ DI AVERSA
Accuracy of oximetry in diagnosis of childhood
Obstructive Sleep Apnea Syndrome (OSAS)
M.G. Paglietti1, M. Pavone1, A. Petrone1, E. Verrillo1, M. Cuttini2, V. Di Ciommo2, R. Cutrera1
1
2
Respiratory Unit, Department of Pediatrics, Bambino Gesù Children’s Hospital Rome
Unit of Epidemiology, Bambino Gesù Children’s Hospital Rome
Keywords
Sleep, apnea, children, oximetry, polysomnography, accuracy
Running title
Oxymetry in diagnosis of sleep apnea
Summary
A total of 167 children and adolescents were investigated for Obstructive Sleep Apnea Syndrome (OSAS)
to define diagnostic accuracy of pulse oximetry in children.
Patients were investigated with polysomnography (PSG) too, which was considered the gold standard;
patients with a Mixed Obstructive Apnea Hypopnea Index (MOAHI) ≥ 1 were considered affected. When
positivity criterion for pulse-oximetry was set at Obstructive Desaturation Index (ODI) ≥ 3, sensitivity was
74% (95% CL 64.5 - 82.1) and specificity was 55.6% (95% CL 42.5 - 68.1). The positive likelihood ratio was
1.7, corresponding to a modest increase of disease probability from pre-test value of 62.3% to post-test
of 73.8%.
Physician’s evaluation of the oxygen saturation showed 28.8% positive patients (all affected, no false
positive) and 46.1% negative (38 affected); results were inconclusive in 35.9% of patients (36 affected). If
these patients were considered test-negative, sensitivity was 28.8% (95% CL 20.4 - 38.6) and specificity
100%.
Restricting analysis to 116 patients without overt disease at presentation or to patients with adenotonsillar
hypertrophy, accuracy of oxymetry did not substantially change.
Pulse-oximetry interpreted by a sleep laboratory physician can be a useful screening test in children
with suspected OSAS; patients with definitely positive pulse-oxymetry recordings (28.8% of the affected
children) can be confidently excluded from further assessment through PSG.
Introduction
Obstructive sleep apnea syndrome (OSAS) in children is defined by the American Thoracic Society as “a
disorder of breathing during sleep characterized by prolonged partial upper airway obstruction and/or
intermittent complete obstruction (obstructive apnea) that disrupts normal ventilation during sleep and
normal sleep patterns” (1).
OSAS is common in children, affecting 2.2 - 13% of children (2-5).
OSAS symptoms include habitual snoring, restless sleep, mouth breathing when awake, periods of
observed apnea (6). At wake time patients can often refer irritability, confusion, oral dryness; in daytime
they can show attention deficit and scholar impairment (7, 8).
Long-term sequelae of OSAS include behaviour disturbances, hypertension and growth abnormalities (8,
9); in appropriate patients an effective treatment, adenotonsillectomy, can be advised (10 - 12).
Polysomnography (PSG) is considered the reference test to investigate sleep disordered breathing (10,
13, 14), allowing simultaneously neurological and cardio-respiratory parameters monitoring. This exam is
intrusive, expensive and not widely available.
Therefore, some sleep laboratories investigated the utility of pulse oximetry, a low cost, non invasive,
easy to practice diagnostic device for diagnosing OSAS, but their results are discordant (11-14); criteria
for a physician’s interpretation of oximetry graphs have been introduced by Brouillette, comparing pulse
oximetry to PSG in children and adolescents (15).
PREMI
XII PREMIO DI STUDIO - CITTÀ DI AVERSA
187
Aim of our study was to determine the accuracy of nocturnal pulse oximetry for the diagnosis of OSAS
in our clinical context. We investigated the possibility of improving the interpretation of nocturnal pulse
oximetry, combining trend and event graphic interpretation with ODI.
Methods
We performed a cross-sectional study of 167 consecutive children referred to the Department of
Pediatrics, Division of Lung Diseases, Sleep Laboratory of Bambino Gesù Children’s Hospital from January
2003 to December 2004 with suspected OSA for a history of sleep disturbances (snoring, night sweating,
nocturnal oral breathing, apnea referred by parents).
Instruments and technique
Pulse oximetry and PSG were performed on each patient: on the first night pulse oximetry was performed,
and PSG on the following night; both exams were performed during hospital stay.
All subjects underwent monitoring in a dark room. No sedation or sleep deprivation was used. One parent
stayed with his/her child throughout the night.
Pulse oximetry
A portable pulse - oxymeter NONIN 8500 M (Nonin Medical, Inc; Plymouth Minnesota) was used, which
measures arterial Oxygen Saturation (SaO2), pulse rate and pulse waveforms. It is a small (cm. 7.62 x 15.24
x 2.54), light (gr. 280) device with batteries that allows about 80 hours monitoring.
We applied two different methods in the exam evaluation.
The first one, following Brouillette (15), consists in classifying the examination in positive, inconclusive or
negative. Two sleep laboratory physicians examined independently the graphs and classified the result
as positive, inconclusive or negative on the basis of the following criteria: 1) desaturation was defined as
a decrease in SaO2 ≥ 4%; 2) a cluster of desaturations was defined as 5 or more desaturations occurring
in a 10 to 30 minute period; 3) on the oximetry trend graphs, periods of relative tachycardia, usually 10 to
25 beats per minute, at the beginning and at the end of nocturnal pulse oximetry, and periods of relative
tachycardia and increased heart rate variability exceeding 30 minutes were regarded as wakeful time and
not considered; 4) event graphs for SaO2 were used to distinguish true desaturations from movement
artifacts and low signal amplitude artifacts using a method already described; 5) a positive oximetry
trend graph had 3 or more desaturation clusters and at least 3 desaturations to <90%; 6) a negative
oximetry trend graph had no desaturation clusters and no desaturations <90% and 7) an inconclusive
oximetry trend graph was one that did not meet the criteria for positive or negative. Any discordance of
interpretation was discussed and a consensus was reached.
The second diagnostic criterion was the Obstructive Desaturation Index (ODI), a continuous measure that
quantifies the number of desaturations per hour of sleep. We considered as positive the exams with ODI
≥ 3.
Polysomnography (PSG)
PSG was performed by a polysomnographic 7 channel recorder (SomnoStar PT2, Sensor Medics
Corporation, Yorba Linda, California). We followed the guidelines of the American Thoracic Society (16):
we measured heart rate, pulse rate, pulse waveforms, arterial oxygen saturation (SaO2) and calibrated
respiratory inductive plethysmography (RIP; thoracic, abdominal and sum channel). Technical details
of this instrument are published elsewhere (17). Initial calibration of rib cage and abdominal signals
was performed during the first 5 minutes of operation using the quantitative diagnostic calibration
procedure.
Sleep respiratory events and behaviour were videotaped by an infrared videocamera.
We could obtain the following respiratory parameters:
Obstructive apneas: presence of chest/abdominal wall motion associated with an 80% or greater decrease
in amplitude on the RIP summation channel. Obstructive hypopneas: presence of chest/abdominal wall
motion associated with an 50-80% decrease in amplitude on the RIP summation channel with a drop
in SaO2 ≥4%. Obstructive apnea/hypopneas were considered only if longer than two respiratory cycle
PREMI
188 XII PREMIO DI STUDIO - CITTÀ DI AVERSA
times.
Central apneas: absence of chest/abdominal wall motion associated with an 80% or greater decrease in
amplitude on the RIP summation channel. Central apneas ≥10 seconds and of any length associated with
desaturation ≥4% were taken into consideration.
Obstructive apnea/hypopneas index (OAHI): number of obstructive apnea/hypopneas per hour of sleep.
Mixed apneas: apneas having both central (≥ 3 seconds duration or twice the respiratory cycle length)
and obstructive components (of any length). Mixed apneas were included in the obstructive apnea/
hypopnea index (see below). Apneas occurring immediately following body movements or sighs were
excluded.
Mixed Obstructive apnea/hypopnea index (MOAHI): number of mixed/obstructive apnea/hypopneas per
hour of sleep.
Oxygen desaturation index: number of haemoglobin desaturations (drop in SaO2 ≥ 4% of baseline value)
per hour of sleep.
Sleep and wakefulness were distinguished by pattern of cardio-respiratory signals, behavioural
observation and subject’s appearance on video and Total Sleep Time (TST) was also measured.
OSAS was defined as a MOAHI (mixed/obstructive apnea/hypopnea index) equal or greater than 1 event
per hour accordingly to published standards (14).
Statistics
Sensitivity is the proportion of patients with OSA who have a positive oximetry test, specificity is the
proportion of subjects without OSA who had a negative oximetry; positive predictive value (PPV) is the
proportion of patients with positive test results who have OSAS and negative predictive value (NPV) is the
proportion of subjects with negative oximetry who do not have OSAS.
Positive likelihood ratio (LR+) is the ratio of the probability of a positive test result in people who do have
the disease to the probability in people who do not, and it is calculated as: sensitivity/(1 - specificity).
Receiver Operator Characteristic (ROC) is constructed by plotting sensitivity against 1 - specificity (the
false positive rate) for several choices of the positivity criterion.
For data that were not normally distributed results were expressed as median (interquartile ranges).
Correlation has always been calculated with Spearman’s rho for non-parametric data.
The statistical package SPSS 11.5 has been used for analysis.
Results
The study group of 167 subjects consisted of 104 (62.3%) boys and 63 girls. Median age was 46 months (2469, min.- max. 12-215); most of patients were ≤ 5 years old and 116 were referred to the sleep laboratory
without any major diagnosis potentially interfering with sleep (Tab. 1). Among these, adenotonsillar
hypertrophy was diagnosed in 67 by an otolaryngologist.
Obesity was diagnosed in 12 patients and was defined as BMI > 25; gastroesophageal reflux was diagnosed
in 13 patients by pH-recording, 12 patients had impairment of central nervous system (CNS) as diagnosed
by a child neurologist and 14 patients had cranio-facial malformations.
PSG
Mean duration of TST was 507.5 minutes (Standard Deviation -SD- 75.1).
The median MOAHI was 2 (interquartile range 0.4 - 8.9) with relevant overlapping among different
diagnostic groups; the highest median was in obese patients (7.1) and the lowest in those with gastroesophageal reflux (0.7). The median desaturation index was 2.1 (0.7 - 6.7) and the nadir of the SaO2 was
87% (82.5 - 90); as expected desaturation index was inversely correlated with SaO2 nadir (rho = -0.8) and
positively correlated with MOAHI and OAHI (rho = 0.7), always with high significance (p < 0.001).
Pulse oximetry
Mean duration of TST was 402.2 minutes (SD 98.3).
Considering physician’s interpretation of oximetry results with Brouillette criteria about one-third of
patients were in the “grey zone”, neither definitely positive nor negative (Tab. 2); some overlapping occurs
PREMI
XII PREMIO DI STUDIO - CITTÀ DI AVERSA
189
among the three differently diagnosed groups (Fig. 1), especially between negative and inconclusive
results (MOAHI median 0.9 versus 2.6), positive patients showing a much higher MOAHI median (10.9)
and more dispersed values. If we consider inconclusive results as negative, the test sensitivity is rather
low (28%), but with a specificity of 100%. On the other hand if we consider these patients as positive,
sensitivity increases from 28.8% to 63.4 % with an expected decrease of specificity from 100% (no false
negative) to 62.9 % (Tab. 3).
ODI median was 4.6 (2.2-11.8), significantly correlated with MOAHI and OAHI (rho=0.5 in both, p <
0.001).
ODI results were firstly plotted in a ROC curve (patients affected if MOAHI ≥1), looking for the best
compromise between sensitivity and specificity (Fig. 2); the curve appeared rather flat, never approaching
the upper-left corner (high sensitivity with high specificity), with an area under the curve of 0.75 (95% CL
0.67 - 0.82, p < 0.001).
A cut-off point of 3 was applied, with sensitivity of 74% and specificity of 55.6% (Tab. 3); correctly classified
patients were 112 (67.1%).
Our prevalence of OSAS (or pre-test probability) is 62.3% (Odds = 1.6), and if we apply the LR of a positive
test of 1.7 (Brouillette criteria considering positive patients those with positive or inconclusive results or
those with ODI ≥3) we increase post-test probability only to 72%.
Subgroup analysis.
We have restricted our analysis to the 116 patients referred to the Sleep Laboratory for suspected OSAS
without overt evidence of other diseases, the most relevant group for relative frequency and for therapeutic
decision. Prevalence of OSAS was significantly higher in patients with adenotonsillar hypertrophy than in
those without (76.1 % vs 40.8 %, p < 0.001, Odds Ratio - OR - 4.6, 95% CL 1.9 - 11.2).
Again inconclusive results represented a large proportion of patients (39.7%), and no false positive was
observed when considering positive results only those definitely abnormal, with a sensitivity of 29.6%
and a specificity of 100% (Tab. 4). Otherwise, including inconclusive results in positive ones, we obtain an
higher sensitivity (70.4 %) and a lower specificity (62.2 %, PPV 74.6%, NPV 57.1%).
Accuracy of ODI criteria for OSAS does not differ considerably from accuracy observed in all patients (Tab.
4).
Further restricting the analysis to the 67 patients with adenotonsillar hypertrophy, as expected no major
change of sensitivity and specificity was observed combining inconclusive and negative tests (sensitivity
31.4%, specificity 100%) and no patient was classified as false positive by the physician (PPV 100%, NPV
68.6%). ODI criteria did not change substantially sensitivity, specificity and positive LR with respect to
previous groups.
Combined tests.
Data were analyzed considering as affected the subjects with positive Brouillette criteria (positive defined
as patients classified as definitely positive) or with ODI ≥ 3, as in “parallel” testing. After redistributing
results accordingly (Tab. 5) no subject was tested positive by physician’s reading when ODI criteria was
negative, and physician’s reading was never positive when ODI was positive in unaffected patients (no
false positive, like for physician’s reading alone) (Tab. 5). As expected for “parallel testing” an higher
sensitivity (74%) with a lower specificity (52.4%) than physician’s reading alone was obtained, but nothing
more than the ODI criteria (Tab. 3).
Taking in consideration only the patients classified as negative with physician’s interpretation ODI
discrimination between affected and not affected was not satisfactory (sensitivity 63.5%, specificity
55.5%, LR + 2.2).
PREMI
190 XII PREMIO DI STUDIO - CITTÀ DI AVERSA
Discussion
Most of recommended methods suggested in an extensive review of studies on portable monitoring
for diagnosing sleep apnea were followed in our study, the most important being interpreters blind to
results of PSG (18).
In our referred pediatric population a patient tested positive by physician’s interpretation of the oximetry
exam can be confidently diagnosed as affected by OSAS, at least as currently defined. The increase of PPV
is expected when prevalence increases and when the test is more specific than sensitive.
Probably the low sensitivity and the absence of false positives is due to very stringent criteria of positive
results; when less stringent criteria are applied, including “grey zone” results in positive ones, results of
oximetry carry poor diagnostic yield. An instrumental continuous measure like desaturation index has
shown limited diagnostic utility (19).
Our results are similar to those obtained by some others in adults (19, 20), applying much higher cut off
points both of MOAHI and ODI (>15), and confirm those obtained by Brouillette in one of his published
studies in children (15). In this series only three false positive oximetry tests occurred in patients who did
not have the diagnosis of adenotonsillar hypertrophy and positive LR was 19.4, raising the probability of
OSAS from 60% (pre-test) to 97% (post-test); in patients with only adenotonsillar hypertrophy to explain
the sleep disorder (257 on 349, 73.6%, a proportion close to the 69.5% of the same subgroup of our
patients). No false positive was observed, as we observed in our whole population.
Comparison with an imperfect gold standard may lead to erroneous conclusions: this can explain the
results of the adult study, in which patients were classified as affected by OSAS on the basis of >10
desaturation episodes/h with a MOAHI >10. Different cut-off points of MOAHI (>1 or >5) have been used
on 58 children and adolescents presenting to a sleep laboratory but diagnostic yield based on ODI was
unsatisfactory (19).
In a population with a prevalence of 10 % of OSA (in our highly selected population the prevalence was
62.3%) we would obtain, with a LR+ of 1.7, a post-test probability of 15.8%; in a more selected population,
with a prevalence of 30%, for example, the same LR could yield a post-test prevalence of 41.8%.
Anyway, the test seems useless except when we use Brouillette’s criteria, assuming as affected only those
patients tested as definitely positive; unfortunately, many affected children can have an inconclusive or
negative result and should be tested with more sophisticated devices.
Our protocol excluded the possibility of calculating inter-rater reliability, because the two raters of oximetry
graphs could discuss together their interpretation to obtain a consensus on the final classification of the
test. Anyway similarity of our results with the published ones (15) is in accordance with generalizability of
the criteria. Agreement beyond chance was investigated among three raters with k statistics, but analysis
and impact on diagnosis was not displayed (15). Kirk could demonstrate good test-retest reliability of
oximetry ODI (19) but physician’s interpretation was not applied.
Traditional measures of accuracy (sensitivity, specificity, PPV, NPV) force the observer to dichotomise
continuous measures but one has to keep in mind that PSG or ODI can give the information about severity
of OSAS and therefore about risk of complications (10): decreasing oxygen saturation levels have been
associated with progressive impaired school performance in mathematics in a dose-effect relationship
pattern (6). Clinical decisions about treatment should take into account the clinical spectrum of the
disease (13), as shown in a study on prioritisation of adenotonsillectomy (20).
In summary, we conclude that physician’s interpretation of oximetry graphs with the criteria published
by Brouillette can be viewed as a first-line test to diagnose OSAS in children; it does not rule out this
diagnosis and patients tested negative or inconclusive should receive PSG.
Acknowledgments
Financial support was given from the Italian Ministry of Health (Grant Research); Dr. L. Sirianni has retrieved
clinical documentation; Mrs. A. Santoro reviewed the English version; Mrs. S. Soldini gave nursing advice;
Dr.ssa F. Lariccia helped in drawing graphs.
PREMI
XII PREMIO DI STUDIO - CITTÀ DI AVERSA
The Authors state that they have no conflict of interest.
Fig. 1 MOAHI by physician’s reading results
Fig. 2 ROC curve for ODI
191
PREMI
192 XII PREMIO DI STUDIO - CITTÀ DI AVERSA
References
1. American Thoracic Society. Standards and indications for cardiopulmonary sleep studies in children.
Am J Respir Crit Care Med 1996; 153: 866-78.
2. Castronovo V, Zucconi M, Nosetti L, Magazzini C, Hensley M, Veglia F, Nespoli L, Ferini-Strambi L.
Prevalence of habitual snoring and sleep-disordered breathing in preschool-aged children in an Italian
community. J Pediatr 2003 Apr; 142(4): 377-82.
3. Rosen CL, Larkin EK, Kirchner HL, Emancipator JL, Bivins SF, Surovec SA, Martin RJ, Redline S.Prevalence
and risk factors for sleep-disordered breathing in 8- to 11-year-old children: association with race and
prematurity. J Pediatr 2003 Apr; 142(4): 383-9.
4. Brunetti L, Rana S, Lospalluti ML, Pietrafesa A, Francavilla R, Fanelli M, Armenio L.
Prevalence of obstructive apnea syndrome in a cohort of 1207 children of southern Italy. Chest 2001; 120:
1930-35.
5. Gislason T, Benediktsdottir B. Snoring, apneic episodes, and nocturnal hypoxemia among children 6
months to 6 years old. An epidemiological study of lower limit of prevalence. Chest 1995; 107: 963-66.
6. Brouillette R, Hanson D, David R, Klemka L, Szatkowski A, Fernbach S, Hunt C. A diagnostic approach to
suspected obstructive sleep apnea in children. J Pediatr 1984; 105: 10-14.
7. Chervin RD, Dillon JE, Bassetti C, Ganoczy DA, Pituch KJ. Symptoms of sleep disorders, inattention, and
hyperactivity in children. Sleep 1997; 20 (12): 1185-1192.
8. Urschitz MS, Wolff J, Sokollik C, Eggebrecht E, Urschitz-Duprat PM, Schlaud M, Poets CF.
Nocturnal arterial oxygen saturation and academic performance in a community sample of children.
Pediatrics 2005; 115: e204-e209.
9. Bass JL, Corwine M, Gozal D, Moore C, Nishida H, Parker S, Schonwald RE, Stehle S, Kinane TB. The effect
of chronic or intermittent hypoxia on cognition in childhood: a review of the evidence. Pediatrics 2004;
114: 805-16.
10. Schechter MS. Technical report: diagnosis and management of childhood obstructive sleep apnea
syndrome. Pediatrics 2002; 109: e69.
11. Friedman BC, Hendeles-Amitai A, Kozminsky E, Leiberman A, Friger M, Tarasiuk A, Tal A.
Adenotonsillectomy improves neurocognitive function in children with obstructive sleep apnea
syndrome. Sleep 2003; 26: 999-1005.
12. Tarasiuk A, Simon T, Reuveni H. Adenotonsillectomy in children with obstructive sleep apnea syndrome
reduces health care utilization. Pediatrics 2004; 113: 351-56.
13. Flemons WW. Obstructive sleep apnea. N Engl J Med 2002; 347: 498-504.
14. Caples SM, Apoor SG, Somers VK. Obstructive sleep apnea. Ann Int Med 2005; 142: 187-97.
15. Brouillette RT, Morielli A, Leimanis A, Waters KA, Luciano R, Ducharme FM. Nocturnal pulse oximetry as
an abbreviated testing modality for pediatric obstructive sleep apnea. Pediatrics 2000; 105: 405-412.
16. Loughlin GM, Brouillette RT, Brooke LJ, Carroll JL, Chipps BE, England SJ et al. Standards and indications
for cardiopulmonary sleep studies in children. Am J Respir Crit Care Med 1996; 153: 866-78.
17. Morielli A, Ladan S, Ducharme FM, Brouillette RT. Can sleep and wakefulness be distinguished in
children by cardiorespiratory and videotape recordings? Chest 1996; 109: 680-87.
18. Flemons WW, Littner MR, Rowley JA, Gay P, McDowell Anderson W, Hudgel DW, McEvoy RD, Loube DI.
Home diagnosis of sleep apnea: a systematic review of the literature. An evidence review cosponsored by
the American Academy of Sleep Medicine, the American College of Chest Physicians, and the American
Thoracic Society. Chest 2003; 124: 1543-79.
19. Kirk VG, Bohn SG, Flemons WW, Remmers JE. Comparison of home oximetry monitoring with laboratory
polysomnography in children. Chest 2003; 124: 1702-1708.
20. Nixon GM, Kermack AS, Davis GM, Manoukian JJ, Brouillette RT. Planning adenotonsillectomy in
children with obstructive sleep apnea: the role of overnight oximetry. Pediatrics 2004; 113: e19-e25.
PREMI
XII PREMIO DI STUDIO - CITTÀ DI AVERSA
193
EFFICACIA A LUNGO TERMINE DEL TRATTAMENTO ENDOSCOPICO IN
PAZIENTI CON URETEROCELE
F. Alicchio, A. Savanelli, C. Esposito, A. Farina, A. Settimi
Università degli Studi di Napoli “Federico II”
Dipartimento di Pediatria, Area Funzionale di Chirurgia Pediatrica.Settore di Urologia Pediatrica
Obiettivo
Valutare l’efficacia a lungo termine del trattamento endoscopico (puntura) nel ridurre la necessità di un
trattamento chirurgico in pazienti con ureterocele ectopico.
Pazienti e metodi
Abbiamo rivalutato retrospettivamente i dati clinici di 24 pazienti con diagnosi di ureterocele giunti
alla nostra osservazione negli ultimi 7 anni (1998- 2007). Di questi 24 sono stati considerati soltanto i 15
sottoposti a puntura endoscopica dell’ureterocele. L’età media era di 3 mesi (range 4 giorni- 10 mesi) I
pazienti sono stati raggruppati in base all’ anatomia, modalità di presentazione, associazione con RVU.
Risultati
7 pazienti (46,5%) hanno ricevuto il solo trattamento endoscopico ed 1 di questi ha necessitato di un
second- look. In 8 pazienti è stata praticata una procedura di chirurgia open: in 7 total reconstructive
bladder surgery ed in un caso una nefrectomia. In 2 casi persisteva un RVU monolaterale (di I e III grado)
e sono stati trattati con la sola profilassi antibiotica.
Conclusioni
La puntura endoscopica dell’ureterocele è una procedura semplice, efficace e sicura in molti casi consente
di ridurre le indicazioni all’intervento chirurgico e di migliorarne la prognosi
Introduzione
Il termine ureterocele, utilizzato per la prima volta da Leshnew nel 1912, descrive una dilatazione cistica
dell’ uretere intravescicale.
Ericsson nel 1954 proponeva la prima classificazione degli ureteroceli dividendoli in “semplici” ed “
ectopici”. I primi erano contenuti completamente all’ interno della vescica i secondi si estendevano al
collo vescicale e nell’ uretra. In base a questa classificazione la Commitee on Terminology of the Urologic
section of the American Academy of Pediatrics proponeva la seguente nomenclatura: per gli ureteroceli
completamente contenuti in vescica “ ortotopici o intravescicali”, per quelli che presentavano una porzione
permanentemente al di fuori della vescica “ ectopici”1. Nel 1971 Stephens2 classificava gli ureteroceli
associati a duplicazioni ureterali secondo la posizioni o la presenza di ostruzione intrinseca dell’ orifizio
ureterale in:
Intravescicale:
stenotico
non ostruttivo
Extravescicale
sfinterico
sfinterostenotico
caecoureterocele
L’ incidenza varia tra 1/ 4000 ed 1 / 15000 3,4 ed è più frequente nel sesso femminile.
Nell’ 80% dei casi l’ ureterocele, si associa ad una duplicazione ureterale completa, interessando il distretto
superiore5.
Nel sesso femminile il 95% dei casi è associato a doppio distretto renale mentre nel sesso maschile il 66%
si associa a distretto unico.
Il riscontro dell’ ureterocele può verificarsi in uno o più dei modi seguenti:
PREMI
194 XII PREMIO DI STUDIO - CITTÀ DI AVERSA
Dilatazione dell’ uretere intravescicale dovuta ad ostruzione
Displasia renale o nefropatia ostruttiva riguardante il polo superiore od il rene affetto
RVU nell’ emidistretto inferiore ipsilaterale o nell’ uretere controlaterale (rispettivamente nel 50% e 25%
del casi)7
Ostruzione dell’ emirene inferiore o controlaterale dovuto ad una voluminosa sacca ureterocelica
Difficoltà o completa ostruzione allo svuotamento vescicale per prolasso dell’ ureterocele
Nei casi di doppio distretto la percentuale di displasia del distretto superiore varia tra il 43 ed il 73% e nel
20% dei casi si tratta di displasia di grado severo8.
Il numero dei neonati con diagnosi prenatale di ureterocele si è incrementato dal 2 al 28% negli ultimi 20
anni9 e la diagnosi di ureterocele riguarda il 15% di tutte le diagnosi di duplicazione renale.
Dopo la nascita l’infezione delle vie urinarie rappresenta la più frequente forma di presentazione in
entrambi i sessi. Nelle femmine la presenza di una massa protrudente interlabiale e l’ ostruzione uretrale
acuta rappresentano un’ altra modalità di presentazione in caso di ureterocele prolassato, più raramente
nei maschietti.
Scopo degli esami strumentali è quello di:
identificare l’ ureterocele, definirne la sede, valutare lo stato dei distretti ipsilaterali ed il rene controlaterale
e le condizione della vescica.
identificare la presenza di RVU e/o malformazioni controlaterali
valutare la presenza di difficoltà o ostruzione allo svuotamento vescicale.
Il work- up diagnostico si avvale dell’ ultrasonografia, della cistografia e della scintigrafia renale.
L’ urografia endovenosa è stata per anni considerata il gold standard diagnostico ed oggi, meno utilizzata,
ha lasciato spazio ad indagini quali l’ uro- RMN, soprattutto in casi di diagnosi dubbia.
Scopo del trattamento è quello di:
preservare al massimo la funzionalità renale, provvedendo ad un corretto drenaggio delle urine dall’
uretere in vescica, eliminando ogni possibile causa di infezione.
Trattamento del RVU
Prevenzione e trattamento dell’ ostruzione allo svuotamento vescicale
Preservazione della continenza
Prevenzione e trattamento di ogni difetto della parete vescicale (diverticoli, alterato rilasciamento
detrusoriale).
Le differenti strategie chirurgiche mirano ad ottenere i precedenti risultati con la minima morbidità per
il paziente.
L’ ureterocele può essere trattato mediante:
Incisione o Puntura endoscopica.
Eminefrectomia
Completa asportazione della sacca ureterocelica e reimpianti ureterale.
Terapia conservativa
Pertanto, i fattori che influenzano la scelta del trattamento sono:
Tipo di presentazione (prenatale o sintomatici)
Età del paziente
Tipo di ureterocele (ectopico o intravescicale)
Funzionalità renale
Presenza di RVU ed IVU
Obiettivo
Valutare l’efficacia a lungo termine del trattamento endoscopico (puntura) nel ridurre la necessità di un
trattamento chirurgico in pazienti con ureterocele ectopico.
PREMI
XII PREMIO DI STUDIO - CITTÀ DI AVERSA
195
Materiali e metodi
Da gennaio 1998 a gennaio 2007 sono stati osservati presso la nostra struttura 24 pazienti affetti da
ureterocele ectopico. La nostra attenzione è stata rivolta in questo studio retrospettivo ai pazienti, 15
(8 femmine e 7 maschi), sottoposti a puntura primaria endoscopica dell’ ureterocele al fine di valutare
la reale efficacia di questa procedura nel ridurre le indicazioni al trattamento chirurgico o migliorarne la
prognosi.
I pazienti sono stati raggruppati in base all’anatomia (singolo o doppio distretto), modalità di presentazione,
dividendoli in asintomatici (solo diagnosi prenatale) e sintomatici (dolore o infezione), associazione con
RVU e in caso di doppio distretto numero di unità refluenti in base al reperto cistografico. Inoltre veniva
considerata la comparsa di RVU dopo puntura endoscopica.
Risultati
L’ età media al momento della procedura era di 3 mesi (range 4 giorni- 10 mesi).
In 6 pazienti (40%) era stata posta un sospetto diagnostico all’ ecografia prenatale, in 7 (46,6%) in corso di
screening neonatale per dilatazione pielica, in 2 (13,3%) in seguito ad infezione delle vie urinarie.
In tutti i pazienti era stata eseguita prima del trattamento endoscopico una cistouretrografia minzionale che
mostrava presenza di RVU in 6 pazienti (40%) ed in 2 (13,3%) di questi era presente RVU bilateralmente.
In 11 pazienti (73,3%) l’ ureterocele si associava ad un doppio distretto renale, in 4 (26,7%) a distretto
renale unico.
Il range di follow- up variava dai 6 mesi ai 9 anni.
In 7 pazienti (46,5%) è stata sufficiente la sola puntura endoscopica, in uno di questi è stata eseguita a
distanza di 3 mesi un second look.
In 8 casi (53,3%), invece, dopo puntura endoscopica si è reso necessario un intervento chirurgico e
precisamente: in 7 ureterocelectomia e reimpianto ureterale (in un solo caso rimodellamento ureterale)
ed in 1 caso una nefrectomia totale in paziente con rene muto alla scintigrafia.
In 2 casi (13,3%) persisteva un RVU monolaterale, rispettivamente di I e II grado. I pazienti sono stati
seguiti clinicamente, con antibiotico-profilassi per 6 mesi, senza infezioni documentate. Entrambi i
pazienti risultano ad oggi guariti.
Discussione
Ancora oggi non esiste un consenso unico sul trattamento dei pazienti con ureterocele ectopico. La
puntura endoscopica rappresenta in accordo con i dati riportati in letteratura, il trattamento iniziale e
in alcuni casi definitivo. Scopo del trattamento è quello di preservare la funzionalità renale, prevenire le
infezioni e mantenere la continenza riducendo al minimo le procedure potenzialmente lesive.
L’incisione endoscopica dell’ureterocele è stata proposta perla prima volta da Tank11e più recentemente
modificata da Monfort12; normalmente viene utilizzata come procedura in elezione, può rappresentare
talvolta il trattamento di scelta anche in emergenza in caso di: IVU, insufficienza renale o prolasso che
determini ostruzione allo svuotamento vescicale. Ad ogni età il trattamento endoscopico ha il vantaggio
di essere una procedura semplice, veloce, non invasiva, che richiede una minima degenza ospedaliera.
Consente, inoltre, di ridurre il rischio di ostruzione, permettendo una migliore valutazione renale o
dell’emirene coinvolto, e di migliorare la prognosi in caso di trattamento chirurgico.
Il trattamento endoscopico nell’ureterocele ectopico poiché raramente questo rappresenta un trattamento
definitivo. La necessità di un intervento chirurgico secondario dopo trattamento endoscopico varia in
letteratura dal 48 al 100%.14.
La presenza di reflusso e duplicazioni sono tutti fattori che concorrono ad un alto tasso di reintervento
dopo trattamento endoscopico nell’ureterocele ectopico. Riguardo la possibilità della comparsa di un
RVU secondario alla procedura endoscopica, a livello dell’ uretere corrispondente, un attento controllo
delle dimensioni e la sede della puntura è estremamente importante. L’ureterocele dovrebbe infatti
essere punto in una singola volta alla base della cisti in posizione quanto più distale e laterale possibile
al fine di evitare danni all’orifizio ureterale e ridurre il rischio di un conseguente reflusso. Per quanto sia
PREMI
196 XII PREMIO DI STUDIO - CITTÀ DI AVERSA
discutibile il ruolo del trattamento endoscopico nel miglioramento della funzione renale, che nella nostra
casistica è risultata notevolmente peggiorata in un solo caso tale da programmare una nefrectomia, va
sottolineato il ruolo importante che esso riveste nel miglioramento della prognosi in pazienti sottoposti
successivamente ad una procedura open. Il trattamento endoscopico, in particolare la puntura consente
infatti di ridurre la stasi e di conseguenza la dilatazione dell’ uretere coinvolto, riducendo così la possibilità
di rimodellamento dell’ uretere, che è stato effettuato in un solo caso nella nostra serie, e rendendo più
semplice la fase reimpianto ureterale.
Conclusioni
La puntura endoscopica rappresenta una procedura semplice, efficace e sicura, che consente di ridurre
le indicazioni all’intervento chirurgico in circa il 50% dei casi secondo la nostra esperienza ed in caso di
procedure chirurgiche di semplificarne l’esecuzione e migliorarne la prognosi.
Bibliografia
1. Glassemberg KI, Braren V, Duckett JW et all: suggested terminology for duplex system, ectopic ureter and
ureteroceles. Report of Commitee on Terminology, Nomenclature and Classification. American Academy of
Pediatrics. J Urol 1984; 132: 1153.
2. Stephens FD: Caecoureterocele and concepts on the embryology and etiology of ureteroceles. Aust NZ j Surg
1971; 40: 257
3. Campbell M: Ureterocele: a study of 94 instances in 80 infant and children. Surg Gynecol Obstetr 1951; 93:
705
4. Malek RS, Kelalis PP, Sticker GB et al. (1972) Observations on ureteral ectopy in children. J Urol 107:308–311
5. Coplen D, Duckett JW (1995) The modern approach to ureteroceles.J Urol 153:169
6. Gonzales ETJr (1992) Anomalies of renal pelvis and ureter. In: Kelalis P, King LR, Belman AB (eds) Clinical
pediatric urology, 3rd edn. W.B. Saunders, Philadelphia, pp 531–579
7. Caldamone AA, Snyder HM, Duckett JW (1984) Ureteroceles in children: follow up of management with upper
tract approach. J Urol 131:1130–1132
8. Bolduc S, Upadhyay J,Sherman C,Farhat W et al. (2002) Histology of upper pole is unaffected by prenatal
diagnosis in duplex system ureteroceles. J Urol 168:1123–1126
9. Blyth B, Passerini Glazel G, Camuffo C et al. (1993) Endoscopic incision of ureteroceles: intravesical versus
ectopic. J Urol 149:556–560
10. Bolduc S, Upaldyay J et al. The predictive value of diagnostic imaging for histological lesions of the upper
pole in duplex system with uretrocele. BJU Int. 2003, 91: 678.
11. Thank ES: Experience with endoscopic incision and open unroofing ureteroceles. J. Urol 1986; 136: 242
12. Monfort G, Morisson-Lacombe G, Coquette M. Endoscopic treatment of ureterocele revisitated. J. Urol 1985;
133: 1031
13. Shokeir AA, Nijjman RJM: Ureterocele: an ongoing challenge in infancy and childhood. BJU 2002; 90: 777
14. Cooper Cs, Passerini-Glazel G, Et All: Long-Term Followup Of Endoscopic Incision Of Ureterocele
PREMI
XII PREMIO DI STUDIO - CITTÀ DI AVERSA
197
IGA NEPHROPATHY
F. Tammaro
Scuola di Specializzazione in Pediatria I, Dipartimento di Biomedicina dell’età evolutiva, Università degli
Studi di Bari
Abstract
We report the case of a male patient who developed, after a febrile upper respiratory tract infection arised
three weeks before, acute renal failure. Renal biopsy was performed, showing a diffuse interstitial edema,
acute tubular necrosis, tubular obstruction and infrequent crescents. Immunofluorescence showed
IgA mesangium deposits. The useful finding of the case described, is, in our opinion, in confirming the
high variability of the clinical presentation of IgA nephropathy and the importance of renal biopsy in
distinguishing between tubular damage, usually associated to a spontaneous recovery of renal function,
and rapidly progressive glomerulonephritis, characterized, instead, by a irreversible impairment of renal
activity, especially in order to choose the more adequate therapy.
Case report
A 14-year-old American boy was admitted to our hospital because of a significantly asthenia and “tea
colored” urine. His past medical history was mute; family history was positive for kidney stones. He
reported that approximately three weeks before, he developed a febrile upper respiratory tract infection,
than, two weeks later he presented with gross hematuria, anorexia, nausea, malaise and abdominal
pain. At the admission to our department physical examination revealed a well developed and well
nourished male in no apparent distress with normal blood pressure (110/60 mmHg); he only presented
with pharyngitis and purulent spots on right tonsil. No periorbital or generalized edema were detected.
Laboratory investigations showed increased blood urea nitrogen (65 mg/dl v.n. 7-40 mg/dl), serum
creatinine levels (2, 5 mg/dl, v.n 0, 8-1, 3 mg/dl) and inflammatory markers (ESR 37 mm/h, RCP 2, 35 mg/
dl v.n. 0, 8-11, 2 mg/l), hypertriglyceridemia and hypercholesterolemia. C3, C4, IgG, IgM, IgA serum levels
were normal. Urinalysis was characterized by foam aspect, revealing the presence of glomerular hematuria
and leucocituria; at the beginning no proteinuria was detected but subsequently it appeared (3, 7gr/24h).
Ultrasound examination showed normal renal sizes and structure with cortical hyperechogenicity. During
hospitalization his urine output was normal (2000-2500 ml/die), gross hematuria persisted approximately
for ten days such as proteinuria. So that renal biopsy was performed; light microscopy revealed a diffuse
interstitial edema with mesangial hypercellularity, acute tubular necrosis, tubular obstruction and
infrequent crescents. Immunofluorescence showed IgA mesangium deposits. So he was started on
high dose of prednisone 60 mg b.i.d., Ramipril 2, 5 mg p.o. daily, Eskimo 1000 mg p.o. daily, as well as
omeprazole 1 capsule daily. Since that time he has been steadily weaned down on his prednisone, and he
is currently taking 6, 5 mg every other day. Now his renal function is normal (cretinine 0, 9 mg/dl) such as
protein to creatinine ratio (0, 04), he also denies any lower back pain nor other episodes of dark urine.
Discussion
IgA nephropathy is an immunologically mediated glomerulonephritis with variable histological
findings that range from minimal mesangial hypercellularity or matrix expansion to diffuse proliferative
glomerulonephritis with cortical tubular atrophy or loss (1). Definitive diagnosis of IgA nephropathy
consists on the demonstration of IgA deposition in the glomerular mesangium, even if it is possible
detecting a variety of other immunoglobulins and complement, including IgG, IgM and C3. Clinical
presentation (2) is mostly characterized (40-50%) by recurrent episode of gross hematuria concomitant
with upper respiratory infections or other mucosal inflammatory processes; it rarely occurs after
vaccination or heavy physical exercise (3); in other patients (30-50%) asynthomatic hematuria with or
without proteinuria are the only signs. Nephrotic syndrome is unusual (6%) such as a nephritic syndrome
(5%) progressing to chronic renal failure due to the presence of crescentic lesions. Approximately 10%
to 20% of patients with IgA nephropathy present with estabilished chronic renal failure, perhaps only
PREMI
198 XII PREMIO DI STUDIO - CITTÀ DI AVERSA
because they did not come early to medical attention. Few patients (5%), moreover, can develop acute
renal failure during severe episodes of macrohematuria (1); so that it’s mandatory for the physician
distinguishing between two clinical settings: acute renal failure dued to tubular obstruction (usually
reversible) from that one caused by rapidly progressive glomerulonephritis with severe crescentic lesions.
Therefore acute renal failure without a rapid recovery of renal function require renal biopsy for obtaining
a correct diagnosis. The useful finding of the case described, is, in our opinion, in confirming the high
variability of the clinical presentation of IgA nephropathy (4), underling the close relationship between the
severity of tubulointerstitial damage and renal prognosis (5). On the basis of the histological examination
performed, infact, it seemed unlikely that the scant glomerular abnormalities found could fully explain
the severity of the clinical course of our patient, so it was reasonable thinking that the real cause of acute
renal failure was the acute tubular necrosis, so predominantely present. It’s possible understanding a
such severe tubular involvement only having knowledge of pathogenetic mechanisms. The interaction
with mesangial cells is the cause of cellular activation consisting in the acquisition of a proinflammatory
and profibrotic phenotype and in a secretory or synthetic activity (2); the latter feature regards especially
the production of PDGF (6), which seems to have a particularly important role in mesangial proliferation,
and TGFβ, involved in matrix accumulation and fibrosis (7). The activation of mesangial cells leads to
cell contraction, hemodynamic modifications and activation of the rennin-angiotensin system (RAS) (8).
Angiotensin II enhances the activation of cytokines and chemochine and potentiates the action of PDGF
and TGFβ as grow and profibrotic factors for mesangial cells, favouring proliferation and accumulation of
extracellular matrix. From this point on, it is unclear which is the link between IgA mesangial deposition
and tubulointerstitial injury. Lupo et al (9; 10) advocated disorders in in glomerular hemodynamics and
microcirculation. An important role is attributed to RBC casts either for intratubular obstruction or a direct
toxic effect on the tubular epithelial cells. Praga et al (11; 10) infact underlined the possible nephrotoxicity
of haemoglobin’s iron contained in RBC casts of obstructed tubule, which may promote free radicals
formation (12), which in turn cause lipid peroxidation, destruction of cell membrane, shedding of the
proximal tubule brush border, mislocalisation of adhesion molecules and other membrane proteins
such as the sodium/potassium ATPase, oxidative DNA damage and finally loss of cell viability, either via
necrotic or apoptotic pathways (13). An other interesting hypothesis on pathogenetic mechanisms of
tubulointerstitial injury in IgA nephropathy has been formulated by L.Y.Y. Chan et al (5), who showed that
beyond classical mechanisms implicated (monocyte/macrophage infiltration and release of inflammatory
mediators, proteinuria; direct toxic effect following tubular binding of IgA) it’s possible to speculate of a sort
of “tubuloglomerular crosstalk” via humoral factors released from mesangial cells and activating tubular
epithelial ones, which in turn may amplify the inflammatory cascade by local production of chemotactic
mediators promoting a positive feedback loop that leads to the overproduction of extracellular matrix
components, fibrosis and finally loss of renal function. This discussion, therefore, suggests that the
diagnosis of acute tubular necrosis should be systematically considered (14) in any patient who develops
acute renal failure soon after a haematuric episode; so that renal biopsy it’s mandatory to distinguish
between tubular damage, usually associated to a spontaneous recovery of renal function, and rapidly
progressive glomerulonephritis, characterized, instead, by a irreversible impairment of renal activity,
especially in order to choose the more adequate therapy, renal replacement therapy in the former,
immunosuppressive in the latter.
In conclusion, until now, there has been no unique treatment for IgA nephropathy, just because the several
pathogenetic mechanisms involved. Surely the main goal is reducing its progression towards end stage
renal disease, so that, our attention has to be focused not only on typical crescentic glomerular lesions
but also on tubulointerstitium involvement, because of its active role in orchestrating the inflammatory
cascade.
PREMI
XII PREMIO DI STUDIO - CITTÀ DI AVERSA
199
References
1. Haas M: Histological subclassification of IgA nephropathy: a clinico-pathologic study of 244 cases, Am J
Kidney Dis 29:829-42, 1997
2. Floege J: IgA nephropathy: recents developments, J Am Soc Nephrol 11: 2395-2403, 2000
3. Geary D: Comprehensive pediatric nephrology, Mosby Elsevier, 2008
4. D’Amico: Natural history of idiopatic IgA nephropathy, Am J Kidney Dis 36: (2), 227-37, 2000
5. LYY Chan: Novel mechanism of tubulointerstitial injury in IgA nephropathy: a new therapeutic paradigm in
the prevention of pregressive renal failure, Clin Exp Nephrol 8: 297-303, 2004
6. Floege J: Multiple role for PDGF in renal disease, Miner Electrolyte Metab 21:271-282, 1995
7. Peters H: TGFB in human glomerular injury, Curr Opin Nephrol Hypertens 6: 389-393, 1997
8. Coppo R: Angiotensin II local hyperreactivity in the progression of IgA nephropathy, Am J Kidney Dis, 21 (6)
593-602, 1993
9. Lupo A: Acute changes in renal function in IgA nephropathy, Semin Nephrol; 7: 359-362, 1987
10. Feith: Acute renal failure in patients with glomerular diseases: a consequence of tubular cell damage caused
by haematuria?, Neth J Med, 61 (4): 146-150, 2003.
11. Praga M: Acute worsening of renal function during episodes of macroscopic hematuria in IgA nephropathy,
Kidney Int, 28: 69-74, 1985
12. Noiri: Oxidative and nitrosative stress in acute renal failure, Am J Physiol Renal Physiol, 281(5): F948-F957,
2001
13. Lameire N, Acute renal failure, Lancet, 365 (9457): 417-30, 2005
14. Declaux, Acute reversible renal failure with microscopic haematuria in IgA nephropathy, Nephrol Dial
Transplant 8: 195-199, 1993.
PREMI
200 XII PREMIO DI STUDIO - CITTÀ DI AVERSA
IL CICLO CARDIACO IN FASI DIFFERENTI DI CRESCITA:
STUDIO ECOCARDIOGRAFICO DI UNA POPOLAZIONE DI SANI
S. Caputo1, A.M. Basilicata2, G. Vetrano2, B. Villari1
1
2
U.O.C. di Cardiologia, UTIC, Emodinamica. Ospedale Fatebenefratelli, Benevento.
U.O.C. di Neonatologia, TIN, Pediatria. Ospedale Fatebenefratelli, Benevento.
Introduzione
Il cuore è una pompa muscolare la cui attività è organizzata in una successione di cicli, ognuno dei quali
è costituito da sei fasi, di cui due sistoliche (contrazione isovolumetrica, periodo eiettivo) e quattro
diastoliche (rilasciamento isovolumetrico, riempimento ventricolare precoce, diastasi, sistole atriale).
In particolare, il riempimento ventricolare, successivo alla decontrazione isovolumetrica, può essere
considerato come organizzato in una fase “non atriale” (riempimento precoce + diastasi) e in una fase
“atriale” (sistole atriale). Ad ogni ciclo, mediante variazioni cicliche della pressione e del volume intraventricolari, il ventricolo (sinistro o destro) espelle (rispettivamente in aorta o in arteria polmonare) una
quota di sangue definita gittata sistolica. È ben noto che la durata dei cicli cardiaci (frequenza cardiaca) si
modifica in maniera significativa in età differenti di crescita di un individuo, ma non è ancora ben definito
l’adattamentoi sisto-diastolico ventricolare durante la crescita.
Lo studio dei soggetti sani di età differente consente di definire l’adattamento funzionale del ventricolo
nella crescita. In particolare, la definizione delle fasi del ciclo cardiaco rappresenta una stima delle
condizioni funzionali del miocardio ed è condizione necessaria per lo studio degli effetti dei determinanti
del ciclo cardiaco (pre-carico, post-carico, contrattilità, frequenza cardiaca, massa miocardica, geometrica
ventricolare) sullo stesso.
L’ecocardiografia (in particolare con tecnica Doppler) consente di studiare in maniera agevole le fasi che
compongono un ciclo cardiaco ventricolare sinistro, mentre è più complessa un’analisi ecocardiografica
del ciclo ventricolare destro.
Scopo dello studio
Valutare il ciclo cardiaco ventricolare sinistro in soggetti sani di differente età.
Metodi
Da Maggio a Settembre 2008, sono afferiti al nostro ambulatorio di ecocardiografia pediatrica 288 pazienti.
Sono stati reclutati 78 soggetti (48M/30F) sani consecutivi che, in relazione ad età e peso corporeo, sono
stati distinti in cinque gruppi.
Criteri di inclusione erano l’assenza di anomalie ecocardiografiche, un ritmo cardiaco regolare in assenza
di extrasistoli, l’assenza di patologie sistemiche.
Tutti i soggetti sono stati sottoposti ad esame ecocardiografico Doppler per la definizione dell’anatomia
e della funzione cardiaca. Tutti gli esami ecocardiografici sono stati effettuati da un singolo operatore
(CS). La visualizzazione Doppler di un ciclo cardiaco è stata ottenuta da una proiezione quattro camere
modificata per leggermente anteriorizzazione della sonda, posizionando il “campione” del Doppler
pulsato tra il lembo mediale della mitrale e il setto interventricolare.
La durata di ogni singola fase del ciclo cardiaco è stata considerata come valore assoluto e come valore
percentuale del ciclo, così da rendere possibile il confronto tra soggetti con frequenza cardica differente.
L’analisi statistica è stata effettuata mediante SPSS (Statistical Package for Social Sciences, rel 10.1; SPSS
Inc., 444 North Michigan Avenue, Chicago, IL 60611, USA). I dati continui sono stati espressi come media
(SD). La differenza tra valori medi è stata definita mediante il test t di Student a due code per dati non
appaiati. I dati qualitativi sono stati espressi come percentuali. È stato considerato statisticamente
significativo un valore di P inferiore a 0,05.
PREMI
XII PREMIO DI STUDIO - CITTÀ DI AVERSA
201
Risultati
Le caratteristiche generali dell’intera popolazione di studio e dei 5 sottogruppi sono riassunte nella
Tabella 1. i neonati, in relazione al peso corporeo, sono stati assegnati al gruppo A (peso inferiroe a 2Kg)
o al gruppo B.
Le fasi del ciclo cardiaco e i parametri di flusso transmitralico nella popolazione studiata e nei cinque
sottogruppi sono riassunte nella Tabella 2a; la significatività statistica del confronto di questi parametri
tra i 5 sottogruppi è riassunta nella Tabella 2b.
PREMI
202 XII PREMIO DI STUDIO - CITTÀ DI AVERSA
Discussione
Questo è il primo studio che ha valutato con tecnica ecocardiografica il ciclo cardiaco in età differenti di
vita.
Il principale risultato del nostro studio è che a parità di durata del ciclo cardiaco (p=0.8486), la durata della
diastole “non-atriale” (tempo di rilasciamento isovolumetrico e diastasi) è significativamente inferiore
nel neonato con peso inferiore a 2Kg rispetto al neonato con peso medio di 3.30±0.57Kg (p=0.0390).
La durata della diastole “non atriale” aumenta progressivamente negli anni, raddoppiando nei bambini
di età superiore ai tre anni (25.09±4.89 nei neonati del gruppo B; 35.89±8.55 nei bambini del gruppo E;
p=0,0294). I nostri dati suggeriscono che il miocardio ventricolare modifica progressivamente le proprie
caratteristiche funzionali ed è probabile che questo sia conseguente a modifiche funzionali sistemiche
(stato autonomico, fattori ormonali, etc) e a modifiche anatomiche cardiache (in particolare della
componente interstiziale). Nel tempo, il ventricolo utilizza meglio la diastole e si rende progressivamente
meno dipendente dall’attività atriale.
Questo è confermato anche dal progressivo aumento del rapporto E/A che equivale ad un riempimento
precoce progressivamente più rapido del ventricolo sinistro del bambino con età superiore ai tre anni
rispetto al bambino di pochi mesi di vita e di questo rispetto al neonato.
La definizione dello stato funzionale miocardico è utile non solo per conoscere le modalità di adattamento
con l’età ma anche per avere valori di riferimento da utilizzare per la definzione dei carichi imposti da
differenti cardiopatie congenite.
Study limitation
Nel confronto tra i gruppi A, B, C le misure non sono influenzate dalla frequenza cardiaca (la durata del ciclo
cardiaco è sovrapponibile). Nel confronto tra i gruppi A, B, C e i gruppi D, E, potrebbe esserci un’influenza
PREMI
XII PREMIO DI STUDIO - CITTÀ DI AVERSA
203
della frequenza cardiaca. Considerando però che i risultati di confronto tra i gruppi A, B, C, con frequenza
cardiaca sovrapponibile, sono già significativi, possiamo ritenere che l’effetto della frequenza cardiaca
sulla fase diastolica del ventricolo dei gruppi D, E, sia solo parziale.
Non è stata valutata l’influenza dell’età gestazionale sulla funzione ventricolare del neonato sano (gruppi
A e B). Un futuro ampliamento del campione di studio consentirà di definire anche questo aspetto.
PREMI
204 XII PREMIO DI STUDIO - CITTÀ DI AVERSA
The Association between Obesity, Diabetes and Asthma in
Children
M.K. Perez
Department of Pediatrics West Virginia University School of Medicine
An epidemic rise in overweight has occurred concurrently with a rise in diabetes and asthma nationally
and internationally (National Center for Health Statistics, 1999; World Health Organization, 1998). At
present, more than 9 million children over 6 years of age are said to be obese, and about 154, 000 children
and adolescents in the United States have diabetes [1]. Additionally, 4 million children up to 14 years of
age have asthma symptoms [2], the prevalence of which has been increasing steadily. Over the past two
decades, these rates have more than doubled leading many to speculate about potential connections
between these health concerns. However, the relationship between obesity, diabetes and asthma is not
as clearly defined and understood among children as it is for adults [3]. Epidemiologic studies on large
samples of children and adolescents have provided evidence that an association exists, but only among
girls and certain age groups. Other studies have demonstrated no relationship between obesity and
asthma.
Studies based on adult samples have shown that individuals’ weight status, measured by BMI, contributes
to a “chronic state of inflammation”. Because of this systemic inflammatory status, overweight individuals
may become vulnerable to other health problems such as heart disease, diabetes and asthma. These
findings imply the possibility of intervening more effectively on the multiple health problems related to
obesity by better understanding and addressing the deleterious effects of chronic inflammation. While
research on adult obesity has progressed over the past decade, studies examining childhood obesity
and its relationship to other health problems, such as diabetes and asthma, remain limited in number
and comprehensiveness. This is unfortunate in light of the steadily increasing rates of childhood obesity,
type-2 diabetes, and asthma over the last decades.
Childhood obesity and chronic diseases - Obesity has in general a substantial effect on heart disease
risks, and childhood obesity in particular is directly linked to several adult cardiovascular risk factors
including hypertension, dyslipidemia, and hyperinsulinemia [4, 5]. Our own work has shown that 10.6%
of fifth graders in West Virginia have two or more of the following cardiovascular risk factors: systemic
hypertension (systolic and diastolic ≥ 95th percentile), elevated triglycerides (> 120 mg/dl) or total
cholesterol (> 200 mg/dl), low HDL (< 40 mg/dl), and a strong family history of high cholesterol, premature
heart disease, or diabetes [6].
Obese children have also been shown to have a higher prevalence of impaired glucose tolerance, insulin
resistance, and type-2 diabetes [1]. Sinha and colleagues demonstrated that impaired glucose tolerance
could later develop into overt diabetes among their subjects [7]. While the authors rejected obesity as a
significant risk factor for glucose intolerance, certain limitations of their sample have been noted calling
these results into question. Specifically, the authors only examined the relationship between obesity and
type-2 diabetes among obese children (≥ 95th BMI percentile). In contrast, Sinaiko and colleagues have
reported a significant association between BMI and insulin resistance based on a sample with broader
range of adiposity [8].
Growing evidence also suggests that childhood obesity may contribute to the development of childhood
asthma through non-allergic pathways [9-13] and several studies have demonstrated a multidirectional
association between obesity and asthma in childhood. Obesity is more common among children with
asthma [10, 11, 13] and increasing new cases of asthma are diagnosed among obese children [2, 10, 14].
Obesity and type-2 diabetes: the role of inflammation - With obese children being five times more likely to
develop early onset type-2 diabetes, researchers have attempted to better understand the mechanisms
underlying this connection [15]. Study samples thus far have been limited to North America and to small
tribal groups who have historical data on children over a significant period of time [15-18]. Overall, the
PREMI
XII PREMIO DI STUDIO - CITTÀ DI AVERSA
205
mechanism by which obesity might be related to type-2 diabetes is unknown [19], but several studies
have shown an association between obesity and abnormal glucose and insulin levels [15].
While the information on the prevalence of glucose intolerance and insulin resistance is limited among
children [4], much more data are available in adults [20]. Investigators using both in vivo and in vitro
models of obesity have argued that obesity creates a chain of events within the body that separately inhibit
insulin production and/or glucose absorption. Molecular studies focusing on the role of inflammation in
this process have linked the synthesis of specific inflammatory mediators to the peroxisome proliferatoractivated receptors (PPARs). PPARs exist in three forms, one of which (PPAR◊) controls the expression of
specific target genes involved in a series of intercellular processes, ranging from inflammation to lipid
metabolism (see Figure 1).
Figure 1: PPAR forms and roles in the regulation of lipid metabolism and inflammation
In particular, PPAR◊ has an immunosuppressive effect associated with prolonged inflammatory responses
in animal models. This inhibitory effect has not only been found among individuals who have a genetic
predisposition to type-2 diabetes, but also among those who are healthy carriers of the PPAR gene.
Obesity and asthma: the role of inflammation - The epidemiologic association between obesity and asthma
has promoted the investigation of a number of potential mechanisms involving a causal relationship
between abnormal body weight and airway obstruction [21]. One of the proposed pathways involves
the impact of obesity on local immuno-inflammatory responses in the respiratory tract. As noted earlier,
obesity is being described as a chronic inflammatory state, and there is a well documented associations
between weight and the expression of inflammatory biomarkers like tumor necrosis factor alpha (TNF-◊),
interleukin 6 (IL-6), and C-reactive protein (CRP) [22-26]. The same biomarkers are frequently elevated in
asthma, a disease characterized by chronic inflammation of the airways, which leads to mucosal edema
and bronchospasm with consequent airflow obstruction.
However, findings from previous studies conducted to examine differences in airway inflammation related
to the presence of obesity conflict with one another. Leung and colleagues assessed airway inflammation
in relation to children’s BMI by examining cytokine production [27], but did not find statistically significant
differences. The same group also investigated the association between obesity, exhaled nitric oxide
(FENO), and leukotriene B4 (LTB4) synthesis in a cross-sectional sample of children with asthma (n = 92)
and in healthy controls (n = 23), reporting increased FENO and LTB4 concentrations among asthmatics,
but no significant differences in inflammatory biomarkers between obese and non-obese children with
asthma.
PREMI
206 XII PREMIO DI STUDIO - CITTÀ DI AVERSA
References
1. Rocchini, A.P., Childhood obesity and a diabetes epidemic. N Engl J Med, 2002. 346(11): p. 854-5.
2. Gilliland, F.D., et al., Obesity and the risk of newly diagnosed asthma in school-age children. Am J Epidemiol,
2003. 158(5): p. 406-15.
3. Weiss, S.T. and S. Shore, Obesity and asthma: directions for research. Am J Respir Crit Care Med, 2004. 169(8):
p. 963-8.
4. Dietz, W., Health consequences of obesity in youth: Childhood predictors of adult disease. Pediatrics, 1998.
101: p. 518-525.
5. Freedman, D.S., et al., Relationship of childhood obesity to coronary heart disease risk factors in adulthood:
the Bogalusa Heart Study. Pediatrics, 2001. 108(3): p. 712-8.
6. Green C, C.L., Murphy E, Neal W, The use of the body mass index as a surrogate measure of cardiovascular risk
factor clustering in middle school West Virginia children: Results from the CARDIAC Project. World Journal of
Pediatrics, 2008. In review.
7. Sinha, R., et al., Prevalence of impaired glucose tolerance among children and adolescents with marked
obesity. N Engl J Med, 2002. 346(11): p. 802-10.
8. Sinaiko, A.R., et al., Insulin resistance syndrome in childhood: associations of the euglycemic insulin clamp
and fasting insulin with fatness and other risk factors. J Pediatr, 2001. 139(5): p. 700-7.
9. Camargo, C.A., Jr., et al., Prospective study of body mass index, weight change, and risk of adult-onset asthma
in women. Arch Intern Med, 1999. 159(21): p. 2582-8.
10. Figueroa-Munoz JI, C.S., Rona RJ, Association between obesity and asthma in 4-11 year old children in the
UK. Thorax, 2001. 56: p. 133-137.
11. Redd, S.C., Asthma in the United States: burden and current theories. Environ Health Perspect, 2002. 110
Suppl 4: p. 557-60.
12. Tantisira, K.G. and S.T. Weiss, Complex interactions in complex traits: obesity and asthma. Thorax, 2001. 56
Suppl 2: p. ii64-73.
13. von Mutius, E., et al., Relation of body mass index to asthma and atopy in children: the National Health and
Nutrition Examination Study III. Thorax, 2001. 56(11): p. 835-8.
14. Castro-Rodriguez JA, H.C., Morgan WJ, et al., Increased incidence of asthmalike symptoms in girls who
become overweight or obese during the school years. American Journal of Respiratory Critical Care Medicine,
2001. 163: p. 1344-1349.
15. Young, T., Obesity among aboriginal peoples in North America: Epidemiological patterns, risk factors and
metabolic consequences, in Progress in obesity research, A.C. Angel A, Bouchard C, Lau D, Leiter L, Mandelson
R, Editor. 1996, John Libbey: London. p. 337-342.
16. Harrison GG, R.C., Obesity among North American Indians, in Obesity, B.B. Bjorntorp P, Editor. 1992, JB
Lippincott: Philadelphia. p. 610-618.
17. Hauck, F.R., et al., Trends in anthropometric measurements among Mescalero Apache Indian preschool
children. 1968 through 1988. Am J Dis Child, 1992. 146(10): p. 1194-8.
18. Jackson, M., Height, weight, and body mass index of American Indian school children, 1990-1991. Journal of
the American Dietetic Association, 1993. 93: p. 1136-1140.
19. Wang, G. and W.H. Dietz, Economic burden of obesity in youths aged 6 to 17 years: 1979-1999. Pediatrics,
2002. 109(5): p. E81-1.
20. Caprio, S., et al., Central adiposity and its metabolic correlates in obese adolescent girls. Am J Physiol, 1995.
269(1 Pt 1): p. E118-26.
PREMI
XII PREMIO DI STUDIO - CITTÀ DI AVERSA
207
21. Shaheen, S.O., Obesity and asthma: cause for concern? Clin Exp Allergy, 1999. 29(3): p. 291-3.
22. Bastard, J.P., et al., Evidence for a link between adipose tissue interleukin-6 content and serum C-reactive
protein concentrations in obese subjects. Circulation, 1999. 99(16): p. 2221-2.
23. Bunout D, M.C., Lopez M, et al., Interleukin 1 and tumor necrosis factor in obese alcoholics compared with
normal-weight patients. American Journal of Clinical Nutrition, 1996. 63: p. 373-376.
24. Hotamisligil, G.S., et al., Increased adipose tissue expression of tumor necrosis factor-alpha in human obesity
and insulin resistance. J Clin Invest, 1995. 95(5): p. 2409-15.
25. Visser, M., et al., Elevated C-reactive protein levels in overweight and obese adults. Jama, 1999. 282(22): p.
2131-5.
26. Visser, M., et al., Low-grade systemic inflammation in overweight children. Pediatrics, 2001. 107(1): p. E13.
27. Leung, T., Li CY, Lam CWK, Au CSS, Yung E, Chan IHS, Wong GWK, Fok TF, The relation between obesity and
asthmatic airway inflammation. Pediatric Allergy & Immunology, 2004. 15(4): p. 344-50.
VII PREMIO “FLORA SCIAUDONE”
Assegnazione del Premio "Flora Sciaudone" al dott. Roberto Trunfio
PREMI
VII PREMIO “FLORA SCIAUDONE” 209
INFEZIONI CONNATALI E DIAGNOSI TARDIVE O MISCONOSCIUTE NEL
NEONATO DI MADRE IMMIGRATA: UN PROBLEMA EMERGENTE NELLO
SCENARIO PEDIATRICO ITALIANO
R.Mormile¹, A. Orsini²
UOC di Pediatria e Neonatologia - P.O. San G. Moscati Aversa
A partire dagli anni’80 l’immigrazione in Italia è diventato un fenomeno consolidato. La spinta alla ricerca
di migliori condizioni di vita incrementano sempre più il numero di persone che lasciano il proprio paese
di origine per stabilirsi in una nazione economicamente più ricca. L’Italia lentamente si è trasformata in
una società multiculturale. Secondo la stima del Dossier Caritas/Migrantes gli immigrati in Italia erano
circa 3.690.000 alla fine del 2006 con una incidenza sulla popolazione totale del 6.2%. L’aumento degli
immigrati non è più determinato solo dai nuovi arrivi ma anche dalle nascite di figli di cittadini stranieri
in costante espansione. I neonati di madri immigrate rappresentano oramai il 10.3% del totale delle
nuove nascite. Sino a dieci anni fa in Italia il parto di una donna immigrata era un evento eccezionale,
oggi invece fa parte del quotidiano. Rumene, cinesi, africane, bengalesi, filippine fanno parte integrante
della realtà italiana. Le leggi italiane in tema di immigrazione hanno definito alcune garanzie in termini
di accesso ai diritti sociali e ai benefici del sistema di welfare. Attualmente in Italia le donne immigrate
con permesso di soggiorno hanno il diritto/dovere di iscriversi al SSN. Tuttavia anche a coloro che
presentano una condizione di irregolarità giuridica sono garantite le prestazioni urgenti in una logica
di tutela del singolo che diventa poi tutela della collettività. All’immigrazione è legata la recrudescenza
di malattie che si pensava oramai debellate nello scenario infettivologico italiano come la tubercolosi
e la lue; isolare tempestivamente il caso-indice significa curarlo impedendo che l’infezione si diffonda
nella collettività. Nonostante i minori e le donne godano di particolari garanzie come l’assistenza gratuita,
la popolazione delle donne immigrate in gravidanza resta un gruppo particolarmente vulnerabile per
l’estrema suscettibilità a fattori di rischio” ambientali” cui possono essere esposte sin dal periodo preconcezionale. La donna immigrata è più soggetta a complicanze in relazione alla scarsa conoscenza dei
percorsi sanitari e ad un ridotto accesso ai servizi di supporto ostetrico-ginecologico spesso connessi al
disagio interculturale ancora vivo nella gran parte delle regioni italiane. Esse presentano una incidenza
significativamente più elevata di infezioni come epatite B, HIV, Lue, Tubercolosi, CMV con inevitabili danni
sul prodotto del concepimento. Spesso tali malattie non sono diagnosticate nel neonato fatta eccezione
per l’epatite B, con perpetuazione del processo patologico. E’ stato riportato che il primo controllo in
gravidanza, laddove effettuato, viene generalmente effettuato da costoro dopo la 12 settimana. Nella
gran parte dei casi si registra la mancanza totale di una storia ostetrica e di controlli sia ematochimici che
strumentali per tutto il decorso della gravidanza. I neonati di madre immigrata mostrano una frequenza
più elevata di basso peso o di età gestazionale inferiore alle 37 settimane di gravidanza con una maggiore
morbosità e mortalità perinatale. Giocano certamente un ruolo i numerosi fattori di rischio materni
come infezioni dell’apparato genito-urinario, anemia, maggior numero di gestanti minorenni e ragazze
madri, basso reddito familiare, attività lavorativa meno garantita e più pesante, alimentazione incongrua,
carenti condizioni igieniche ed abitative, cure ostetriche e perinatali precarie o addirittura assenti. Alcune
infezioni connatali possono essere silenti alla nascita e restare così misconosciute nel neonato. E’ il caso
della la toxoplasmosi, delle infezioni da CMV, della lue, della TBC con gravi esiti a distanza sul neonato.
Bisognerebbe pertanto sottoporre ogni neonato di madre immigrata con gravidanza non controllata
ad un approfondimento labororatoristico e/o strumentale. Ogni neonato con evidenza di infezione
connotale dovrebbe essere reclutato per un follow-up a medio e lungo termine. Per una corretta gestione
del problema, ogni struttura dovrebbe fornirsi di traduttori ed interpreti, i cosiddetti mediatori culturali,
per facilitare il contatto tra operatori sanitari e popolazione straniera. E con tali figure si dovrebbero
organizzare incontri con le gravide per renderle esaustivamente edotte circa la necessità di indagini seriate
PREMI
210 VII PREMIO “FLORA SCIAUDONE”
nel corso della gestazione e alla possibilità di poterle eseguire gratuitamente presso i centri del SSN di
riferimento. A tal fine si dovrebbe costituire uno staff medico-infermieristico dedicato creando così una
continuità assistenziale con queste donne. Sarebbe auspicabile inserire il TORCH, il TPHA e/o la Mantoux
in ogni neonato di madre extra-comunitaria con gravidanza decorsa senza alcun indagine laboratoristicostrumentale e fattori di rischio concreti. Una diagnosi tempestiva può concretamente migliorare la vita
di un bambino nel rispetto del dettato costituzionale di tutela della salute come fondamentale diritto
dell’individuo salvaguarrdando anche l’interesse della collettività.
PREMI
VII PREMIO “FLORA SCIAUDONE” 211
L’ADOLESCENTE E IL RICOVERO IN OSPEDALE: ATTUALI
PROBLEMATICHE E FUTURE PROSPETTIVE (REQUISITI DI UNA UNITÀ
PER ADOLESCENTI)
A. Montano
U.OC. Pediatria e Nido Ospedale S.G.Melorio - S. Maria Capua Vetere
Prefazione
L’ospedalizzazione rappresenta per il paziente un “momento di crisi” indipendentemente dalla sua età.
Ma è nostra e comune esperienza che il ricovero di un Adolescente in Ospedale pone degli interrogativi
e fa nascere delle problematiche del tutto particolari, diverse, sia da quelle del bambino sia da quelle
dell’adulto direttamente correlabili all’età del paziente.
Ricoveri
Anche se gli Adolescenti di rado si ammalano seriamente, negli ultimi anni stiamo assistendo ad un
aumento degli accessi in Ospedale. Escludendo i pazienti affetti da “leucemie” o da altre patologie
oncologiche di cui si occupano centri specializzati, gli Adolescenti si ricoverano in Ospedale o per
malattie insorte durante l’infanzia e progredite fino all’adolescenza (malattie reumatiche, fibrosi cistiche,
diabete e altre malattie endocrine) o più spesso per “necessità di ordine chirurgico” ed eventi traumatici.
Il maggior grado di indipendenza dei giovani, la sempre più ampia libertà di movimento ha aumentato
notevolmente il numero degli incidenti e quindi dei ricoveri. L’anticipazione della maturazione biologica,
emotiva e sociale ha determinato una maggiore precocità delle esperienze sessuali favorendo la
diffusione dell’abuso di alcol e di droghe rendendo più freguanti i motivi psicogeni a volte essi stessi
cause di ricovero
Accettazione
Spesso i primi problemi insorgono gia al momento dell’accettazione. Ci si può trovare a dover gestire un
adolescente taciturno poco incline al colloquio o addirittura depresso. La procedura dell’accettazione
deve svolgersi in maniera semplice e diretta, cercando di valutare le modalità di percezione della malattia
da parte dell’adolescente, comprendendone la condizione di ansia per una patologia della quale non
afferra il meccanismo e la gravità e che lo preoccupa anche per i possibili effetti sul proprio aspetto
esteriore.
Degenza
Nel corso della degenza devono essere spiegate al giovane paziente le ragioni della sua ospedalizzazione,
le motivazioni per cui vengono effettuati gli esami e praticati i trattamenti riconoscendogli il diritto ad
una certa riservatezza. E’ importante che tutto il personale nei contatti con il paziente eviti qualunque
contraddizione e non faccia previsioni che possano risultare imprecise allo scopo di creare un rapporto
di fiducia e di buona volontà.
Requisiti di una Unità per Adolescenti
L’Ospedale riconosce all’adolescenza una sua importanza particolare non solo negli atteggiamenti emotivi
e nei contatti umani ma anche nella strutturazione ambientale. Molto si è discusso sull’opportunità di
creare Unità per Adolescenti che sorge per esigenze di età piuttosto che per un orientamento terapeutico
specialistico. D’altra parte non tutti gli Adolescenti possono essere ricoverati nello stesso Ospedale e non
ogni Ospedale può permettersi la creazione di un reparto riservato ad essi. Ciò nonostante l’Ospedale di
una piccola comunità in cui: l’utilizzazione statistica dei suoi posti letto, il maggior bisogno di spazio, i
costi non consentono la creazione di un reparto per Adolescenti potrebbe organizzare una piccolissima
sezione adiacente alla divisione di pediatria. In questo modo le camere possono essere occupate in
maniera elastica ma si eviterebbe comunque all’Adolescente l’assegnazione di un posto in compagnia di
un bambino che strilla in continuazione o di un adulto o peggio ancora di un anziano che mal tollera le
PREMI
212 VII PREMIO “FLORA SCIAUDONE”
sue abitudini.
Arredamento
E’ bene che la stanza contenga da due massimo a quattro letti, con un adeguato isolamento tra i letti allo
scopo di salvaguardare l’intimità e il pudore: l’Adolescente è particolarmente vulnerabile di fronte alla
violazione della sua intimità. La stanza deve essere dotata di un armadio o di un mobile in cui sistemare
i vestiti, i pigiami e la biancheria. Un tavolino da letto per gli hobbie la lettura o i compiti scolastici. Vale
la pena di soffermarsi su questo aspetto: le attività scolastiche, anche se spesso non lo denunciano
chiaramente, costituiscono una parte vitale per gli interessi dei giovani. La perdita delle ore di studio o
dei contatti con i compagni rappresentano un importante motivo di turbamento. Quando non è possibile
per il numero dei degenti o per i tempi di degenza troppo brevi isituire una cattedra di insegnamento
ospedaliero è bene incoraggiare i genitori a far pervenire al giovane paziente i libri e l’assegno scolastico
giornaliero.
Alimentazione
Compatibilmente con le restrizioni dietetiche imposte dal motivo del ricovero è bene che il menù sia
variato e gradevole e che allo scopo di stimolarne l’appetito sia consentito all’Adolescente una libera
scelta dei cibi
Attività ricreative
Fondamentale per l’Adolescente è la compagnia dei coetanei per ciò se lo spazio e i costi lo consentono
sarebbe auspicabile creare una sala di ricreazione fornita di un televisore, di tavoli da gioco, libri e riviste
per favorire le attività di gruppo. Questo ambiente che non richiede arredamenti sofisticati spesso lasciati
alla fantasia degli stessi ragazzi, deve essere ubicato in modo tale che i rumori e i suoni non disturbino gli
altri ricoverati.
Norme e Regolamenti
Per quel che riguarda le norme e i regolamenti del reparto bisogna tener presente che spesso
l’ospedalizzazione e la malattia determinano nell’Adolescente una sorta di regressione di tipo infantile
per cui essi spesso assumono un comportamento capriccioso e oppositorio nei confronti delle norme e
dei regolamenti ospedalieri. Spesso tali regolamenti mal si adattano alle abitudini che l’adolescente aveva
prima del ricovero in ospedale per cui sarebbe auspicabile, sia che esiste un reparto solo per Adolescenti,
sia che vengono ospitati in un reparto comune, che le norme da osservare vengano selezionate con cura,
limitate al minor numero possibile salvaguardando quelle veramente indispensabili al funzionamento
del reparto.
Conclusioni
Il trattamento ospedaliero degli adolescenti, sia che venga svolto in un reparto esclusivo, sia che venga
svolto in un reparto comune, deve andare oltre la sola terapia e deve sempre tener conto dei problemi
psicologici educativi e sociali che caratterizzano i pazienti di questa fascia di età. L’assistenza deve essere
svolta nel rispetto dei diritti dell’Adolescente per fare in modo che, una volta dimesso, sia che sia guarito,
sia che per sempre debba fare i conti con una malattia cronica, l’esperienza fatta in ospedale possa essere
ricordata dal giovane paziente come un momento di crescita emotiva facente parte del suo vissuto.
Bibliografia
1. Cassani e Andreani: Trattato di Endocrinologia
2. Bernasconi S. e Lughetti L.: Endocrinologia Pediatrica
3. La clinica pediatrica del Nord America vol. 6, n. 1
4. Society for Adolescent Medicine: Report of the Committee on Hospital Practie and Bed Care, 1971
PREMI
VII PREMIO “FLORA SCIAUDONE” 213
PROGETTO BENONE
Associazione Benone
I Laboratori e le attivita’
Le attività consisteranno in varie discipline di laboratorio strettamente collegate ad efficaci strategie di
comunicazione (proprie del progetto) miranti alla promozione ed alla divulgazione del Progetto Benone
stesso, in Italia ed all’ estero.
I laboratori incentrati su attività pratiche, formative e culturali saranno tenuti CON IL SUPPORTO
INDISPENSABILE DI UNA MASCHERA RAFFIGURANTE IL LEONE MEDICO, unica in Italia, alla stregua di
quella americana rappresentata, invece, dal clown, Dr. Patch Adams, non più per tre ore solo due volte a
settimana per 24 settimane ma quotidianamente, per 3 ore al giorno per tutto l’ anno e per i PROSSIMI
TRE ANNI.
Inoltre, sia i laboratori di socioanimazione che musicali, da quest’ anno, saranno realizzati IN CINQUE
POLI PEDIATRICI E NON PIU’ SOLTANTO IN DUE (come per la durata del progetto pilota) ovvero, presso il
I Policlinico di Napoli della Seconda Università, e presso gli Ospedali di Salerno, di Caserta, di Benevento
e di Avellino (o in alternativa ancora presso il Pausilipon ed il Cardarelli di Napoli), dei quali si allegano
adesioni.
Tutte le attività di socioanimazione e di educazione alla musica, INCENTRATE SULLA PRESENZA DELLA
MASCHERA (INDOSSATA DA UN MIMO) IN OGNUNO DEGLI OSPEDALI, saranno dirette e curate dalla
Associazione Benone che organizzerà coordinandolo, il lavoro delle Associazioni che già collaborano e di
eventuali altre, Nazionali ed Internazionali (le cui spese, naturalmente, rientreranno nel budget richiesto),
al fine di offrire al PROGETTO BENONE un respiro interregionale ed internazionale.
Il progetto
Le attivita’ dei laboratori collegate alla comunicazione
“QUI STIAMO BENONE” è un progetto sociale a favore dei bambini ricoverati nei poli pediatrici ed
oncologici di Napoli che, attraverso un percorso di socio-animazione, di alfabetizzazione alla musica e
di comunicazione, strettamente collegato, intende proporre immediate e positive soluzioni a due tipi di
problematiche:
a)quelle più strettamente legate al dolore, grazie alla offerta di proposte di familiarizzazione e di solidarietà
ai piccoli pazienti da parte del “DOTTOR BENONE” (dal quale il progetto trae spunto), esperto in quella
terapia del dolore tanto cara ai pediatri americani, i quali se ne servono proprio per lenire le sofferenze
dei piccoli degenti e, complice dei medici e paramedici, ai quali si affianca quotidianamente, nei panni
di un collega vero e proprio, offrendo di sé una immagine giocosa ma, al tempo stesso, rassicurante e
protettiva;
b)quelle relative agli effetti (sovente ancor più gravi della stessa patologia o, se non altro, di pari
importanza) causati dalla malattia e dalla conseguente, “forzata” degenza in vari ospedali, ovvero in quei
luoghi che, per tutti i bambini del mondo, sono “posti bruttissimi”, da dimenticare subito, anzi da non
ricordare più per tutta la vita ma che poi, nella realtà non dimenticheranno mai.
Il DOTTOR BENONE, in questo senso, è di grande aiuto perché, sia direttamente, sia attraverso i suoi più
stretti collaboratori (operatori sociali, volontari ed esperti di varie discipline umanistiche) opera in una
grande mediazione tra la malattia, la terapia ed il tempo da trascorrere in ospedale, proponendosi come
protagonista di un grande progetto di socioanimazione e, grazie alla collaborazione di artisti, musicisti in
particolare ed anche Vip, giornalisti e personalità dello spettacolo, della televisione e della cultura, di un
vero e proprio avviamento alla musica, attraverso specifici corsi e lezioni fatte con strumenti musicali veri
(chitarre, percussioni e tastiere) che difficilmente verranno dimenticati dopo la tanto sospirata guarigione
ed il conseguente ritorno a casa.
Il DOTTOR BENONE è, pertanto, una sorta di mascotte dei “POLI PEDIATRICI” italiani, creata dal giornalista
Mariano Piscopo, in collaborazione con esperti grafici e bravi creativi, raffigurante un cartone animato a
PREMI
214 VII PREMIO “FLORA SCIAUDONE”
grandezza naturale, realizzato materialmente da una azienda leader del settore della animazione in Italia,
fornitrice anche della Rai e di altri network televisivi e non.
Pure la sua criniera è realizzata con capelli naturali assemblati da un’ altra azienda leader sempre fornitrice
anche delle stesse reti televisive nazionali e non.
Il costume, originale e pertanto UNICO in Italia, è stato in passato utilizzato da attori e mimi della stessa
Rai, come ad esempio il mitico Maurizio de Bortoli, nonché da Gianfranco d’ Angelo e Stefano Masciarelli
e, nei prossimi tre anni, seguiterà ad essere indossato da testimonial (vip e personaggi) famosi e cari
particolarmente ai bambini.
BENONE segue la logica scientifica dell’ efficacia della terapia del dolore, sostenuta nei poli pediatrici
americani dove finanche l’ attore Roby Williams, dopo il film Patch Adams (che lo ha visto in passato
protagonista nei panni di un clown-dottore), attualmente seguita nel suo impegno sociale a favore dei
bambini e dei ragazzi degenti, operando in qualità di testimonial.
All’ interno delle strutture ospedaliere, conseguentemente a vari incontri preparatori di
di formazione sul progetto, sulle modalità e sugli scopi, che costantemente si tengono con gli psicologi
e con il personale medico e paramedico, unitamente alle riunioni effettuate per monitorare l’ andamento
delle varie attività, ogni giorno saranno realizzati incontri di 3 ore ciascuno, destinati ai piccoli pazienti,
ai quali BENONE, supportato da socioanimatori, musicisti, operatori sociali, assistenti sociali, personale
medico e paramedico, psicologi, FARÀ COMPAGNIA ATTRAVERSO:
a)l’ assistenza morale, psicologica nei momenti più “dolorosi”, ovvero quelli del mattino quando i medici
fanno il tradizionale giro per constatare le condizioni dei piccoli pazienti, quelli più “invasivi”, cioè dei
prelievi per le analisi di laboratorio fino all’ accompagnamento nei vari reparti per le terapie (sovente
chemioterapiche) o in sala pre-operatoria ma anche e soprattutto all’ uscita dalle sale operatorie dopo gli
eventuali interventi chirurgici;
b)l’ assistenza nei giochi e nei laboratori didattici, in particolare quelli di socioanimazione, di musica e di
educazione alla musica;
c)l’ assistenza nel momento delle dimissioni dagli ospedali, attraverso i doni materialmente consegnati dal
DOTTOR BENONE (ad esempio, i “bracciali dell’ allegria” che consentiranno di poter usufruire gratuitamente
di tutte le giostre dell’ Edenlandia, unitamente ai propri familiari).
Ma BENONE, in realtà, è molto di più che un cartone animato: BENONE è la Vita, è la Speranza, come
sostiene il Cardinale di Napoli, Guida Spirituale del progetto.
L’ Associazione BENONE, poi, sempre in collaborazione con operatori e fornitori altamente specializzati nel
settore, realizzerà anche Opuscoli contenenti fiabe e novelle “inventate” con fantasia dai piccoli degenti,
DVD riassuntivi delle varie fasi dei laboratori, CD musicale, una storia di 10 puntate di 5’ ciascuna di un
cartone animato, da produrre anche con il contributo della Film Commission Campania, da presentare
auspicabilmente nel corso della rassegna internazionale “Cartoons on the bay”.
VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA
Momenti congressuali
PREMI
216 VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA
DIAGNOSIS OF ASYMPTOMATIC CEREBRAL THROMBOEMBOLIC
EVENTS IN CHILDREN TREATED FOR ACUTE LYMPHOBLASTIC
LEUKAEMIA: THE ROLE OF MAGNETIC RESONANCE IMAGING AND
MAGNETIC RESONANCE VENOGRAPHY. A PILOT STUDY
M. Grassi1, P. Giordano1, V. Cecinati1, G.C. Del Vecchio1, F. Dicuonzo2, M. Palma2, D. De Mattia1,
N. Santoro1
1
Division of Pediatric Oncology-Hematology - Department of Biomedicine in Childhood, University of
Bari
2
Department of Neurological and Psychiatric Sciences, Section of Neuroradiology, University of
Bari
Introduction
Acute Lymphoblastic Leukaemia (ALL) is the most common childhood malignancy (1;2). With the advent
of aggressive multimodality therapy, the survival of children with ALL is better than the past despite
possible complications and side effects after chemotherapy (2). Thromboembolism is a well recognized
complication in association with ALL therapy in children: the reported incidence of thromboembolic
events (TEs) in childhood ALL varies from 0.95% to 36.7% (2-5); this wide variation seems to be related
to the definition of TEs (symptomatic versus asymptomatic), diagnostic methods, study design and ALL
treatment protocols. The majority of thromboembolic events are cerebral sinovenous thromboses (SVT)
and deep venous thromboses (DVT) (1;5). The Prophylactic Antithrombin Replacement in Kids with
ALL treated with Asparaginase study (PARKAA) reported a prevalence rate of 36.7% TEs in 60 children
screened whilst undergoing induction chemotherapy; these were largely asymptomatic DVT diagnosed
by screening with bilateral venography or magnetic resonance imaging (MRI) (6). Santoro et al reported
a prevalence of 0.47% symptomatic cerebrovascular thromboembolic events (ETEC); all these ones were
SVT and MRI with or without venography revealed it in 100% of cases (7). Although the majority of patients
with cerebral SVT are symptomatic, in some patients SVT are an incidental findings (8). Early diagnosis
with consequent early beginning of treatment could be effective to improve the prognosis of patients.
In this pilot study, conducted on a cohort of paediatric patients during chemotherapy for ALL, we
attempted to assess the incidence of cerebral thromboembolic events (ETEC) found in patients submitted
to cerebral MRI and Magnetic Resonance Venography (MRV) only at the appearance of suggestive
signs and symptoms, compared with the incidence of ETEC found with repeated cerebral MRI and MRV
assessments at established times of study, by cerebral MRI and MRV, in patients without any suggestive
sign or symptom.
Patients and methods
The study was performed in accordance with the Helsinki Declaration and it was approved by local ethics
committee; informed consent was given by parents.
In our prospective pilot study, unpaired case, randomized, we evaluated children with ALL, treated in
our Division of Pediatric Hematology/Oncology, according to the AIEOP ALL 2000 protocol, during the
induction phase of chemotherapy.
Children greater than 1 year of age and younger than 18 years with acute onset of ALL treated according
to the AIEOP ALL 2000 protocol between January 2003 and August 2005 were included in this study and
were randomized in two groups.
In the group defined “A”, ETEC were suspected following the appearance of suggestive signs and symptoms
and then confirmed by cerebral MRI and MRV; in the group defined “B”, patients were submitted, at times
set, to repeated instrumental evaluations by cerebral MRI and MRV, in absence of symptoms.
Leukemic children younger than 1 year of age and greater than 18 years, leukemic children having a
PREMI
VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA
217
family history of thrombosis, patients with known prothrombotic defect or alterations of cerebral flow or
congenital cerebral arteriovenous malformations, were excluded from the study.
This pilot study was conducted during the induction phase of the AIEOP ALL 2000 protocol; patients of
the group B were submitted to cerebral MRI and MRV at the following times of study: T0 before receiving
any treatment, T1 at day 24th at the moment of fifth administration of L-Asparaginase (L-Asp), T2 at day
36th at the moment of first administration of ciclophosphamide (CMP), T3 at day 52th at the moment of
third block of cytosine arabinoside (Ara-C).
The induction phase of AIEOP ALL 2000 protocol includes combination chemotherapy with: L-Asp (5000
U/m2) on days 12, 15, 18, 21, 24, 27, 30, 33; prednisone (60 mg/m2 oral) on day 1 to 36; vincristine (1.5 mg/
m2) and daunorubicin (30 mg/m2) on days 8, 15, 22, 29; CMP (1 g/m2) on days 36 and 64; daily Ara-C (75
mg/m2) on day 38 to 41, 45 to 48, 52 to 55, 59 to 62; daily 6mercaptopurine (60 mg/m2) on day 36 to 63; in addition children received prophylactic intrathecal
methotrexate on days 1, 15, 29, 38, 52.
MR images were obtained with a 1.5 Tesla scanner (GE Sigma). The imaging sequences consisted of
spin echo T1-weighted, axial and sagittal images with sections obtained before and after intravenous
injections of gadopentetate dimeglumine, T2-weighted axial images and additional fluid liquor attenuate
inversion recovery (FLAIR) sequences. Time-of-flight MRV was performed; the scanning planes of the MR
angiograms were axial, obliquecoronal, and sagittal, selected for different segments of the dural sinus.
MR images were read by a blinded radiologist.
At T0, we dosed, in both groups of patients, thrombin-antithrombin complexes (TAT), markers of
prothrombotic activation, to compare the initial characteristics of patients.
Blood was collected by venipunture in 1/10 volume of 3.8% buffered trisodium citrate; we expected
a thorough washing with saline if there was a central venous line after making sure that irrigation by
heparin had not been performed in the two hours before the venipunture. TAT were measured using
an ELISA kit from Behringwerke (Germany). An age matched control group was recruited from healthy
controls for the comparison of TAT levels.
We have assumed a frequency of 5% symptomatic ETEC (in the group A) and a greater frequency in Group
B to the extent of 30% and, considering a power of study higher than 60% and a level of significance of
95%, we enrolled 23 patients per group.
Data were expressed as median (min-max) and as percentage and analyzed by Mann Whitney-U test and
Fisher Exact test. The Stat View program (Abacus Concepts, Berkley, CA) was used for statistical analysis. A
value of p < 0.05 was considered statistically significant.
Results
We enrolled 46 cases; 23 patients have been assigned to the group A (15 M and 8 F) and 23 patients (14
M and 9 F) have been assigned to the group B.
The two groups showed no significant differences in sex and age and ALL immunophenotypes (data
reported in Table I).
The evaluation of TAT at T0 did not show significantly different values between the two groups; but in
both groups TAT values were significantly higher if compared to values of a matched control group (5.2
and 6.75 vs 3).
We observed one ETEC in group A and one ETEC in group B but in this last case we suspected it only after
the appearance of suggestive symptoms.
Discussion
Thrombosis is a frequent complication in children with ALL. The etiopathogenesis of this complication
is thought to be multifactorial: a prothrombotic effect of leukemic cells, genetic predisposition, central
venous catheters, septic complication and use of drugs such as steroids and L-Asp have all been implicated
(8;9;10). A recent meta-analysis of prospective studies in 1752 children with ALL found the global risk of
PREMI
218 VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA
symptomatic thrombosis to be 5.2% (11). In a previous study, led in AIEOP (Italian Association of Pediatric
Hematology and Oncology) centres, we evaluated the prevalence of symptomatic TEs in a group of 2318
children with ALL and found that it was 0.95%; 77% of TEs were reported during induction (4). The majority
of thromboembolic events are venous and are represented by central nervous system (CNS) thromboses
and deep venous thromboses (DVT) (1;5). The Prophylactic Antithrombin Replacement in Kids with ALL
treated with Asparaginase study (PARKAA) reported a prevalence rate of 36.7% in 60 children screened
whilst undergoing induction chemotherapy; these were largely asymptomatic events diagnosed by
screening with bilateral venography or MRI, echocardiography and cranial MRI while only three children
(5%) had a symptomatic thrombosis (6).
In a recent paper Male et al compared venography and ultrasound for the diagnosis of asymptomatic DVT
in the upper body in children with ALL: only one of 19 DVT occurred in 66 patients was identified because
of clinical symptoms while the remaining 18 were detected on venography/ultrasound screening (12).
Approximately 52% patients with CNS thromboembolic events had SVT compared to 43.7% with
parenchymal lesions; 4.3% of patients had involvement of both parenchymal and sinovenous regions (2).
A recent our paper reported a prevalence of 0.47% symptomatic ETEC on 2318 children with ALL, treated
according to the 1991 and 1995 AIEOP protocols: all these events were SVT and MRI with or without
venography revealed it in 100% of cases (7).
Although the majority of patients with cerebral SVT are symptomatic, in some patients SVT are an
incidental finding (8). Clinical manifestations of SVT are often non-specific and may be subtle; diagnosis
of SVT could be missed or delayed, causing complications such us stroke, hemorrhagic infarct, systemic
venous thrombosis, long-term neurological deficits, recurrence and death (13;14).
Early imaging is mandatory even in the case of mild neurological symptoms. MRI and MRV are very
useful for early characterization of central nervous system (CNS) abnormalities related to cerebrovascular
disorders (15-19).
Neurological manifestations of ETEC are often age related. Younger children show irritability, decreased
level of consciousness and seizures; older children often undergo increasing headaches, focal neurological
deficit (hemiparesis, visual impairment, cranial nerve palsies, speech impairment, ataxia) and seizures
(7;16). The symptoms and signs of ETEC are not specific so diagnosis is often delayed and may be missed
altogether; the clinical presentation is highly variable, including discrete symptoms such as headache
alone, but also severe neurological and often multifocal deficits (15). Clinical suspicion and the choice
of appropriate diagnostic instrumental methods is crucial for early diagnosis. MRI with venography is
the investigation of choice for diagnosis and follow-up of cerebral venous thromboses; computed
tomography alone will miss a significant number of cases (19;20).
In this pilot study, we tried to compare the incidence of ETEC found in patients submitted to evaluation
by cerebral MRI and MRV only at the appearance of suggestive signs and symptoms of ETEC (group A),
against the incidence found after repeated evaluations, at appointed times, by cerebral MRI and MRV in
patients without any suggestive clinical presentation (group B). We enrolled 23 patients per group; both
groups of patients were similar to the initial features considered.
Patients with T immunophenotype, previously associated with a higher risk of thrombosis in ALL (4) were
equally distributed in the two groups. Neither cases of ETEC, reported in this study, occurred in patients
with T-ALL.
At the onset of the disease we dosed TAT complexes, markers of prothrombin activation, before the
administration drugs; we found TAT levels not significantly different between the two groups observed,
but higher in both groups studied compared to control group, confirming a state of prothrombotic
activation at the onset of ALL (21).
In their paper Mitchell et al aimed to determine the prevalence of TEs in pediatric patients with ALL so
children were screened for TEs at the end of L-Asp treatment using bilateral venograms, ultrasound, MRI,
and echocardiography; twenty-two of 60 children had TEs but only three patients presented with clinically
PREMI
VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA
219
symptomatic TEs (6). Male et al compared venography and ultrasound for the diagnosis of asymptomatic
deep vein thrombosis in the upper body in children with ALL and found DVT prevalence of 29% patients
(19/66): only one event was identified because of clinical symptoms and the remaining were detected on
venography/ultrasound screening (12).
We supposed to find a higher incidence of ETEC in patients undergoing screening with MRI and MRV
compared to not screened patients, due to the detection of asymptomatic ETEC.
We observed one ETEC in group A and one ETEC in group B but in this last case we suspected ETEC only
after the appearance of suggestive symptoms. The patient of group A presented with seizures in absence
of fever, visual deficits and clouding of sensory, at day 22nd of induction phase, after the administration
of the fourth dose of L-Asp; following the appearance of these symptoms, the child was submitted to a
cerebral MRI that showed areas of abnormal signal compatible with venous ischemic necrotic lesions
bilaterally in parietal and occipital regions; cerebral MRV showed thrombosis of left transverse sinus,
slowing of flow in the right transverse sinus and steno-occlusion in the posterior part of superior sagittal
sinus (fig.1). We treated the patient with Low Molecular Weight Heparins (LMWH) and administration of
L-Asp was finally suspended.
The patient of group B presented with persistent headache, vomiting and neck stiffness, after
administration of the second dose of L-Asp; so the patient was submitted to cerebral MRI and MRV that
showed thrombosis of right transverse and superior sagittal sinus (fig.2- fig.3). He was immediately treated
with the administration of LMWH and L-Asp was finally suspended.
This child, showed cerebral MRI and MRV normal at T0 (before receiving any treatment); it is important to
note that, at day 18th of the induction phase, six days before T1 (24th), he was submitted to instrumental
evaluation only after the appearance of suggestive symptoms and signs and subsequent clinical
suspicion.
Data from Mitchell et al (6) and Male et al (12) seem to suggest it could be useful to practice a screening
for asymptomatic DVT in children with ALL, because of the reported high incidence of this complication,
discovered in absence of symptoms. Unlike data about DVT (6;12), our data did not seem to suggest
a screening for asymptomatic ETEC in children with ALL; although our study is a pilot study and our
study population is very small, we have not found differences in early detecting ETEC and asymptomatic
ETEC among monitored patients and not monitored patients, since in the patient of group B (group of
monitored patients) instrumental evaluation and diagnosis of ETEC followed only the appearance of
characteristic symptoms and signs. Mitchell et al (6) described only one ETEC in their work but still this TE
was symptomatic, presenting particularly with headache and extra ocular movement abnormalities; we
reported two ETEC, both with symptoms.
Repeated cerebral MRI and MRV assessments, in the absence of acute events, are usually burdened
by a reduced compliance in patients and parents, linked to psychophysical stress of the procedure
(venipuncture, mobilization of patient, need for prolonged immobility during examination, lack of
acceptance by the patient and the family) and, in young children, to the need to perform such instrumental
examinations in narcosis, a practice not free from risks.
We should not underestimate that these diagnostic procedures are burdened by high costs so it is
recommended their use only in case of real need and appropriateness.
Undoubtedly the small sample size represents a critical point in an incidence study but according to our
power calculations, the number of cases could be sufficient to provide an asymptomatic detection rate
of ETEC of 30%.
Although our results have to be interpreted with caution and no definitive conclusions can be drawn
from these results, our study doesn’t seem suggest to perform a screening for asymptomatic ETEC and for
early diagnosis of ETEC using repeated instrumental evaluations by cerebral MRI and MRV in children with
ALL, during induction phase. Although further larger studies are surely needed, we could consider useful
subjecting patients to cerebral MRI and MRV evaluations only after the appearance of symptoms even
PREMI
220 VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA
minimally suggestive of ETEC, in the phases of chemotherapy where the incidence of TEs is higher, such
as the induction but also the re-induction phase, for obtaining an early diagnosis as soon as possible.
An high index of clinical suspicion is needed to diagnose this condition so the appropriate treatment can
be early initiated. The clinical suspicion seems to be fundamental to guide the choice of an appropriate
instrumental assessment followed afterwards by an adequate treatment.
Acknowledgments
We thank Antonio Santacroce (MD) for assistance in writing this manuscript.
References
1. Pui CH, Evans WE. Acute lymphoblastic leukaemia. N Engl J Med 1998:339:605-15.
2. Athale UH, Chan AK. Thrombosis in children with acute lymphoblastic leukemia: part I. Epidemiology of
thrombosis in children with acute lymphoblastic leukaemia. Thromb Res 2003:111:125-31.
3. Mitchell LG, Sutor AH, Andrew M. Hemostasis in childhood acute lymphoblastic leukaemia; coagulopathy
induced by disease and treatment. Semin Thromb Hemost 1995:21:390-401.
4. Giordano P, Santoro N, Del Vecchio GC, Rizzari C, Masera G, De Mattia D. T-immunophenotype is associated
with an increased prevalence of thrombosis in children with acute lymphoblastic leukemia. A retrospective
study. Haematologica 2003:88:1079-80.
5. Payne JH, Vora AJ. Thrombosis and acute lymphoblastic leukaemia. Br J Haematol 2007:138:430-45.
6. Mitchell LG, Andrew M, Hanna K, et al. A prospective Cohort Study determining the prevalence of thrombotic
events in children with acute lymphoblastic leukaemia and a central venous line who are treated with
L-Asparaginase: results of the Prophylactic Antithrombin Replacement in Kids with Acute Lymphoblastic
Leukemia Treated with Asparaginase (PARKAA) Study. Cancer 2003:97:508-16.
7. Santoro N, Giordano P, Del Vecchio GC, et al. Ischemic stroke in children treated for acute lymphoblastic
leukaemia: a retrospective study. J Pediatr Hematol Oncol 2005:27:153-7.
8. Wiernikowski JT, Athale UH. Thromboembolic complications in children with cancer. Thromb Res
2006 :118:137-52.
9. Athale UH, Chan AK. Thromboembolic complications in pediatric hematologic malignancies. Semin Thromb
Hemost 2007:33:416-26.
10. Athale UH, Chan AK. Thrombosis in children with acute lymphoblastic leukaemia: part II. Pathogenesis of
thrombosis in children with acute lymphoblastic leukaemia: effects of the disease and therapy. Thromb Res
2003:111:199-212.
11. Caruso V, Iacoviello L, Di Castelnuovo A, et al. Thrombotic complications in childhood acute lymphoblastic
leukemia: a meta-analysis of 17 prospective studies comprising 1752 pediatric patients.Blood 2006:108:221622.
12. Male C, Chait P, Ginsberg JS, et al. Comparison of venography and ultrasound for the diagnosis of
asymptomatic deep vein thrombosis in the upper body in children. Results of the PARKAA Study. Thromb
Haemost 2002:87:593-8.
13. Kirkham FJ. Stroke in childhood. Arch Dis Child 1999:81:85-89.
14 DeVeber G, Andrew M, Adams C, et al. Cerebral sinovenous thrombosis in children. N Engl J Med 2001:345:41723.
15. Sèbire G, Tabarki B, Saunders DE, et al. Cerebral venous sinus thrombosis in children: risk factors, presentation,
diagnosis and outcome. Brain 2005:128:477-89.
16. Giordano P, Del Vecchio GC, Saracco P, et al. A practical approach to diagnosis and treatment of symptomatic
thromboembolic events in children with acute lymphoblastic leukaemia: recommendations of the “Coagulation
PREMI
VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA
221
Defects” AIEOP Working Group. Recent Patents Cardiovasc Drug Discov 2006:2:53-62.
17. Kieslich M, Porto L, Lanfermann H, Jacobi G, Schwabe D, Bohles H. Cerebrovascular complications of
L-asparaginase in the therapy of acute lymphoblastic leukemia. J Pediatr Hematol Oncol. 2003:25:484-7.
18. Raizer JJ, DeAngelis LM. Cerebral sinus thrombosis diagnosed by MRI and MR venography in cancer patients.
Neurology 2000:54:1222-6.
19. Wasay M, Azeemuddin M. Neuroimaging of cerebral venous thrombosis. J Neuroimaging 2005:15:118-28.
20. Medlock MD, Olivero WC, Hanigan WC, Wright RM, Winek SJ. Children with cerebral venous thrombosis
diagnosed with magnetic resonance imaging and magnetic resonance angiography. Neurosurgery 1992:31:8706.
21. Giordano P, Del Vecchio GC, Santoro N, et al. Thrombin generation in children with acute lymphoblastic
leukemia: effect of leukaemia immunophenotypic subgroups. Pediatr Hematol Oncol 2000:17:667-72.
PREMI
222 VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA
LA VACCINAZIONE ANTINFLUENZALE IN ETÀ PEDIATRICA: FATTORI
INFLUENZANTI LA COPERTURA VACCINALE NEI BAMBINI SANI ED IN
QUELLI CON MALATTIA ONCOLOGICA
D. Amato1, V. Cecinati1, G.C. Del Vecchio1, E. Praitano2, N. Santoro1, D. De Mattia1
1
Clinica Pediatrica “F.Vecchio”, Dipartimento di Biomedicina dell’Età Evolutiva Università degli Studi di Bari
Pediatra di Famiglia ASL Bari
2
Introduzione
L’impatto clinico e socioeconomico dell’influenza in età pediatrica è spesso sottovalutato. E’ stato
dimostrato che durante la stagione influenzale il bambino di età inferiore ai 2 anni ha, anche in assenza
di situazioni capaci di aggravare la prognosi, un rischio di ricovero da 2 a 20 volte superiore a quello del
bambino sano più grande, rischio che risulta analogo a quello che si osserva nel paziente con situazioni
patologiche di base o in quello di età superiore ai 65 anni. Inoltre, i bambini sani di età pre-scolare e
scolare rappresentano coloro che più spesso si ammalano di influenza e costituiscono la principale
causa di diffusione della malattia all’interno della comunità in quanto la trasmettono ai contatti familiari
condizionando in modo significativo l’attività lavorativa dei genitori, costretti a rimanere a casa per accudire
i figli o perché essi stessi si ammalano. Tutti questi dati suggeriscono che nel bambino sano l’influenza
comporta notevoli conseguenze pratiche non solo di carattere medico ma anche di ordine economico
e sociale comportando un aggravio della spesa assistenziale e di non poche problematiche familiari.
Inoltre le autorità scientifiche e istituzionali, compreso il Ministero della Salute Italiano, raccomandano la
vaccinazione antinfluenzale dei soggetti di età pediatrica superiore ai sei mesi con le seguenti patologie
croniche:1) malattie croniche a carico dell’apparato respiratorio 2) malattie dell’apparato cardiovascolare
comprese le cardiopatie congenite e acquisite. 3) diabete mellito 4) malattie renali con insufficienza
renale 5) malattie degli organi emopoietici compresi i tumori infantili 6) immnodeficenze congenite e
acquisite 7) malattie infiammatorie coniche e sindromi da malassorbimento intestinali 8) malattie che
richiedono un trattamento a lungo termine con acido acetilsalicilico, a rischio di sindrome di Reye in
caso di influenza. Se pur tali raccomandazioni sull’impiego del vaccino contro l’influenza nel bambino
con patologia cronica sono condivise da tutti gli esperti, il suo uso nella pratica quotidiana è molto
limitato.I dati disponibili nella letteratura nazionale e internazionale indicano infatti che nei bambini
con patologia cronica come i pazienti affetti da tumori infantili ormai fuori terapia la copertura vaccinale
contro l’influenza varia dal 9% al 25%.Tale dato diventa ancora più considerevole se si considera che i
pazienti che hanno terminato la chemioterapia (associata o meno a radioterapia e/o a trapianto di midollo
osseo) per effetto di una temporanea immunodepressione sono più esposti a infezioni respiratorie e
gastrointestinali rispetto ai pazienti sani. Le ragioni dei bassi livelli di copertura sia nei bambini sani e
nei bambini affetti da patologie croniche o debilitanti sono rappresentate dalla mancanza di una chiara
percezione sia da parte dei genitori che della classe medica dell’importanza clinica dell’influenza, del
rischio di complicanze gravi ad essa connessa e dei vantaggi offerti dalla vaccinazione. Una possibile
spiegazione dell’erroneo atteggiamento mentale assunto dai medici in genere e dai pediatri in particolare
nei confronti della vaccinazione antinfluenzale può derivare dalla considerazione che l’importanza della
prevenzione di questa malattia nei bambini a rischio è dimostrata da dati indiretti. Se infatti esistono alcun
recenti lavori clinici che dimostrano che l’influenza può aumentare in modo significativo la frequenza di
ospedalizzazione, il numero di visite ambulatoriali e il consumo di farmaci minima è la disponibilità di
studi che mettono in evidenza come la vaccinazione contro l’influenza sia utile nel ridurre le complicanze
secondarie alla malattia.
Il nostro centro, da tempo impegnato nella ricerca e nell’assistenza clinica di pazienti affetti da patologie
oncologiche ed ematologiche pediatriche, si è impegnato nell’affrontare l’impatto dell’influenza e dei
mezzi per farle fronte in tale specifico ambito.
PREMI
VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA
223
Obiettivi dello studio
Avendo studi recenti evidenziato il significativo impatto socio-economico dell’influenza in età pediatrica,
in particolare nel bambino affetto da patologia cronica grave ma anche nel bambino sano, e avendo
pure messo in evidenza uno scarso utilizzo nella pratica quotidiana della vaccinazione antinfluenzale in
entrambe le categorie di pazienti, il nostro studio si è posto 3 obiettivi principali:
Valutare, in una prima fase, la copertura vaccinale antinfluenzale nei bambini sani ed in quelli con
patologia oncologica cui è raccomandata la vaccinazione;
Studiare i fattori influenzanti la pratica vaccinale nei bambini sani ed in quelli con patologia oncologica;
Successivamente in una seconda fase studiare l’impatto di diverse misure di intervento finalizzate
ad aumentare la copertura vaccinale contro l’influenza esclusivamente nei bambini con patologia
oncologica.
In più la nostra ricerca ha previsto una fase di sorveglianza prettamente clinica delle coorti di pazienti
studiate, durante il periodo di circolazione del virus influenzale.
Materiali e Metodi
Lo studio è stato articolato in due fasi:
Fase 1
Fase di tipo descrittivo osservazionale, basata sulla valutazione retrospettiva di dati anamnestici relativi
alla vaccinazione antinfluenzale nei soggetti arruolati mirati all’identificazione delle ragioni che portano
ad eseguire o a non eseguire la vaccinazione antinfluenzale.
La suddetta fase è stato condotta dal mese di Febbraio 2006 al mese di Aprile 2006 presso uno studio di una
Pediatra di Famiglia e presso l’ambulatorio di Oncoematologia Pediatrica dell’Unità Operativa di Pediatria
Generale e Specialistica “F. Vecchio” - Dipartimento di Biomedicina dell’Età Evolutiva dell’Università degli
Studi di Bari.
Sono state definiti tre gruppi di bambini: bambini sani, bambini con Leucemia Linfoblastica Acuta (LLA)
e bambini con altre neoplasie, previo consenso informato dei genitori e seguendo i criteri della buona
pratica clinica.
I criteri di arruolamento in ciascuna coorte sono:
Età: 2-18 anni
Gruppo: - Sani: soggetti non affetti da patologie croniche note.
LLA: soggetti con diagnosi di Leucemia Linfoblastica Acuta secondo protocolli AIEOP in uso, in off therapy
da meno di 5 anni.
Altre neoplasie: soggetti con diagnosi di Linfoma di Hodgkin o Linfoma Non Hodgkin o Tumore di Wilms
o Rabdomiosarcoma o Epatoblastoma o Istiocitosi secondo protocolli AIEOP in uso e in off therapy da
meno di 5 anni.
Si è previsto di arruolare due soggetti sani per ogni soggetto oncologico.
E’ stata utilizzata una scheda raccolta dati contenente delle domande, rivolte ai genitori, riguardanti
l’esecuzione della vaccinazione antinfluenzale negli anni scorsi, in particolare nella stagione 2005/2006,
come viene percepita l’influenza dai genitori, le motivazioni che li hanno spinti a scegliere o meno di
vaccinare il proprio figlio e quali sono stati i soggetti che hanno suggerito la vaccinazione stessa.
Fase 2
Fase di tipo prospettico, randomizzato a blocchi finalizzato alla verifica della metodologia migliore per
ottenere una più ampia adesione alla vaccinazione antinfluenzale nel paziente oncologico.
I criteri per l’arruolamento sono stati:
Età: 2-18 anni
Patologia: - Pazienti affetti da LLA in off therapy da meno di 5 anni.
- Pazienti affetti da Linfoma (Hodgkin e non Hodgkin) in off therapy da meno di 5 anni.
Dunque si è proceduti a suddividere tutto il campione di bambini oncologici secondo una specifica lista
di randomizzazione in tre gruppi. A ciascuno di questi è stata proposta, nel periodo di Novembre 2006,
PREMI
224 VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA
una diversa metodologia di offerta e di somministrazione del vaccino. Specificatamente:
GRUPPO A: i genitori dei soggetti inclusi nel gruppo A sono stati contattati direttamente dai medici
dell’Ambulatorio di Oncoematologia che normalmente seguono questi bambini per quanto riguarda
il follow up della patologia di base. Ai genitori e al paziente con più di 8 anni, è stato spiegato che la
vaccinazione antinfluenzale è raccomandata dalle autorità sanitarie e stata loro offerta la possibilità di
praticarla gratuitamente nel centro stesso;
GRUPPO B: i genitori dei bambini inclusi nel gruppo B sono stati ugualmente contattati dai medici dell’
Ambulatorio di Oncoematologia e ad essi, e in casi opportuni anche al bambino, è stato chiarito il problema
della raccomandazione della vaccinazione antinfluenzale. E’ stato spiegato che la vaccinazione sarebbe
stata praticata nel Dipartimento di Biomedicina dell’Età Evolutiva me che essi avrebbero dovuto condurre
il bambino in un altro ambulatorio appositamente predisposto (Ambulatorio di Pediatria Preventiva e
Sociale);
GRUPPO C: i genitori dei bambini inclusi nel gruppo C sono stati contattati da medici non facenti parte
del centro di riferimento (Ambulatorio di Pediatria Preventiva e Sociale) e quindi ad essi in precedenza
sconosciuti. Questi medici, del suddetto ambulatorio, hanno avuto il compito di chiarire il problema
della raccomandazione della vaccinazione antinfluenzale nei soggetti a rischio. Per l’esecuzione
della vaccinazione questi bambini sono stati condotti in un ambulatorio appositamente predisposto
(Ambulatorio di Pediatria Preventiva e Sociale) diverso da quello del centro di riferimento.
La vaccinazione è stata eseguita nei soggetti, i cui genitori hanno aderito alla strategia vaccinale previa
compilazione di un consenso informato, con il vaccino, virosomiale adiuvato, Inflexal V (Berna Biotech,
Italia), già da tempo commercializzato, secondo le indicazioni ministeriali (0, 25 ml, pari a mezza dose,
nei primi 3 anni di vita e due somministrazioni per i bambini mai vaccinati in precedenza di età inferiore
ai 9 anni).
E’ stata messa in atto una sorveglianza clinica della efficacia della vaccinazione mediante la raccolta di
informazioni, su una apposita scheda di raccolta dati, riguardanti malattie simil-influenzali e loro morbidità
ottenute tramite interviste telefoniche mensili ai genitori compiute nel periodo Gennaio-Maggio 2007.
La definizione di malattia simil-influenzale utilizzata nell’analisi ha incluso qualsiasi infezione delle alte e
basse vie respiratorie e qualsiasi infezione gastrointestinale, riferita dai genitori durante la sorveglianza.
Le infezioni delle alte vie respiratorie includevano: faringite, definita come presenza di mal di gola con o
senza febbre; rinosinusite acuta, definita come presenza di rinorrea persistente più di 10 giorni e meno
di 3 settimane.
Le infezioni del basso tratto respiratorio includevano: bronchite acuta, wheezing, e polmoniti (febbre,
tosse, tachipnea e riduzione dei rumori respiratori o presenza di rantoli localizzati).
Le infezioni gastrointestinali includono episodi di vomito e diarrea accompagnati o meno da febbre.
La scheda di raccolta dati ha previsto quesiti ai genitori relativi al numero di conviventi del bambino, al
numero di locali dell’abitazione, alla presenza di fumatori tra i conviventi (fumo passivo), all’esecuzione
della vaccinazione antinfluenzale nella stagione 2005-2006, al numero di infezioni respiratorie e
gastrointestinali del bambino nell’arco del 2006 ed in particolare nei primi sei mesi dello stesso anno, e,
ad ogni contatto telefonico mensile, sono stati somministrati quesiti riguardanti la comparsa di infezioni
respiratorie o gastrointestinali in quel mese.
Analisi statistica
I dati sono stai espressi come:
Media ± deviazione standard;
Minimo, massimo e mediana;
Percentuale
ed analizzati mediante: analisi della varianza (ANOVA), test del chi-quadro per tavole di contingenza  2
x 4  e test della somma dei ranghi di Wilcoxon.
PREMI
VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA
225
Risultati
Nella Fase 1 sono stai arruolati 599 bambini suddivisi in tre gruppi: 400 bambini nel gruppo dei sani (208
maschi e 192 femmine), 100 pazienti nel gruppo LLA (51 maschi e 49 femmine) e 99 pazienti nel gruppo
altre neoplasie (51 maschi e 48 femmine).
I tre campioni sono risultati sovrapponibili per età e per sesso come si può osservare in tabella 1.
Tabella 1. Distribuzione del campione per sesso e per età (Fase 1).
I soggetti vaccinati almeno una volta nella vita contro l’influenza sono risultati tra i sani 72 su 400, 31
su 100 nel gruppo LLA e 22 su 99 nel gruppo altre neoplasie. In figura 1 tali risultati vengono espressi
sottoforma di percentuali di soggetti vaccinati almeno una volta nella vita nei tre gruppi.
Fig. 1 Percentuale di soggetti vaccinati almeno una volta nella vita
Riguardo l’esecuzione della vaccinazione nella stagione 2005/2006 nel gruppo dei sani erano vaccinati
60 su 400 (15.1 %), nella coorte LLA 30 su 100 (30%) e nel gruppo altre neoplasie 19 su 99 (19%), come
enunciato in figura 2.
PREMI
226 VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA
Fig. 2 Percentuale di bambini vaccinati contro l’influenza nel 2005
La percentuale di copertura per la stagione 2005-2006 nei primi è stata in media del 24% e nei secondi
del 15%, rivelando quindi una maggiore attenzione da parte dei genitori di pazienti affetti da patologia
cronica grave al problema dell’influenza e delle sue possibili complicanze.
Ciò risulta ugualmente se si considerano i dati relativi alle percentuali di bambini vaccinati almeno una
volta nella vita (fig. 1).
Abbiamo poi analizzato, in tale quota di bambini vaccinati almeno una volta nella vita contro l’influenza,
il numero di coloro che hanno ripetuto la vaccinazione ogni anno. Sul campione considerato tale numero
è risultato del 7% nei sani, 10% nella LLA e 9% nelle altre neoplasie.
Riguardo i fattori influenti la mancata pratica vaccinale ogni anno, essi sono stati indagati mediante
un’apposita domanda sul questionario “perché non è stato rivaccinato?” con 5 possibilità di risposta, i
risultati sono riportati in figura 3.
Fig.3 Fattori influenzanti la mancata pratica vaccinale annuale.
Nella popolazione di soggetti vaccinati in precedenza, si è andati anche ad indagare sulle motivazioni per
le quali un genitore aveva preso tale decisione tramite una domanda diretta “perché?” con 5 possibilità
di risposta.
Nelle figura 4 è riportata la frequenza delle suddette motivazioni nei 3 gruppi di soggetti. Si può notare
una netta prevalenza della risposta “Raccomandato dal medico” nei soggetti con altre neoplasie (79%) ed
PREMI
VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA
227
LLA (70%) rispetto ai sani (50%).
In questi ultimi la eventuale gravità dell’infezione influenzale è risultata essere l’altra motivazione
principale(27%) (fig.4).
Fig. 4 Percentuali delle motivazioni all’esecuzione della vaccinazione
Inoltre abbiamo analizzato nel dettaglio la fonte specifica della raccomandazione medica ed il risultato è
stato una preponderanza del Medico del Centro di Riferimento per i soggetti con LLA e altre neoplasie e
del Pediatra di Famiglia per i soggetti sani.
Nel gruppo dei soggetti che non erano mai stati vaccinati contro l’influenza il mancato suggerimento del
Pediatra di Famiglia o del Medico del Centro di Riferimento incide in misura preminente nella classe LLA
(48%) e altre neoplasie (53%), attestandosi al 33% nei sani. Lo scarso timore della gravità dell’influenza
è addotto come motivazione dal 37% nei sani, 16% nelle altre neoplasie e 14% nella LLA. Il timore
dell’inefficacia del vaccino è del tutto sovrapponibile nelle tre classi attorno al 5%, mentre il timore
della comparsa di possibili effetti collaterali è il 10% nei sani, 16% nella LLA e il 12% nelle altre neoplasie
(Fig.5).
Fig.5 Percentuali delle motivazioni per non aver eseguito la vaccinazione
Infine abbiamo voluto indagare come viene percepita l’influenza nelle famiglie, e abbiamo chiesto al
genitore intervistato “pensa che l’influeza possa essere pericolosa per suo figlio?” I risultati ottenuti sono
riportati in figura 6.
PREMI
228 VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA
Fig. 6 Percentuale di intervistati che ritengono l’influenza pericolosa per il bambino
Nella Fase 2 sono stati arruolati 149 bambini di cui in 93 bambini affetti da patologia oncologica (69 affetti
da LLA e 24 affetti da Linfoma) e 56 controlli sani (37 maschi e 19 femmine).
La coorte di bambini oncologici è risultata così distribuita nei tre gruppi di randomizzazione: GRUPPO
A contenente 32 piccoli (20 maschi e 12 femmine), GRUPPO B composto da 25 soggetti (18 maschi e 7
femmine) e GRUPPO C costituito da 36 bambini (23 maschi e 19 femmine).
I gruppi suddetti sono risultati sovrapponibili per sesso e per età come si evince dalla tabella 2.
Tabella 2. Coorte di bambini oncologici e sani
I gruppi sono risultati sovrapponibili anche in base al numero di conviventi e numero di locali dell’abitazione
che vengono espressi come minimo, massimo e mediana e anche in base alla presenza di fumo passivo e
frequenza di una comunità. Valutandoli in base al numero di conviventi vaccinati è risultata una maggiore
prevalenza nei gruppi A, B, C rispetto ai controlli sani (tabella 3 e tabella 4).
PREMI
VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA
229
Tabella 3. Condizioni di vita
Tabella 4. Conviventi vaccinati
In figura 7 è riportata la percentuale dei soggetti in off therapy per patologia oncologica vaccinati nel
2006, a seguito della campagna vaccinale, nei tre gruppi.
Fig. 7 Percentuale di vaccinati nei diversi gruppi di appartenenza
Si può evincere che le tre strategie si sono rivelate egualmente efficaci nel determinare un aumento della
copertura vaccinale nella coorte di bambini studiata rispetto alla fase 1.
Infatti mettendo a confronto la percentuale di copertura vaccinale nella stagione 2005-2006 della
PREMI
230 VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA
popolazione oncologica afferente presso il nostro centro, desunta dalla fase 1 e attestatasi ad una media
del 24% circa, con la percentuale media di copertura raggiunta nei tre gruppi nella stagione vaccinale
2006-2007, che è del 52, 6% circa, si può affermare con certezza la utilità e la validità delle nostre strategie
che hanno determinato un incremento del 28, 6% del numero di pazienti vaccinati contro l’influenza
(figura 8).
Fig. 8 Copertura vaccinale nelle stagioni 2005-2006 e 2006-2007
L’efficacia della vaccinazione antinfluenzale è stata valutata mediante parametro clinico. Dalla popolazione
di 49 bambini in off therapy per neoplasia vaccinati nella stagione 2006-2007, sono stati esclusi 9 soggetti
che avevano eseguito la vaccinazione antinfluenzale nella stagione 2005-2006.
Dall’analisi dei dati è scaturita una significativa (p<0, 001) riduzione della mediana del numero di infezioni
da 2 nel I° semestre del 2006 ad 1 nel I° semestre del 2007 (tabella 5).
Tabella 5. Numero di infezioni influenzali nel I° semestre 2006 e 2007
Oltre a ciò si è registrata una significativa differenza nel numero di infezioni respiratorie e gastrointestinali
tra i sani ed i soggetti in off therapy per malattia oncologica (tabella 6).
Dunque, si evince che il bambino con patologia oncologica in off therapy va incontro ad un numero
maggiore di infezioni durante la stagione influenzale rispetto al bambino sano.
PREMI
VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA
231
Tabella 6. Incidenza delle infezioni respiratorie e gastrointestinali.
Discussione
L’influenza è un’infezione molto comune tra i bambini: essi sono la principale fonte di diffusione del virus
all’interno della comunità e delle proprie famiglie perché eliminano il virus per un tempo più lungo rispetto
agli adulti con punte, ad esempio in pazienti con leucemia, anche di 21 giorni. Dunque l’influenza non
ha solo un importante impatto clinico, ma a ben vedere anche un impatto socio-economico significativo.
Uno studio italiano del 2003 ha dimostrato un significativo aumento del numero di visite mediche, giorni
di scuola o di lavoro persi nei conviventi di bimbi affetti da influenza rispetto a bambini senza influenza.
Ciò è risultato in particolare per i genitori di piccoli affetti da influenza di tipo B rispetto ai genitori di altri
affetti da influenza A, e per i genitori dei bambini tra 2 e 5 anni rispetto a quelli di bambini oltre i 5 anni
d’età. Il ruolo dei bambini nella trasmissione dell’influenza alla comunità è stato anche indirettamente
confermato da studi che analizzano l’impatto sui conviventi della vaccinazione antinfluenzale nel
bambino.
Ciò risulta ancor più evidente se si considera che nel bambino affetto da patologia cronica come la
patologia neoplastica l’influenza comporta conseguenze notevoli di ordine prettamente medico-pratico
e che comportano aggravio della spesa assistenziale e svariate problematiche familiari.
In tutto il mondo le autorità scientifiche e sanitarie raccomandano la vaccinazione antinfluenzale in
pazienti affetti da patologie croniche gravi associate ad un aumentato rischio di complicazioni legate
all’infezione stessa, includendo i pazienti affetti da patologia oncologica.
Seppure tali raccomandazioni sull’impiego del vaccino contro l’influenza nel bambino con patologia
cronica siano condivise da tutti gli esperti, il suo uso nella pratica quotidiana è molto limitato
Il nostro studio ha evidenziato la suscettibilità del paziente oncologico verso le malattie infettive, oltre
che durante il trattamento chemioterapico e radioterapico anche quando il piccolo è in off therapy.
Infatti abbiamo documentato nella nostra analisi all’interno di una coorte di pazienti in off therapy da
meno di 5 anni, affetti da LLA o da Linfoma, un maggior numero di infezioni respiratorie e gastrointestinali
nell’arco dell’anno 2006 rispetto ai controlli sani. Ciò potrebbe ricondursi al fatto che un bambino che
è stato sottoposto in passato a terapie immunosoppressive ed antiblastiche potrebbe risultare nei
primi anni dopo il termine della terapia immunologicamente meno capace di contrastare aggressioni
dall’esterno da parte di patogeni.
Il nostro lavoro ha valutato, in linea con una serie di studi nazionali ed internazionali, i livelli di copertura
della vaccinazione antinfluenzale nella popolazione di bambini oncologici dell’area pugliese, lucana ed
in parte calabra.
In linea con un trend generalizzato la quota di bambini affetti da neoplasia che si vaccinano contro
l’influenza è molto inferiore a quanto auspicato dalla Circolare del Ministero della Salute n. 2 - 18/04/2006,
Prevenzione e controllo dell’influenza. Raccomandazioni per la stagione 2006-2007, che è di circa
l’85%. Nella stagione 2005-2006 essa si è attestata a valori attorno al 24%. Eppure i bambini oncologici
costituiscono un gruppo a rischio, in cui l’influenza dura quasi il doppio, e in cui noi stessi abbiamo
documentato un numero maggiore di infezioni durante la stagione 2005-2006 rispetto ai bambini sani.
PREMI
232 VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA
Per spiegare tale situazione abbiamo indagato quelli che sono i determinanti di vaccinazione tra le
famiglie e la loro percezione dell’influenza. Sicuramente l’infezione influenzale è considerata alla stregua
di un banale raffreddore anche se, come si può immaginare, il genitore di un bambino affetto da neoplasia
appare maggiormente preoccupato della severità o di eventuali complicanze legate all’infezione. Il
37% dei genitori dei bambini sani non usufruisce della vaccinazione perché non ritiene l’influenza una
malattia pericolosa. Ma soprattutto c’è il mancato consiglio da parte dei pediatri alla vaccinazione come
motivazione essenziale a livelli così bassi di copertura, anche nei sani.
La nostra ricerca è giunta alla conclusione che: i genitori riferiscono che a consigliare loro la vaccinazione
antinfluenzale è principalmente il Pediatra di Famiglia per i bambini sani, il Medico del Centro di
Riferimento per i pazienti oncologici.
Infatti, è proprio la raccomandazione del medico a diventare la ragione principale per un genitore, sia di
un bambino sano che di un piccolo con patologia neoplastica, a far somministrare la vaccinazione contro
l’influenza al proprio figlio. Inoltre nelle classi di bambini oncologici gioca un ruolo importante anche il
timore che l’infezione influenzale possa aggravare la patologia di base.
E’ dunque di forte impatto il ruolo che i genitori affidano al Pediatra di Famiglia o al medico del Centro di
Riferimento, nel consigliare e motivare all’esecuzione della vaccinazione.
Lo abbiamo sperimentato direttamente mettendo in atto tre strategie vaccinali, basate su una corretta
informazione sull’influenza ed i suoi rischi da parte dei pediatri del Centro di Riferimento e di pediatri non
appartenenti allo stesso e sull’offerta della vaccinazione gratuita.
Esse si sono rivelate ugualmente efficaci nel determinare un aumento al 53% nella stagione 2006-2007
della copertura vaccinale antinfluenzale in una popolazione di bambini affetti da LLA e Linfoma.
Tenendo conto che i bambini con patologia oncologica hanno frequenti contatti con il sistema medico,
ciò si traduce in molte opportunità per proporre e somministrare il vaccino antinfluenzale.
L’efficacia del vaccino antinfluenzale nel prevenire o attenuare la malattia, varia a seconda dell’età e
dell’immunocompetenza del soggetto vaccinato.
Non è facile confrontare i vari studi che trattano l’argomento, dato che i parametri utilizzati per effettuare
la diagnosi di influenza sono diversi. In alcuni si utilizza infatti la conferma dell’infezione attraverso coltura
virale, in altri vengono valutate tutte le malattie febbrili se associate ad incremento del titolo anticorpale
e in altri ancora solo il parametro clinico.
L’efficacia varia nei diversi studi, tra il 30 e il 90%.Se si valuta l’efficacia contro l’influenza provata con
coltura virale, il risultato dimostra un’efficacia di circa il 60% nel primo anno dopo la vaccinazione.
Il vaccino può comunque evitare il diffondersi di un’epidemia, sopratutto quando vengono vaccinati i
bambini che, come detto, rappresentano il veicolo d’ingresso dell’infezione nelle famiglie. L’esperienza
giapponese sull’efficacia della vaccinazione nei bambini nel ridurre il numero di morti negli anziani è
ormai ben conosciuta.
Il vaccino antinfluenzale riduce inoltre la morbilità per malattie infettive delle vie aeree superiori nei
bambini vaccinati e nei conviventi. I nostri risultati, relativi ad un’esclusiva valutazione clinica, sono stati
in linea con la letteratura poiché documentano una riduzione di circa il 50% del numero di infezioni
respiratorie e gastrointestinali in bambini oncologici in off therapy vaccinati nella stagione 2006-2007
rispetto alla stagione 2005-2006 in cui gli stessi non erano stati sottoposti a vaccinazione antinfluenzale.
Tale riduzione si traduce in un ipotizzabile guadagno in termini di qualità di vita per il bambino, di
risparmio in termini di spese assistenziali, di utilizzo di farmaci e di impatto per le famiglie.
Conclusioni
E’ dunque la sinergia tra il Pediatra di Famiglia e il Pediatra del Centro di Riferimento Oncologico che
può accrescere la consapevolezza che l’influenza non è un raffreddore, ma una malattia infettiva con
i suoi rischi e le sue complicanze e soprattutto con un ingente impatto sociale ed economico e che la
vaccinazione è uno strumento efficace e sicuro di prevenzione.
PREMI
VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA
233
Bibliografia
1. Principi N, Esposito S, Marchisio P. Socioeconomic impact of influenza in healthy children and their families.
Pediatric Infect Dis J 2003; 22: 5207-5210.
2. Neuzil KM, Mellen BG, Wright PF et al. The effect of influenza on hospitalization, outpatient visits, and courses
of antibiotics in children. N Engl J Med 2000; 342: 225-231.
3. Kempe A, Hall CB, Mac Donald NE et al. Influenza in children with cancer. J Pediatr 1989; 115: 33-39.
4. Feldman S, Webster RG, Sugg M. Influenza in children and young adults with cancer. Cancer 1977; 39:350353
5. Esposito S, Marchisio P, Droghetti R, Lambertini L et al. Influenza vaccination coverage among children with
high-risk medical conditions. Vaccine 2006; 24:5251-5255.
6. Daley MF, Crane LA, Chandramouli V, Beaty BL et al. Misperceptions about influenza vaccination among
parents og healthy young children. Clin Pediatr (Phila) 2007; 46: 408-417.
7. Porter CC, Poehling K, Hamilton R et al. Influenza immunization practices among pediatric oncologists. J
Pediatr Hematol Oncol 2003; 205: 134-138.
8. Chisolm JC, Devine T, Charlett A et al. Response to influenza immunization during treatment for cancer. Arch
Dis Child 2001; 84: 496-500
PREMI
234 VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA
PROGETTO: “MIGLIORARE LA QUALITÀ DELL’ACCOGLIENZA AL
BAMBINO E AI SUOI FAMILIARI”
C. Pernice
U.O. Ematologia e Oncologia Pediatrica - Seconda Università degli Studi di Napoli
Premessa
L’Unità Operativa di Oncoematologia Pediatrica della Seconda Università degli Studi di Napoli segue
bambini e adolescenti affetti da patologie ematologiche e/o oncologiche.
L’impegno principale della struttura è quello di aumentare la possibilità di guarigione da malattie rare
nell’infanzia, che ancora oggi, nonostante i progressivi miglioramenti sono gravate da prognosi severa. Per
raggiungere quest’obiettivo il centro partecipa alla definizione e all’applicazione di protocolli di diagnosi
e terapia condivisi con analoghi Centri nazionali ed europei, continuamente aggiornati e migliorati.
Impegnata a garantire un livello di prestazioni di alta specialità, la struttura lavora a tutt’oggi per accrescere
la qualità dell’accoglienza del bambino e dei suoi familiari e inoltre per assicurare ospitalità e disponibilità
di specifici servizi dedicati al benessere del bambino.
La “ tutela della salute è un diritto fondamentale dell’individuo, come recita l’art. 32 della Costituzione.
Pertanto l’Accoglienza, portando l’attenzione sui bisogni dei pazienti, risponde al diritto soggettivo
dell’utenza e a un preciso dovere del personale sanitario.
Il livello di qualità dell’accoglienza non dipende solo dai comportamenti del singolo operatore, ma dalla
modulazione dell’intera organizzazione del lavoro. Da ciò scaturisce la necessità di individuare procedure
in grado di verificare la corrispondenza tra singole prestazioni e standard di qualità definiti a priori, in
linea con gli obiettivi del sistema sanitario.
Ogni persona è un individuo unico, con problemi e caratteristiche diverse che necessita di essere accolta
nell’organizzazione sanitaria, modulando gli interventi secondo i problemi che presenta, espliciti o meno
che siano. I contenuti e le modalità con cui si accoglie un paziente non potranno quindi essere uniformati
in una procedura standard, ma al contrario i percorsi dell’accoglienza nella struttura ospedaliera dovranno
essere modulati in base alla tipologia d’utente che ci si trova ad affrontare, rendendo improponibile il
parlare d’accoglienza in termini generali.
Descrizione sintetica del progetto
Il progetto analizza le componenti del processo di accoglienza dei bambini e dei loro familiari. Si pone
l’obiettivo di migliorare ed uniformare la qualità dell’Accoglienza, riorganizzandone e sviluppandone le
attività già esistenti a livello di U.O., partendo dall’ipotesi che, il momento dell’accoglienza non sempre sia
adeguato e che tale attività viene svolta attualmente in modo difforme.
In relazione all’accoglienza e alla valutazione infermieristica sono presi come riferimento gli standard e i
corrispettivi elementi misurabili definiti dalla J.C.I.
Per conoscere la situazione e mettere alla luce tutte le aree di criticità in merito al problema, è condotta
un’indagine nell’unità operativa di degenza (somministrazione di un questionario ai genitori dei piccoli
pazienti).Altro obiettivo è di introdurre per tutti i bambini ricoverati, la valutazione all’ingresso dei
bisogni assistenziali mediante la compilazione e conservazione in cartella della “scheda di accoglienza /
valutazione”.
Il progetto prevede l’elaborazione di una linea guida per la costruzione di un “protocollo di
accoglienza”(allegato n. 1), la realizzazione di un “opuscolo informativo” e di una scheda di accoglienza/
valutazione (allegato n. 2).
Soggetti destinatari
I destinatari del progetto sono i bambini ricoverati e le loro famiglie con il coinvolgimento degli operatori
sanitari.
PREMI
VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA
235
Caratteristiche del progetto
Il progetto vuole ottenere risultati immediati in termini di miglioramento dell’accoglienza e creare un
coordinamento e una sinergia tra i vari soggetti che si occupano degli aspetti di umanizzazione delle
cure al bambino.
Obiettivi
Fornire al bambino ricoverato e ai suoi familiari un’immagine positiva e rassicurante della struttura
terapeutica per contenere i traumi da ospedalizzazione.
Garantire un livello adeguato di qualità dell’assistenza infermieristica in relazione al processo di
accoglienza basato su requisiti oggettivi e misurabili (standars e indicatori).
Migliorare ed uniformare le modalità di accoglienza e di informazione in ospedale garantendo, nella
relazione con l’utenza, massima professionalità e competenza, chiarezza nell’informazione, relazione
d’aiuto, privacy.
Vantaggi attesi
Miglioramenti delle condizioni di accoglienza e permanenza del bambino in ospedale.
Soggetti coinvolti (partnership)
Personale sanitario: infermieri, caposala, psicologi, medici, volontari.
Fasi di realizzazione
Le fasi principali d’attuazione del progetto sono:
1.Comunicazione interna volta alla presentazione del progetto;
2.Somministrazione di un questionario avente lo scopo di rilevare la modalità di accoglienza e la
soddisfazione del cliente;
3.Costituzione di un gruppo di lavoro per la costruzione (basandosi sulle raccomandazioni fornite
dalle linee guida, partendo cioè dai risultati degli studi condotti da centri di ricerca specializzati) di un
protocollo di accoglienza;
4.Corso di formazione volti agli operatori per l’acquisizione di competenze relazionali e linguistiche per
entrare in relazione col bambino e la sua famiglia;
5.Applicazione sistematica del protocollo di accoglienza e introduzione della scheda di accoglienza/
valutazione inclusa nella cartella clinica;
6.Somministrazione di un questionario ai ricoverati, in tempi successivi, per verificare che l’accoglienza sia
avvenuta nelle modalità previste.
Applicazione del progetto
Nel periodo compreso tra l’1 luglio 2007 e 31 dicembre 2007, abbiamo condotto un’indagine volta a
rilevare il livello di soddisfazione degli utenti ricoverati presso la nostra struttura. I questionari, distribuiti
a tutti i genitori dei bambini ricoverati all’atto dell’accettazione, sono stati compilati dagli stessi all’atto
della dimissione.
Il campione esaminato nel periodo di riferimento è pari a cinquanta bambini ricoverati.
Strumenti e metodi di rilevazione
Sono stati distribuiti 50 questionari, ciascuno composto da 14 domande chiuse ed una aperta. Tutti
riconsegnati compilati. Le domande riguardavano le modalità del ricovero, i tempi di attesa, le figure
professionali coinvolte nel processo di accoglienza, il luogo dove si era svolto l’accoglienza, la chiarezza
delle informazioni ricevute e il rispetto della privacy. Altre variabili riguardavano giudizi sull’assistenza
ricevuta e suggerimenti per migliorare l’accoglienza. I questionari, una volta raccolti, sono stati codificati
e sottoposti ad elaborazione dei dati.
Analisi dei risultati
Dai dati esaminati emerge una buona sensibilità, da parte del personale sanitario, verso il momento
dell’accoglienza, anche se una maggiore rilevanza viene data prevalentemente agli aspetti umani e
PREMI
236 VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA
all’inserimento del bambino nella struttura. I bisogni dell’utente sono compresi, ma vengono fornite
informazioni al paziente e/o alla sua famiglia solo verbalmente. Non viene, infatti, consegnato al paziente
e/o ai suoi familiari, l’opuscolo informativo previsto dalla “Carta dei Servizi”. Inoltre, sono trascurati
gli elementi più qualificanti del processo assistenziale, quali l’assenza di spazi dedicati e la mancanza
di procedure scritte e condivise dall’equipe. Certamente i vincoli legati alla struttura (assenza di spazi
dedicati) possono limitare molto la creazione di un “clima” favorevole all’accoglienza, ma l’assenza di
procedure scritte e condivise dall’équipe, nonché l’assenza di dati sulla reale attività infermieristica, da un
lato non permettono di utilizzare il momento dell’accoglienza quale indicatore della qualità assistenziale
e dall’altro rendono difficile un comportamento omogeneo degli operatori.
Ne consegue che, essendo il processo strettamente legato all’esito, potrebbe risultare molto difficile
valutare la qualità degli interventi erogati, anche perché non esiste una valutazione formalizzata e
sistematica della qualità percepita dagli utenti.
Conclusioni
Da quanto finora esposto, si evidenzia la mancanza di procedure uniformi per l’accoglienza dell’utente
nell’ambito dell’U.O. esaminata. Le considerazioni esposte nella premessa, sul valore che l’accoglienza
assume nel rapporto operatore sanitario/paziente, inducono a considerare necessaria la formulazione di
procedure precise in tal senso.
Se l’accoglienza ha solo valore informativo, lo standard minimo è facilmente raggiungibile con buona
educazione e rispetto e fornendo le informazioni essenziali riguardo ai servizi disponibili. Se invece
i contenuti dell’accoglienza vogliono essere fortemente professionalizzati, diventa predominante la
necessità di realizzare un PROGETTO che preveda l’utilizzo della SCHEDA DI ACCOGLIENZA (per la raccolta
dei dati), del PROTOCOLLO DI ACCOGLIENZA (strumento indispensabile per la pianificazione assistenziale)
e dell’OPUSCOLO INFORMATIVO.
La formalizzazione dell’accoglienza tramite un protocollo richiede la sua definizione e condivisione da
parte di tutti gli operatori.
Gli strumenti che facilitano tale processo sono: un’attenta gestione delle risorse umane, che tenga
conto delle specifiche competenze e delle necessità formative di ogni singolo operatore, correlandole
correttamente alle esigenze dell’utenza e dell’organizzazione. Inoltre, una procedura formalizzata di
accoglienza può senza dubbio essere assunta quale indicatore di qualità, sia per la struttura, sia per il
processo che per l’esito (valutando la soddisfazione degli operatori e dei pazienti). “Accogliere” il paziente
in un reparto indica “attenzione” nei confronti del paziente stesso e la qualità assistenziale marcatore di
professionalità e di organizzazione.
Bibliografia
1. Axia V. - Elementi di Psico-oncologia pediatrica - Ed. Carocci Faber, Roma, 2004
2. Casati M. - La documentazione infermieristica - Ed. Mc Graw-Hill, Milano, 2005
3. Destrebecq A. Terzoni S. - Managment infermieristico - Ed. Carrocci Faber, Roma, 2007
4. Fain James A. - La ricerca infermieristica - Ed. Mc Graw-Hill, Milano, 2004
5. Focarile F. - Indicatori di Qualità nell’assistenza sanitaria - Ed. Centro Scientifico, Torino, 1998
6. Malinverno E. - La qualità dell’assistenza infermieristica - Ed. Carrocci Faber, Roma, 2006
7. Moiset C. Vanzetta M., La qualità nell’assistenza infermieristica, Ed. Mc Graw-Hill, Milano, 2006
8. Bona M., L’accoglienza quale indicatore della qualità percepita.Managment Infermieristico 1999
9. Giacomelli R. Umanizzare le cure, Nursing, 2007; n. 3: 53-55
10. Motta P. C. Jessica F., La relazione e la comunicazione con la persona assistita, Nursing Oggi
11. Motta P. C., Linee guida, clinicalpathway e procedure per la pratica infermieristica: un inquadramento
PREMI
VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA
237
concettuale e metodologico. Nursing Oggi. 2001; n. 4: 27-35.
12. Vanzetti M. Vallicella F., Il punto di vista dell’utente: come si misura e quanto costa misurarlo. Managment
Infermieristico, 2000 ; n. 4:13 -18..
13. Borgia L. La valutazione della qualità nei servizi sociali. Un progetto di valutazione della qualità percepita in
una unità di degenza specialistica, Difesa sociale, 2006; n.1-2
Programma nazionale linee guida, http:\www.pnlg.it
Assistenza infermieristica basata su prove di efficacia, http:\wwwevdence-based-nursig.it
PREMI
238 VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA
RUOLO DELLA SERIN- PROTEASI HTRA1 NELLA PROLIFERAZIONE E
DIFFERENZIAZIONE DELLE CELLULE DI NEUROBLASTOMA
G. Pecoraro
Servizio di Oncologia Pediatrica, Seconda Università Degli Studi Di Napoli
Il Neuroblastoma
Il neuroblastoma è un tumore maligno che origina dalle cellule della cresta neurale, struttura embrionale
da cui nascono la midollare del surrene e i gangli del sistema nervoso autonomo. Sebbene esso sia un
tumore molto raro rappresenta la neoplasia solida a localizzazione extracrani­ca più comune nell' infanzia.
Costituisce infatti l’ 8% - 10% di tutti i tumori dell’ infanzia e provo­ca circa il 15% dei decessi da essi
causati. La prevalenza attualmente stimata è di 1 caso su 7000 nascite e ci sono circa 800 nuovi casi
di neuroblastoma ogni anno negli Stati Uniti ma evidenze dimostrano che la diffusione è uniforme in
tutto il mondo. Il 35% di queste neoplasie compare entro il primo anno di vita, il 20% durante il secondo.
Nell'insieme, 1'85-90% di queste neoplasie insor­ge entro i primi 5 anni di vita e i casi diventano molto più
rari nelle età successive; la diagnosi è eccezionale nell’ adolescente e nell’ adulto. Attualmente l’eziologia
del neuroblastoma è sconosciuta e nessun agente ambientale, fisico, chimico o virale è stato identificato
come fattore di rischio nella patogenesi del tumore. C'è pertanto grande interesse intorno alle scoperte
sulle caratteristiche genetiche e sulla biologia molecolare di questa neoplasia. Molti studi hanno
dimostrato e valutato le basi genetiche della predisposizione al neuroblastoma. È stato ipotizzato che l’
alterazione di geni che partecipano al normale sviluppo delle componenti noradrenergiche del sistema
nervoso sia alla base della trasformazione maligna. Attualmente uno dei parametri più importanti da
valutare è l' amplificazione dell’ oncogene N-myc localizzato sul braccio corto del cromosoma 2 nella
regione 2p24: l’ N-myc amplificato conferisce un vantaggio selettivo alle cellule tumorali. L’ amplificazione
è caratteristica delle forme avanzate, a rapida progressione e a decorso sfavorevole sia nei neonati sia nei
bambini più grandi; si associa alle strutture "double minu­tes" (DMs); più è alto il numero di co­pie di N-myc,
più strutture a "double minutes" si osservano a livello genomico, più risulta essere infausta la prognosi.
Va tuttavia ricorda­to come alcuni pazienti, pur mostrando la pre­senza di una sola copia del gene N-myc,
siano andati incontro a evoluzione particolarmente sfavorevole. Pertanto non è di per sè il nume­ro di
copie di questo gene a determinare la prognosi, quanto il livello finale della sua espressione. Delezioni
delle bande cromosomiche 1p36 e 11q14-23 sono presenti: queste regioni sono coinvolte soprattutto
nella trasformazione maligna di gran parte dei neuroblastomi che insorgono come forme sporadiche. La
perdita dell’ allele 11q è presente nel 35% - 45% dei casi ed è associata a caratteristiche sfavorevoli quali
stadio avanzato, fenotipo sfavorevole, età avanzata.
La delezione del braccio corto del cromosoma 1 posto in posizione distale rispetto alla ban­da p32 è
presente nel 30% dei casi e modifica significativamente la prognosi: la perdita di questo allele infatti
predisporrebbe al rischio di ricadute in pazienti con tumore localizzato; essa rappresenta senz'altro
l'anomalia citoge­netica più caratteristica di queste neoplasie, implicando la perdita di uno o più geni
soppressori coinvolti nella patogenesi del neuroblastoma. Anche la ploidia delle cellule tumorali in­fluenza
la prognosi. Nel neuroblastoma si può riscontrare contenuto anomalo di DNA, sia esso iperdiploide che
aneuploide. Sta di fatto che cellule neoplastiche con conte­nuto in DNA quasi diploide o tetraploide mo­
strano una prognosi intermedia o peggiore.
Dal punto di vista anatomo-patologico, i neuroblastomi va­riano da noduli minuti " le­sioni in situ " a
grandi masse di peso anche su­periore al Kg. I neuroblastomi a caratteristiche clinicamente manifeste
possono presentare una spontanea re­gressione o, alternativamente, differenziarsi maturando nella
forma relativamente più benigna del ganglioneuroma. Distinguiamo tre sottotipi istopatologici di questo
tumore:
Neuroblastoma: istotipo più maligno con cellule indifferenziate di piccole dimensioni, rotondeggianti,
con scarso citoplasma, nuclei picnotici spesso aggregate a formare le pseudorosette di Homer-Wright
PREMI
VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA
239
sopra menzionate (Schwannian stroma poor)
Ganglioneuroblastoma: cellule neuroblastiche associate a cellule gangliari mature ("Intermixed",
Schwannian stroma rich)
Ganglioneuroma: cellule gangliari ben differenziate e fibre nervose (Schwannian stroma dominant). In
questo caso, in mezzo alla gran parte di cellule ad aspetto scarsamente differenziato (a tipo di neuroblasto
primitivo), si può cogliere la pre­senza di elementi cellulari di più grandi dimensioni, singolarmente
dispersi o forman­ti piccoli aggregati, dotati di citoplasma abbondante, nucleo grande di aspetto vesci­
colare e nucleolo prominente.
La localizzazione del tumore al momento della diagnosi è variabile potendo il neuroblastoma insorgere
ovun­que lungo la catena simpatica. Nei bambini, in circa il 65% dei casi il neuroblastoma insorge a
livello addominale (surrene); la regione paravertebrale del mediastino posteriore rappresenta la seconda
sede anatomica per incidenza ed è più frequente nei bambini con meno di un anno d’ età. A quest'
ultima fa seguito la regione paraverte­brale in corrispondenza del basso addome, e numerose altre sedi
meno frequenti sono la pelvi, il collo e l'encefalo. Le metastasi, quando si sviluppano, sono precoci ed
ampiamente distribuite.
Per la stadiazione il sistema oggi utilizzato è quello stabilito dall’ ”International Neuroblastoma Staging
System” (INNS):
Stadio I: tumore localizzato unicamente nell’ organo di origine, ed è chirurgicamente asportabile senza
residui macroscopici e presenta i linfonodi “ rappresentativi” negativi.
Stadio II: tumore che si estende con conti­nuità oltre i confini dell'organo di origi­ne senza però oltrepassare
la linea me­diana e linfonodi omolaterali sono negativi (2A) o con coinvolgimento dei linfonodi ipsilaterali
(2B).
Stadio III: il tumore è inoperabile, infiltra la linea mediana con o senza interessamento dei linfonodi
regionali o tumore della linea mediana con estensione bilaterale per infiltrazione o interessamento
metastatico linfonodale.
Stadio IV:il tumore è disseminato e interessa i linfonodi a distanza, l’osso, il midollo osseo, il fegato e altri
organi.
Stadio IVs: tumori che dovrebbero essere classificati come stadio I o II, ma che presentano coinvolgimento
a distanza (fegato, cute o midollo osseo).
HtrA1
La proteina HtrA1 appartiene alla famiglia delle serin - proteasi - HtrA che è costituita da quattro proteine:
HtrA1, HtrA2, HtrA3, HtrA4. Queste sono coinvolte nei meccanismi deputati al controllo dell’ integrità
delle proteine in risposta allo stress e nella degradazione delle proteine della matrice extracellulare
(ECM), fondamentali nella progressione e nell’invasione dei tumori (Spiess et al. 1999; Wilken et al. 2004).
Inoltre sono coinvolte in vari processi cellulari come l’apoptosi, il differenziamento cellulare e nel cancro
nonostante i meccanismi biologici di base non siano ancora ben conosciuti (Clausen et al. 2002; Jones et
al. 2003; Suzuki et al. 2004).
Infatti diversi studi hanno dimostrato che HtrA1, se down-regolata, gioca un ruolo importante nella
progressione maligna di diversi tumori come il cancro ovarico (Shridhar et al. 2002) e il melanoma (Baldi
et al. 2002, 2003), ed è stata proposta come un nuovo onco-soppressore in alcuni tumori (Baldi et al. 2002;
Chien et al. 2004).
Questa serina-proteasi di circa 51 kDa è a localizzazione citoplasmatica, ed è codificata dal gene PRSS11
localizzato sul cromosoma 10 in un singolo locus della regione 10q25.3-q26.2 (Zumbrum e Trueb 1997).
Presenta vari domini: il dominio “S” rappresenta il segnale di secrezione (codoni 1-22) che conferisce alla
proteina una funzione proteolitica nel momento in cui viene secreta all’esterno della cellula; il dominio
“mac25” presenta il 44% di identità e il 58% di similarità con IGFBP-3, proteine leganti il fattore di crescita
insulina-simile (Zapf 1995; Bach e Rechler 1995) (codoni 20-140). Questo dominio potrebbe giocare un
ruolo regolatorio nell’attivazione o nell’inibizione della serina-proteasi e conferirebbe la capacità ad HtrA1
PREMI
240 VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA
di interagire con IGF-I o IGF-II. E' stato dimostrato inoltre che il complesso mac 25 può formare un complesso
stabile specifico con l’ inibitore delle serin-proteasi alfa-1-antitripsina: ciò suggerisce che HtrA1 abbia un
ruolo nella regolazione della crescita cellulare (Hu et al. 1998; Spiess et al. 1999). Segue il piccolo dominio
Kazal-type (KI) che inibisce l’attività della proteasi (codoni 97-155). I domini Kazal sono presenti negli
inibitori delle serin-proteasi (es. inibitore della tripsina pancreatica) così come nelle proteine follistatinasimili. Il dominio Kazal della proteina HtrA1 umana potrebbe, perciò, essere associato con il sito attivo
della serina-proteasi oppure cooperare con il dominio di legame per l’IGF (mac25) nell’interazione con i
fattori di crescita (Zumbrunn e Trueb 1996). La presenza del motivo inibitore in HtrA1 umana suggerisce
che questa serina-proteasi possa essere un enzima autoregolante. Non è, però possibile, escludere che
possa regolare altre serina-proteasi (Hu et al. 1998); un largo dominio “HtrA” (codoni 140-480) (Zumbrunn
e Trueb 1996; Hu et al. 1998) che presenta elevata omologia di sequenza con le altre proteine della
famiglia HtrA; il dominio “PDZ”, che permette l’attività proteolitica e che sembra determinare un’attività
di chaperone (codoni 372-466) (Ponting 1997). La porzione C-terminale della proteina è strettamente
correlata alla famiglia delle proteasi batteriche HtrA/Do (Lipinska et al 1988; Seol et al 1991; SkorkoGlonek et al 1995a): queste proteasi possiedono una particolare sequenza amminoacidica (GNSGGAL)
nel loro sito attivo contenente residui di serina e istidina che conferiscono loro un‘ attività catalitica.
La stessa sequenza è stata trovata in HtrA1 umana in posizione 326-332 e consente di affermare che
la proteina umana HtrAl rappresenta una serina-proteasi funzionale (Zumbrum e Trueb 1996). HtrA1
interviene anche nel folding proteico. In generale la stabilità delle proteine, all’interno delle cellule,
dipende dall’avvolgimento o da fattori cellulari che possono interferire con il loro ripiegamento. E’ stato
dimostrato che a basse temperature, HtrA presenta un’attività di “chaperone” ed è in grado di stimolare
il ripiegamento dei substrati chimicamente denaturati. Ad alte temperature, invece, HtrA esprime quasi
esclusivamente la sua attività proteolitica (Spiess et al. 1999).
Alcuni studi hanno dimostrato il coinvolgimento di HtrA1 in alcuni tumori come il melanoma, tumori
ovarici e osteosarcomi. Il gene umano PRSS11 che codifica per questa proteina mappa sul cromosoma
10 (Zumbrum e Trueb 1997). Alterazioni del cromosoma 10, fino alla perdita dell’intero omologo
cromosomico, sono comuni nei melanomi umani e sono indicatori di prognosi cliniche gravi (Robertson
et al. 1999). Diversi studi di citogenetica indicano che la regione distale del cromosoma 10q ospita più
di un gene coinvolto nella formazione del melanoma e che agisce come oncosoppressore (Indsto et al.
1998).
L’esatta funzione di PRSS11 e del suo prodotto proteico HtrA1 nel cancro umano è ancora largamente
sconosciuta. Tuttavia, la sua “down-regulation” nei fibroblasti umani trasformati con SV40 (Zumbrum
e Trueb 1996) e nei tumori ovarici (Shridar et al. 2002) suggerisce che possa avere un ruolo nella
trasformazione maligna (Baldi et al. 2002). Inoltre, il dominio mac25 è correlato alla follistatina, che
agisce come soppressore di crescita negli osteosarcomi (Kato et al. 1996). Questi dati suggeriscono che
l’attività dell’HtrA1 secreta potrebbe essere coinvolta nella regolazione della crescita cellulare attraverso
la modulazione della risposta ai fattori di crescita che interagiscono con il dominio mac25 (Baldi et al.
2002).
.Inoltre uno studio dell' espressione di HtrA1 nei tessuti normali e durante l’embriogenesi del topo ha
evidenziato che bassi livelli di HtrA1 mRNA sono rilevati nell’embrione all’inizio dell’organogenesi e i livelli
di espressione aumentano alla fine dell’organogenesi con una intensa positività nei gangli paravertebrali
del sistema nervoso autonomo. (De luca et al. 2004).
Obiettivi dello studio
Scopo della ricerca è stato quello di valutare la modulazione dell’espressione e della localizzazione di
HtrA1 alla diagnosi in tessuti tumorali di bambini affetti da neuroblastoma diagnosticati e trattati presso
il Servizio di Oncologia Pediatrica della Seconda Universita’ di Napoli.
In particolare, poiche’ dallo studio dell’espressione di tale proteina durante lo sviluppo del topo è emerso
che HtrA1 ha un ruolo nello sviluppo del Sistema Nervoso sia nella divisione cellulare che nei neuroni
PREMI
VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA
241
post-mitotici attraverso l’ inibizione di TGF-beta, ci proponiamo di valutare l’eventuale coinvolgimento
di tale proteina nella patogenesi e nella progressione del Neuroblastoma, per individuare nuovi fattori
che potrebbero condizionare l’evoluzione di questa neoplasia che, per molti aspetti, rimane ancora oggi
sconosciuta.
Materiali e Metodi
Abbiamo effettuato un' analisi quantitativa e qualitativa della proteina HtrA1 utilizzando campioni di tessuto
tumorale appartenenti a pazienti affetti da neuroblastoma (NB, 50/60 bambini) e ganglioneuroblastoma
(GNB, 10/60 bambini)
In accordo alle linee guida dell’ International Neuroblastoma Staging System (INSS), i pazienti sono stati
così classificati:
- 26/60 pazienti: stadio I - II
- 14/60 pazienti: stadio III
- 16/60 pazienti: stadio IV
- 4/60 pazienti: stadio IVs
Per l’ analisi quantitativa abbiamo effettuato l’estrazione proteica dai prelievi bioptici criopreservati a -80
C° di neuroblastoma mediante omogeneizzazione a 4°C in buffer di lisi di piccolissime porzioni di prelievo
bioptico (50 mM Tris ph 7.6, 5 mM EDTA, 250 mM NaCl, 50 mM NaF, 0, 1% Triton X-100, 0, 1 mM Na3VO4)
Al buffer di lisi sono stati aggiunti gli inibitori delle proteasi: 4µL/mL di PMSF, 2µL/mL di aprotinina e
pepstatina, 1µL/mL di Sodio Ortovanadato. Le cellule lisate sono state centrifugate a 4° C a 14000 rpm
per due minuti e le proteine totali sono state estratte dal surnatante residuo. La concentrazione proteica
è stata determinata allo spettofotometro a 595 nm con il saggio colorimetrico Bio-Rad, che fa uso del
colorante blue di Coomassie. Tale saggio si basa sul metodo Bradford che permette di quantizzare le
proteine estratte attraverso il cambiamento di colore del Comassie blu in rapporto alla concentrazione
proteica. La retta di taratura è stata ottenuta usando come standard di riferimento l’albumina di siero
bovino (BSA), in quantità note da 2 a 20 µg. L’omogenato è stato chiarificato mediante centrifugazione
a 15.000 g a 4°C. L’ analisi quantitativa è stata condotta mediante saggio Western Blotting. 30µg di
proteine sono state caricate e corse su gel di poliacrilammide 10%. Le proteine all’interno del gel sono
state trasferite su una membrana PVDF (Millipor, Marlborough, MA) in buffer CAPS (10 mM CAPS, 20%
metanolo, ph 11). La membrana è stata bloccata con latte 5% in tampone TBS-T (2 mM Tris, 13.7 mM NaCl,
0.1% tween-20, ph 7.6) per 1 ora a temperatura ambiente e successivamente lavata in TBS-T. L’anticorpo
policlonale anti-HtrA1 è stato incubato sulla membrana diluito 1:1000 in latte 3% per 1 ora a temperatura
ambiente e successivamente la membrana è stata lavata in TBS-T. La membrana è stata poi incubata con
l’anticorpo secondario anti-rabbit diluito 1: 5000 per 45 min. a temperatura ambiente e successivamente
lavata con TBS-T. La presenza dell’ anticorpo secondario sulla membrana è stata evidenziata usando il
sistema chemio luminescente ECL (ECL; Millipor, Marlborough, MA) secondo protocollo consigliato dal
produttore.. La chemioluminescenza è stata visualizzata con ChemiDoc XRS Sistem che permette la
detezione e la quantizzazione delle bande proteiche.
Per l’ analisi qualitativa sono state utilizzate le inclusioni in paraffina di neuroblastoma. In sintesi le
sezioni tagliate dai blocchetti di paraffina sono state sparaffinate in xilene, reidratate attraverso una serie
decrescente di alcool etilico e lavati nel tampone salino fosfato (PBS) a pH 7.4. Il PBS è stato usato per tutti
i successivi lavaggi e per la diluizione dell’antisiero, in alternanza con lavaggi in TBS 1X (Tris buffer saline)
per le sezioni in esame.
Le sezioni di tessuto sono state incubate con perossido di idrogeno (H2O2) 3 % per 15 min, allo scopo di
bloccare le perossidasi endogene e successivamente sono state incubate con pronasi (Sigma) per 10 min
per smascherare i siti antigenici. In seguito le sezioni sono state incubate con PBS-latte al 6% per 1 h a
temperatura ambiente, per bloccare i siti aspecifici.
I preparati istologici sono stati poi incubati a 4°C overnight con un anticorpo contro HtrA1 (policlonale
di coniglio) diluito 1:100. Dopo diversi lavaggi per rimuovere l’eccesso di anticorpo, i preparati istologici
PREMI
242 VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA
sono stati incubati a temperatura ambiente con un anticorpo secondario biotinilato anti-coniglio (Vector
Laboratories) diluito 1:200 per 1 ora.
Tutti i preparati istologici sono stati processati con il metodo ABC (Vector Laboratories) per 30 min a
temperatura ambiente. La 3, 3’ diaminobenzidina (Vector Laboratories) è stata usata come cromogeno
finale per rivelare la reazione di localizzazione.
I controlli negativi dei campioni esaminati sono stati fatti sostituendo l’antisiero primario con un siero di
coniglio non immune. Tutti i preparati sono stati processati contemporaneamente in modo da esporli al
cromogeno per lo stesso tempo.
La valutazione dei risultati è stato effettuat da tre indipendenti esaminatori che avevano precedentemente
concordato i seguenti parametri:
0:: 0% di cellule positive
1+: 1-20% di cellule positive
2+: 21-60% di cellule positive
3+: 61- 100% di cellule positive
Risultati
L’ analisi quantitativa da evidenziato che HtrA1 è espressa in 56\60 campioni (93, 3%) con diversi livelli di
espressione:
- Bassi livelli in 36/56 campioni (64, 3 %)
- Alti livelli in 20/56 campioni (35, 7%) di cui 10 sono Ganglioneuroblastoma.
I risultati hanno dimostrato, come è evidenziato nelle tabelle seguenti, che i livelli più alti di espressione
sono stati individuati maggiormente negli stadi iniziali (I, II e IVs) rispetto agli stadi avanzati (III e IV); al
contrario bassi livelli di espressione sono stati rilevati soprattutto negli stadi avanzati. Questa differenza è
risultata statisticamente significativa (p<0.05).
Tabella 1 Alti livelli di espressione di HtrA1
Tabella 2 Bassi livelli di espressione di HtrA 1
La figura n.1 rappresenta un pannello esemplificativo di Western Blotting che mostra la modulazione
della proteina nei diversi campioni:
Figura n. 1: Immunoblotting di campioni di neuroblastoma
L’ analisi qualitativa effettuata mediante immunoistochimica ha evidenziato che l’espressione della
PREMI
VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA
243
proteina HtrA1 risulta direttamente proporzionale al grado di differenziazione del tumore. In particolare
nei campioni di neuroblastoma (caratterizzato da rosette costituite da neuroblasti con nuclei fortemente
basofili con scarso o quasi assente citoplasma) abbiamo evidenziato aree indifferenziate negative, con
livello di espressione di HtrA1 pari a zero.
In questi preparati istologici osserviamo, intercalate tra i neuroblasti indifferenziati, strutture del tessuto
nervoso più mature come i tubuli neuroidi, vasi, background fibrillare, cellule di Schwann e tessuto
connettivo, che esprimono livelli maggiori di HtrA1 pari a 1+ e 2+. Questa caratteristica evidenzia che il
livello di espressione della proteina aumenta con il differenziamento delle strutture cellulari. Al contrario
i preparati istologici di ganglioneuroblastomi (“Intermixed”, Schwannian stroma rich) mostrano un livello
di espressione di HtrA1 più elevato. Nelle aree francamente gangliari la positività di HtrA1 può essere
considerata pari ad un valore di 2+ come mostra la figura 2. Gli elementi cellulari di più grandi dimensioni
anche qui presenti, ma che in generale sono caratteristici dei ganglioneuromi, mostrano una positività
molto marcata pari ad un valore di espressione 3+ come dimostrato nella figura 3.
Fig. 2 Bassa espressione di HtrA1
Fig. 3 Alta espressione di HtrA1
Pertanto abbiamo evidenziato che l’espressione di HtrA1 aumenta con l’aumentare del grado di
differenziazione del tumore. I risultati ottenuti sui campioni esaminati per immunoistochimica sono stati
confermati anche valutando l’espressione negli stessi campioni sui loro lisati proteici mediante la tecnica
dell’immunoblotting.
I nostri dati mostrano che l’ iperespressione di HtrA1 sembra essere correlate a un maggior grado di
differenziazione cellulare. Inoltre, considerando il coinvolgimento di HtrA1 nei processi di adesione
cellulare, possiamo ipotizzare che l’espressione di HtrA1 possa correlare con un meccanismo di maggior
adesione cellulare e conseguentemente minore propensione ad acquisire un fenotipo metastatico
in quei neuroblastomi che mostrano gradi di differenziazione maggiori e presenza di componenti più
differenziate quali cellule di Schwann e di connettivo interstiziale
PREMI
244 VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA
Conclusioni
I risultati ottenuti con queste due metodiche mostrano come l’espressione di HtrA1 varia notevolmente
nei vari neuroblastomi in correlazione allo stadio e al grado di differenziamento del tumore.
Dal punto di vista clinico il riscontro di una modulazione dell’espressione proteica di HtrA1 apre nuovi
scenari nello studio di questa proteasi e del suo coinvolgimento nella genesi del neuroblastoma.
In sintesi i risultati ottenuti dal progetto di ricerca esposto dimostrano che HtrA1 potrebbe rappresentare
un nuovo parametro molecolare per identificare fenotipi tumorali più aggressivi in aggiunta ai parametri
già noti aprendo nuove conoscenze su questo grave tumore dell’età pediatrica con importanti risvolti
prognostico - terapeutici.
Obiettivi a lungo termine di questo progetto di ricerca sono quelli di comprendere i meccanismi
molecolari che sono alla base di questo fenomeno mediante metodiche come le trasfezioni di HtrA1 o
il suo silenziamento in cellule che rappresentano i vari fenotipi del tumore in esame. Questi esperimenti
ci consentiranno di comprendere come HtrA1 possa influenzare il differenziamento cellulare dei
neuroblastomi, infatti ci consentirà di valutare le modulazioni del ciclo cellulare e dei fenomeni apototitci
in seguito al silenziamento o all’overespressione del gene.
Bibliografia
1. Baldi A, De Luca A, Morini M, Battista T, Felsani A, Baldi F, Catricala C, Amantea A, Noonan DM, Albini A, Natali
P G, Lombardi D, Paggi MG. (2002). The HtrAl serine protease is down-regulated during human melanoma
progression and repress growth of metastatic melanoma cells. Oncogene. 21(43): 6684-6688.
2. Chien J, Staub J, Hu SI, Erickson-Johnson MR, Couch FJ, Smith DI, Crowl RM, Kaufmann SH, Shridhar V. (2004).
A candidate tumor suppressor HtrA1 is down-regulated in ovarian cancer. Oncogene 23: 1636-1644.
3. Clausen T, Southan C, Ehrmann M. (2002). The HtrA family of proteases: implications for protein composition
and cell fate. Mol Cell 10: 443-445.
4. De Luca A, De Falco M, Severino A, Campioni M, Santini D, Baldi F, Paggi MG, Baldi A. (2003). Distribution of the
serine protease HtrA1 in normal human tissues. J. Histochem Cytochem; 51(10):1279-84.
5. De Luca A, De Falco M, De Luca L, Penta R, Shridhar V, Baldi F, Campioni M, Paggi MG, Baldi A. (2004b). Pattern
of expression of HtrA1during mouse development. J. Histochem Cytochem; 52(12): 1609-17.
6. Ehrmann M, Clausen T. (2004). Proteolysis as a regulatory mechanism. Annu. Rev. Genet.38, 709-724.
7. Goff SA, Goldberg AL. (1985). Production of abnormal proteins in E. coli stimulates transcription of lon and
other heat shock genes. Cell 41(2), 587-595.
8. Grau S, Baldi A, Bussani R, Tian X, Stefanescu R, Przybylski M, Richards P, Jones SA, Shridhar V, Clausen T,
Ehrmann M. (2005). Implications of the serine protease HtrA1 in amyloid precursor protein processing. Proc.
Natl. Acad. Sci USA; 102:6021-6026.
9. Gray CW, Ward RV, Karran E, Turconi S, Rowles A, Viglienghi D, Southan C, Barton A, Fantom KG, West A,
Savopoulos J, Hassan NJ, Clinkenbeard H, Hanning C, Amegadzie B, Davis JB, Dingwall C, Livi GP, Creasy CL.
(2000). Characterization of human HtrA2, a novel serine protease involved in the mammalian cellular stress
response. Eur. J Biochem. 267, 5699-57 10.
10. Hu SI, Carozza M, Klein M, Nantermet P, Luk D, Crowl RM. (1998). Human HtrA, an evolutionarily conserved
serine protease identified as a differentially expressed gene product in osteoarthritic cartilage. J Biol. Chem.
273, 34406- 344 12.
11. Indsto JO, Holland EA, Kefford RF, Mann GJ. (1998). l0q deletions in metastatic cutaneous melanoma. Cancer
Genet. Cytogenet. 100(1), 68-71.
12. Jones JM, Datta P, Srinivasula SM, Ji W, Gupta S, Zhang Z, Davies E, Hajnoczky G, Saunders TL, Van Keuren ML
et al. (2003). Loss of Omi mitochondrial protease activity causes the neuromuscular disorder of mnd2 mutant
mice. Nature 425, 721-727.
PREMI
VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA
245
13. Kato MV, Sato H, Tsukada T, Ikawa Y, Aizawa, S, Nagayoshi M. (1996). A follistatin-like gene, mac25, may act
as a growth suppressor of osteosarcoma cells. Oncogene 12, 1361- 1364.
14. Koch CA, Anderson D, Moran MF, Ellis C, Pawson T. (1991). SH2 and SH3 domains: elements that control
interactions of cytoplasmic signaling proteins. Science 252, 668- 674.
15. Lipinska B, Sharma S, Georgopoulos C. (1988). Sequence analysis and regulation of the HtrA gene of
Escherichia coli: a sigma 32-indipendent mechanism of heat-inducible transcription. Nucleic Acids Res. 16,
10053-10067.
16. Lipinska B, Fayet O, Baird L, Georgopoulos C. (1989). Identification, characterization, and mapping of the
Escherichia coli HtrA gene, whose product is essential for bacterial growth only at elevated temperatures. J
Bacteriol 171: 1574-1584.
17. Lipinska B, Zylicz M, Georgopoulos C. (1990). The HtrA (DegP) protein, essential for Escherichia coli survival
at high temperature, is an endopeptidase. J Bacteriol. 172, 179 1-1797.
18. Martins LM, Iaccarino I, Tenev T, Gschmeissner, Totty NF, Lemoine NR, Savapoulos J, Gray CW, Creasy CL,
Dingwale C, Downward J. (2002). The serine protease Omi/HtrA2 regulates apoptosis by binding XIAP through
a reaper-like motif. J Biol Chem; 277: 439-444.
19. Nie GY, Hampton A, Li Y, Findlay JK, Salamonsen LA. (2003a). Identification and cloning of two isoforms
of human high-temperature requirement factor A3 (HtrA3), characterisation of its genomic structure and
comparison of its tissue distribution with HtrA1 and HtrA2. Biochem J ; 371 (PT): 39-48.
20. Oka C, Tsujimoto R, Kajikawa M, Koshiba-Takeuchi K, Ina J, Yano M, Tsuchiya A, Ueta Y, Soma A, Kanda H,
Matsumoto M, Kawaichi M. (2004). HtrA1 serine protease inhibits signaling mediated by Tgf-β family proteins.
Development; 131 (5):1041-53.
21. Pallen MJ, Wren BW. (1997). The HtrA family of serine proteases. Mol Microbiology 26 (2), 209-221.
22. Ponting CP. (1997). Evidence for PDZ domains in bacteria, yeast and plants. Protein Sci. 6, 464-468.
23. Robertson GP, Herbst R A, Nagane M, Huang H J, Cavenee WK. (1999). The chromosome 10 monosomy
common in human melanomas results from loss of two separate tumor suppressor loci. Cancer Res. 59, 35963601.
24. Seol JH, Woo SK, Jung EM, Yoo SJ, Lee CS, Kim KJ, Tanaka K, Ichihara A, Ha DB, Chung CH. (1991). Protease Do
is essential for survival of Escherichia coli at high temperatures its identity with the htrA gene product. Biochem
Biophys Res Commun 176, 730-736.
25. Shridhar V, Sen A, Chien J, Staub J, Avula R, Kovats S, Lee J, Lillie J, Smith DI. (2002). Identification of
underexpressed genes in early- and late-stage primary ovarian tumors by suppression subtraction hybridization.
Cancer Res. 62, 262-270.
26. Spiess C, Beil A, Ehrmann M. (1999). A temperature-dependent switch from chaperone to protease in a
widely conserved heat shock protein. Cell. 97, 339-347.
27. Suzuki Y, Takahashi-Niki K, Akagi T, Hashikawa T, Takahashi R. (2004). Mitochondrial protease Omi/HtrA2
enhances caspase activation through multiple pathways. Cell Death Differ. 11, 208-216.
28. Wilken C, Kitzing K, Kurzbauer R, Ehrmann M, Clausen T. (2004). Crystal structure of the DegS stress sensor:
how a PDZ domain recognizes misfolded protein and activates a protease. Cell 117; 483-494.
29. Zapf J. (1995). Physiological role of the insulin-like growth factor binding proteins. Eur. J Endocrinol. 132,
645-654.
30. Zumbrunn J, Trueb B. (1996). Primary structure of a putative serine protease specific for IGF-binding proteins.
FEBS Lett. 398, 187-192.
31. Zumbrunn J, Trueb B. (1997). Localization of the gene for a serine protease with IGF-binding domain (PRSS11)
to human chromosome10q25.3-q26.2.Genomics45, 461-462.
PREMI
246 VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA
SUCCESSFUL TREATMENT WITH PROTEIN C OF FEBRILE NEUTROPENIA
IN PEDIATRIC PATIENTS DURING CANCER THERAPY
V. Cecinati
Unità Operativa “F.Vecchio”Dipartimento Biomedicina Età Evolutiva Università degli Studi di Bari
Febrile Neutropenia (FN) is a complication of chemotherapy in childhood cancer and at the same time
secondary deficit of Protein C (PC) is often present during sepsis in children with cancer. In this study we
have compared the clinical outcome of two different groups. At the onset of FN during chemotherapy
the first group (patients with a secondary deficit of PC) received Protein C Concentrate (PCC) replacement
while the other group without PC deficiency received only antimicrobic and symptomatic therapies.
We report that PC replacement could shorten duration of FN and improve the clinical outcome. The
administration of PCC was safe and without any complications.
Keyword
Protein C, febrile neutropenia, children, cancer
Introduction
Febrile neutropenia (FN) is a complication of chemotherapy for the treatment of childhood cancer.
Klastersky et al.(1) reported that: in cancer patients post-chemotherapy neutropenia complicates with
fever in a rate of about 80% and in 60% of these episodes an infectious etiology was discovered. In cancer
patients mortality associated with FN ranges from 5% to 11% in adults (2) and from 2% to 6% in children
(3). FN is frequently the expression of sepsis in children with cancer: in a recent work Watson et al.(4)
described, among these patients, a high prevalence of sepsis and a significative quota of mortality was
due to sepsis (16%). In the general paediatric population they found that sepsis lead to exitus in the
proportion of 10%.
Management of pediatric patients with chemotherapy-related neutropenia requires a multifactor
approach to avoid circulatory shock, and to support haemostasis and immunity. These patients are usually
hospitalized and treated with empirical intravenous antibiotic regimens, even if they are afebrile (5). A
condition of haemostatic disturbance is often present during sepsis in children with cancer, in particular
a secondary deficit of Protein C (PC) is found in more than 85% of patients with sepsis (6). The PC pathway,
because of its central role in haemostasis, plays an integral role in the host response to infection. Activated
protein C inactivates coagulation factors, enhances fibrinolysis and at high concentration reduces the
release of inflammatory cytokines (7, 8). Some studies have demonstrated that low levels of PC in septic
patients increase morbidity and mortality (6, 9, 10). Supplementation with Protein C Concentrate (PCC)
reduce the duration of the febrile septic states in particular in adult and children with meningococcal
sepsis and improve the clinical outcome of paediatric septic patients (11-15), but no studies regarding
PCC supplementation are available in children with sepsis during chemotherapy for cancer.
Aim of this study was to compare the clinical outcome (duration of fever, clinical conditions and
haematological parameters) in two different groups of FN paediatric patients with cancer. The first group
patients with a secondary deficit of PC (group A) received PCC supplementation. The other one, patients
without a secondary deficit of PC (group B) received only symptomatic therapies.
Patients e methods
The study was performed in accordance with the Helsinki Declaration and informed consent was given
by parents. Participants were eligible if they were: 1) diagnosed with cancer and were younger than
16 years of age at the time of diagnosis treated at our AIEOP centre (Pediatric Haematology Oncology
Italian Association) 2) temperature > 38, 3 °C in single measurement or temperature > 38 °C for one hour
continuously (otherwise temperature >38 °C in two observations alternating with 12 hours) or else < 36
°C and in addition one or more of the following findings: lethargy, tachycardia, dyspnea 3) neutrophil
PREMI
VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA
247
count < 500/mm3 or < 1000/mm3 with a trend to decline over the next 2 days. During a FN episode
patients with PC values < 60% of normal PC activity were treated using PCC (Ceprotin ®) until PC levels
were normalized, (group A).Patients with PC values > 60% were only monitored during entire length of
FN.(group B).
All eligible patients were submitted to empirical antimicrobial therapy of febrile neutropenia according
to the Italian guidelines for the management of infectious complications in pediatric oncology (16).
Blood was collected by venipunture in 1/10 volume of 3.8% buffered trisodium citrate for coagulation
studies; we expected a thorough washing with saline if there was a central venous line after making sure
that irrigation by heparin had not been performed in the two hours before the venipunture. Prothrombine
time (PT), Activated partial thromboplastin time (aPTT), Thrombine time (TT), D-Dimer (DD), Fibrinogen
(FBG) were performed by standard methods. PC activity was measured using the kit IL-Test ™ProClot for
determining functional coagulation of PC through the test APTT in the presence of activated PC. The use
of APTT tests to measure the effect of anticoagulant activated protein C is indicated for its sensitivity to
factors V and VIII. The activation of PC in the samples of plasma was obtained through the use of Protac
®, a rapid activator for the reactions in vitro. Complete blood cell counts including platelet counts and
reactive c-protein (CPR) were obtained by standard techniques with an automated instrument.
The PCC used in this study was manufactured by monoclonal antibody purification of viral-inactivated
prothrombin complex concentrate by Baxter Hyland Immuno (Vienna, Austria). This concentrate
undergoes viral inactivation by solvent detergent and vapour-heating methods. After reconstitution, the
concentrate contains 125 IU/mL of CP. One unit is defined as the amount of PC in 1mL of pooled normal
plasma. The concentrate was administered at 100 IU/Kg for two doses daily, but the dose was adjusted
with the aim of maintaining a plasma PC level of 80% to 120%.
Statistics
Data, expressed as median (min-max) and as percentage, were analyzed by MannWhitney-U test and
Fisher Exact test. The Stat View program (Abacus Concepts, Berkley, CA) was used for statistical analysis. A
value of p < 0.05 was considered statistically significant.
Results
We enrolled 23 cases. Group A included 13 patients (10 M and 3 F) with a median age of 81 months (minmax: 32-196), PC values < 60% of normal PC activity. Group B included 10 patients (6 M and 4 F) with a
median age of 99 months (min-max: 18-163), PC values > 60% of normal PC activity. Both groups showed
no significant differences in sex and age. In both groups there have been no deaths as a result of FN and
blood cultures and other tissue cultures were negative in all patients of both groups.
Diagnosis, phase of AIEOP protocol, chemotherapy agents at the time of the study of Group A and Group
B are summarized in Table A and Table B
Values of white blood cell were 519/mm3 (29-1500) in group A and 868/mm3 (180-1730) in group B
(p=NS).Values of absolute count of neutrophil were: 30/mm3 (2-500) in group A and 190/mm3 (14-450)
in group B (p<0, 05). Patients of group A showed PC values of 44% (21-58) at the onset of FN, so they
were supplemented with protein C concentrate; patients of group B showed plasmatic PC values of 74%
(60-168) (p<0, 0001) so they did not receive PCC. Values of cutaneous temperature were 39°C (38-40) in
group A and 38, 5 (38-39) in group B (p<0, 05). Days of fever were 5 (3 - 17) in patients of group A and 6,
5(4-9) in the group B (p<0.05) (figure 1) In patients treated with PCC: RCP, D-dimer and Fibrinogen values
improved significantly from the onset of FN to resolution (p<0.05). No statistical difference were noted
for PT, PTT activity for these group. In group B, RCP, D-dimer, Fibrinogen PT and PTT values were not
significantly different from the onset of FN to resolution (p=N.S).(figure2, 3)
Discussion
A condition of hemostatic and/or thrombotic disturbance is often present during sepsis in children
with cancer. Indeed, there are abnormalities in almost all phases of coagulation with quantitative and
PREMI
248 VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA
qualitative alterations: increase in coagulation factors V, VII, IX, XI and fibrinogen, increase in fibrin
degradation products (due to consumptive coagulopathy), increase in thrombin-antithrombin complex,
altered fibrinolysis and reduced hepatic anticoagulant factors (antithrombin, protein S and PC) (17,
18). In 1993 Lorente (10) et al. reported data of hemostatic abnormalities regarding forty-eight adult
patients with diagnosis of septic shock and they observed that nonsurvivors had a stronger activation of
coagulation and a more marked inhibition of fibrinolysis than survivors, with the consequent decreased
ability to lyse fibrin Low levels of PC due to the consumption of the coagulation factors were found in
a great number of patients with sepsis (17). Moreover the cause of a secondary deficit of PC, during
sepsis, was a high binding to ligands due to up-regulation of PC receptors on mononuclear phagocytes
and large vessel endothelium (19). Previous studies described the crucial role of PC in sepsis, in fact,
this protein represents the most important early predictor factor of outcome during sepsis(6, 9, 10).
Recently Shorr et al. characterized PC levels as an important predictor factor of outcome in severe sepsis
and they demonstrated that a supplementation with low levels of PC could decrease morbidity and
mortality in septic patients (20). In addition to sepsis other conditions, as chemotherapy agents, may
contribute to determine a secondary deficit of PC. For this reason there is an increased risk to develop
serious haemostatic complications in oncological patients. It has been demonstrated in adult patients,
that a decline of functional PC activity occurs after the administration of various therapeutic regimens
(for example cyclophosphamide, methotrexate and 5-fluorouracil) used to treat breast carcinoma. (21,
22). Recent studies on paediatric patients confirmed the effects of asparaginase to alter coagulation
pathway and to lead toward a PC deficit (23, 24). International therapeutic protocols in children with FN
during chemotherapy provide for antimicrobic drugs and supportive cares, but it seems clear that a PC
replacement (in case of low PC levels) could improve the course of FN(5). Vapor-heated PC concentrate
(human) was supplied by Baxter/Immuno AG (Vienna, Austria). In 2001 the European Medicine Agency
(EMEA) approved PC concentrate for patients with severe PC congenital deficiency, confirmed by the
Food and Drug Administration in 2006.(25) PCC concentrate is not approved for replacement in patients
with acquired PC deficiency, however, there are different experiences on its use in sepsis and in particular
in meningococcal sepsis (11-15). In 1997 Smith et al.(12) studied adult patients with purpura fulminans
as a consequence of meningococcemia. They concluded that early replacement of PCC may decrease
morbidity and mortality of this illness. White et al confirmed these data about PCC replacement therapy
in severe meningococcal septicaemia (13). Other authors described the use of PCC in paediatric age, in
particular in children with meningococcal sepsis. In 2003 De Kleijn et al. (20) reported a randomized double
blinded, placebo-controlled study about the use of PCC in forty children with severe meningococcal
sepsis and purpura fulminans. Authors concluded that PCC replacement is safe in these children, it brings
back to normal PC levels and corrects coagulation imbalances. Pettenazzo (26). et al. described their
experience and concluded that PCC should be considered for off label use, and to treat early coagulation
imbalances in children with severe meningococcal sepsis Silvani et al (27). reported data about the
PCC use in three Italian Pediatric Intensive Care Units and the authors observed differences between
treated and untreated patients, but they found no differences in mortality. Furthermore, they noted that,
although PCC therapy is included in guidelines for management of severe sepsis and septic shocks, only
in 38% of septic patients received PCC. Probably the high cost of treatment hampers its adequate and full
application. We emphasize the positive effects of PCC administration to normalize PC acquired deficiency
and to improve clinical conditions and some haematological parameters such as RCP, D-dimer and
fibrinogen in FN. In fact group A had, at the onset, worse clinical conditions and laboratory data (higher
fever and C-reactive protein values, lower absolute neutrophil count and PC levels) compared to group
B. After PCC replacement group A presented a faster resolution of FN (in fever days and normalization of
some haematological parametres) than group B.
In Conclusion we showed that:
1) The administration of PCC in our patients was safe and without any complications, indeed no adverse
PREMI
VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA
249
reactions were observed, during the therapy.
2) The PCC use in paediatric patients with sepsis during chemotherapy for cancer due to FN improve the
clinical outcome of these patients as evaluated by a faster reduction in days of fever.
3) The PCC use in these patients can improve the haematological parameters (such as RCP, D-dimer and
fibrinogen) in a fewer days than patients of the group B that did not receive PCC
To our knowledge this is the first description about the role of PCC in paediatric patients with cancer and
we suggest that PCC in addition to antimicrobial and support therapy could be an additional therapeutic
presidium for the best resolution of FN in children during chemotherapy for cancer.
However due to the nature of our study, additional evidence with more clinical relevant end-points such
as mortality and more statistical power are necessary to implement this treatment into clinical practice
for paediatric oncologists.
Fig. 1 Clinical characteristics and hematological parameters of Group A and Group B
Fig. 2 RCP and coagulation parametres in GROUP A at the onset and outcome of FN
PREMI
250 VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA
Tabella A Diagnosis, phase of AIEOP protocol, chemotherapic agents at the time of the study of Group A
Pat: patient A.I.E.O.P: Pediatric Haematology Oncology Italian Association
ALL: Acute Lymphoblastic Leukemia, NHD: Non-Hodgkin Disease, AML: Acute Myeloid Leukaemia, RMS: Rhabdomiosarcoma
NHL Non Hodgkin Lymphoma
L-ASP: L-Asparaginase; ADM: Adriamicine; VCR: Vincristine; DXM: Desametazone; MTX (i.t): intratecal Methotrexate;
PDN: prednisone; DNM: Daunomicine; HD-MTX: High Dose Methotrexate; VP-16: vepeside, ARA-C: citarabine; CPM:
ciclophosphamide, IDA: idarubicine, HD-ARA-C: high dose citarabine; C-ARA (i.t.): intratecal citarabine; PDN (i.t.): intratecal
prednisone; VDS: vindesine, MIToX: mitoxantrone, CBCDA: carboplatine, EPI:epirubicine, FLU: fludarabina
Tabella B Diagnosis, phase of AIEOP protocol, chemotherapic agents at the time of the study of Group B
Pat: Patient
A.I.E.O.P: Pediatric Haematology Oncology Italian Association
ALL: Acute lymphoblastic leukemia, NHD: Non-Hodgkin disease
L-ASP: L-Asparaginase; ADM: Adriamicine;VCR:Vincristine; DXM: Desametazone; MTX (i.t): intratecal Methotrexate;
PDN: prednisone; DNM: Daunomicine; HD-MTX: High Dose Methotrexate; 6-MP: 6-Mercaptopurine; ARA-C:
citarabine; CPM: ciclophosphamide, C-ARA (i.t.): intratecal citarabine; PDN (i.t.): intratecal prednisone; CRB:
carboplatine, EPI:epirubicine.
PREMI
VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA
251
References
1. Klastersky J, Zinner SH, Calandra T, Gaya H, Glauser MP, Meunier F, Rossi M, Schimpff SC, Tattersall M, Viscoli C.
Empiric antimicrobial therapy for febrile granulocytopenic cancer patients: lessons from four EORTC trials. Eur J
Cancer Clin Oncol. 1988; 24 Suppl 1:S35:35-45.
2. Kuderer NM, Dale DC, Crawford J, Cosler LE, Lyman GH. Mortality, morbidity, and cost associated with febrile
neutropenia in adult cancer patients. Cancer. 2006 ; 106(10): 2258-66.
3. Santolaya ME, Alvarez AM, Avilés CL, Becker A, Mosso C, O'Ryan M, Payá E, Salgado C, Silva P, Topelberg S,
Tordecilla J, Varas M, Villarroel M, Viviani T, Zubieta M. Admission clinical and laboratory factors associated with
death in children with cancer during a febrile neutropenic episode. Pediatr Infect Dis J. 2007; 26(9): 794-8.
4. Watson RS, Carcillo JA, Linde-Zwirble WT, Clermont G, Lidicker J, Angus DC. The epidemiology of severe sepsis
in children in the United States. Am J Respir Crit Care Med. 2003(5);167: 695-701.
5. Mendes AV, Sapolnik R, Mendonça N. New guidelines for the clinical management of febrile neutropenia and
sepsis in pediatric oncology patients. J Pediatr (Rio J). 2007 83 (2 Suppl): S54-63
6. Fisher CJ Jr, Yan SB. Protein C levels as a prognostic indicator of outcome in sepsis and related diseases. Crit
Care Med. 2000; 28(9 Suppl): S49-56.
7. Esmon CT. The protein C pathway. Chest. 2000; 124(3 Suppl): 26S-32S
8. Shua F, Kobayashia H, Fukudomeb K, Tsuneyoshib N, Kimotob M, Teraoa T. Activated protein C suppresses
tissue factor expression on U937 cells in the endothelial protein C receptor dependent manner. FEBS Lett. 2000;
477(3): 208-212
9.Yan SB, Helterbrand JD, Hartman DL, Wright TJ, Bernard GR. Low levels of protein C are associated with poor
outcome in severe sepsis. Chest. 2001 ;120(3): 915-22
10. Lorente JA, García-Frade LJ, Landín L, de Pablo R, Torrado C, Renes E, García-Avello. Time course of hemostatic
abnormalities in sepsis and its relation to outcome. Chest. 1993 ;103(5): 1536-42.
11.Betrosian AP, Memos N, Theoddossiades G, Douzinas EE. Protein C concentrate in adult septic patients.
Intensive Care Med. 2008 Jul 16.
12. Ettingshausen CE, Veldmann A, Beeg T, Schneider W, Jäger G, Kreuz W. Replacement therapy with protein
C concentrate in infants and adolescents with meningococcal sepsis and purpura fulminans. Semin Thromb
Hemost. 1999; 25(6): 537-41.
13. Smith OP, White B, Vaughan D, Rafferty M, Claffey L, Lyons B, Casey W. Use of protein-C concentrate, heparin,
and haemodiafiltration in meningococcus-induced purpura fulminans. Lancet. 1997; 350(9091): 1590-3.
14. White B, Livingstone W, Murphy C, Hodgson A, Rafferty M, Smith OP. An open-label study of the role of adjuvant
hemostatic support with protein C replacement therapy in purpura fulminans-associated meningococcemia.
Blood. 2000; 96(12): 3719-24
15. de Kleijn ED, de Groot R, Hack CE, Mulder PG, Engl W, Moritz B, Joosten KF, Hazelzet JA. Activation of protein
C following infusion of protein C concentrate in children with severe meningococcal sepsis and purpura
fulminans: a randomized, double-blinded, placebo-controlled, dose-finding study. Crit Care Med. 2003; 31(6):
1839-47.
16. Viscoli C, Castagnola E, Caniggia M, De Sio L, Garaventa A, Giacchino M, Indolfi P, Izzi GC, Manzoni P, Rossi MR,
Santoro N, Zanazzo GA, Masera G. Italian guidelines for the management of infectious complications in pediatric
oncology: empirical antimicrobial therapy of febrile neutropenia. Oncology. 1998 Sep-Oct;55(5):489-500.
17. Mammen EF. The haematological manifestations of sepsis. J Antimicrob Chemother. 1998 ;41 Suppl A: 1724.
18. Kuhle S, Male C, Mitchell L. Developmental hemostasis: pro- and anticoagulant systems during childhood.
Semin Thromb Hemost. 2003;29(4): 329-38.
PREMI
252 VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA
19. Bernard GR, Vincent JL, Laterre PF, LaRosa SP, Dhainaut JF, Lopez-Rodriguez A, Steingrub JS, Garber GE,
Helterbrand JD, Ely EW, Fisher CJ Jr; Recombinant human protein C Worldwide Evaluation in Severe Sepsis
(PROWESS) study group. Efficacy and safety of recombinant human activated protein C for severe sepsis. N Engl
J Med. 2001 ; 344(10): 699-709.
20. Shorr A.F, Bernard G.R., Dhainaut J.F., Russel J.R., Macias L.W., Nelson D.R, Sundin D.P Protein C concentrations
in severe sepsis: an early directional change in plasma levels predict outcome Crit Care 2006;10(3): R92
21. Feffer SE, Carmosino LS, Fox RL. Acquired protein C deficiency in patients with breast cancer receiving
cyclophosphamide, methotrexate, and 5-fluorouracil. Cancer. 1989; 63(7): 1303-7
22.Goodnough LT, Saito H, Manni A, Jones PK, Pearson OH. Increased incidence of thromboembolism in stage
IV breast cancer patients treated with a five-drug chemotherapy regimen. A study of 159 patients. Cancer. 1984
;54(7): 1264-8.
23. Risseeuw-Appel IM, Dekker I, Hop WC, Hählen K Minimal effects of E. coli and Erwinia asparaginase on the
coagulation system in childhood acute lymphoblastic leukemia: a randomized study. Med Pediatr Oncol. 1994
;23(4): 335-43.
24. Athale UH, Chan AK. Thrombosis in children with acute lymphoblastic leukemia Part III. Pathogenesis of
thrombosis in children with acute lymphoblastic leukemia: effects of host environment. Thromb Res. 2003;
111(6): 321-7
25.Rice TW. Treatment of severe sepsis: where next? Current and future treatment approaches after the
introduction of drotrecogin alfa. Vasc Health Risk Manag. 2006; 2(1):3-18
26. Pettenazzo A, Malusa T. Use of protein C concentrate in critical conditions: clinical experience in pediatric
patients with sepsis. Minerva Anestesiol. 2004;70(5): 357-63.
27. Silvani P, Camporesi A, Licari E, Wolfler A. Use of protein C concentrate in pediatric patients with sepsis.
Minerva Anestesiol. 2005; 71(6): 373-8.
PREMI
VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA
253
THYROID FUNCTION AND THYROID AUTOIMMUNITY IN CHILDHOOD
ACUTE LYMPHOBLASTIC LEUKAEMIA SURVIVORS TREATED ONLY
WITH CHEMOTHERAPY
L. Pomponia Brescia
Dipartimento di Biomedicina dell’Età Evolutiva, Università degli Studi di Bari
Abstract
Objective: scanty data are available about the thyroid function in childhood acute lymphoblastic
leukaemia (ALL) survivors treated only with chemotherapy. We aimed to assess the prevalence of thyroid
autoimmunity and thyroid dysfunction in such patients.
Design: case-control cross-sectional study.
Patients: eighty-four patients diagnosed with ALL and treated only with chemotherapy. Mean age at
diagnosis was 5.9 ∼ 3.6 yrs, at recruitment 12.1 ∼ 4.3 yrs. The treatment had been stopped 4.3 ∼ 3.2 yrs
before recruitment. A control group of 60 healthy subjects was recruited.
Measurements: free T4, TSH, antithyroperoxidase and antithyroglobulin antibodies.
Results: antithyroglobulin and antithyroperoxidase antibodies were negative in all patients. Increased
TSH level was present in 7 patients (8.3%) and 3 controls (5.0%). Free T4 was within the normal limits in
all patients and controls. Mean TSH and free T4 levels did not statistically differ between controls and
ALL survivors. TSH was negatively correlated with the age at the diagnosis (p = 0.010) and the age at
the end of therapy (p = 0.008). TSH was correlated with the age in controls? Antithyroglobulin and / or
antithyroperoxidase antibodies were detected in 3 controls (5%; vs study group: p = 0.038), 1 of them
with increased TSH.
Conclusions: some patients present hyperthyrotropinemia, without anti-thyroid antibodies, with a
prevalence comparable to the control group. Chemotherapy may damage the thyroid function more
frequently in younger patients, in whom this damage seems to persist after the treatment. We think that
a thyroid follow-up ALL survivors may be advisable and differentiated on the basis of the age at the end
of treatment.
Introduction
The survival rate of childhood cancer has increased over the last 30 years due to the significant improvement
of treatment. As a result, the monitoring of survivors has become an important part of the overall health
care, highlighting the necessity to develop clinical protocols designed specifically to improve the quality
of survivorship and to reduce, or at least to identify precociously, the long-term consequences (Friedman
and Meadows 2002; Oeffinger, Mertens et al. 2006).
Among the systems affected by the treatment, the endocrine system is one of the most frequently
involved. In particular, the damage to the thyroid gland, secondary to chemo- (CT) and/or radiotherapy
(RT), was evaluated in a large number of studies recruiting patients with different kind of cancer and
treated with different therapeutic approaches. It is well acknowledged that in young adults cervical/
cranial RT (Hancock, McDougall et al. 1995; Healy, Shafford et al. 1996; Nishiyama, Kozuka et al. 1996;
Mohn A. et al. 1997, Atahan, Yildiz et al. 1998; Stevens, Downes et al. 1998; van Santen, Vulsma et al. 2003)
and total body irradiation (Katsanis, Shapiro et al. 1990; Ogilvy-Stuart, Clark et al. 1992; Borgstrom and
Bolme 1994) can be associated with permanent thyroid axis damage, including overt hypothyroidism,
subclinical hypothyroidism, nodules, thyroiditis, Graves’ hyperthyroidism followed by hypothyroidism,
and secondary thyroid malignancies. The thyroid gland seems especially sensitive to the effects of
irradiation at a very young age (Socie, Curtis et al. 2000). On the other hand, the thyroid function in
Acute Lymphoblastic Leukaemia (ALL), the most frequent childhood cancer, has been poorly described
especially in the event of only CT. While the damages induced by RT are quite clear, just 2 studies
assessed the prevalence of the thyroid dysfunction in survivors treated only with CT. While Nygaard et al
PREMI
254 VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA
showed that the TSH and the thyroid hormones levels are comparable to the values of the control group,
(Nygaard, Bjerve et al. 1988), recently Madanat et al proposed the follow up of thyroid function, due to the
frequence of its impairment (Madanat 2007). In the latter paper, it is reported that the thyroid dysfunction
in childhood and adolescence is mostly due to autoimmune thyroiditis, but anti-thyroid antibodies was
not evaluated in all patients with pituitary-thyroid axis impairment (Madanat, Lahteenmaki et al. 2007),
as well as in all papers concerning this matter, at the the best of our knowledge. In consideration of these
data, we evaluated the prevalence of thyroid autoimmunity and thyroid dysfunction in a large cohort of
childhood ALL survivors treated only with CT. We aimed also to compare these findings with a control
group made of age- and sex-matched subjects.
Subjects and methods
Selection criteria - All patients included were 1) diagnosed with ALL (January 1993-April 2004) in our
University Hospital; 2) treated only with CT; 3) younger than 16 years at the time of diagnosis; 4) with
an interval of at least 1 year between the end of the treatment and the recruitment; and 5) in their first
continuous remission at the time of the recruitment. Thyroid function was evaluated by assay of free T4
(fT4), TSH, antithyroperoxidase (antiTPO) and antithyroglobulin (antiTG) antibodies. From March 2006 to
September 2007, all eligible patients were invited to participate. Oral informed consent was obtained
from all parents and also from patients if older than 14 years and judged mature. For ethical reasons,
the blood sample for the study was only taken from patients and controls when, simultaneously, a
sampling for clinical information was necessary. The study was performed in accordance with the Helsinki
Declaration.
Treatment and follow-up
All patients had been treated with standard treatment protocols according to the Italian Association for
Paediatric Oncoematology (AIEOP) and included induction, consolidation, reinduction, and maintenance
for a period of 2 years. In particular, the induction phase included CT with L-Asparaginase (L-Asp), prednisone
(PDN), vincristine (VCR), daunorubicin (DNR), cytosine arabinoside (Ara-C), and 6-mercaptopurine (6-MP).
The consolidation phase included 6-MP and high dose of MTX. In the reinduction phase, the patients
received dexamethasone (DXM), L-Asp, VCR, cyclophosphamide (CPM), Ara-C, adriamycin (ADM), and
thioguanine (TGN). The maintenance phase included 6-MP and MTX. In addition, in all phases but the last
one, prophylactic intrathecal methotrexate (MTX) was administered.
Since there is no standard protocol for monitoring childhood ALL survivors, after the stop-therapy we use
to visit our patients and perform blood tests once a month for the first year, once every two months for
the second year, once every three months for the third year, once every six months for the fourth and fifth
years, and yearly from the sixth to the tenth year. Six months and two years after the stop therapy, the
patients undergo to bone marrow aspirate while once a year, for the first five years, abdominal ultrasound
is performed.
The distribution of the patients on the basis of the treatment protocols is displayed in Table 1.
Subjects
Eighty-four patients (50 males and 34 females) met the inclusion criteria, were asked and agreed to
participate in the study. None of the patients had any previous clinically evident thyroid disorder or was on
any hormone or anticonvulsant treatment.
Data about the regimen used, date of start and stop of treatment, and cumulative dose of each drug were
collected.
The mean age at the time of diagnosis was 5.9 ∼ 3.6 (range 1.2 - 15.9) years, and the mean age at recruitment
12.1 ∼ 4.3 (range 4.1 - 22.6) years. The treatment had been stopped 4.3 ∼ 3.2 years (range 1.1 - 12.2) before
the recruitment. The cytological diagnosis was common ALL in 50 patients, pre-B ALL in 14, T-ALL in 8, pre
pre B ALL in 5, mature B ALL in 4, hybrid lymphoid leukaemia in 2, leukaemia-lymphoma T-ALL in 1.
On the day of recruitment, each patient underwent a detailed physical evaluation to evaluate the presence
PREMI
VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA
255
of goitre or any sign or symptom of thyroid dysfunction.
The control group was made of 60 healthy subjects, attending our growth clinic, who had no evidence of
endocrine dysfunction, chronic illness or dysmorphic features. They had normal growth velocity and were
comparable for age and sex with the survivors.
Biochemistry
Serum TSH, fT4, antiTPO and antiTG antibodies were measured by commercial immunoassay systems
(ADVIA Centaur®, Bayer Diagnostics S.r.l., Leverkusen, Germany).
Normal values for TSH were 0.3 - 5.5 mU/l. The intra-assay coefficient of variation (CV) for the TSH assay
given by the manufacturer was 2.48%, 2.44%, and 2.41% at mean TSH concentrations of 0.74, 5.65, and
18.98 mU/l, respectively. The inter-assay variability, at the same TSH concentrations, was 5.31%, 3.44%,
and 2.05%, respectively.
FT4 was considered normal in the range of 0.7 - 1.8 ng/dl. The intra-assay CV was 4.69%, 2.31%, and 2.22%
at mean fT4 concentrations of 0.47, 1.08, and 3.09 ng/dl, respectively. The inter-assay variability, at the
same fT4 concentrations, was 4.59%, 1.95%, and 1.58%, respectively.
AntiTG was considered normal if lower than 60 U/ml. The intra-assay CVs were 5.5% and 2.9% at mean
antiTG concentrations of 62 and 333 U/ml, respectively. The inter-assay variability, at the same antiTG
concentrations, was 1.8% and 2.0%, respectively.
AntiTPO was considered normal if lower than 60 U/ml. The intra-assay CVs were 4.1% and 1.6% at mean
antiTG concentrations of 71.9 and 441.8 U/ml, respectively. The inter-assay variability, at the same antiTG
concentrations, was 8.0% and 3.4%, respectively.
Statistics
Statistical analysis was performed with SPSS computer software for Windows (version 11.5, SPSS Inc.)
and data expressed as mean ∼ standard deviation. The frequencies among groups were compared by the
Chi-Square test. ANOVA test was used to compare the mean values between groups. Correlations were
determined by Pearson’s correlation coefficient.
The prediction model was developed by means of multiple linear regression analysis with a stepwise
method fitted by least squares with the variables which resulted statistically correlated. The differences
were considered statistically significant if p - value was < 0.05.
Results
None of the patients showed clinical signs or symptoms of hypo/hyperthyroidism or palpable or visible
goitre. AntiTG and antiTPO were negative in all patients. Seven patients (8.3%) showed a mild TSH
increase, ranging between 5.6 and 8.0 mU/l, while fT4 was within the normal limits in all the patients
(table 2). Ultrasound of thyroid was normal in all these 7 subjects. TSH was negatively correlated with
both the chronological age at the diagnosis (r = -0.280, p = 0.010) and the age at the end of therapy (r =
-0.289, p = 0.008) (Figure 1), but neither with the mean time from the diagnosis to the recruitment nor the
mean time from end of the treatment to the recruitment nor the age at the recruitment.
When we wondered which factor between the age at the end and at the start of therapy was stronger in
determining the TSH level at recruitment, the regression analysis gave the following model: TSH (mU/l) =
3.658 - 0.129 chronological age at the end of treatment (years), with a standardized error of 1.54 mU/l (r2
= 0.083, p = 0.008), excluding the age at the start of treatment.
Three patients in the control group (5%) had positive antiTG and / or antiTPO (2 with both of them, 1 only
with antiTG) (vs study group: 2 = 4.289, p = 0.038). Only 1 patient with positive anti-thyroid antibodies
showed increased TSH (7.2 mU/l) but normal fT4 (1.4 ng/dl). TSH was increased in 3 controls (5.0%) (vs
study group: p = ns). The mean fT4 was 1.2 ∼ 0.1 ng/dl in the ALL survivors and 1.2 ∼ 0.4 ng/dl in the
control group. The mean TSH was 2.6 1.6 mU/l and 2.9 ∼ 1.4 mU/l, respectively. Both of them were not
statistically different between the two groups. No correlations were found between chronological age
and TSH level in the control group.
PREMI
256 VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA
Discussion
The prevalence of thyroid disorders is increased in survivors of childhood ALL as compared to the general
population (Madanat, Lahteenmaki et al. 2008), but, at the best of our knowledge, no authors assessed
the prevalence of thyroid autoimmunity in such patients treated only with CT. Despite autoimmune
thyroiditis is quite common in adults and present during childhood and adolescence with lower incidence,
none of our patients showed biochemical signs of autoimmune thyroiditis, which instead was found in
5% of the controls.
Worldwide, in childhood and adolescence anti-thyroid and/or anti-TSH receptor antibodies have been
detected in about 5% of otherwise healthy children and teen-agers: 10% of Italian subjects (median age 8.3
years) (anti-thyroid and/or anti-TSH receptor antibodies) (Ansaldi, Palmas et al. 2003), 0.0 - 7.3% (antiTPO
and antiTG) in Sardinia (an area with moderate iodine deficiency and high prevalence of autoimmune
diseases) (Loviselli, Velluzzi et al. 2001), 4.8% (antiTPO) and 6.3% (antiTG) of white American teenagers
(Hollowell, Staehling et al. 2002), 6.8% (antiTPO) of 15 - 17 years old Swedish adolescents (Milakovic, Berg
et al. 2001), 3.4% (antiTPO) of German children (median age 11 years) (Kabelitz, Liesenkotter et al. 2003).
The thyroid dysfunction prevalence is difficult to compare among different populations because it is
affected by iodine intake, susceptibility to autoimmunity, age, gender and differences in the sensitivity and
specificity of laboratory methods. To avoid this difficulty, we recruited an age- and sex-matched control
group, which showed a prevalence of these antibodies similar to the previously cited epidemiological
studies.
Under our study condition, the prevalence of anti-thyroid antibodies appears lower in ALL survivors
than in the general population and statistically lower than in the control group, but this result might
be due just to the sample size. Taking into account all these considerations, we are prone to speculate
that the prevalence of autoimmune thyroiditis in these patients is comparable or even lower than in
the general population. This might be due to the depression of the humoral immunity present after CT
(Kosmidis, Baka et al. 2008). Autoimmune diseases are uncommon under immune suppressive state and
CT induces a suppression of haematopoiesis, likely reducing the risk of autoimmunity. Lymphopenia
secondary to CT induces changes in immune physiology. In mice, it was recently shown that when any
cofactor (such local inflammatory cytokines produced under irradiation) that augments immunity is also
present in lymphopenic hosts, loss of self-tolerance with resultant autoimmune disease is a predictable
result. On the other hand, in absence of these cofactors, there is restoration of normal T cell homeostasis
without evident autoimmunity (Krupica, Fry et al. 2006). This hypothesis needs further studies, hopefully
in humans, but it would be charming if confirmed.
Contrasting data are available concerning the possible effect of CT on the well known impairment of the
hypothalamus-pituitary-thyroid function of children treated with RT, especially if involving head or neck
(Oberfield SE et al. 1986, Livesey and Brook 1989; Ogilvy-Stuart, Shalet et al. 1991, Schmiegelow, FeldtRasmussen et al. 2003, van Santen, Vulsma et al. 2003).
Furthermore, the effects of CT di per se on the thyroid function have been evaluated in a few studies, with
contrasting results (Sutcliff SB 1991, Nygaard, Bjerve et al. 1988, Stuart NSA 1990, Madanat 2007). The
discrepancies could partly depend on the differences of diagnosis and protocols.
In our study, the TSH was mildly increased in 8.3% of the survivors and in 5% of the control subjects,
without levo-thyroxine requirement in anyone because classified as subclinical hypothyroidism. In
paediatric age, this condition is about 2%, lower than in adulthood when it is 4-10% worldwide (Arrigo,
Wasniewska et al. 2008). In previous papers, thyroid dysfunction was reported in 9 out of 87 ALL / non
Hodgkin Lymphoma survivors only-CT treated (Madanat, Lahteenmaki et al. 2007), while the pioneering
report by Nygaard et al. (Nygaard, Bjerve et al. 1988) showed no statistical differences in TSH, free and
total thyroid hormones between 61 Acute Leukaemia survivors (55 with ALL) and 31 healthy controls.
This latter paper evaluated only the mean values and not the rate of patients with hormones levels out of
range. Our results suggest that under our study condition no patients require levo-thyroxine tablet and
PREMI
VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA
257
the rate of increased TSH is statistically similar to the controls.
On the other hand, we found higher levels of TSH in subjects younger during treatment, independently
from the off-therapy period and the age at recruitment, suggesting that CT may cause a subtle impairment
in the thyroid cells especially at younger age, similarly to what described for RT (Socie, Curtis et al. 2000).
This increase seems affected more strongly by the age at the end rather than at the start of treatment.
In summary, we confirm (Madanat, Lahteenmaki et al. 2007) that some childhood ALL survivors present
an impairment of the thyroid function some years after the end of therapy, but it is not autoimmune in
nature and its prevalence seems comparable to the general population. CT seems to reduce the risk of
thyroid autoimmunity. The thyroid gland seems more prone to be damaged by CT at a younger age.
Since our data show that the TSH levels depend on the age at the start and the end of CT, the advisable
thyroid follow up should be differentiated on the basis of the age of the patients, with more frequent tests
for younger patients. Since in childhood and adolescence, the treatment of subclinical hypothyroidism,
which can lead to neuropsychological symptoms such as chronic tiredness, mental fatigue, and
learning difficulties is still debated (Arrigo, Wasniewska et al. 2008), follow-up studied about subclinical
hypothyroidism and its possible consequences in ALL survivors would be worthy and may clarify whether
this advice is reliable or not.
Table 1 Total dose of chemotherapies administered in each protocol. L-Asparaginase: L-Asp. Prednisone: PDN.
Cyclophosphamide: CPM. Vincristine: VCR. Daunorubicin: DNM. Cytosine arabinoside: Ara-C. 6-mercaptopurine: 6-MP.
Methotrexate: MTX. Intrathecal MTX: it-MTX. Adriamycin: ADM. Thioguanine: TGN. Ifosfamide: IFO. Etoposide: VP16.
Teniposide: VM26. Dexamethasone: DXM.
Table 2 Data of the ALL survivors with increased TSH at the recruitment (in brackets the sex)
PREMI
258 VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA
Figure 1 TSH at recruitment on the basis of the age at the diagnosis (r = -0.280, p = 0.010) and the end of therapy (r = -0.289,
p = 0.008).
References
1. Ansaldi, N., T. Palmas, et al. (2003). "Autoimmune thyroid disease and celiac disease in children." J Pediatr
Gastroenterol Nutr 37(1): 63-6.
2. Arrigo, T., M. Wasniewska, et al. (2008). "Subclinical hypothyroidism: the state of the art." J Endocrinol Invest
31(1): 79-84.
3. Atahan, I. L., F. Yildiz, et al. (1998). "Thyroid dysfunction in children receiving neck irradiation for Hodgkin's
disease." Radiat Med 16(5): 359-61.
4. Borgstrom, B. and P. Bolme (1994). "Thyroid function in children after allogeneic bone marrow transplantation."
Bone Marrow Transplant 13(1): 59-64.
5. Friedman, D. L. and A. T. Meadows (2002). "Late effects of childhood cancer therapy." Pediatr Clin North Am
49(5): 1083-106, x.
6. Hancock, S. L., I. R. McDougall, et al. (1995). "Thyroid abnormalities after therapeutic external radiation." Int J
Radiat Oncol Biol Phys 31(5): 1165-70.
7. Healy, J. C., E. A. Shafford, et al. (1996). "Sonographic abnormalities of the thyroid gland following radiotherapy
in survivors of childhood Hodgkin's disease." Br J Radiol 69(823): 617-23.
8. Hollowell, J. G., N. W. Staehling, et al. (2002). "Serum TSH, T(4), and thyroid antibodies in the United States
population (1988 to 1994): National Health and Nutrition Examination Survey (NHANES III)." J Clin Endocrinol
Metab 87(2): 489-99.
9. Kabelitz, M., K. P. Liesenkotter, et al. (2003). "The prevalence of anti-thyroid peroxidase antibodies and
autoimmune thyroiditis in children and adolescents in an iodine replete area." Eur J Endocrinol 148(3): 301-7.
10. Katsanis, E., R. S. Shapiro, et al. (1990). "Thyroid dysfunction following bone marrow transplantation: longterm follow-up of 80 pediatric patients." Bone Marrow Transplant 5(5): 335-40.
11. Kosmidis, S., M. Baka, et al. (2008). "Longitudinal assessment of immunological status and rate of immune
recovery following treatment in children with ALL." Pediatr Blood Cancer 50(3): 528-32.
PREMI
VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA
259
12. Krupica, T., Jr., T. J. Fry, et al. (2006). "Autoimmunity during lymphopenia: a two-hit model." Clin Immunol
120(2): 121-8.
13. Livesey, E. A. and C. G. Brook (1989). "Thyroid dysfunction after radiotherapy and chemotherapy of brain
tumours." Arch Dis Child 64(4): 593-5.
14. Loviselli, A., F. Velluzzi, et al. (2001). "The Sardinian Autoimmunity Study: 3. Studies on circulating antithyroid
antibodies in Sardinian schoolchildren: relationship to goiter prevalence and thyroid function." Thyroid 11(9):
849-57.
15. Madanat, L. M., P. M. Lahteenmaki, et al. (2007). "The natural history of thyroid function abnormalities after
treatment for childhood cancer." Eur J Cancer 43(7): 1161-70.
16. Madanat, L. M., P. M. Lahteenmaki, et al. (2008). "Hypothyroidism among pediatric cancer patients: a
nationwide, registry-based study." Int J Cancer 122(8): 1868-72.
17. Milakovic, M., G. Berg, et al. (2001). "Screening for thyroid disease of 15-17-year-old schoolchildren in an area
with normal iodine intake." J Intern Med 250(3): 208-12.
18. Nishiyama, K., T. Kozuka, et al. (1996). "Acute radiation thyroiditis." Int J Radiat Oncol Biol Phys 36(5): 1221-4.
19. Nygaard, R., K. S. Bjerve, et al. (1988). "Thyroid function in children after cytostatic treatment for acute
leukemia." Pediatr Hematol Oncol 5(1): 35-8.
20. Oeffinger, K. C., A. C. Mertens, et al. (2006). "Chronic health conditions in adult survivors of childhood cancer."
N Engl J Med 355(15): 1572-82.
21. Ogilvy-Stuart, A. L., D. J. Clark, et al. (1992). "Endocrine deficit after fractionated total body irradiation." Arch
Dis Child 67(9): 1107-10.
22. Ogilvy-Stuart, A. L., S. M. Shalet, et al. (1991). "Thyroid function after treatment of brain tumors in children."
J Pediatr 119(5): 733-7.
23. Rose, S. R., R. E. Schreiber, et al. (2004). "Hypothalamic dysfunction after chemotherapy." J Pediatr Endocrinol
Metab 17(1): 55-66.
24. Schmiegelow, M., U. Feldt-Rasmussen, et al. (2003). "Assessment of the hypothalamo-pituitary-adrenal axis
in patients treated with radiotherapy and chemotherapy for childhood brain tumor." J Clin Endocrinol Metab
88(7): 3149-54.
25. Socie, G., R. E. Curtis, et al. (2000). "New malignant diseases after allogeneic marrow transplantation for
childhood acute leukemia." J Clin Oncol 18(2): 348-57.
26. Stevens, G., S. Downes, et al. (1998). "Thyroid dose in children undergoing prophylactic cranial irradiation."
Int J Radiat Oncol Biol Phys 42(2): 385-90.
27. Stuart, N. S., C. M. Woodroffe, et al. (1990). "Long-term toxicity of chemotherapy for testicular cancer--the
cost of cure." Br J Cancer 61(3): 479-84.
28. Sutcliffe, S. B., R. Chapman, et al. (1981). "Cyclical combination chemotherapy and thyroid function in
patients with advanced Hodgkin's disease." Med Pediatr Oncol 9(5): 439-48.
29. van Santen, H. M., N. M. Thonissen, et al. (2005). "Changes in thyroid hormone state in children receiving
chemotherapy." Clin Endocrinol (Oxf ) 62(2): 250-7.
30. van Santen, H. M., T. Vulsma, et al. (2003). "No damaging effect of chemotherapy in addition to radiotherapy
on the thyroid axis in young adult survivors of childhood cancer." J Clin Endocrinol Metab 88(8): 3657-63.
31. Yeung, S. C., A. C. Chiu, et al. (1998). "The endocrine effects of nonhormonal antineoplastic therapy." Endocr
Rev 19(2): 144-72.
I PREMIO “STEFANO GOLISANO”
Momenti congressuali
PREMI
I PREMIO “STEFANO GOLISANO” 261
EPIDEMIOLOGIA DELLE INFEZIONI INVASIVE DA GERMI CAPSULATI:
NEISSERIA MENINGITIDIS E STREPTOCOCCUS PNEUMONIAE
M. Resti, C. Azzari, G. Indolfi, C. Massai, M. Moriondo, L. Becciolini, M. Cortimiglia
Descrizione del progetto di ricerca
Introduzione al problema scientifico
La Neisseria meningitidis (meningococco) e lo Streptococcus pneumoniae (pneumococco) sono tra le
principali cause di mortalità e morbilità in tutto il mondo. Il meningococco è responsabile di forme invasive
quali meningiti e sepsi. Lo pneumococco causa infezioni invasive che si manifestano come polmonite
lobare, sepsi o meningite. Per entrambi i germi l’incidenza massima si riscontra in età pediatrica e per le
forme di meningite e sepsi, è particolarmente elevata nei bambini di età inferiore a 5 anni.
Per quanto riguarda lo pneumococco, fino ad oggi ne sono stati riconosciuti oltre 90 sierotipi (1) in tutto il
mondo ma il coinvolgimento dei vari sierotipi nelle forme invasive non è noto. Il sierotipo 1, il 3, il 4, il 6 ed
il 14 sono i più frequenti in causa in Europa. Al momento lo strumento più importante per la prevenzione
delle forme invasive da pneumococco è rappresentato dalla vaccinazione. Esistono numerosi sierotipi
anche di meningococco; quelli più frequentemente associati a patologie invasive sono i ceppi A, B, C, W
ed Y135.
Nel Piano Nazionale Vaccini 2005 le vaccinazioni anti-pneumococcica ed anti-meningococcica sono state
inserite tra quelle consigliabili, per le quali però è necessario un progetto regionale specifico. In particolare,
il recente Piano nazionale Vaccini elaborato nel 2005 dal Ministero della Salute, riportando quelli che
sono gli obiettivi dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, sottolinea l’importanza delle “..rilevazioni
epidemiologiche delle malattie infettive..” (2) e la necessità di valutare “..l’impatto delle malattie infettive
prevenibili con vaccino sui servizi di diagnosi e cura e sulle esperienze di mortalità della popolazione…”
(2). In molti stati del mondo il vaccino antipnrumococcico è consigliato per i bambini di età inferiore ai
5 anni (3, 4). Considerando che la copertura vaccinale è però limitata ad alcuni ceppi, è fondamentale
mantenere un regolare monitoraggio della prevalenza dei vari sierotipi, per evidenziare se programmi di
vaccinazione di massa possano indurre la selezione di ceppi non coperti dal vaccino (5).
Per quanto riguarda il meningococco esiste un vaccino coniugato, contenete il solo ceppo C ed un vaccino
tetravalente non coniugato polisaccaridico) contenente i ceppi A, C, W, Y135. In Italia i ceppi più frequenti
sembrano essere il B ed il C, con leggera prevalenza di quest’ultimo in tutte le fasce di età.
Fino ad oggi per la diagnosi di malattie batteriche invasive sono state utilizzate metodiche colturali.
Questo rappresenta un problema per molti aspetti:
1.innanzitutto i metodi colturali richiedono la vitalità del germe, spesso ridotta dalla precedente terapia
antibiotica effettuata prima dell’accertamento diagnostico
2.inoltre la sensibilità dei metodi colturali è proporzionale al volume di sangue utilizzato e questo,
soprattutto in pediatria rappresenta un ostacolo importante
3.i metodi colturali sono costosi e richiedono elevate abilità tecniche e laboratori specializzati
Per questo motivo nell’Ospedale Meyer, mediante una collaborazione tra le varie strutture dell’ospedale
(reparti di clinica, laboratori di ricerca) è stato messo a punto un nuovo metodo basato su tecniche
molecolari che ricerca direttamente su campioni biologici la presenza del germe casua di malattia batterica
invasiva. Il metodo molecolare, proprio perché non ha biosogno di colrtura e cerca direttamente il DNA
del germe, non ha necessità della presenza di germi vivi, non ha necessità di terreni di coltura particolare
e può essere utilizzato anche in pazienti già sottoposti a terapia antibiotica.Studi preliminari dimostrano
che la sensibilità del metodo è almeno doppia rispettoi al metodo colturale ma che può essere fino a 10
volte superiore in alcune patologie. L’incidenza delle malattie batteriche invasive appare quindi almeno 5
volte superiore a quanto si credeva in passato (7).
Il metodo messo a punto nell’ospedale Meyer è stato brevettato e, mediante un progetto sostenuto
dal Ministero della Salute è stato utilizzato per effettuare gratuitamente la diagnosi di malattia invasiva
PREMI
262 I PREMIO “STEFANO GOLISANO”
batterica per tutta Italia. In una seconda fase il metodo è stato messo a disposizione di tutti i laboratori
che ne facessero richiesta mediante stages effettuati presso l’ospedale Meyer. Anche la partecipazione
agli stages è stata completamente gratuita e a carico dell’ospedale Meyer.
Il proseguimento del progetto prevede che la metodica sia resa disponibile ad un numero sempre
maggiore di medici per poter effettuare diagnosi in un numero sempre maggiore di bambini, così da
poter offrire, nel minor tempo possibile, una terapia idonea.
Per questo il presente progetto di ricerca si propone i seguenti obiettivi:
1. sviluppare un metodo in biologia molecolare capace di effettuare diagnosi non da provetta di sangue
ma da goccia di sangue su cartoncino (spot), in modo da offrire la possibilità di diagnosi anche ai pediatri
del territorio;
2. sviluppare la diagnostica molecolare nel campo dell’antibiotico resistenza, ricercando le mutazioni del
germe che determinano le caratteristiche di antibiotico resistenza;
3. sviluppare un metodo in biologia molecolare che possa determinare in breve tempo la sierotipizzazione
del germe che sta causando la malattia invasiva;
4. ampliare il pannello dei germi testati con il metodo molecolare, mettendo a punto, in primis, un metodo
indirizzato alla diagnosi delle meningiti e sepsi del lattante.
A questo proposito si focalizzerà particolarmente l’attenzione sullo sviluppo di una metodica realtime per
la tipizzazione e antibiotico-resistenza sia su provetta che su cartoncini. La metodica realtime presenta
le migliori caratteristiche sotto diversi profili: maggior rapidità, minor rischio di contaminazioni, maggior
sensibilità, maggiore specificità.
Metodi
Discriminazione tra infezione da Pneumococco e Meningococco.
Dai campioni di sangue periferico e/o di liquor dei soggetti inclusi nello studio, dopo estrazione del
DNA, viene valutata la presenza di DNA di origine batterica. La ricerca di DNA batterico viene eseguita
con metodica Real Time Polymerase chain reaction (RT-PCR) che prevede l’utilizzo di primers e sonde
specifiche sia per il meningococco che per lo pneumococco. La RT-PCR utilizza primers relativi a zone
altamente conservate dei due batteri che sono presenti in tutti i sierogruppi/sierotipi (gene che codifica
per la pneumolisina per lo pneumococco e il gene coinvolto nel trasporto dei polisaccaridi capsulari per
il meningococco) (6).
Ogni campione risultato positivo a un primo test viene ritestato per confermare la sua positività.
Sierotipizzazione dei campioni positivi per Pneumococco o Meningococco.
In quei campioni in cui è stata rilevata la presenza di uno dei due patogeni viene effettuata la
sierotipizzazione.
Meningococco. I campioni che risultano positivi per meningococco sono tipizzati con metodica PCR
utilizzando primer che amplificano per i principali sierogruppi (A, B, C, W, Y) seguita da rivelazione su gel
d’agarosio. La PCR utilizza primers relativi a zone sierogruppo/specifiche.
Pneumococco. I campioni che risultano positivi per pneumococco saranno sottoposti a tipizzazione.
Come risulta dagli obiettivi della presente ricerca, l’indagine di sierotipizzazione verrà ffettuta
contemporaneamente con due metodiche, una PCR multiplex sequenziale messa a punto nel nostro
laboratorio (7) ed il cui metodo è stato brevettato dai ricercatori del nostro laboratorio (8) e con una
nuova metodica di Realime PCR, messa a punto nel nostro laboratorio.
Nell’ambito del secondo anno di ricerca si focalizzerà particolarmente l’attenzione sullo sviluppo di una
metodica rapida di realtime utilizzabile per la tipizzazione direttamente da campione biologico.
In entrambi i casi (tipizzazione realtime e PCR multiplex sequenziale) si utilizzeranno primers specifici per
i principali sierotipi (4, 6, 9, 14, 18c, 19f, 23f ) seguita da analisi su software per la Realtime e da rivelazione
su gel d’agarosio per la multiplex PCR.
PREMI
I PREMIO “STEFANO GOLISANO” 263
Analisi statistica
L’analisi statistica sarà effettuata con SPSS v 10.0 utilizzando il test del t di Student, il test del 2, il test di
Fisher, il McNemar’s test e Cohen’s kappa test quando appropriati.
Risultati prevedibili
Lo studio, permetterà di valutare l’incidenza dell’infezione da pneumococco nelle forme febbrili e nelle
polmoniti dell’infanzia di valutare quali siano i ceppi più frequentemente in causa nelle forme invasive di
sepsi e meningite di mettere a punto un metodo nuovo e rapido, con alta sensibilità e specificità per la
tipizzazione dei vari sierotipi sia da provetta che da cartoncino
Bibliografia
1. Henrichsen J. Six newly recognized types of Streptococcus pneumoniae. J Clin Micorbiol 1995; 33:2759-62.
2. Ministero della Salute. Piano Nazionale Vaccini 2005, p.101.
3. Black, S., H. Shinefield, B. Fireman, et al. Efficacy, safety and immunogenicity of heptavalent pneumococcal
conjugate vaccine in children. Pediatr Infect Dis J 2000;19:187-95.
4. Giebink GS. The prevention of pneumococcal disease in children. N Engl J Med 2001;45:1177-83.
5. Spratt BG, Greenwood BM. Prevention of pneumococcal disease by vaccination: does serotype replacement
matter? Lancet 2000;356:1210-1.
6. Morrison KE, Lake D, Crook J. Confirmation of psaA in all 90 serotypes of Streptococcus pneumoniae by PCR
and potential of this assay for identification and diagnosis.
7. Azzari C., Moriondo M., Indolfi G, Massai C, Becciolini L, de Martino M, Resti M. Molecular detection and
serotyping on clinical samples improve diagnostic sensitivity and reveal increased incidence of invasive disease
by Streptococcus pneumoniae in Italian children. J Med Microbiol, 2008, 57:
8.Resti Massimo, Azzari Chiara, Moriondo Maria. BREVETTO per la diagnosi molecolare di infezioni batteriche
invasive direttamente da campione biologico. Brevetto n. MI2007A001410
PREMI
264 I PREMIO “STEFANO GOLISANO”
INTEGRAZIONE OSPEDALE-TERRITORIO E TUTELA DELLE FRAGILITÀ
NELL’ASSISTENZA PEDIATRICA
S. Santucci
Primario Pediatra Ospedaliero
Premessa: bambini vulnerabili e accessibilità delle prestazioni sanitarie
Il Comitato ONU sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza presso l’Alto Commissariato per i Diritti Umani
delle Nazioni Unite nel 2003 pubblicò le osservazioni finali del gruppo di lavoro sulla situazione italiana,
in cui si esprimeva preoccupazione “per la difficoltà che incontrano i bambini appartenenti a gruppi
vulnerabili a utilizzare i servizi sanitari esistenti”, raccomandando all’Italia di adottare misure efficaci per
facilitare a tutti i bambini l’accesso ai servizi sanitari.
Ciò venne ribadito nel Rapporto di aggiornamento del 2006.
Il principio ispiratore di un’integrazione assistenziale nel settore materno -infantile deve essere la centralità
di madre e bambino nel progetto; per ottenere questo è indispensabile che le prestazioni ospedaliere e
territoriali siano perfettamente integrate e complementari.
Un uso inefficiente delle risorse penalizza, infatti, l’accessibilità dei servizi delle fasce di pazienti più
fragili.
Appare necessario partire da un modello epidemiologico che possa rilevare i bisogni della popolazione di
riferimento e individuare aree problematiche da migliorare prioritariamente, in termini di accessibilità, di
efficacia e appropriatezza dei servizi, al fine rispettivamente di un’adeguata programmazione e gestione
degli stessi.
Risulta, cioè, fondamentale il ruolo di un osservatorio epidemiologico ove confluiscano indicatori di salute
per bambini e adolescenti raccolti a livello ASL/ distretti sanitari, dalla cui analisi sia possibile progettare
un programma di interventi. Un esempio di tali indicatori può essere il seguente: natimortalità, tasso
di mortalità neonatale, infantile, 1-14 anni, 15-24 anni, basso P. N., malformazioni congenite, disabilità,
abuso infantile, HIV pediatrico, obesità, aborto volontario< 19 anni, tossicodipendenza <19 anni, nati da
taglio cesareo, tasso di allattamento al seno, di vaccinazione, di minori istituzionalizzati non penali, di
ospedalizzazione.
Agli indicatori epidemiologici già riportati, inerenti alle fragilità familiari, infantili e adolescenziali da
riferire ai Distretti di riferimento, vanno aggiunte le patologie croniche: allergie gravi, artrite reumatoide
infantile, asma bronchiale, celiachia, cerebropatie e paralisi cerebrali infantili, diabete mellito, displasie
ossee, disturbi del comportamento, fibrosi cistica, insufficienze renali croniche, insufficienze respiratorie
croniche, malattie cromosomiche, genetiche, metaboliche, malattie neuromuscolari, obesità grave,
patologie onco-ematologiche.
Queste fasce di utenti necessitano di un approccio multidisciplinare integrato tra servizi sanitari di base e
di 2° e 3° livello, e dell’apporto di attività di assistenza psico-sociale, come pure l’area di stretta integrazione
socio-sanitaria:minori a rischio psico-sociale per maltrattamenti, abuso, trascuratezza, minori sottoposti
a provvedimenti giudiziari o appartenenti a comunità vulnerabili (stranieri, immigrati, nomadi), nonché
l’area della prevenzione e della cura del disagio adolescenziale.
E’, in effetti, del tutto evidente che la scarsa integrazione dei servizi peggiora l’accessibiltà degli stessi da
parte delle fasce fragili della popolazione utente.
L’ambito naturale di integrazione ospedale-territorio appare il Distretto, che deve prevedere un tavolo di
concertazione tra assistenza pediatrica ospedaliera e territoriale e con tutte le professionalità coinvolte
nell’assistenza delle fasce di popolazione fragili da un punto di vista sia biologico che sociale.
Nell’ambito del Distretto avviene l’incontro tra pediatri e Medici di famiglia e le altre attività assistenziali
e sociali di 1° livello (vaccinazioni, profilassi delle malattie infettive e controllo dell’alimentazione nelle
comunità infantili, l’educazione sanitaria, gli screening, le visite domiciliari, l’osservatorio epidemiologico),
con le attività di servizio sociale (gestione sociale del bambino con malattie croniche, a rischio sociale, a
PREMI
I PREMIO “STEFANO GOLISANO” 265
rischio di abuso o abusato), con quelle di NPI, riabilitazione e di psicologia, col Consultorio familiare ed
eventualmente il Consultorio Giovani.
La raccolta di tali dati di popolazione può suggerire a livello macro la priorità degli interventi da
predisporre in campo sia preventivo che terapeutico, impegnando in progetti fortemente integrati
Pediatria territoriale e ospedaliera insieme con tutte le Agenzie coinvolte nella risposta agli specifici
diversi problemi di famiglie, bambini e adolescenti.
L’integrazione ospedale-territorio
Gli obiettivi dell’integrazione ospedale-territorio riguardano due aspetti principali della continuità
assistenziale:
- la continuità assistenziale nelle 24 ore;
- la continuità delle diverse prestazioni erogate in ambito ospedaliero e territoriale.
Occorre intervenire, in merito al primo punto, sull’organizzazione dell’assistenza notturna e prefestiva e
festiva, in tema di urgenze pediatriche;ciò allo scopo di ridurre l’attuale tasso di accessi inappropriati alle
prestazioni ospedaliere di PS pediatrico.
Nell’attuale quadro contrattuale e convenzionalistico un realistico miglioramento della situazione, oltre
che con una più opportuna apertura ambulatoriale diurna, si potrebbe avere con un call- center pediatrico
con servizio di triage telefonico.
La copertura dell’urgenza pediatrica prefestiva e festiva dovrebbe, peraltro, avvalersi di una più stretta
collaborazione delle Pediatria ospedaliera e di libera scelta.
La continuità delle prestazioni erogate in ambito ospedaliero e territoriale riguardano principalmente le
dimissioni:
- del neonato sano;
- del neonato problematico o del bambino dopo il ricovero;
- del bambino dal PS o dopo osservazione breve.
Appare, allora, indispensabile un tipo di “governance” che programmi e verifichi i percorsi e organizzi i
momenti formativi indispensabili, valutando bisogni e revisioni dei percorsi, giovandosi di una figura
di coordinamento delle attività a livello aziendale, e un’articolazione a livello dei Distretti, attraverso
l’istituzione di un’Unità Valutativa Distrettuale, dove tutte le figure professionali definiscono i rispettivi
ruoli e competenze e decidono volta per volta i referenti dei casi (case/patient managers).
In tutto quanto sopra enunciato appare centrale il problema della “continuità assistenziale pediatrica”
nell’ambito di un programma di “rete assistenziale” focalizzata sui bisogni di bambino e famiglia e
fortemente integrata coi servizi ospedalieri in percorsi condivisi, formalizzati e resi trasparenti agli utenti
secondo la logica della carta dei servizi (es.: presa in carico del neonato alla dimissione dall’ospedale, del
bambino a rischio clinico e sociale, del bambino con patologia cronica…) e periodicamente valutati in
termini di efficacia ed efficienza mediante analisi dei processi assistenziali (audit clinici e organizzativi).
Per conseguenza, indicatori di integrazione e continuità assistenziale dovrebbero entrare nel repertorio
di valutazione dei servizi pediatrici tanto territoriali quanto ospedalieri.
Occorre, pertanto, in questo contesto, definire i luoghi (Ospedale/Territorio) delle attività diagnostico/
terapeutiche in modo coerente con i livelli realmente richiesti da principi di efficacia/efficienza, evitando
di duplicare attività di medesimo livello di impegno assistenziale, ed in modo che la distinzione tra cure
primarie e cure secondarie sia determinata sempre di più dal livello di intensità necessaria ad affrontare i
bisogni di cura e non da aspetti meramente normativi.
Ovviamente un programma di così ampia portata deve prevedere alcuni anni di lavoro con un
cronogramma ben definito che consideri le priorità legate alle esigenze di salute del territorio, gli interessi
degli Utenti e degli Operatori coinvolti, la sostenibilità economica ed organizzativa.
L’appropriatezza degli interventi emerge, pertanto, come prerequisito irrinunciabile per l’efficacia e
l’efficienza degli stessi; di conseguenza il progetto deve essere fornito degli strumenti validati dall’Evidence
Based Medicine: Linee guida e consensus di buona pratica clinica e Percorsi Diagnostico-Terapeutici (PDT)
PREMI
266 I PREMIO “STEFANO GOLISANO”
che ne garantiscano l’applicabilità agli specifici problemi di salute degli utenti.
Particolare enfasi dovrà essere posta negli aspetti collegati al controllo dell’effettiva presenza della
continuità terapeutica e della “tenuta della rete”, con l’obiettivo di individuare con assoluta precisione i
nodi in cui la “rete cede” per le opportune azioni di consolidamento, cercando di evitare assolutamente
interventi a pioggia.
Questa impostazione richiede un approccio integrato multidisciplinare, in cui è anche evidente il rilievo
degli aspetti di educazione permanente degli operatori, per l’esigenza di un cambiamento culturale che
consenta l’attuazione dei progetti elaborati ponendo al centro il bisogno di salute del bambino e della
sua famiglia.
L’equità nell’allocazione delle risorse richiede, peraltro, un riaggiustamento più efficiente e mirato dell’intera
offerta assistenziale, in modo che la razionalizzazione di prestazioni duplicate o ridondanti consenta
maggiori investimenti nella facilitazione dell’accesso ai servizi delle fasce fragili della popolazione.
Obiettivi del “reengeneering” dei servizi materno -infantili e territoriali:
- Sostegno alla genitorialità, in particolare per genitori di nuovi nati e genitori adolescenti; percorso nascita
(Gruppi/incontro pre-parto, disponibilità attiva e precoce del Pediatra di famiglia, identificazione precoce
di situazioni a rischio, sostegno dell’allattamento materno anche come primo intervento di prevenzione
di patologie future mediante la promozione e la diffusione di stili di vita orientati alla salute).
- Formazione e implementazione di gruppi operativi (interdisciplinari -interistituzionali) da concepirsi a
livello sovra -distrettuale per diagnosi e trattamento dell’abuso.
- Percorsi assistenziali integrati per bambini con patologia cronica e disabilità gravi.
- Sperimentazione di modelli di accoglienza socio-sanitaria integrata per bambini e famiglie
multiproblematiche.
- Prevenzione della dispersione scolastica, della gravidanza in età adolescenziale, della tossicodipendenza,
del disagio psichico, della devianza (a seconda della prevalenza locale delle problematiche).
Dovendo perseguire la politica della qualità delle cure e garantire la continuità tra gli operatori di
interventi multidisciplinari, appare fondamentale completare il processo di informatizzazione integrata
tra ospedale e territorio, in modo da consentire una comunicazione efficiente tra i diversi attori del
processo assistenziale, sia ospedalieri che del territorio, nonché l’uso di idonei call-center, per presidiare
l’efficacia del sistema negli snodi fondamentali dei due versanti, territoriale e ospedaliero: consultori
familiari, pediatri di famiglia, UU. OO. di Pediatria e NPI ospedaliere.
L’offerta di servizi assistenziali efficaci ed efficienti alle fasce fragili della popolazione richiede, quindi,
una rivalutazione dell’intero pannello delle prestazioni sanitarie e di privilegiare gli aspetti della
deospedalizzazione e della continuità assistenziale che qui assumono rilevanza vitale, sia per un equo
utilizzo delle risorse, sia per incrementare l’accessibilità dei servizi; esse, anzi, costituiscono la ”conditio
sine qua non” per lo sviluppo degli obiettivi sopra elencati.
Da quanto sopra svolto, si sono individuati i seguenti 3 progetti-obiettivo da implementarsi nei prossimi
3 anni; essi richiedono la formalizzazione tramite una deliberazione congiunta dell’ASL e delle Aziende
Ospedaliere coinvolte, per le rispettive assunzioni di impegni.
1. L’ospedalizzazione e la deospedalizzazione Pediatrica
La realtà dell’assistenza pediatrica in Italia, nonostante una buona, seppur non completa, diffusione della
Pediatria di libera scelta, è caratterizzata da un eccesso di ospedalizzazione per patologie che in buona
parte dei casi necessitano di cure ambulatoriali o domiciliari.
Ciò è legato a una carente continuità assistenziale offerta ai bambini, all’utilizzo non corretto del pronto
soccorso ospedaliero e alla mancanza di un efficace filtro ai ricoveri impropri.
La mancanza d’integrazione tra l’area delle cure primarie sul territorio e la Pediatria ospedaliera
manifesta, pertanto, i suoi effetti macroscopici nella continua espansione della richiesta di prestazioni
pediatriche urgenti. Occorre dare una risposta efficace all’urgenza oggettiva e capire se sotto la gran mole
dell’urgenza soggettiva si nascondano bisogni di salute non soddisfatti, oltre un’indubbia quota di ricerca
PREMI
I PREMIO “STEFANO GOLISANO” 267
di medical shopping. Per riequilibrare domanda e offerta, senza ricorrere unicamente al razionamento
esplicito o implicito, che penalizzerebbe i bisogni di salute delle fasce sociali deboli e più a rischio, occorre
considerare il problema dell’urgenza ed emergenza pediatrica nell’ambito più vasto della pianificazione e
integrazione dei servizi pediatrici territoriali e ospedalieri.
E’ necessario, in prima battuta, razionalizzare l’offerta dei servizi, ridisegnandola sui bisogni di salute
della popolazione di riferimento, risparmiando risorse allocate in interventi ridondanti o, in ogni caso,
non appropriati, in modo da depurare la domanda di prestazioni pediatriche urgenti delle istanze che
nascono da un’organizzazione inefficiente dell’offerta
Il presente progetto sviluppa il concetto di deospedalizzazione proponendo l’utilizzo di tutti gli strumenti
tradizionali già conosciuti e alcuni innovativi con l’obiettivo di limitare il più possibile il ricovero ospedaliero
del bambino e, se assolutamente questo è necessario, limitarne al massimo le giornate di degenza.
I vantaggi possono subito essere evidenti sia dal punto di vista sociale che di politica economica
sanitaria.
Il conseguimento di tale obiettivo è possibile solo con il concorso di più fattori (famiglia, livello sociale,
istruzione ecc) e di molteplici figure assistenziali (Pediatri Ospedalieri, Pediatri di Base, Consultori,
Assistenti sanitarie e sociali) e dalla coesione di varie istituzioni in genere coinvolte nell’assistenza globale
del bambino (Ospedale, ASL, Regione, Scuole di Specializzazione, Ministero della salute, Associazioni di
volontariato, Amministrazioni locali ecc.).
Gran parte delle richieste di prestazioni di Pronto soccorso pediatrico riguarda bambini di età inferiore
ai 6 anni ed avviene in modo autonomo, cioè senza alcuna consultazione preventiva del medico
curante. Conseguentemente, solo una percentuale relativamente modesta di tali accessi è giustificata
da un’oggettiva gravità dello stato di salute dei piccoli pazienti (codici rossi 2-3%, codici gialli 9-10%);
i restanti codici verdi e bianchi hanno spesso una componente di giustificazione legata all’ansia o a
fattori concomitanti temporali (allarme meningite, bronchiolite, grado di accessibilità alle cure primarie
territoriali).
Contestualmente, in tema di continuità assistenziale, appare utile segnalare i primi dati della
sperimentazione di un Network pediatrico effettuato dal Gruppo di Studio Miglioramento della Qualità
della S.I.P., coinvolgente circa 20 ospedali. Nell’ambito delle patologie tenute sotto controllo (asma,
meningite, porpora trombocitopenica idiopatica, diabete mellito, leucemia) colpiscono soprattutto la
frequenza del rimando presso l’ambulatorio pediatrico ospedaliero, essendo minoritario il riferimento al
pediatra curante; inoltre l’alta percentuale di asmatici noti senza terapia all’ingresso in PS (33%), nonché la
bassa percentuale di pazienti (69%) trattati adeguatamente con steroidi entro 1 ora dall’ingresso, mentre
solo il 61 % riceve alla dimissione informazioni scritte per l’autovalutazione dell’asma.
Per quanto concerne il diabete, la durata media della sintomatologia precedente il primo ricovero
è risultata molto elevata (22, 5 giorni) e una parte significativa di pazienti si era rivolta direttamente
all’ospedale senza fare riferimento al pediatra di famiglia.
Il concetto di deospedalizzazione e continuità assistenziale in area pediatrica coinvolge pertanto tutte le
fasi dell’assistenza sanitaria:
1 quella di attuazione di modalità programmatiche che consentano in modo efficace ed efficiente
l’integrazione ospedale-territorio ai fini di una reale continuità assistenziale post-dimissione;
2 quella della dimissione protetta precoce con creazione di modelli organizzativi atti a garantire la
continuità ospedale-territorio;
3 quella dell’educazione sanitaria (possibile prevenzione degli eventi acuti; correzione degli stili di vita
dannosi; ottimizzazione dell’assistenza domiciliare nell’ambito delle patologie croniche);
4 quella del controllo/regolamentazione degli accessi al P.S. e della loro appropriatezza, tramite anche il
potenziamento della collaborazione tra Pediatri di libera scelta e ospedalieri;
5 quella del controllo dell’appropriatezza dei ricoveri con potenziamento di modalità di assistenza
alternative (osservazione breve, Day Hospital, prestazioni ambulatoriali e domiciliari ecc.);
PREMI
268 I PREMIO “STEFANO GOLISANO”
6 quella dell’umanizzazione delle strutture ospedaliere (coinvolgente aspetti logistici/ambientali,
tecnologici, comfort psico-fisico, aspetti organizzativi e di preparazione del personale, ecc.);
7 quella dell’avvio di strategie operative atte a ridurre la durata dei ricoveri (dimissione precoce), non
solo attraverso i sistemi di buona pratica clinica, ma anche mediante quelli di verifica e controllo, di
ottimizzazione delle risorse, di riduzione delle variabilità operative e di scollamento dalle linee guida e
dai protocolli diagnostici terapeutici.
Sul versante della Pediatria ospedaliera gli obiettivi sono molteplici e comprendono:
- Riduzione del ricorso a ricoveri urgenti/ordinari.
- Riduzione della durata dei ricoveri urgenti/programmati.
- Riduzione degli accessi in PS.
- Eliminazione dei ricoveri diagnostici.
- Umanizzazione delle cure e rispetto psicofisico del bambino.
Per ottenere questi risultati è necessario attivare/incrementare in tutti i Presidi Ospedalieri afferenti
all’ASL le seguenti iniziative, che richiedono tutte il preventivo sviluppo di attività sinergiche coi PLS e le
strutture socio-sanitarie del territorio:
- OBI (osservazione breve intensiva):1 posto-letto ogni 4000-5000 accessi in PS;PDT condivisi coi Pediatri
di libera scelta per patologie per cui non è appropriato il ricovero immediato (nel breve periodo trauma
cranico minore, asma bronchiale, gastroenterite acuta, convulsioni febbrili semplici e non febbrili in
terapia;a seguire PDT anche per orticaria/ angioedema, disturbi comportamentali che richiedano
osservazione, dolori addominali di dubbia pertinenza chirurgica, sindromi dolorose).
- Dimissione precoce- protetta: accordi coi Pls per controllo clinico a breve, attivazione del servizio
assistenza domiciliare, telesorveglianza domiciliare, creazione di accessi aperti agli ambulatori.
- Day Hospital: solo per terapie o per interventi diagnostici multidisciplinari, o complessi, o richiedenti
sedazione.
- Potenziamento e facilitazione dell’accesso dei servizi diagnostici ospedalieri ai Pediatri del territorio.
- Incremento attività ambulatoriale(ambulatori con libero accesso, tempi d’attesa congrui).
- Educazione e attività sanitaria preventiva.
Potrebbe inoltre essere utile l’attivazione di un “ call -center pediatrico” di riferimento per le zone
territoriali interessate che indirizzi al posto giusto i pazienti a seconda delle patologie, oltre che filtrare
con appropriati consigli le richieste di intervento sanitario.
Elemento base comune a tutte le iniziative descritte è la compilazione/condivisione di Percorsi DiagnosticoTerapeutici (PDT) e organizzativi tra gli operatori sanitari ospedalieri e territoriali.
I PDT e le schede di controllo
I PDT consentono la contestualizzazione delle Linee Guida nelle specifiche realtà operative;permettono,
in altri termini, di passare dall’ efficacia teorica all’efficacia pratica al letto del paziente.
Parte integrante dei PDT sono le schede di controllo che hanno il compito di monitorare lo scostamento
tra la teoria del processo assistenziale e quanto concretamente accade.
Esse possono rappresentare uno strumento essenziale per un monitoraggio facile, condiviso ed altamente
efficace dell’effettiva capacità di garantire la continuità terapeutica.
Tale capacità diventa di vitale importanza quando il processo assistenziale governato da uno specifico
PDT riguarda Aziende e responsabilità diverse.
Sembra opportuno sperimentare nuove modalità di controllo e presidiare gli snodi fondamentali di un
processo assistenziale attraverso le schede di controllo dei PDT.
Infatti, nell’ambito delle possibilità offerte da un’organizzazione finalizzata alla continuità delle cure, la
misura dei risultati ottenuti rappresenta il punto fondamentale per qualsiasi valutazione delle variazioni
indotte dalle scelte organizzative effettuate.
In particolare è importante il monitoraggio sistematico degli accessi in ospedale e dei ricoveri inappropriati,
come input per le successive azioni correttive di miglioramento della rete assistenziale integrata.
PREMI
I PREMIO “STEFANO GOLISANO” 269
Si ritiene, peraltro, che la reale efficacia attribuita al concetto di “continuità assistenziale” dipenda in modo
significativo da una rete informativa che connette i diversi attori e ne consente una buona comunicazione
operativa, punto di partenza per l’integrazione di tutte le attività assistenziali indirizzate al singolo
paziente.
2. Percorso nascita
Presso i Consultori familiari possono essere seguite sia le gravidanze fisiologiche sia quelle patologiche
secondo un gradiente di impegno assistenziale da definire secondo PDT da costruire per rendere uniforme
la qualità e le modalità dell’intervento.
Obiettivi: facilitare la donna e la coppia genitoriale nel “percorso nascita” al fine di creare un imprinting
positivo, contrastando le difficoltà di rapporto, celate o manifeste, tramite interventi di supporto. Tale
obiettivo appare di particolare rilievo anche in considerazione delle numerose difficoltà che insorgono in
questo periodo, con esiti a volte drammatici (depressione grave post partum).
Nodi di rete interessati
Consultori Familiari.
Strumenti:
- formazione condivisa ASL/Ospedale sulla costruzione dei PDT inerenti alla gravidanza e ai corsi di
preparazione al parto.
I servizi territoriali per il bambino
I primissimi giorni di vita rappresentano un problema organizzativo difficile da gestire al fine di garantire
la continuità assistenziale.La capacità di offrire servizi efficienti sul territorio rappresenta il prerequisito
per il passaggio da una dimissione “precoce“, non sempre rispettosa delle esigenze assistenziali della
madre e del neonato, ad una dimissione “appropriata” i cui tempi siano coerenti con tali esigenze.
Per favorire questo passaggio si propone la sperimentazione presso un punto nascita, allo scopo di
valutarne la fattibilità e l’estensibilità a tutti gli ospedali afferenti all’ASL, di un “Punto Unico” per poter
consentire alle madri durante la degenza di effettuare la denuncia di nascita, entrare in possesso del
certificato di nascita, ottenere il codice fiscale, praticare le scelta del PLS e ottenere, se dovuto, il codice di
esenzione del ticket per patologia.
Obiettivo fondamentale infatti è favorire la presa in carico da parte del Pls e quindi l’effettuazione precoce
del primo bilancio di salute.
Dopo la nascita le infermiere dei Consultori, in un percorso integrato con i servizi ospedalieri e i PdF,
potrebbero offrire l’opportunità ai neo genitori di momenti per il sostegno dell’allattamento al seno; si
costituirebbe in questo modo attraverso l’integrazione un modello di utilizzo appropriato delle risorse
lasciando più spazio al Pediatra per aspetti più impegnativi e curativi.
Questo intervento deve essere collegato all’ assistenza ai bambini ed agli Utenti in età pediatrica che è nel
nostro Territorio è regolarmente effettuata dai PLS.
Obiettivi: favorire l’attaccamento tra madre e neonato (bonding) e contrastare la depressione puerperale
incrementando gli interventi di sostegno alla relazione madre - bambino; favorire ed incrementare un
adeguato follow -up del puerperio materno presso i Consultori; consentire il passaggio, in epoca neonatale
da “dimissione precoce” a “dimissione appropriata”, tramite il coinvolgimento dei pediatri di libera scelta,
la definizione dei bisogni della diade madre- neonato (programmi personalizzati e integrati tra strutture
e professionisti) e la definizione degli standard operativi per soddisfare tali bisogni di assistenza.
La promozione e il sostegno dell’allattamento al seno riveste importanza fondamentale non solo sul
piano nutrizionale, biologico-clinico, psico-relazionale in tutte le famiglie, e particolarmente in quelle
affette da fragilità sia d’ordine fisico che sociale, ma anche sul piano dell’educazione alla salute, come
esempio di modificazione e promozione di stili di vita a questa orientati (prevenzione obesità, patologie
dismetaboliche).
Si propone che essa rappresenti un progetto specifico, finalizzato all’implementazione nei punti nascita e
nel territorio rispettivamente dei 10 e 7 punti OMS/UNICEF allo scopo di ottenere la certificazione UNICEF
PREMI
270 I PREMIO “STEFANO GOLISANO”
“Ospedale e ASL amica dei bambini”.
Questo progetto sarà formalizzato da una deliberazione congiunta ASL -AA.OO., che indicherà gli
strumenti, le risorse e il timing dei percorsi formativi, organizzativi e di monitoraggio per l’applicazione di
un PDT concordato che applichi nella realtà del territorio le linee guida sulla promozione dell’allattamento
al seno.
Obiettivo: migliorare i tassi di allattamento esclusivo al seno riscontrati nel 2006 rispettivamente alla
dimissione dal punto nascita, a 3 e 6 mesi.
Nodi di rete interessati
- Punti nascita e UU OO. di Pediatria ospedaliere.
- Pediatri di famiglia.
- Consultori familiari.
- Dipartimento di prevenzione ASL per il monitoraggio dei tassi di allattamento esclusivo al seno in
corrispondenza col calendario delle sedute vaccinali.
Strumenti
Formazione condivisa ASL/Ospedale/PLS su aspetti inerenti alla costruzione degli specifici PDT e con
docenti abilitati Unicef.
Stesura di PDT specifico su “Dimissione appropriata.
Stesura di PDT specifico su “sostegno allattamento naturale”con condivisione del programma Unicef”Amici
dei Bambini”.
Corsi (18 ore) con docenti abilitati Unicef sul sostegno all’allattamento naturale.
Offerta di collaborazione ai gruppi” no profit”di sostegno alle madri nutrici.
3. Assistenza integrata ai bambini e adolescenti con patologie croniche e/o portatori di
bisogni speciali
Appare importante, anche allo scopo di acquisire una metodologia di lavoro “evidence based”,
implementare per una patologia cronica molto diffusa, quale l’asma bronchiale, un PDT integrato dal
Territorio all’Ospedale. Il metodo di lavoro sarà poi replicatto per altre patologie da deospedalizzare o
comportanti problemi assistenziali complessi e multidisciplinari, riferite a bambini/adolescenti portatori
di disabilità e di bisogni speciali (fragilità biologica e/ sociale).
Obiettivi del progetto: evitare inefficienti e inefficaci sovrapposizioni d’interventi per gli stessi problemi
da parte delle UU. OO. di Pediatria e dei pediatri di famiglia, dare contenuti concreti agli strumenti per
l’assistenza al paziente con problematiche di tipo cronico previsti per il pediatra di famiglia. Razionalizzare
l’uso dei farmaci secondo le indicazioni della letteratura scientifica. Estendere al massimo livello l’assistenza
domiciliare per bambini e adolescenti affetti da patologie e disabilità anche molto gravi, effettuandone un
rilevamento epidemiologico e governandone l’assistenza socio-sanitaria integrata a livello dei Distretti,
determinandone anche una soglia di gravità che garantisca un accesso equo ai fondi regionali previsti
per il Progetto fragilità per la fascia di popolazione 0-18 anni.Avviare e intensificare a livello dei Distretti
un metodo di lavoro fondato sulla “case conference” e la gestione multidisciplinare dei problemi, con
l’attribuzione delle funzioni e individuazione del “case /patient manager”.
Nodi di rete interessati
UU. OO. di Pediatria e NPI ospedaliere.
Pediatri di famiglia.
Distretti Sanitari.
Dipartimento ASSI dell’ASL.
Collegamento coi servizi sociali dei Comuni e coi gruppi assistenziali “no profit”.
Strumenti
Formazione condivisa ASL/Ospedale/PLS su aspetti inerenti alla costruzione dei PDT.
Stesura, come messa a punto del metodo di lavoro, del PDT specifico su “Asma Cronico”.
PREMI
I PREMIO “STEFANO GOLISANO” 271
Sviluppo del progetto
Senza definire un cronogramma in questa fase, sembra peraltro utile definire alcuni interventi prioritari
in quanto o propedeutici per gli obiettivi sopra accennati, o meno complessi da raggiungere, o perché
si immagina che i positivi risultati ottenuti in determinati settori possano positivamente evidenziare ai
professionisti l’utilità di lavorare in rete e quindi fortemente motivare i successivi comportamenti.
Corso di formazione sulla strumento PDT.
Con la fine del primo corso teorico sui PDT si può iniziare a stendere primi PDT specifici, quali, come detto,
l’asma bronchiale, per estendere poi il metodo di lavoro ad altre patologie che richiedono un’assistenza
integrata.
Per tali fini sarà utile la definizione e le modalità di utilizzo della scheda di monitoraggio.
Durata del progetto e risultati attesi.
Il progetto ha una durata triennale.Le aree di risultato identificate sono le seguenti:
Ricognizione epidemiologica dei bisogni e degli strumenti attualmente in uso in ambito territoriale e
ospedaliero(protocolli, procedure operative, linee guida):
per gli specifici sottoprogetti (deospedalizzazione pediatrica e continuità assistenziale, percorso nascita
e sostegno all’allattamento naturale, deospedalizzazione e assistenza domiciliare integrata per la fascia
di utenti 0-18 anni portatori di patologie gravemente invalidanti) costituzione di gruppi di lavoro
interdisciplinari: pediatri ospedalieri, di famiglia, operatori e responsabili ASL, rappresentanti dei pazienti,
infermieri.
Istituzione di Unità di lavoro e valutazione a livello distrettuale, per presa in carico dei pazienti e indicazione
dei “case managers”.
Contestualmente si dovrà provvedere all’attivazione della rete informativa di connessione tra i diversi
attori e strutture, territoriali e ospedaliere, coinvolte.
Definizione delle modalità di utilizzo delle schede di monitoraggio e test pilota del monitoraggio.
Implementazione del PDT e avvio del monitoraggio.
Verifica dei dati di monitoraggio e analisi delle criticità emerse
a. stesura del report di monitoraggio;
b. ridefinizione del percorso in base ai risultati dell’audit e delle criticità emerse
Nel corso del secondo e terzo anno del progetto, oltre alle azioni correttive volte al miglioramento continuo
di quanto implementato, si allestirà analogo percorso per altre patologie individuate come potenzialmente
critiche, e si metterà in atto una collaborazione e un’azione di confronto tesa al miglioramento reciproco
con altre ASL e istituzioni impegnate sui temi in oggetto.
Risultati attesi.
L’appropriatezza degli interventi tende a garantirne il maggior grado possibile in termini di efficacia,
efficienza e soddisfazione degli utenti.
Quindi il progetto intende assicurare ricadute vantaggiose per i pazienti e l’organizzazione.
Si ritiene che, in base anche ai dati della letteratura, si possano ottenere i seguenti vantaggi per i
pazienti:
semplificazione dei percorsi di diagnosi e cura;
riduzione degli interventi inappropriati;
miglior presa in carico delle situazioni più critiche;
riduzione dell’ospedalizzazione e dell’uso improprio dei servizi di emergenza/urgenza pediatrica;
aumento della compliance delle famiglie e dei pazienti alle misure educative e preventive e aumento della
percezione nell’utenza della continuità e della qualità delle cure erogate dal sistema nel suo complesso.
Quanto esposto comporterà per l’organizzazione:
aumento dell’efficienza tramite la riduzione degli interventi inappropriati e duplicati;
riduzione del carico assistenziale ospedaliero, legato alla possibile inefficienza della presa in carico del
paziente potenzialmente critico;
PREMI
272 I PREMIO “STEFANO GOLISANO”
aumento della capacità di lavoro in rete da parte di professionisti operanti in ambiti diversi;
razionalizzazione delle risorse dedicate allo specifico problema attraverso la previsione delle principali
tappe assistenziali; in particolare un appropriato utilizzo di farmaci efficaci per le patologie oggetto del
PDT e una riduzione dei ricoveri ospedalieri (5% annuo per i prossimi 3 anni);
rilevazione epidemiologica dei bisogni di salute della popolazione 0-18 anni;
implementazione dei relativi interventi socio-sanitari integrati a livello distrettuale;
riallocazione delle risorse razionalizzate nell’assistenza e nel sostegno di patologie croniche e disabilità
gravi;
attraverso l’implementazione del Percorso nascita e sostegno dell’allattamento naturale si possono
gettare le fondamenta di un programma di educazione sanitaria per la modificazione degli stili di vita
della popolazione di riferimento e la prevenzione primaria di possibili patologie future (obesità, malattie
metaboliche e degenerative…)
Pertanto il monitoraggio degli interventi verrà effettuato a 2 livelli: di governo(ricaduta complessiva
sull’ASL dell’applicazione delle linee guida/PDT) e clinico, che si ottiene coi controlli dei singoli casi trattati
sulla base di algoritmi e schede assistenziali, parte integrante dei PDT.
Scelta importante e condivisa sarà quella di appropriati indicatori per il monitoraggio dei due livelli citati.
Periodici report dovranno garantire il monitoraggio in itinere e il governo del processo ai molteplici attori
coinvolti.
Riassunto
Il progetto, triennale, ha l’obiettivo di razionalizzare l’offerta dei servizi, ridisegnandola sui bisogni di
salute della popolazione di riferimento, risparmiando risorse allocate in interventi ridondanti o, in ogni
caso, non appropriati; ciò allo scopo di destinare risorse per migliorare l’accessibilità dei servizi per le
fasce fragili della popolazione pediatrica.
Il principio ispiratore di un’ integrazione assistenziale nel settore materno -infantile deve essere la
centralità di madre e bambino nel progetto; per ottenere questo è indispensabile che le prestazioni
ospedaliere e territoriali siano perfettamente integrate e complementari. E’necessario partire da un
modello epidemiologico che possa rilevare i bisogni della popolazione di riferimento e individuare
nell’assistenza erogata aree problematiche da migliorare prioritariamente, in termini di accessibilità, di
efficacia e appropriatezza dei servizi. Un esempio di tali indicatori può essere il seguente: natimortalità,
tasso di mortalità neonatale, infantile, 1-14 anni, 15-24 anni, basso P. N., malformazioni congenite,
disabilità, abuso infantile, HIV pediatrico, obesità, aborto volontario< 19 anni, tossicodipendenza <19
anni, nati da taglio cesareo, tasso di allattamento al seno, di vaccinazione, di minori istituzionalizzati non
penali, di ospedalizzazione.
Si intende, pertanto, realizzare un approccio integrato multidisciplinare, fortemente improntato alla
formazione degli operatori e al sostegno anche educativo alla famiglia, per l’esigenza di un cambiamento
culturale di tutti gli attori coinvolti nell’assistenza all’età evolutiva.
Una volta individuati i bisogni di salute inevasi - in ordine di criticità e di prevalenza - o, all’inverso, trattati
con interventi ridondanti - appare logico responsabilizzare pediatri del territorio e pediatri ospedalieri, in
una logica dipartimentale intra- ed extraospedaliera, all’elaborazione di percorsi assistenziali integrati e alla
valutazione dei servizi erogati mediante adeguati indicatori di esito, in modo da rilevarne gli scostamenti
rispetto agli interventi riconosciuti efficaci. Si potrà, allora, innescare una spirale di miglioramento
continuo, su cui impostare anche il programma d’educazione permanente, in cui dovrebbe essere
opportunamente valorizzata la periodica valutazione delle prestazioni erogate.
Per conseguenza, indicatori di integrazione e continuità assistenziale dovrebbero entrare nel repertorio
di valutazione dei servizi pediatrici tanto territoriali quanto ospedalieri.
Dovendo perseguire la politica della qualità delle cure e garantire la continuità tra gli operatori, appare
fondamentale completare il processo di informatizzazione integrata tra ospedale e territorio in modo da
consentire una comunicazione efficiente tra i diversi attori del processo assistenziale, sia ospedalieri che
PREMI
I PREMIO “STEFANO GOLISANO” 273
del territorio, nonché l’uso di idonei call -center, per presidiare l’efficacia del sistema snodi fondamentali
nei due versanti, territoriale e ospedaliero: consultori familiari, pediatri di famiglia, UU.OO. di pediatria
ospedaliere.
Il progetto si varrà di idonea attività formativa a beneficio dei principali attori, in modo da modificare
l’attuale configurazione, per molti aspetti ancora focalizzata sull’ospedale e sul ricovero del paziente.
Bibliografia
1. Campbell H, Hotchiss R, Bradshow N, Porteous M.” Integrated care pathways”. BMJ 1998; 316:133-7
2. Grilli R, Magrini N, Penna A, Mura G, Liberati A.” Practice guidelines developed by speciality Societies: the need
for a critical appraisal”.Lancet 2000; 335:103-6
3. Guarnaccia S, Lombardi A, Gaffurini A, Chiarini M, Domenighini S, D’Agata E, Schumacher RF, Spiazzi R,
Notarangelo LD.” Application and implementation of the GINA asthma guidelines by Specialist and primary care
physicians: a longitudinal study on 264 children”. Primary Respiratory Journal, www.thepcrj.org doi:10.3132/
pcrj. 2007 ;357-62
4. Parola L, Ortisi MT, Santucci S, Bellù R, Zanini R, Longhi R.” La costituzione di un network pediatrico Nazionale”.
Rivista Italiana di Pediatria Ospedaliera, 2008; 1:11-16
5. Santucci S, Parola L.” Indicatori di esito: quali e perché”. Relazione al 57° Congresso Nazionale della S.I.P.(Venezia,
29 settembre-3 ottobre 2001). R.I.P., 2001;27:840-4.
6. Santucci S, Longhi R, Sez. Lombardia GSAQ della S.I.P.”Qualità in Pediatria”. Dossier Comunicazione Area
Pediatrica, Febbraio 2003; 4(2):4-28
7. Santucci S, Parola L.” La qualità dell’assistenza: percorsi clinici in Pediatria.Esperienze in Pediatria Ospedaliera”.
Relazione al 59° Congresso Nazionale della S.I.P. (Roma, 27 settembre-1 ottobre 2003). Quaderni di Pediatria,
2003;2:294-6
8. Società Italiana di Pediatria Forum Formazione-Assistenza “Quale Pediatra per quale modello di Pediatria”
(Pisa, 15-17 giugno 2006) Assistenza integrata Territorio-Ospedale Quaderni di Pediatria, 2006; 5:13-19
9. Wareka A, Valacer DJ, Cooper M, Caplan DW, Di Maio M.”Impact of a pediatric asthma clinical pathway on
hospital cost and lenght of stay”.Pediatric Pulmonology, 2001;32:211-16
10. Zanini R, Ortisi MT, Parola L. “Strumenti per il monitoraggio della qualità in Pediatria”.Relazione al 63°
Congresso Nazionale della S.I.P. (Pisa, 26-29 settembre 2007) Minerva Pediatrica, 2007; 59: 482-83
PREMI
274 I PREMIO “STEFANO GOLISANO”
L’IMPORTANZA DEI GENITORI: AIUTO E SOSTEGNO ALL’OPERATORE
SANITARIO NELLE FASI DI ASSISTENZA AL BAMBINO
F. Lorena, G. Sabrina, P.M. Rosaria, R. Patrizia
Perché la scelta di questo argomento?
Da diversi anni sentiamo la necessità di crescere professionalmente, per questo motivo abbiamo preso parte
a numerosi ed importanti corsi di aggiornamento, che ci hanno permesso di elaborare, personalizzare e
diffondere all’interno della nostra U.O. una nuova metodologia assistenziale per il benessere del bambino
e della sua famiglia.
Alla metà degli anni ’80, la partecipazione ad un Congresso di Neonatologia dette l’input per iniziare un
nuovo modo di assistere il neonato e di coinvolgere attivamente i genitori.
I risultati non tardarono ad arrivare, per questo motivo il personale infermieristico pensò di estendere
questo tipo di assistenza anche ai bambini in età pediatrica.
Successivamente abbiamo introdotto tecniche per il controllo e la gestione del dolore. La partecipazione
ad un progetto aziendale, HPH (Health Promoting Hospital) ci ha indotto ad elaborare una nostra versione
della “Carta dei Diritti del Bambino in Ospedale”, pensata e realizzata in relazione alle esigenze specifiche
del nostro reparto.
Ogni articolo mette in evidenza come gli operatori sanitari ed i genitori devono impegnarsi per il benessere
del piccolo paziente durante la degenza breve o prolungata in ambiente ospedaliero.
Da circa due anni l’U.O. di Pediatria si è trasferita nella nuova sede: ci sono ampi spazi per il gioco, colori
vivaci alle pareti, arredi confortevoli adatti alle diverse età. Un pizzico di humor e una buona dose di risate
con i clown dottori ed i giochi delle Tate dell’ABIO, possono sdrammatizzare l’esperienza della degenza
in Ospedale.
La realtà che il bambino ospedalizzato si trova costretto a vivere, in genere non è adeguata alle sue
capacità di comprensione e quindi può apparire fredda e brutale.
La paura dell’ignoto, la paura di essere separati dai genitori, la paura del dolore e della morte, sono
sicuramente i sentimenti più comuni che un bambino ed un adolescente provano entrando in
Ospedale.
Per la gestione e il controllo del dolore utilizziamo tecniche non farmacologiche, che intervengono nella
sfera psicologica e possono essere attivate insieme al bambino dagli operatori sanitari, medici, genitori
e volontari.
Alla base di queste tecniche ci sono le capacità immaginative dei bambini che, grazie all’età, non riescono
ancora a distinguere bene i confini tra fantasia e realtà.
Le procedure più utilizzate sono:
le bolle di sapone
distrazione
desensibilizzazione (guanto magico)
Lo scopo dell’applicazione di queste tecniche è quello di allontanare la mente del bambino dal momento
di dolore e paura che sta vivendo, attraverso un processo di dissociazione mentale, in cui è possibile
modificare le sensazioni fisiche dolorose.
La costante presenza dei genitori, in collaborazione con il personale sanitario, assicura un’assistenza
personalizzata.
Fare assistenza insieme ai genitori, comunque, deve essere un atto spontaneo del personale infermieristico:
i genitori vanno considerati come membri dell’equipe che esercitano il ruolo parentale, partecipano alle
cure e conservano così la loro identità di genitori, con tutto l’amore e la responsabilità che ciò comporta.
I genitori, attraverso un dialogo costante con il personale, riescono a diventare consapevoli e responsabili
di ciò che riguarda il loro figlio.
Il dialogo serve ad impostare una relazione di collaborazione utilissima, da cui derivano non solo
PREMI
I PREMIO “STEFANO GOLISANO” 275
ovvi benefici in senso pratico, ma anche una maggiore facilità da parte del bambino nell’accettare
l’ospedalizzazione.
La famiglia è il tramite privilegiato attraverso cui il bambino comunica con l’esterno e con il resto del
mondo.
Nell’incontro tra l’infermiere e i genitori entrano in gioco varie dimensioni:
la “comunicazione- interazione”, la più evidente, costituita da parole, gesti e suoni.
l’emozione, costituita da manifestazioni esterne meno esplicite, di cui spesso è poco consapevole anche
chi le prova.
la relazione, una sorte di cornice invisibile che tuttavia influenza a fondo sia la comunicazione, sia
l’emozione.
Ma esiste anche un’altra dimensione finora poco considerata, la consapevolezza, il centro attorno al quale
dovrebbe ruotare ogni processo dell’esistenza umana.
Per molti l’atteggiamento professionale coincide con il controllo delle emozioni, impresa di difficile
realizzazione e rischiosa sul piano relazionale.
Molto spesso l’operatore comunica all’interlocutore una sensazione di eccessiva distanza, disinteresse,
freddezza e trascura l’ascolto.
Saper ascoltare non è facile, sia perché richiede di ripartire l’attenzione su molti canali contemporaneamente,
sia soprattutto perché non siamo abituati a farlo. Nessuno ci ha mai insegnato l’importanza di ascoltare;
a scuola si lavora molto sulla competenza linguistica, sulla capacità di costruire testi ben formati e
significativi, ma non ci viene insegnato niente sulle tecniche e le modalità di ascolto dell’altro.
Ascoltare l’altro significa sia cercare di capire il suo messaggio, sia di cogliere le reazioni ai nostri messaggi
mentre ci ascolta.
“Ogni bambino ha cose nuove da dirci, una ricchezza da trasmetterci, un bisogno da esprimere, una
richiesta che aspetta di essere accolta.”
Per aiutare gli altri è fondamentale sentire come stanno, sapersi porre in contatto con loro attraverso
l’ascolto e -se possibile- l’empatia, per far sentire loro che sono accolti, che ci siamo davvero e che il
contatto è reale.
L’empatia è una delle dimensioni importanti in ogni campo della comunicazione interpersonale, ma tutta
una serie di paure, rigidità e cattive abitudini fanno spesso fermare le persone a una certa distanza e
impediscono loro di realizzare il contatto.
L’operatore che per professione si propone di aiutare gli altri, tende a mantenere di fatto le distanze sul
piano emotivo, un modo per esorcizzare la malattia, di proteggersi da un eccesso di emozioni e sofferenze
che non si sanno gestire.
Per questi operatori ci sono due possibilità: tenere aperto il canale empatico o chiuderlo. Siccome hanno
sperimentato che l’apertura fa stare male, optano per la chiusura.
Una terza possibilità chiamata empatia matura, porta ad avere padronanza del proprio sentire, al punto
da dirigerlo dove, come e quando vogliamo, accogliendo la sofferenza dell’altro quel tanto che basta
a capire quali possano essere gli strumenti di intervento e di aiuto, ma sempre rimanendo centrati su
di sé. Attraverso questa modalità non si corre il rischio di perdersi o di annegare nelle emozioni altrui,
possiamo capirle, sentirle, essere vicini anche con il nostro calore umano, senza per questo perdere il
nostro centro.
Se sentiamo che l’intensità cresce oltre i nostri limiti, dobbiamo essere in grado di staccare almeno per un
po’ l’interruttore, senza sensi di colpa dovuti ad uno spirito di perfezionismo. Dobbiamo cercare il nostro
centro, il nostro mondo interiore, in modo da ritrovare equilibrio ed energia emotiva che ci permettano di
avventurarci di nuovo nel mondo dell’altro. Quindi l’empatia è qualcosa che può e deve essere sviluppato:
percepire le emozioni dell’altro e stabilire un contatto con lui/lei facendo sentire la nostra presenza e
premura.
La strada che la nostra U.O. di Pediatria ha intrapreso, sicuramente è un cammino lungo e.....difficile, ma
PREMI
276 I PREMIO “STEFANO GOLISANO”
è probabilmente l’unico da seguire. “Comunicare con efficacia e vivere le relazioni con gli altri in modo
costruttivo è un’arte complessa che si impara poco a poco”
Bibliografia
1. “Le parole del counselling sistemico “ a cura di Giorgio Bert, Mauro Doglio, Silvana
Quadrino, Edizioni Change
2. "Relazioni in armonia" di Enrico Cheli
PREMI
I PREMIO “STEFANO GOLISANO” 277
PIANO D’INTERVENTO RELATIVO A FORME E STRUMENTI DI
INFORMAZIONE, COMUNICAZIONE E SOSTEGNO ECONOMICO,
A FAVORE DI IMMIGRATI EXTRACOMUNITARI NEI PERCORSI DI
EMIGRAZIONE SANITARIA
R.Trunfio1, F. Mammi1, P. Raschi2, P. Madaffari2
1
U.O. di Pediatria e Neonatologia ASL 9 Locri (RC)
Cooperativa S “Kaleidoscopio” (RC)
2
Premessa
Il dossier Caritas 2004 stima circa due milioni e mezzo d'immigrati regolarmente presenti in Italia e di
questi più del 21% è costituito da minori in età compresa fra 0-18 anni.
La Locride è costituita da 42 comuni con un numero di 140.000 abitanti e risente, in modo particolare,
dei flussi di spostamento degli immigrati sia in termini di ricerca di lavoro che di nuova sistemazione. Tale
situazione ha inizialmente interessato i grandi agglomerati urbani in particolare Locri, Siderno, Roccella,
Gioiosa J., Bovalino e attualmente vede un aumento costante intorno al 20-25% della popolazione
immigrata anche nei piccoli Comuni tanto è vero che solo 1 Comune del territorio consortile non ha
polazione extracomunitaria residente. Al 1° gennaio 2005 in Calabria risultano residenti 35000 immigrati
e di questi 3000 sono nella Locride.
La popolazione degli stranieri in età pediatrica(0-18 anni), stimata alla data suddetta intorno a 600, è in
continuo aumento e cio’ non solo per i nuovi arrivi ed i ricongiungimenti, ma soprattutto perche la costa
jonica della Locride è interessata ai continui sbarchi di stranieri.Provengono da tutti i Continenti ed i piu’
numerosi sono i bambini dell’Est europeo, seguiti dall’Africa, Asia e Medio Oriente.
I servizi sanitari, socio assistenziali e comunali sono sempre piu’ coinvolti nell’attivazione di interventi
per gli immigrati ed in una azione di informazione e di sostegno alle loro necessità. Le problematiche
sono molteplici e spesso viene richiesto l’intervento di piu’ istituzioni pubbliche ed anche all’interno di
queste, nonostante la semplificazione amministrativa in atto, non è per loro agevole trovare subito le
risposte possibili ed appropriate.Il ricorso presso la nostra U.O. di famiglie straniere con minori disabili
è sempre piu’frequente. La presenza di un bambino pluriminorato, disabile o affetto da una malattia
cronica in una famiglia di immigrati mette il sistema familiare nelle condizioni di dover interagire con
una serie di persone che fanno parte di altri sistemi: quello della cura, quello sociale, quello amicale,
associativo, scolastico, ecc.. Spesso hanno da poco, in parte, risolto il problema della sopravvivenza e,
improvvisamente, si trovano nella disperazione causata dal dover affrontare per se stessi e per i loro
figli patologie gravi o gravissime:Tali patologie necessitano spesso di cure fuori regione che, se talora
rimborsabili dal S.S.N., non avvengono in maniera anticipatoria, con impossibilità di diagnosi appropriata,
di cura, di follow-up ed eventualmente di guarigione. Si evidenziata la necessità di favorire lo sviluppo
di un progetto a sostegno dei minori disabili stranieri con particolare attenzione alle mamme che oltre a
vivere i disagi dovuti alla loro naturale condizione di “immigrate” si trovano a dover fronteggiare difficoltà
rispetto all’integrazione dei loro figli disabili e alle problematiche legate ad affrontare in solitudine
questioni critiche rispetto alla genitorialità e all’handicap.
Azioni previste
Si deve considerare che nella nostra Regione non esistono specialità di 3° livello per cui spesso è
necessario, per un approfondimento diagnostico, inviare tali pazienti in Centri ad alta specialità per una
specifica patologia. Il Pediatra Ospedaliero è quello a cui spesso queste famiglie, con grande umiltà e
dignità, confessano di non avere risorse economiche tali da poter affrontare tutte le spese necessarie per
recarsi fuori regione.
L’intervento ipotizzato prevede l’istituzione di un monitoraggio dei minori immigrati transitanti per la
nostra U.O. che realmente hanno la necessità di anticipazioni di somme per viaggi extraregione per cure
PREMI
278 I PREMIO “STEFANO GOLISANO”
specializzate. Il gruppo di lavoro avrà la possibilità di interfacciarsi con le istituzioni sanitarie preposte al
rimborso delle spese di viaggio, garantendo cosi’ la possibilità di cure solo a che ne ha realmente necessità
e salvaguardando il sacrosanto diritto alla salute che l’altrettanto sacrosanto contenimento della spesa
sanitaria.
Monitoraggio e valutazione
Modalità e criteri di monitoraggio dell’implementazione del progetto
- Verifiche periodiche del gruppo degli operatori relative alla programmazione e andamento delle
attività
- Valutazione del servizio offerto attraverso strumenti di valutazione statistica (monitoraggio)
- Colloqui periodici con gli operatori dei servizi Sanitari, Scolastici, Comunali, dell'Associazionismo, del
Privato Sociale, con le Forze dell’Ordine e del Volontariato coinvolti.
Modalità e criteri di valutazione finale del progetto realizzato
La valutazione finale prevede, a cura dei referenti, la redazione di una relazione - report di progetto con
dati statistici, schede di rilevamento e di raccolta della documentazione prodotta anche nella fase di
monitoraggio, verbali delle riunioni del Tavolo di Intesa e relazione finale che in particolare sarà riferita ad
elementi di efficienza, efficacia e misurazione di valori attraverso i seguenti indicatori:
1. Numero accessi allo sportello
2. Numero contatti telefonici nel periodo di realizzazione del progetto
3. Numero di pratiche prenotate con la Questura
4. Numero di pratiche concluse con la Questura
5. Numero prestazioni avviate (prenotazioni, contatti, ecc.)
6. Numero casi seguiti (regolari, irregolari e provenienti da fuori territorio)
7. Numero Enti e organizzazioni coinvolte
8. Numero iniziative interculturali avviate in forma coordinata
9. Numero di progetti di accoglienza temporanea di donne in difficoltà realizzati
PREMI
I PREMIO “STEFANO GOLISANO” 279
PREMI
280 I PREMIO “STEFANO GOLISANO”
. Il progetto si inserisce nelle attività di Accoglienza alle donne straniere di Porta Palazzo, che le donne
dell’Associazione Spazi al Femminile conducono da circa un anno sul territorio. Il Progetto risponde ad un
bisogno rilevato dall’Associazione rispetto
La popolazione residente nel quartiere di Porta Palazzo è caratterizzata da una percentuale molto alta
(circa il 21%) di famiglie straniere molte delle quali hanno minori a carico.
Tale popolazione è in continuo aumento a causa dei nuovi arrivi e dei ricongiungimenti familiari. Da
alcune verifiche sull’attività del Servizio Sociale e dall’interazione con la rete a disposizione, l’Associazione
Spazi al Femminile ha verificato un aumento di presenze di famiglie straniere con minori disabili.
Dal progetto si attende quindi una capillare diffusione dell’iniziativa
PREMI
I PREMIO “STEFANO GOLISANO” 281
Obiettivi
offrire uno spazio in cui promuovere il benessere psicofisico dei bambini stranieri disabili con attività
finalizzate all’intrattenimento, alla socializzazione.
offrire l’accompagnamento ai servizi del territorio alle mamme e alle famiglie straniere con bambini
disabili.
favorire la socializzazione tra famiglie italiane e straniere al fine di favorire la creazione di reti di sostegno
reciproco
favorire la comprensione, l’avvicinamento e la fruizione dei servizi del quartiere e della città rivolti ai
minori stranieri e delle loro famiglie.
Laboratorio della lingua Italiana e Araba.
Laboratorio di cucina tipica e tradizionale.
Difficoltà degli immigrati nella gestione della malattia cronica
Fotografare il nostro territorio:dati
Abbiamo cecato di individuare quali sono le reali possibilità di sostegno
Bisogno di follow up in centri specializzati (trapianti, malattie metaboliche,
cerebropatie)
In questo senso una metafora vale più di molte parole e il groviglio dei bastoncini dello shangai mi pare
rappresenti bene l’intreccio di relazioni nel quale sono immersi il bambino e la sua famiglia. È molto difficile
toccare un bastoncino senza muoverne altri, lo stesso succede con gli interventi curativi, riabilitativi o
scolastici, che inevitabilmente finiscono per coinvolgere anche gli altri sistemi.
Intorno alla famiglia ruotano tutti gli altri, gli amici, i vicini e gli amici del bambino con le loro famiglie.
Ci sono poi i numerosi professionisti: medici, insegnanti, assistenti sociali, psicologi, riabilitatori e
quant’altro.
A questi si aggiungono le associazioni di rappresentanza e di volontariato con il loro personale ed i loro
professionisti e consulenti. Infine i media con i giornali, la televisione e internet.
In ognuno di questi sistemi, parentale, scolastico, lavorativo, ospedaliero, sociale, in qualche modo si parla
del bambino e della sua famiglia e allo stesso tempo anche il bambino e la famiglia parlano degli altri.
Ogni elemento del sistema è anche ciò che gli altri raccontano di lui. Questa molteplicità di narrazioni
dovrebbe costituire una ricchezza alla quale attingere per migliorare il lavoro di gruppo e ottimizzare il
sostegno alla famiglia e la riabilitazione del bambino; spesso invece diventa causa di incomprensioni e
motivo di scontro.
Non sempre infatti in questo complesso sistema tutto fila liscio, ogni elemento infatti ha la sua verità sul
bambino e sulla famiglia: il medico, l’insegnante, il neurologo, lo psicologo, l’assistente sociale hanno
verità che spesso “valgono di più”. Ma anche i nonni, gli amici e i parenti, hanno le loro verità; è illusorio
pensare di sottrarsi all’influenza delle “verità”: possiamo però imparare ad ascoltarle in modo diverso
utilizzando le differenze invece di farle diventare motivo di scontro.
Al fine di supportare tali famiglie verrà predisposto uno spazio di incontro allestito per poter permettere
alle mamme di trascorrere dei momenti di benessere con i propri figli e con altre mamme di bimbi
disabili.
Tali momenti saranno supportati dalla presenza di un operatore qualificato e dalle donne volontarie
dell’Associazione Spazi al Femminile.
Essendo l’Associazione Spazi al Femminile una associazione di volontariato con specificità non rivolte
al problema dell’handicap, le attività saranno principalmente di avvicinamento e accompagnamento
ai servizi del territorio, con caratteristiche tipiche dell’ auto-aiuto e quindi non specialistiche e/o
professionali.
PREMI
282 I PREMIO “STEFANO GOLISANO”
Azioni
1. contatto delle volontarie dell’Associazione Spazi al Femminile con i Servizi Sociali per conoscere l’entità
del problema e il numero delle famiglie straniere con minori disabili in carico ai Servizi.
2. progettazione delle modalità di contatto con le mamme dei minori disabili, dello spazio di accoglienza
e delle attività di accompagnamento e di aggregazione per i bimbi e per le famiglie.
3. raccolta dei bisogni delle mamme e dei bimbi disabili
4. attivazione dello spazio di incontro e delle attività di sollievo e di accompagnamento
5. attivazione di relazioni significative e di collaborazione con i soggetti del territorio che si occupano
di minori/famiglie/handicap al fine di predisporre percorsi di conoscenza e approfondimento sulle
tematiche della disabilità e sulla fruizione dei servizi a disposizione delle famiglie.
6. diffusione dell’iniziativa attraverso i rapporti informali alle famiglie di minori disabili che ancora non
sono emersi e che vivono in situazioni di isolamento.
PREMI
I PREMIO “STEFANO GOLISANO” 283
PRIMO CASO DI MCAD (DEFICIT DI ACIL-COA DEIDROGENASI A MEDIA
CATENA) DA “PROGETTO PILOTA PER SCREENING METABOLICO
ALLARGATO” IN REGIONE CAMPANIA: ESPERIENZA DELL’ASL
SALERNO 1
C. Di Stefano4, A. Sergio4, A. Barbarulo 4, G. Marchesano4, I. Franzese4, R. Nasca4, C. Brengola4,
D. Maiorino4, P. Sarnelli4, L. Monfalcone4, N. Nosari4, G. Amendola4, D. Ombrone1-2, F.
Catanzano2-3, E. Scolamiero1-2, M. Ruoppolo1-2, F. Salvatore1-2
1
CEINGE Biotecnologie Avanzate s.c.a r.l, via Comunale Margherita 482, 80145 Napoli
Dipartimento di Biochimica e Biotecnologie Mediche, Università di Napoli “Federico II”, Via Pansini 5,
80131 Napoli
3
Dipartimento di Scienze Biologiche ed Ambientali, Università del Sannio, Via Port’Arsa, 11 82100
Benevento
4
U.O.C. Pediatria- TIN Ospedale Umberto 1, Via San Francesco 1, 84014 Nocera Inferiore Salerno
2
Introduzione/Obiettivi
Le Malattie Metaboliche Ereditarie(MME) colpiscono i bambini nei primi anni di vita. Esse sono“malattie
silenti alla nascita” in cui la diagnosi è spesso tardiva e con sviluppo di gravi handicap o esito spesso
letale.Che le MME siano rare è un preconcetto, infatti considerate rare se prese singolarmente, diventano
frequenti come gruppo (AApatie, B-ossidazione, Acidosi organiche).Esistendo la possibilità di diagnosi
precoce di circa 40 MME su spot di sangue si è avviato in tre regioni uno screening metabolico allargato.
La Società Italiana Screening Neonatali su nati del territorio nazionale ha dato una incidenza di 1/3600
nati nel gruppo di MME screenate.Al fine di diagnosticare in fase preclinica malattie altrimenti invalidanti,
abbiamo iniziato nella nostra Regione, dal Maggio 2007, un progetto pilota in collaborazione con il
CEINGE della Federico II. Dal Settembre 2008 il progetto è stato esteso agli altri punti nascita Ospedalieri
della Provincia di Salerno per un totale di 11 Ospedali e circa 8000 nati.
Materiali/Metodi
Nei primi 15 mesi di attività abbiamo sottoposto a screening 2017 neonati con un prelievo di sangue
effettuato mediante puntura del tallone entro 72 ore dalla nascita.Previo consenso informato il cartoncino
viene consegnato al centro che esegue l’indagine entro la mattina successiva ed avviato all’analisi
mediante Spettrometria di Massa Tandem(1).
Risultati
Abbiamo avuto in un caso diagnosi di MCAD.Questo è il difetto più comune nella ossidazione degli
acidi grassi, considerato tra le cause di SIDS. Tale deficit è caratterizzato da intolleranza al digiuno
prolungato con episodi di ipoglicemia ipochetotica fino al coma e bassi livelli di carnitina.Il disordine
può essere severo fino all’evento letale. In seguito alla diagnosi è stato allargato lo studio ai familiari del
probando, consentendo di individuare la stessa patologia nel fratello di 15 mesi. Inoltre è stata eseguita
caratterizzazione molecolare del gene ACADM.Tali studi hanno mostrato che i bambini sono entrambi
omozigoti per la mutazione A985G, mentre i genitori sono eterozigoti per la stessa mutazione.Tale
mutazione rende conto di circa l’80% dei casi di MCAD diagnosticati.E’ stato inoltre allargato lo studio
molecolare a tutti i membri della famiglia, questo ci ha permesso di individuare i portatori.
Conclusioni
L’incidenza della MCAD (1/10000), questa non è poi così lontana da quella della fenilchetonuria (1/12000),
esistendo però per quest’ultima lo screening obbligatorio.E’ stato dimostrato che per la MCAD in fase
preclinica è possibile un buon outcome neurologico a distanza con un attento follow-up e terapia con
integratori (2). Considerando l’incidenza su dati nazionali del gruppo di malattie screenate e il totale di
PREMI
284 I PREMIO “STEFANO GOLISANO”
nati negli Ospedali della Provincia di Salerno (1/3600 vs 8000/anno) ci attendiamo per la nostra Provincia
circa 3 casi/anno di MME (non più rare!).
1. Wilcken, B.New England Jour Med.348:2304-2312, 2003.
2. Muntau Eur. Jour. Ped.163(2):76-80, 2004
PREMI
I PREMIO “STEFANO GOLISANO” 285
PROGETTO DI ATTIVITÀ FORMATIVO-ASSISTENZIALE PRESSO
OSPEDALE ITALIANO IN N’DJAMENA (TCHAD)
A. Masetti
Direzione Generale Sanità Militare
La SIMEUP - Società Italiana di Medicina di Emergenza Urgenza Pediatrica - ha tra i suoi scopi quello di
formare personale sanitario che possa poi rispondere a situazioni di grandi calamità in Italia e all’estero:
all’uopo ha promosso l’isituzione di un gruppo di lavoro, al quale hanno aderito anche S.I.P, S.I.P.P.S. e
F.I.M.P. che propone un percorso formativo per sanitari di area pediatrica variamente articolato.
Le condizioni logistico-lavorative ipotizzabili in situazione di grande calamità posso essere assimilate a
quelle presenti in numerosi ospedali già operativi in Africa o altri paesi in via di sviluppo: per tale motivo
e, volendo raggiungere anche altro importante scopo sociale volto alla solidarietà internazionale, si
propone di
realizzare un progetto di cooperazione formativo-assistenziale con l’Ospedale “Bon Samaritan” operante
in N’Djamena (Tchad), diretto da Padre Angelo Ghepardi, un missionario italiano da oltre 40 anni operante
sul territorio.
Tra le tante ipotesi possibili, la scelta è ricaduto sul suddetto istituto per la particolare cornice di sicurezza
presente nella città, assicurata dalla presenza della Forza Multinazionale Europea - EUFOR - impegnata
nelle operazioni di sostegno ai profughi del sudanesi del Darfour.
Il progetto si articola su costante presenza nell’Ospedale di due medici pediatri (uno con provata
esperienza ed uno in formazione) e di un infermiere di area pediatrica, con l’obbiettivo di contribuire alla
organizzazione dei servizi ospedalieri in campo pediatrico, alla realizzazione di strutture di assistenza
specialistica territoriale (consultori pediatrici, centri vaccinali, ecc.) nonché alla formazione del personale
sanitario locale su tematiche pediatriche.
Il personale, reclutato su base volontaria, sarà impiegato in turni di circa 15 giorni, con cambi non sincroni
tra i medici pediatri, onde consentire la continuità dell’assistenza.
Il sostegno logistico del personale impiegato sarà garantito dalla Direzione dell’Ospedale che potrà
mettere a disposizione appositi alloggi attigui al nosocomio.
Il progetto, per permettere il raggiungimento degli obiettivi sopra esposti, si prevede debba avere una
durata di almeno sei mesi.
Nel corso della durata del progetto, verrà realizzata una attività formativa per il personale sanitario locale,
organizzata dalla SIMEUP con la proposta di appositi corsi specifici per l’emergenza/urgenza in area
pediatrica, della durata approssimativa di una settimana, con l’impiego di manichini e simulatori.
E’ stata richiesta la disponibilità all’Aeronautica Militare Italiana, già impegnata con alcuni medici in azione
umanitaria presso il medesimo ospedale, la disponibilità a trasportare gratuitamente i medici/infermieri
pediatrici a bordo dei velivoli militari.
Si sottolinea come l’attività prestata dal personale sanitario volontario sia completamente a titolo gratuito
e, in molti casi, anche oneroso per gli stessi interessati.
PREMI
286 I PREMIO “STEFANO GOLISANO”
PROGETTO TOUCH SCREEN
P. Ferrante
Dirigente Medico - Pediatra, Presidente SIMEUP-Puglia - U.O. di Pediatria-P.O. “L. Bonomo”-Andria (Bari)
Descrizione
Evoluzione del prodotto editoriale EDITEAM “DIZIONARIO MULTILINGUE PEDIATRICO PER IL PRONTO
SOCCORSO E L’AMBULATORIO” secondo le linee guida della SIMEUP (Società Italiana Medicina di
Emergenza e Urgenza Pediatrica).
Premessa
Il carico di lavoro burocratico con l’aggravante necessità di far fronte alla sempre maggiore mole di moduli
cartacei che il Pediatra ospedaliero e soprattutto quello di P.S. ogni giorno deve affrontare impongono
l’uso delle più attuali ed ergonomiche tecnologie nell’ottica di un lavoro meno stressante e di un servizio
all’utenza più efficiente.
Progetto
Il Progetto prevede l’uso di tutti i moduli bilingue presenti nel Dizionario EDITEAM che verranno riversati
dal supporto informatico (CD) al video.
Tali videate conterranno le schede di intervista medico-infermieristiche nelle lingue prescelte a seconda
delle nazionalità dei genitori del piccolo utente del P.S. pediatrico.
Il tutore del minore darà le risposte (si o no) utilizzando però un supporto interattivo e di notevole
immediatezza d’uso come è il touch screen, che utilizzando una tecnologia ormai consolidata e poco
costosa affrancherà l’utente dall’uso impreciso e scomodo oltre che lento di un tradizionale mouse o
trackball.
Quando saranno state date tutte le risposte alle schede in video si potrà passare a seconda di quanto
preferisce l’operatore sanitario a riempire la scheda successiva oppure alla traduzione della stessa.
Tale innovazione, applicabile anche ad altri ambiti (vedi anamnesi e compilazione di cartella elettronica
ove in uso) renderebbe come detto nelle premesse l’uso del Dizionario più facilmente e rapidamente
fruibile, allargandone pertanto l’applicazione anche a coloro che sono più restii ad adoperare tale
strumento.
Inoltre il costo della tecnologia richiesta risulta estremamente basso e alla portata del budget di qualunque
ambulatorio e pronto soccorso.
PREMI
I PREMIO “STEFANO GOLISANO” 287
“Rispettiamo i diritti del bambino :
trasformiamo l’Ospedale in una casa ospitale!”
L. Pinto
Azienda Ospedaliera “Santobono-Pausilipon” di Napoli
Introduzione
L'esperienza del ricovero ospeda­liero può causare un significativo trauma psicologico nel bambino e nei
suoi genitori, per l’intervento di fattori quali le problematiche legate alla malat­tia, le difficoltà relazionali
con il personale sanitario, le interferenze con le abitudini quotidiane, la brusca interruzione dei naturali
ritmi di vita, i bassi livelli di comfort alberghiero.
Per evitare o almeno ridurre questo trauma, in diversi reparti di pediatria sono state introdotte modifiche
nelle procedure tecniche e nel comportamento del personale di assistenza, e si è intervenuti sugli spazi
rimodellandoli in rapporto alle esigenze del bambino e della sua famiglia.
Tale cambiamento si è realizzato in particolare nei reparti dedicati all’assistenza dei bambini lungodegenti
e/o con malattie croniche o terminali, dove, grazie anche al sostegno di associazioni di volontariato
costituite prevalentemente da genitori, sono stati realizzati programmi di umanizzazione molto
avanzati,
Minore è solitamente l’attenzione per i ricoveri per patologie acute, nonostante siano molto frequenti
(rappresentano il 90 % circa dei ricoveri pediatrici ordinari nel nostro paese), e vi sia un'ampia letteratura
sui disagi emotivi e relazionali derivanti al bambino ad ai suoi genitori anche da queste esperienze di
ospedalizzazione. La natura stessa del ricovero (caratterizzato da una molteplicità di patologie e da una
limitata durata della degenza) non favorisce peraltro la costituzione di associazioni locali di genitori, la cui
azione potrebbe risultare determinante per una più decisa promozione della umanizzazione.
In una regione come la Campania, dove il tasso di ospedalizzazione in età pediatrica è significativamente
più elevato della media nazionale, la gestione assistenziale del ricovero per patologie acute costituisce un
problema di notevole rilevanza, e rende indispensabile l’adozione di azioni atte a garantire un adeguato
livello di umanizzazione nei reparti che partecipano all’emergenza pediatrica
Una ragionevole soluzione è rappresentata dal Progetto Andrea, avviato nel 1995 nella Divisione
di Pediatria dell’Ospedale S. M. Goretti di Latina, da Lino Claudio Pantano e da Alberto Raponi, con la
collaborazione dell'A.Ge. (l'Associazione Genitori Italiani)
Il Progetto Andrea
Il Progetto Andrea ha come obiettivo generale la garanzia che anche durante il ricovero ordinario di
breve durata per patologie acute in pediatria venga assicurato un adeguato livello di umanizzazione,
eliminando o riducendo il trauma dell'ospedalizzazione nel bambino e nei suoi genitori.
Obiettivi specifici sono
Migliorare l’accoglienza in reparto del bambino e dei suoi genitori
rendere possibili i normali ritmi di vita del bambino, elevare il comfort alberghiero, modificare le procedure
assistenziali, per ridurre i disagi al bambino ed ai genitori
migliorare la ristorazione
La metodologia seguita dal Progetto Andrea è quella del problem solving o del ciclo P.D.C.A., che
costituisce lo “strumento” base dell’approccio alla qualità mediante il Miglioramento Continuo.
PLAN (pianificare): decidere cosa fare, come farlo, in che tempi; prima di agire identificare il problema, gli
obiettivi da raggiungere, le misure da adottare:
DO (fare): fare quanto pianificato, dare attuazione ai processi ;
CHEK (controllare): verificare se si è fatto quanto pianificato attraverso dati oggettivi (misurazioni):
raggiungimento degli standard e degli obiettivi previsti, eliminazione del problema e delle cause;
ACT (agire): adottare azioni per migliorare in modo continuo le prestazioni dei processi.
PREMI
288 I PREMIO “STEFANO GOLISANO”
P come pianificare
Il Progetto prevede che il personale del reparto (medici, infermieri, ausiliari), nel corso di riunioni
periodiche analizzi, insieme ai genitori dei bambini ricoverati, alle associazioni di volontariato ed al
mondo della scuola (quando presente), lo stato del reparto, la sua strutturazione, i percorsi assistenziali, i
giudizi sul livello di umanizzazione espressi dalle famiglie di bambini dimessi mediante un questionario,
gli eventuali reclami pervenuti all’ URP; definiti i punti critici e gli obiettivi da raggiungere, si elabora un
piano per realizzare le soluzioni previste, che comprenderà gli obiettivi specifici, le scelte operative, i
tempi di attuazione.
Nell’esperienza di Latina, una commissione composta da operatori sanita­ri, da genitori presenti in reparto
e da volontari, ha individuato come critiche le seguenti aree dell' assistenza pediatrica:
accoglienza (accoglienza del bambino e della sua famiglia, collaborazione del bambino alla visita)
comfort (pulizia e ordine del reparto, strutture fisiche di comfort, attività scolastiche, attività ludicoespressive) ristorazione (gradimento dei pasti) trauma psicologico del bambino (esiti negativi sul piano
psicologico e sul comportamento psicosociale).
Si costruiscono inoltre degli indicatori, sia per avere una misura oggettiva della realtà, che per utilizzarli
come confronto per valutare il miglioramento ottenuto. A Latina è stata scelto come principale indicatore
la misura della soddisfazione del cliente, espressa dalla percen­tuale di famiglie di bambini dimessi che
avevano manifestato un giudizio positivo attraverso interviste telefoniche.
D come fare o fase dell’ attivazione concreta del cambiamento
In questa fase vengono realizzate le azioni correttive programmate.
L’evoluzione del processo e le novità da esso derivanti, sono valutate dagli operatori del reparto nel corso
di riunioni periodiche, mentre continuano a svolgersi incontri tra il personale ed i genitori dei bambini
presenti in reparto (in genere la degenza media è breve nei reparti destinati al ricovero ordinario per
acuti) per illustrare il progetto, ed accogliere le loro richieste e suggerimenti.
C come controllare o fase della verifica dell’esito delle azioni
E’ la fase dalla verifica del conseguimento degli obiettivi di miglioramento dei risultati, e del confronto dei
risultati ottenuti con quelli attesi.
La verifica è fondata su elementi sia soggettivi che oggettivi; particolare importanza ha l’analisi degli
indicatori della soddisfazione del cliente (genitori e bambino), per valutare le differenze fra i giudizi
espressi dalle famiglie prima dell'inizio del progetto, e quelli raccolti dopo la sua attuazione o anche nel
suo corso.
Se l’azione non è risultata efficace, si rivaluteranno le cause, le soluzioni proposte, le ulteriori modifiche
da introdurre.
A come agire o della Spirale continua del miglioramento
E’ essenziale che il processo non si arresti dopo la verifica dei cambiamenti positivi ottenuti, ma si consolidi
e continui ad evolversi. Nel corso di riunioni periodiche fra il personale del reparto, i genitori dei bambini
degenti e le associazioni volontariato, si procede
ad un monitoraggio continuo del miglioramento mediante questionari per i genitori dei bambini dimessi,
per conoscere il loro parere sulla qualità dell’assistenza erogata e raccogliere ulteriori suggerimenti;
alla standardizzazione ed al potenziamento degli interventi efficaci già effettuati: anche quando le
modifiche del processo assistenziale vengono considerate soddisfacenti, nella logica del miglioramento
continuo si riconfermano gli obiettivi, con livelli più elevati di soddisfazione da raggiungere.
Progetto
“Rispettiamo i diritti del bambino: trasformiamo l’Ospedale in una casa ospitale!”
Programma di formazione per la promozione dell'umanizzazione del ricovero nei reparti pediatrici
PREMI
I PREMIO “STEFANO GOLISANO” 289
dell’A.O Santobono-Pausilipon
L’Azienda Ospedaliera "Santobono-Pausilipon" di Napoli, DEA di 2° livello, è il più importante Ospedale
Pediatrico del Mezzogiorno, ed ogni anno accoglie nel suo Pronto Soccorso circa 100.000 bambini,
e ricovera circa 30.000 pazienti nei 2 Presidi, Santobono e Pausilipon, per problemi sia medici che
chirurgici
Grazie alla efficace organizzazione di comprovata esperienza ed alla presenza di elevate competenze
professionali, è in grado di rispondere al bisogno di salute della popolazione infantile regionale ed
extraregionale, sia nell’emergenza/urgenza che nell’elezione.
La Direzione Sanitaria dell’ A.O. Santobono-Pausilipon di Napoli, in collaborazione con la SIMEUP - Società
Italiana di Medicina dell’Emergenza Pediatrica - Sez. Campania, con il Gruppo di Studio della Pediatria
Ospedaliera - Sez. Campania, e con il Network degli “Ospedali di Andrea” - AGe. Associazione Genitori
Italiani, nel rispetto di quanto previsto dall'articolo 14 del D.Lgs 502/92 e s.m., ha dato vita ad un progetto
di formazione degli operatori sanitari dedicato all'umanizzazione del ricovero nei reparti dell’Azienda,
fondato sul Progetto Andrea (adottato dal Network “Gli Ospedali di Andrea”, di cui fanno parte 46 ospedali
di 14 regioni del nostro paese), che ha l’obiettivo di assicurare un adeguato livello di umanizzazione,
eliminando o riducendo il trauma dell'ospedalizzazione nel bambino e nei suoi genitori durante il
ricovero.
Il Progetto Andrea, che si potrebbe definire come una “formalizzazione del buon senso”, ha la caratteristica
di essere fondato su di una autonoma e democratica presa di coscienza del personale del reparto (medici,
infermieri, ausiliari), che vuole innalzare la qualità dell' assistenza erogata, coinvolgendo in un percorso
comune i bambini ed i loro genitori, il volontariato e, dove presente, il mondo della scuola.
Il progetto risponde a quanto previsto dal P.O.M.I. 1998-2000, dal P.S.N. 2001-2003, che aveva posto fra gli
obiettivi “la riduzione del disagio del Bambino in ospedale” attraverso “l’umanizzazione della assistenza
ospedaliera compresa l’attività ludica e la possibilità di ospitare un genitore in area pediatrica”, ed in
particolare, con la Carta Europea dei bambini degenti in ospedale, fatta propria dalla Regione Campania
con la L.R. n. 24 del 19 dicembre 2006 “Piano Regionale Ospedaliero per il triennio 2007 - 2009”,
il bambino in ospedale ha il diritto di avere accanto a sé in ogni momento i genitori
gli stessi genitori devono essere informati sull' organizzazione del reparto e incoraggiati a parteciparvi
attivamente
il bambino e i genitori hanno il diritto di essere informati in modo adeguato all' età e alla loro capacità di
comprensione e bisogna fare quanto possibile per mitigare il loro stress fisico ed emotivo
il bambino deve essere assistito da personale con preparazione adeguata a rispondere alle necessità
fisiche, emotive e psichiche del bambino e della sua famiglia.
Attraverso il progetto “Rispettiamo i diritti del bambino: trasformiamo l’Ospedale in una casa ospitale!”,
la Direzione Sanitaria dell’ AO Santobono - Pausilipon mira ad ottenere un cambiamento significativo
delle abitudini che genererà soddisfazione non solo nei bambini e nei loro genitori, ma anche negli stessi
attori (personale medico, infermieristico ed ausiliario, associazioni di volontariato e mondo della scuola) a
cui viene affidata la responsabilità di comprendere e contenere i vissuti emotivi del bambino e della sua
famiglia nel corso della esperienza del ricovero
Articolazione del progetto
1. Accettazione da parte dell’ Azienda del programma di formazione e formalizzazione della Task Force
della Direzione Sanitaria responsabile del Progetto
2. Valutazione delle schede sul grado di soddisfazione dell’utente, raccolte dalla Direzione Sanitaria grazie
anche alla collaborazione delle Assistenti Sociali e dei volontari dell’ AVO (allegato 1)
3. Attuazione di 4 Corsi di Formazione, ognuno per 30 medici e per 70 infermieri dell’ Azienda, (aperti al
Volontariato ed al Mondo della Scuola) sulla Carta dei diritti dei bambini in ospedale, sulla umanizzazione,
sullo stress dell'ospedalizzazione, sulla comunicazione in Pediatria, sul Progetto Andrea e sul Progetto
“Trasformiamo l’Ospedale in una casa ospitale!” che l’ AO Santobono-Pausilipon intende realizzare. Ogni
PREMI
290 I PREMIO “STEFANO GOLISANO”
Corso ha una durata di 8 ore in due giorni (4 ore di lezioni e 4 ore di lavoro di gruppo e discussione).
4. Attivazione di Gruppi di Lavoro di Reparto, con il supporto di esperti.
a. Insieme ai genitori dei bambini ricoverati, ai Rappresentanti dell’A.Ge, dell’AVO o di altre Associazioni
di Volontariato già attive nell’Azienda, alle Insegnanti della Scuola in Ospedale, il personale del reparto.
Guidato dai medici e dalle infermiere che hanno effettuato il Corso di Formazione, analizzerà lo stato del
reparto, la sua strutturazione, i percorsi assistenziali, i giudizi sul livello di umanizzazione espressi dalle
famiglie di bambini dimessi.
b. Definiti i punti critici e gli obiettivi da raggiungere, il Gruppo elaborerà un piano per realizzare le
soluzioni previste, che comprenderà gli obiettivi specifici, le scelte operative, i tempi di attuazione. Si
costruiranno degli indicatori, per avere una misura oggettiva della realtà ed utilizzarli come confronto per
valutare il miglioramento ottenuto.
c. Il Gruppo elaborerà
guide all'uso dei servizi delle U.O. a beneficio delle famiglie dei piccoli ricoverati
schede per rilevazione della soddisfazione, sia dei clienti (genitori, ragazzi ed adolescenti), che
degli Operatori del reparto: le schede per i Genitori verranno distribuite al termine della degenza e
successivamente raccolte dall’ URP, dalle Assistenti Sociali e dal Volontariato, mentre quelle per gli
Operatori del Reparto verranno raccolte periodicamente dalla Task Force della Direzione Sanitaria
d. Nel corso del progetto (durata 12 mesi) i Gruppi di Lavoro effettueranno nei loro Reparti:
I. una verifica critica periodica del suo andamento, attraverso confronti e l’analisi collegiale dei dati
che emergono dalle schede della soddisfazione dell’utente redatte dopo l’inizio del “cambiamento”,
coinvolgendo nella discussione i Genitori dei bambini presenti in reparto, il Volontariato ed il Mondo
della Scuola
II. l’individuazione dei nuovi obiettivi da raggiungere, del tempo necessario per la loro realizzazione e
degli strumenti necessari per monitorizzarne l’evoluzione
5. La Task Force della Direzione Sanitaria
a. seguirà il lavoro dei reparti, valuterà periodicamente i dati raccolti e illustrandoli ai Gruppi interessati,
fornirà gli ulteriori supporti man mano che si rendono necessari
b. organizzerà a fine percorso una riunione per presentare e discutere i risultati ottenuti, premiando i
reparti che hanno realizzato i maggiori progressi
COMUNICAZIONI E POSTER
ADOLESCENTOLOGIA
Assegnazione del Premio "Clemente Pascarella" ad Alfonso d'Apuzzo
COMUNICAZIONI E POSTER
ADOLESCENTOLOGIA
293
ASSISTENZA MINORILE NELLA ZONA ORIENTALE DÌ NAPOLI: REALTÀ
DELL’UNITÀ DÌ NEONATOLOGIA DEL P.O. “LORETO MARE”
M. R. Cernera, V. Nappo
Unita’ Operativa di Neonatologia - P.O. Loreto Mare - ASL Napoli 1
La realtà della zona orientale della città di Napoli presenta:
- basso reddito familiare;
- bassa scolarizzazione/occupazione;
- alto indice di gravidanze in adolescenti (e bambine);
- incidenza di LBW superiore alla media nazionale e regionale;
- alta incidenza di genitori fumatori;
- alta incidenza di madri che abusano di sostanze illecite e di alcol;
- abitazioni con basso indice di vivibilità (persone/vani);
- madri di età superiore a 25 anni inferiore alla media regionale;
- tagli cesarei più del doppio della media nazionale;
- alta incidenza e bassa durata dell’allattamento esclusivo al seno;
- alta incidenza di scarse cure prenatali;
- alta incidenza di familiarità per allergopatie;
- alta incidenza di madri HCV- positive.
Materiali e metodi
In particolare, la realtà dell’utenza del P.O. “Loreto Mare” (essenzialmente composta da cittadini residenti
nella zona orientale di Napoli) è la seguente:
Anno 2007:
Numero di nati: 1070
1- Istruzione (in percentuale)
Licenza elementare 31, 6 %
Licenza media: 52, 7%
Diploma: 13, 5%
Laurea 2%
Va segnalato che l’1, 5 per mille è analfabeta.
2- Attività dei genitori (riferito all’attività lavorativa del padre o della madre):
Disoccupati: 15%
Senza fisso lavoro: 34%
Operai: 35%
Impiegati: 9%
Commercianti: 4%
Professionisti: 3%
Va segnalato che la quasi totalità delle famiglie sono unireddito e quasi sempre le donne sono
casalinghe.
3- Il 5% dei genitori ha problemi con la giustizia (detenuti)
4- Fumatori (almeno uno dei genitori): 70%
5- Abuso di sostanze illecite (almeno uno dei genitori): 5% (nr. 2 casi di sindrome di astinenza neonatale)
6- Modalità del parto:
Taglio cesareo: 50%
Applicazione di ventosa: 0, 99 %
COMUNICAZIONI E POSTER
294 ADOLESCENTOLOGIA
7- Tasso di mortalità neonatale precoce: 0, 33%
8- Peso alla nascita (in grammi):
< 1000: 0%
1001/2000: 1, 6%
2001/2005: 5, 3%
2501/3999: 92.8%
> 4000 3%
9- Pretermine: 4, 6%
10- Parti gemellari: 1, 58%
11- Asfissia alla nascita:
Lieve/Media: 4, 7%
Grave: 1%
12- Età media materna: 26 +/- 8
13- Età materna inferiore ai18 anni: 2, 7% (di cui 2 casi di età inferiore ai 13 anni e 1 di 14 anni)
14- Età materna superiore a 35 anni: 7, 54%
15- Madre nubile: 1%
Va segnalato inoltre che, su un totale di 604 IVG, 15 erano adolescenti.
Le condizioni socio-sanitarie dell’utenza sono state valutate in base a indicatori di salute analoghi a quelli
presi in considerazione nel Progetto “Healty People 2010” (Tabella 1)
Povertà dei bambini
Sicurezza degli alimenti
Problemi domestici
Impiego (lavoro) dei genitori
Assicurazione
Cure prenatali
Mortalità infantile
Basso peso alla nascita
Uso di tabacco
Uso di alcol
Abuso di sostanze illecite
Vittime del crimine
Difficoltà del linguaggio
Letture familiari
Educazione nella fase precoce dell’infanzia
Completamento degli studi
Abuso nell’infanzia
Fonte “The Federal Interagency Forum on Child a Family Statistic, 1997”
COMUNICAZIONI E POSTER
ADOLESCENTOLOGIA
Conclusioni
295
La realtà dell’utenza del P.O. Loreto Mare testimonia l’esistenza di scarsa equità sociale in termini di qualità
della vita e diritto alla salute.
Miseria, disoccupazione, degrado igienico-ambientale, criminalità, standard assistenziali insufficienti
sono alla base della qualità e dell’aspettativa di vita, quindi della salute dei bambini. La tutela della salute
fisica e psichica dell’infanzia, posta come obiettivo principale, può essere realizzata solo mediante una
conoscenza dei problemi legati alle particolari realtà; in questo assume particolare importanza la funzione
del punto nascita e del consultorio come centro di referaggio, valutazione, informazione e rimozione di
varie situazioni di rischio.
In particolare, nella nostra realtà assume notevole importanza:
la stretta collaborazione tra il team deontologico e quello ginecologico per il riconoscimento delle
gravidanze trascurate, la diagnosi prenatale e la gestione successiva dei difetti congeniti, la prevenzione
della nascita pretermine e la gestione di sue eventuali complicanze, la presa in carico dei nati da gravidanze
complicate da gestosi, diabete, IUGR, etc.
Il nostro Centro aderisce al “Sostegno alla genitorialità a rischio”, che prevede la raccolta di dati volto
all’individuazione di fattori di rischio sociale che espongono il bambino a problemi di salute anche
successivi (malnutrizione, infezioni, disturbi del comportamento, abuso). I dati raccolti vengono trasferiti
al Distretto ASL di competenza, che attiva i Servizi Sociali.
Questo servizio parte dalla trasmissione di notizie dal ginecologo al neonatologo, al fine di limitare al
massimo l’imprevisto e si attua attraverso l’attivazione di personale esperto (team neonatologico),
rispettando le linee guida della rianimazione neonatale grazie alla disponibilità di presidi e attrezzature
attualmente raccomandati.
Promozione dell’allattamento esclusivo al seno.
Supporto psicologico alle madri, specie a quelle che presentano depressione post partum.
Trasmissione di notizie riguardanti la nascita e collaborazione attiva con il pediatra di base che prende in
carico il bambino.
COMUNICAZIONI E POSTER
296 ADOLESCENTOLOGIA
MALATTIA DI OSGOOD-SCHLATTER: COS’E’ QUESTO “MORBO” CHE
AFFLIGGE UNA GRANDE PERCENTUALE DI ATLETI ADOLESCENTI?
S. Esposito
Pediatria di Base, ASL Napoli 1, Distretto 45
Introduzione
La malattia di Osgood-Schlatter o osteocondrosi dell’apofisi tibiale anteriore, è un processo flogisticodegenerativo a carico della tuberosità tibiale. Il meccanismo con cui questa malattia si genera è legato alla
situazione della zona anatomica colpita: infatti, la tuberosità (o apofisi) tibiale anteriore ossifica in ritardo
rispetto alle altre parti della tibia e, pertanto, rimane più morbida. Durante il movimento di estensione
del ginocchio, in risposta alle sollecitazioni provocate dalla trazione esercitata dal tendine rotuleo che vi
si inserisce, l’apofisi tibiale non ossificata si può facilmente infiammare.
Di solito questa patologia interessa i ragazzi di età compresa tra 10 e 16 anni che praticano sport.
Scopo di questo lavoro è presentare un caso di malattia di Osgood-Schlatter mettendo in evidenza segni,
sintomi, iter diagnostico ed intervento terapeutico in merito.
Caso clinico
C. è un’adolescente di 14 anni che abitualmente pratica sport a livello non agonistico. Viene alla nostra
osservazione lamentando dolore nei movimenti di estensione del ginocchio destro che, all’esame
obiettivo, appare modicamente tumefatto e dolente alla palpazione. Pratica pertanto una radiografia del
ginocchio che non evidenzia calcificazioni delle giunzioni osteotendinee in corrispondenza dell’inserzione
del tendine del muscolo quadricipite femorale sul margine antero-superire della rotula e mostra regolare
morfologia e struttura delle componenti ossee del ginocchio con normale ampiezza della rima articolare
femoro-tibiale. La risonanza magnetica, eseguita successivamente, mette in evidenza un’ipertrofia
dell’apofisi tibiale anteriore, compatibile con esiti di osteocondrosi.
Gli esami praticati confermano pertanto la presenza di esiti ossei, ormai abbastanza stabilizzati, di
malattia di Osgood-Schlatter. Alla paziente viene pertanto prescritto riposo assoluto dall’attività sportiva,
compresa l’attività di educazione fisica scolastica, per almeno due mesi e l’applicazione di ghiaccio ed
eventualmente una pomata ad azione antinfiammatoria localmente.
Discussione
Durante l’attività sportiva, in cui si verifica una ripetuta estensione del ginocchio, si determinano, nel
punto di inserzione del tendine del muscolo quadricipite femorale (chiamato rotuleo) sull’apofisi tibiale,
delle microfratture cartilaginee con successivi fenomeni infiammatori locali che provocano dolore,
soprattutto dopo lo sforzo, e tumefazione. Quando l’apofisi tibiale si ossifica completamente, l’inserzione
del potente tendine rotuleo non avviene più su una debole struttura cartilaginea ma su una zona ossea e
così il dolore si esaurisce. Ecco perché la malattia regredisce intorno al diciottesimo anno d’età.
Conclusioni
La diagnosi di malattia di Osgood-Schlatter è fondamentalmente clinica per la presenza di dolore e
tumefazione nella sede dell’apofisi tibiale. E’ utile un esame radiografico, ed eventualmente una risonanza
magnetica, per confermare la diagnosi.
La terapia prevede l’applicazione di ghiaccio (crioterapia), pomate o cerotti antinfiammatori localmente
e, solo occasionalmente, l’assunzione di antidolorifici per os.
Nelle fasi di acuzie è utile il riposo funzionale dell’articolazione interessata.
Nel complesso l’evoluzione della malattia è quasi sempre benigna, con guarigione spontanea e completa
alla fine dell’accrescimento osseo.
BRONCOPNEUMOLOGIA
Momenti congressuali
COMUNICAZIONI E POSTER
298 BRONCOPNEUMOLOGIA
Accuratezza della pulsossimetria nella diagnosi di Apnee
Ostruttive durante il Sonno in età evolutiva (OSAS)
E. Verrillo1, M. Pavone1, M.G. Paglietti1, V. Di Ciommo2, M. Cuttini2, A. Petrone1, R. Cutrera1
1
2
UOC Broncopneumologia
UOC Epidemiologia Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, IRCCS, Roma
Riassunto
La sindrome delle apnee ostruttive durante il sonno (OSAS, Obstructive Sleep Apnea Syndrome) nei
bambini è definita dall’ American Thoracic Society come “disturbo della respirazione durante il sonno,
caratterizzato da ostruzioni delle alte vie respiratorie prolungate e parziali e/o complete ed intermittenti
(apnea ostruttiva), che altera la normale ventilazione ed il normale pattern di sonno”. OSAS è una patologia
molto comune che colpisce il 2.2 - 13% dei bambini.
Abbiamo studiato 167 bambini ed adolescenti col sospetto di OSAS per definire l’accuratezza diagnostica
della pulsossimetria notturna.
Tutti i soggetti sono stati sottoposti a pulsossimetria e polisonnografia cardiorespiratoria che è considerata
il gold standard per la diagnosi; i soggetti con un indice di apnea/ipopnea ostruttive e miste (MOAHI Mixed
Obstructive Apnea Hypopnea Index) ≥ 1 per ora di sonno sono stati considerati patologici. Abbiamo
utilizzato due metodi differenti per valutare la pulsossimetria: il primo secondo i criteri di Bruillette,
consiste nel classificare gli esami in positivi (quando il grafico mostra 3 o più clustres di desaturazione
<90%), negativi e inconclusivi; il secondo criterio è ottenuto dall’ODI (number of desaturations per hour
of sleep) ≥ 3.
Quando il criterio di positività per la pulsossimetria è stato definito dall’ ODI ≥ 3, la sensibilità era del 74%
(95% CL 64.5 - 82.1) e la specificità del 55.6% (95% CL 42.5 - 68.1).
La valutazione del clinico della saturazione di ossigeno mostrava il 28.8% di pazienti positivi (tutti
patologici, nessun falso positivo) ed il 46.1% negativi (38 patologici); nel 35.9% dei pazienti i risultati
erano incoclusivi (36 patologici). Se questi pazienti erano considerati test-negativi, la sensibilità era del
28.8% (95% CL 20.4 - 38.6) e la specificità del 100%.
Come atteso dal test parallelo otteniamo una alta sensibilità (74%) ed una bassa specificità (52.4%) con
la sola interpretazione dell’esame da parte del clinico, non molto di più che utilizzando il criterio dell’ODI.
Prendendo in considerazione solo i pazienti classificati come negativi dall’interpretazione del clinico, la
discriminazione con l’ODI tra patologici e non-patologici non è soddisfacente (sensibilità 63.5%, specificità
55.5%, LR + 2.2).
In conclusione l’interpretazione della pulsossimetria da parte di un clinico di laboratorio del sonno può
essere un utile test di screening nei bambini con sospetto di OSAS; i soggetti con una pulsossimetria
positiva (28.8% di tutti i bambini patologici) può essere esclusa da ulteriori accertamenti attraverso la
polisonnografia.
COMUNICAZIONI E POSTER
BRONCOPNEUMOLOGIA
299
L’ossigenoterapia nell’insufficienza respiratoria acuta.
A. Ciao, B. Borrelli, C. Ciao, V. Tipo, E.M. Laurito
AORN Santobono Napoli
L’insufficienza respiratoria acuta è caratterizzata da :
a) Tachipnea, tachicardia e diaforesi;
b) Scarso o ridotto movimento della parete toracica durante le escursioni respiratorie;
c) Alitamento delle pinne nasali; d) Retrazioni sovraclaveari e sottocostali nella fase inspiratoria;
e) Retrazioni intercostali;
f ) Obnubilamento dello stato di coscienza e/o agitazione;
g) Parametri pulsossimetrici bassi.
L’ipossia rappresenta il problema principale nel distress respiratorio acuto che trova nell’ossigenoterapia
il suo principale presidio terapeutico. Possiamo suddividere i dispositivi per l’ossigenazione in sistemi ad
alto e basso flusso.Tra i primi, la maschera non rebreather che rilascia ossigeno ad alta concentrazione
(O2>95% ad un flusso di 10-12 l/m); per i bambini più piccoli il tubo di ossigeno viene collegato ad un
giocattolo da tenere in mano vicino al viso e se il paziente è ancora agitato risulta opportuno fornire
ossigeno con il sistema”blow-by”.I sistemi a basso flusso comprendono, in primo luogo, la semplice
maschera per ossigeno, di plastica, in grado di erogare O2 al 35-40% ad un flusso di 6-10 l/m. Vanno
menzio-nati, inoltre, la maschera non rebreather parziale (Venturi) con capacità di ossigenazione
del 50-60% a 10-12 l/min, la tenda facciale a forma di secchiello, aperta in cima, che proprio per tale
conformazione fornisce solo il 40% di O2 a 10-15 l/m o ancora il casco per ossigeno(conchiglia di plastica
che avvolge il capo del bambino)in grado di rilasciare l’80-90% di ossigeno ad una portata di 10-15 l/ m.
Per il paziente in pre-arresto respiratorio (tachipnea >60 a.r. m/ bradipnea, cianosi periferica o centrale,
stato di coscienza alterato, ipotonia muscolare, bradicardia, perfusione periferica ridotta) o ancor più in
arresto respiratorio si procede alla ventilazione assistita con pallone-valvola-maschera BMV o Ambu, di cui
sonodisponibili tre versioni ovvero neonatale (450ml), pediatrico (750ml) e adulto (1000ml), utilizzando la
tecnica ad una mano o a due mani da preferirsi. Si può fare ricorso anche al pallone flusso dipendente che
si gonfia solo quando vi fluisce O2 erogato a pressione; quest’ultimo a fronte di alcune criticità quali una
necessaria perfetta aderenza della maschera e la disponibilità di una fonte costante di gas per rimanere
gonfio oltre alla mancanza di una valvola di sicurezza di pop-off presenta alcuni indubbi vantaggi come la
valutazione della rigidità dei polmoni comprimendo il pallone e l’erogazione di O2 libero al 100%.
COMUNICAZIONI E POSTER
300 BRONCOPNEUMOLOGIA
LA VENTILAZIONE NON INVASIVA COME NUOVO APPROCCIO
TERAPEUTICO PER LA BRONCHIOLITE
C.S. Barbàra, R. Grossi, P. Papoff, S. Fioravanti, F. Midulla, C. Moretti
Dipartimento di Pediatria d’Urgenza e Terapia Intensiva Pediatrica (TIP) - Policlinico Umberto I - Sapienza
Università di Roma
Obiettivi
Negli ultimi anni abbiamo dimostrato che la ventilazione nasale, flusso sincronizzata, a pressione positiva
intermittente (NFSIPPV), può essere un valido ausilio nell’assistenza respiratoria nei neonati pretermine,
in particolare nel periodo postestubazione. Ad oggi, tuttavia, non è chiaro se la NFSIPPV possa essere
utilizzata anche nell’assistenza dei bambini più maturi, quali i lattanti affetti da bronchiolite moderatagrave.
Materiali e metodi
Durante la stagione epidemica degli anni 2005-06 e 2006-07 tutti i lattanti nati a termine o lievemente
pretermine, di età inferiore ai 2 mesi, ricoverati in TIP con diagnosi di bronchiolite da moderata a grave
e con un fabbisogno di ossigeno (FiO2) ≥ 0.35 sono stati trattati con NFSIPPV se presentavano segni di
distress respiratorio. La NFSIPPV è stata praticata con i seguenti parametri: Ti 0.3- 0.4 s, PEEP 3-8 cmH2O,
PIP 15-25 cmH2O, back-up rate 25 bpm e FiO2 adatta a mantenere una saturazione di ossigeno (SaO2)
tra 96% e 98%.
Risultati
In tutto sono stati trattati 21 bambini. Cinque di questi (24%) hanno richiesto intubazione endotracheale e
ventilazione meccanica per il presentarsi di frequenti crisi di apnea che non rispondevano alla ventilazione
manuale. I pazienti del gruppo che ha richiesto ventilazione meccanica erano significativamente più
piccoli di età (media 34 giorni, range 10-61) rispetto a quelli trattati con la sola NFSIPPV (50 giorni, 13-147),
inoltre i parametri rilevati al ricovero erano significativamente peggiori: score clinico 8.9 punti (SD 0.6) vs.
7.6 (SD 1.2) punti, PCO2 69 (SD 20) mmHg vs. 58 (SD 11) mmHg, pH 7.21 (SD 0.20) vs. 7.30 (SD 0.1), and
FiO2 0.65 (20) vs. 0.46 (0.13)). In entrambi i gruppi i parametri analizzati sono migliorati significativamente
già dopo le prime 3 ore di trattamento. Nessuno dei pazienti ha presentato effetti collaterali riferibili alla
ventilazione nasale. In tutti i pazienti con bronchiolite sono stati ricercati i virus respiratori sugli aspirati
naso-tracheali. Il virus respiratorio sinciziale (RSV) è stato trovato in 7 pazienti (44%) nel gruppo trattato
con ventilazione non invasiva e in tutti i pazienti (100%) nel gruppo trattato con ventilazione meccanica.
Conclusioni
La ventilazione non invasiva, utilizzata nella modalità NFSIPPV, sembra essere un valido ausilio anche
nei lattanti affetti da bronchiolite moderata- grave. Sulla base della nostra esperienza questa tecnica
appare efficace e sicura e potrebbe essere utile per ridurre i casi di pazienti con bronchiolite trattati con
ventilazione meccanica.
COMUNICAZIONI E POSTER
BRONCOPNEUMOLOGIA
301
PERCORSO DIAGNOSTICO - TERAPEUTICO NEL BAMBINO PICCOLO
CON OSTRUZIONE DELLE BASSE VIE AEREE (1)
V. Stifano, I. Pierucci, G.Mion, N.Napolitano
UOC di Pediatria-P.O.Sapri-Asl-SA-3
Introduzione
I ricoveri per bronchiolite in un anno sono rappresentati da circa l’1% dei piccoli con età minore di 24 mesi
(2). Prenderemo in considerazione, comunque, l’ostruzione acuta delle basse vie respiratorie in modo
da evitare problemi classificativi. Le caratteristiche sono : 1) rinorrea presente alla visita e/o nelle 48 ore
prima ; 2) rantoli crepitanti diffusi e/o wheezing ; 3) rientramenti e/o tachipnea; 4) score clinico > 2.
Diagnosi
I - Accesso
Effettuare il triage, valutando frequenza respiratoria, frequenza cardiaca, saturazione di O2 e temperatura
corporea. Durante tale fase è bene intervenire sul bambino con una disostruzione nasale con soluzione
fisiologica che va fatta prima dei suddetti rilievi, prima dell’alimentazione e prima della terapia inalatoria.
Infatti, si è visto che nel 60% dei casi c’è stato un miglioramento del respiro dopo tale tecnica che ha
comportato una riduzione dell’impiego dei broncodilatatori e dell’ossigeno, favorendo l’alimentazione in
modo sicuro ed economico (3, 4).
II - Valutazione iniziale
Esame fisico generale, stato di idratazione e score clinico. Quest’ultimo anche se non validato (basato su
quello usato al Cincinnati Children’s Hospital Medical Center) è attuabile nel nostro caso (5, 6). Ci si basa
sui seguenti parametri : frequenza respiratoria, uso dei muscoli accessori, scambio di aria, presenza di
wheezing e rapporto inspirazione/espirazione (vedi Tabella 1).
Possiamo avere due condizioni : broncostruzione lieve e broncostruzione moderata-grave che comportano
due terapie farmacologiche differenti. Il punteggio va da 2 a 9 con valore limite per distinguere la gravità
della broncostruzione che è di 4. La riduzione di almeno 2 punti dello score clinico permetterà di stabilire
se vi è stato o meno un miglioramento dopo terapia con farmaci (valori inferiori non sono attendibili per
l’azione farmacologica) e solo con questi (non O2 terapia e/o terapia idratante, etc.).
III - Procedure
Gli esami del sangue non sono indicati di routine (7), ma in presenza di disidratazione e/o grave difficoltà
ad alimentarsi, di febbre > 38, 5 da 48 ore, di sospetta sepsi o di opacità lobare o segmentale. Una
radiografia del torace si esegue nel sospetto di co-morbidità o diversa diagnosi oppure con score clinico
> 4 dopo almeno 24 ore dall’accesso.
IV - Ossigenoterapia
Con una SpO2 superiore al 90% si garantisce una adeguata ossigenazione del sangue arterioso e dare ancora
O2 incrementa di poco l’SpO2 (8). D’altronde, per una SpO2 < 91% piccole riduzioni di PaO2 producono
importanti diminuzioni della SpO2 (9, 10). Perciò, abbiamo deciso di introdurre l’ossigenoterapia per valori
di SpO2 < 91%. Se, invece, la SpO2 è tra 91% e 93% l’O2 viene somministrato se lo score è > 4 con difficoltà
all’alimentazione orale. Si sospende l’O2 terapia se la SpO2 rilevata in due misurazioni successive è > 94%
oppure se la SpO2 è tra 91% e 93% con score > 4 e bambino che si alimenta bene (11).
V - Monitoraggio SpO2
La pulsossimetria, preceduta dalla disostruzione nasale, è indicata all’entrata. Incide solo sulla
supplementazione di O2 e va effettuata durante il ricovero ospedaliero ad intervalli di 4 ore.
VI - Ricovero
Si ricovera nelle forme più gravi di bronchiolite/broncostruzione acuta o rischio di evoluzione peggiorativa,
mentre per il ricovero in terapia intensiva ci deve essere un grave di stress respiratorio in terapia con
ossigeno e presenza di apnee ricorrenti (12, 13).
COMUNICAZIONI E POSTER
302 BRONCOPNEUMOLOGIA
Terapia
I - Terapia idratante
Somministrare endovena i liquidi se c’è disidratazione, alimentazione orale impedita e grave di
stress respiratorio. Si valuteranno i liquidi da infondere in base al fabbisogno giornaliero, evitando la
iperidratazione per rischio di insorgenza di congestione polmonare.
II - Terapia farmacologica
1. Beta2-agonisti.
Mentre non sono indicati nella bronchiolite, i beta2-agonisti trovano indicazione soprattutto in fase
iniziale nei bambini più grandi con bronchite asmatiforme, tipo come il trattamento dell’asma acuto.
Tale farmaco si mantiene solo se c’è una diminuzione di almeno 2 punti dello score clinico.
2. Steroidi
Le sostanze steroidee sono indicate per le forme di broncostruzione con score >4, secondo quanto
indicato dalle Linee Guida sull’asma per le forme moderate-gravi (14).
3. Adrenalina
L’adrenalina si utilizza solo in casi gravi e non responsivi, ovvero se il bambino presenta affaticamento
muscolare e desaturazione in corso di O2terapia dopo aver somministrato steroidi e salbutamolo.
4. Antibiotici
L’antibiotico è necessario se vi è sepsi, febbre > 38, 5°C e leucocitosi oppure in caso di opacità lobare o
segmentale all’Rx torace.
III - Terapia aerosolica
Si è evidenziata una riduzione nei tempi di ospedalizzazione ed un miglioramento dello score clinico
in bambini di età < 5 anni con wheezing, curati con aerosol con distanziatore rispetto al nebulizzatore,
quest’ultimo da preferire nell’età < 2 mesi (15).
Si può dimettere il piccolo quando c’è:
miglioramento consistente del quadro clinico ;
saturazione nella norma ;
possibilità di ricontattare il curante ;
affidabilità dei genitori che dovranno essere adeguatamente istruiti sulla terapia ed in particolare sulle
tecniche di disostruzione nasale.
Tabella 1: Score clinico
Parametri considerati : frequenza respiratoria, impiego dei muscoli accessori, ingresso d’aria, fischi,
rapporto tempo di inspirazione/espirazione.Per ogni parametro attribuito un punteggio che va da 0 a 2.
Per il rapporto tempo di inspirazione/espirazione il punteggio va da 0 a 1.
Frequenza respiratoria : valutata in base ai valori di riferimento della frequenza respiratoria per età in
veglia tranquilla e sonno.Frequenza respiratoria misurata per 1 minuto e non estrapolata in base ad
intervalli inferiori.
Punteggio minimo-massimo : punteggio minimo 2 (i casi con < 2 non entrano nel percorso in quanto non
prevedono un’osservazione prolungata), punteggio massimo 9.
Cut-off: 4 Punteggi < 4 eseguono terapia iniziale solo con broncodilatatori. Punteggi > 4 effettuano
terapia iniziale con broncodilatatori e steroidi.
Miglioramento minimo previsto per valutare la terapia efficace : 2 punti.
Bibliografia
1. Ballotti S., De Luca M., Trapani C., Lombardi E., Menicocci C., Poggi G., Fontanazza S., Zuffo S., Rusconi F.. Azienda Ospedaliera -Universitaria “A. Meyer”, Firenze. // Dalle Linee Guida al percorso diagnostico e terapeutico
nel bambino piccolo con ostruzione delle basse vie aeree. // Pneumologia Pediatrica 2007 ; 26 : 38-49.
2. Kini NM, Robbins JM, Kirschbaum MS, et al. - Inpatient care for uncomplicated bronchiolitis : comparison with
COMUNICAZIONI E POSTER
BRONCOPNEUMOLOGIA
303
Milliman and Robertson guidelines. - Arch Pediatr Adolesc Med 2001 ; 155 : 1323 - 1331.
3. Sarrell EM, Tal G, Witzling M, et al. - Nebulized 3% hypertonic saline solution treatment in ambulatory children
with viral bronchiolitis decreases symptoms. - Chest 2002 ; 122 : 2015 - 2020.
4. Mandelberg A, Tal G, Witzling M, et al. - Nebulized 3% hypertonic saline solution treatment in hospitalised
infants with viral bronchiolitis. - Chest 2003 ; 123 : 481 - 487.
5. Conway E, Schoettker PJ, Rich K, et al. - Empowering respiratory therapists to take a more active role in
delivering quality care for infants with bronchiolitis. - Respir Care 2004 ; 49 : 589 - 599.
6. Lierl MB, Pettinichi S, Sebastian KD, et al. - Trial of a therapist-directed protocol for weaning bronchodilator
therapy in children with status asthmaticus. - Respir Care 1999 ; 44 : 497 - 505.
7. Levine DA, Platt SL, Dayan PS, et al. - Risk of serious bacterial infection in young febrile infants with respiratory
syncytial virus infections. - Pediatrics 2004 ; 113 : 1728 - 1734.
8. Hunt CE, Corwin MJ, Lister G, et al. - Longitudinal assessment of hemoglobin oxygen saturation in healthy
infants during the first 6 months of age. Collaborative Home Infant Monitoring Evaluation (CHIME) Study Group.
- J Pediatr 1999 ; 135 : 580-586.
9. Young S, O’Keeffe PT, Arnott J, Landau LI - Lung function, airway responsiveness and respiratory symptoms
before and after bronchiolitis. - Arch Dis Child 1995 ; 72 : 16-24.
10. Mallory DM, Shay DK Garrett J, Bordley C. - Bronchiolitis management preferences and the influence of
pulse oximetry and respiratory rate on the decision to admit. - Pediatrics 2003 ; 111 : 45-51.
11. Cheney J, Barber S, Altamirano L, et al. - A clinical pathway for bronchiolitis is effective in reducing readmission
rates. - Pediatrics 2005 ; 147 : 622 - 626.
12. Fitzgerald DA, Kilham HA. - Bronchiolitis : assessment and evidence-based management. - MJA 2004 ; 180:
399 - 404.
13. National Istitutes of Health Consensus Development Panel of Infantile Apnea and Home Monitoring. Pediatrics 1987 ; 79 : 292 - 299.
14. GINA Science Committee. - Global Strategy for Asthma Management and Prevention 2006. - NIH Publication.
www.ginasthma.org
15. Castro-Rodriguez JA, Rodrigo GJ. - Beta-agonists through metered-dose inhaler with valved holding
chamber versus nebulizer for acute exacerbation of wheezing or asthma in children under 5 years of age: a
systematic review with meta-analysis. - J Pediatr 2004 ; 145 : 172 - 177.
COMUNICAZIONI E POSTER
304 BRONCOPNEUMOLOGIA
Polmoniti batteriche del bambino : risultati di un’indagine
policentrica condotta negli ospedali napoletani
E.M. Laurito, C. Ciao, B. Borrelli, A.Ciao
AORN Santobono Napoli
Nel semestre novembre 07-marzo 08 è stata avviata c/o le U.C. di Pediatria degli ospedali napoletani
un’indagine policentrica sulle Polmoniti batteriche finalizzata alla valutazione della condotta terapeutica
più idonea da adottare in merito all’antibioticoterapia. A questo proposito si è inteso confrontare
l’efficacia della terapia orale, ovvero l’associazione amoxocillina + ac.clavulanico ad alti dosaggi, vs la
terapia parenterale.Con la casistica di seguito riportata non vogliamo anticipare i risultati di tale studio
quanto sottolineare le peculiarità epidemiologiche riscontrate. Nel periodo in esame abbiamo osservato
quarantaquattro(44)polmoniti batteriche in soggetti di età compresa fra gli 8 mesi e gli 11 anni.La fascia
di età maggiormente colpita fu quella relativa alla1°infanzia (17/44). Il sesso femminile prevalse, anche
se di poco 23/41), su quello maschile.Le indagini sierologiche infettive(agglutinine a frigore, IgM-IgA per
Chlamydia e Mycoplasma) risultarono positive in 8 soggetti consentendo di porre diagnosi di polmonite
atipica.Complicanze respiratorie furono evidenti in un terzo dei bambini osservati (15/44).In questo
ambito, la pleurite ebbe l’incidenza più alta manifestandosi in 9 di loro, la scissurite e il pneumotorace in 2,
l’idropneumoto-race e il pneumatocele in 1.Le patologie croniche concomitanti, invece, furono presenti in
10 casi prevalendo su tutte la Cerebropatia, vuoi sindromica che post-SAE, presente in 6 soggetti seguita
dalla Broncodisplasia in 2 ed, infine, dalla s.di De George e da Cardiopatia complessa in 1.Per quanto
riguarda, poi, il quadro radiologico nelle sue varie espressioni va detto che l’addensamento parenchimale
prevalse nettamente (33/44)sulle altre manifestazioni radiografiche ovvero sulle chiazzette parenchimali
consolidate riscontrate in 8 bimbi e sugli infiltrati periilari in3. In conclusione possiamo affermare che
i dati epidemiologici riscontrati sono del tutto sovrapponibili a quelli della letteratura confermando
come i principali fattori favorenti le polmoniti batteriche (cerebropatia, broncodisplasia, immunodeficit,
cardiopatia)e le loro relative complicanze erano presenti nei bambini osservati e come, da un punto di
vista etiologico, i germi atipici rappresentino una realtà emergente se non già emersa.
COMUNICAZIONI E POSTER
BRONCOPNEUMOLOGIA
305
Ruolo dei biomarkers di infiammazione nel bambino
asmatico
A. Ciao, B. Borrelli, C. Ciao, E.M. Laurito
AORN Santobono Napoli
E’ oramai noto dagli albori dell’Allergologia come l’infiammazione giuochi un ruolo importante nella
patogenesi dell’asma. E’ nostra intenzione rivisitare le metodiche di valutazione della flogosi delle
vie aeree, a disposizione, strumenti utili a diagnosticare correttamente l’asma, a stabilirne il grado di
severità ed in ultima analisi ad effettuare un follow up adeguato del paziente asmatico. Lo studio dei
mediatori dell’infiammazione può essere effettuato in maniera invasiva o meno. In quest’ultimo ambito
va segnalato, in primo luogo, l’Ossido nitrico esalato (FeNO), metodica validata secondo linee guida
validate (ATS/ERS), espressione della flogosi eosinofilica delle vie aeree o meglio di aumentata attività
infiammatoria innescata dall’esposizione all’allergene.E’ opportuno ricordare, a questo proposito, che
l’NO è un gas incolore pressocchè ubiquitario nel nostro organismo che si forma ad opera di un’enzima,
l’ossido nitrico sintetasi (NOS) in presenza di NAPDH ed altri cofattori, dall’aminoacido L Arginina e
che i suoi livelli nel tratto respiratorio variano in rapporto alla sede, più bassi in quello inferiore(circa
10ppb) più alti in quello superiore fino ai massimi nei seni paranasali (1000-30000ppb). Esistono varie
modalità di misurazione del FeNO ma la più usata, nel bambino collaborante (>4aa), è senza dubbio il
metodo On line a respiro singolo con analisi immediata del campione tramite analizzatore. Le finalità
della misurazione del FeNO nel bambino asmatico sono varie ovvero diagnosticare correttamente l’asma,
migliorare la terapia nonché il monitoraggio della compliance della terapia stessa, stabilire il dosaggio
ottimale degli steroidi inalatori(anche una singola dose di CSI riduce il FeNO), predire le riacutizzazioni.
Altra metodica non invasiva è quella dell’Esalato bronchiale condensato (EBC) dove il condensato è
una soluzione acquosa prodotta dalla condensazione, attraverso un sistema di raffredamento, dell’aria
esalata durante la respirazione a volume corrente.I biomarkers misurati nell’EBC sono non solo gli abituali
mediatori infiammatori quali prostaglandine, leucotrieni, interleuchine, TNFalfa, ECP etc. ma anche il
perossido di idrogeno (H2O2)i cui livelli risultano elevati in corso di infiammazione.Il test dello sputo
indotto da inalazio-ne di soluzione salina ipertonica con determinazione degli eosinofili ed dell’ECP trova
impiegonel monitoraggio dell’infiammazione delle vie aeree. Biomarkers nel sangue periferico, poi, sono
rappre-sentati dalla sECP (proteina cationica eosinofila nel siero) ed dalla sEPX (proteina X degli eosinofili
nel siero), in vero, scarsamente specifici;al contrario la conta degli eosinofili periferici risulta essere
importante nella valutazione dei processi infiammatori dell’asma risultando numericamente proporzionali alla severità della malattia. Metodiche invasive, infine, sono il BAL(lavaggio bronco alveolare) dove,
in caso di asma, è presente un aumentato livello di eosinofili e di cellule di sfaldamento dell’ l’epitelio
bronchiale e la biopsia che evidenzia, invece, un rimodellamento della parete bronchiale causato,
secondo le ipotesi più accreditate, dalla flogosi cronica. In merito al remodeling, vanno segnalati alcuni
studi di genomica sul ruolo polivalente dei geni della famiglia ADAM nell’asma; secondo uno dei più
recenti su ADAM33 il rimodellamento sembrerebbe essere geneticamente predeterminato e non legato
ad un processo infiammatorio di lunga durata iniziando fin dalle prima età di vita indipendentemente e
ancor prima della comparsa della malattia asmatica.
COMUNICAZIONI E POSTER
306 BRONCOPNEUMOLOGIA
UNA POLMONITE CAVITARIA: Caso clinico
F. Nunziata1, C. Alfano2, R. Tedesco2, M.D. Genovese2
U.O.C. Pediatria Ospedale Landolfi Solofra
1
Direttore U.O.C. Pediatria
2
Dirigente I Livello Pediatria
Background
Le polmoniti rappresentano da sempre una comune causa di morbilità in età pediatrica, e se la terapia
antibiotica ne ha drasticamente ridotto la mortalità e le sequele, esse rappresentano ancora un problema
attuale per l'incremento delle resistenze agli antibiotici da parte di patogeni comuni.Numerosi studi si
sono proposti di definire un quadro epidemiologico delle polmoniti sia in termini di eziologia che di
caratteristiche cliniche ma giungere ad una diagnosi eziologica è difficile. Infatti l'agente eziologico
viene identificato solo nell'85% dei casi pur utilizzando un'ampia gamma di indagini di laboratorio
incluse indagini sierologiche e PCR (Polymerase Chain Reaction) come si è verificato nel caso di seguito
riportato.
Caso clinico
Francesca, bambina di 4 anni, arriva alla ns osservazione in Pronto Soccorso in quanto, durante la notte ha
presentato febbre (T.C.39°C) e un episodio di emottisi nella mattinata. Nei giorni precedenti, come riferito
dalla madre, non aveva presentato sintomi riportabili ad episodi infettivi. Al momento dell'osservazione,
le condizioni cliniche generali, appaiono discrete. L'obiettività toracica è caratterizzata da un murmure
disomogeneo con lieve riduzione in sede basale sx, lieve tachipnea, SpO2 94%, si decide il ricovero.
Vengono praticati esami ematochimici che evidenziano lieve leucocitosi(9440 g.b.con netta neutrofilia
81, 5%)PCR elevata (205mg/l)PCT elevata(73, 6mg/l), e Rx torace che evidenzia presenza di focolaio
broncopneumonico a sx.Viene immediatamente iniziata terapia con Cefotriaxone im alla dose di 100mg/
kg e Macrolide per os: pensiamo ad una infezione da streptococco pneumoniae. Dopo circa due giorni,
per il persistere della febbre, per gli indici di flogosi in aumento, pratica nuova rx torace che evidenzia una
maggiore estensione del focolaio precedente sino alla sottoclaveare sx con assenza di falde fluide per cui
si decide di modificare la terapia e passare alla doppia somministrazione ev di Teicoplanina e Meropenem.
Nel frattempo si procede ad ulteriori indagini: viene esclusa una infezione mista da mycoplasma per la
negatività degli anticorpi specifici. Vengono praticati esami culturali, intradermoreazione alla Mantoux, e
ricerca di DNA batterico e virale su sangue periferico e tampone faringeo mediante PCR per meningococco,
pneumococco, haemophilus influenzae e adenovirus con esito negativo. Al 5° giorno le condizioni
di Francesca, dopo un iniziale miglioramento con apiressia e notevole riduzione della PCR(70mg/l),
presentano un improvviso peggioramento:ricomparsa di febbre, tachipnea, condizioni cliniche generali
scadute e nuovo aumento degli indici di flogosi(g.b.18.000, neutrofilia 83%, pcr 317mg/l, pct negativa).
Viene quindi, praticata una nuova rx torace che evidenzia persistenza del focolaio e versamento pleurico.
Si considera, a questo punto, l'ipotesi di una infezione meticillino resistente e si inizia terapia con
Vancomicina. Si assiste ad una graduale ripresa delle condizioni generali con apiressia, scomparsa della
tachipnea, e normalizzazione degli indici di flogosi (pcr 5mg/l, pct 0, 1mg/L).
Dopo circa due giorni di terapia con vancomicina si assiste alla ricomparsa di una nuova puntata
febbrile(tc 39°c) per cui si decide di ricontrollare gli indici di flogosi e nel sospetto di una complicanza
e/o malformazione polmonare di effettuare TAC toracica che evidenzia: a sn, a carico del lobo inferiore,
a sede posteriore si apprezza grossolana formazione ovalare escavata, anfrattuosa, polilobulata a pareti
ispessite;soffusione fluida basale posteriore.
A questo punto per il nuovo aumento degli indici di flogosi (pcr 300mg/L, leucocitosi con prevalenza di
neutrofilia) si pensa ad una polmonite cavitaria e si instaura terapia con linezolid alla dose di 10mg/kg
due volte die.
Francesca a distanza di 48 h è completamente sfebbrata con indici di flogosi (pcr, pct, emocromo) in
COMUNICAZIONI E POSTER
BRONCOPNEUMOLOGIA
307
valori di normalità. Si prosegue tale terapia per sette giorni e, al 15° giorno, viene dimessa in terapia
domiciliare con mucolitici. Successivi controlli in DH hanno evidenziato dopo circa un mese una completa
normalizzazione del quadro clinico.
Rx all’ingresso
Rx al 5° giorno
TAC toracica al 15°giorno
COMUNICAZIONI E POSTER
308 BRONCOPNEUMOLOGIA
Conclusioni
Non è sempre possibile isolare l’agente eziologico della polmonite e il trattamento deve essere in
alcuni casi empirico cercando di orientarsi utilizzando valutazioni di tipo epidemiologico e clinico.
Inoltre la persistenza della febbre, l’andamento degli indici di flogosi devono far sospettare sempre una
complicanza(ascesso, cavitazione), e sicuramente in questi, casi l’esame principe è rappresentato dalla
TAC torace che ci permette una definizione accurata di tipo, sede, gravità della lesione nelle polmoniti
complicate. Inoltre, l’incremento delle resistenze agli antibiotici, da parte di patogeni comuni, rende
sempre più spesso critica la definizione di schemi di comportamento diagnostico e terapeutico.
CARDIOLOGIA
Assegnazione del Premio "Ferdinando Iafusco"
COMUNICAZIONI E POSTER
310 CARDIOLOGIA
COARTAZIONE ISTMICA AORTICA IN ADOLESCENTE OBESO:
DEFINIZIONE ANATOMICA MEDIANTE ANGIO-TAC
S. Caputo1, G. Limongelli2, G. Furcolo2, C. Manganiello3, A.M. Basilicata2, B. Pasquariello2,
R. Rabuano2, L.M. Pilla2, A. De Simone2, Q. Ciampi1, B. Villari1, G. Vetrano2
1
U.O.C. di Cardiologia, UTIC, emodinamica, Ospedale Fatebenefratelli, Benevento
U.O.C. di Pediatria, Neonatologia, UTIN, Ospedale Fatebenefratelli, Benevento
3
U.O.C. di Diagnostica per immagini, Ospedale Fatebenefratelli, Benevento
2
L’ecocardiografia colorDoppler è una metodica fondamentale nello studio delle cardiopatie congenite
di cui consente una precisa definizione anatomica e funzionale. Più complessa è la valutazione delle
anomalie vascolari extracardiache in particolare nei soggetti con caratteristiche fisiche che limitano le
finestre acustiche utilizzabili.
Descriviamo il caso di un adolescente (7 anni), obeso (peso 48Kg; BMI 28, 4), inviato al nostro ambulatorio
di cardiologia pediatrica per soffio cardiaco. All’esame clinico si confermava un soffio sistolico rude 2/6 al
mesocardio, meglio udibile in sede interscapolo-ventebrale sinistra. La pressione arteriosa era normale e
non vi era differenza significativa tra le due braccia. L’ECG era normale. All’ecocardiogramma, il ventricolo
sinistro appariva moderatamente dilatato (diametro tele-diastolico 53mm) e globoso, con buona
funzione di pompa. Il seno coronarico era marcatamente dilatato per la persistenza della vena cava
superiore sinistra in assenza di vena innominata. L’istmo aortico non era ben visualizzabile per un’elevata
impedenza acustica dall’approccio soprasternale e per la scarsissima collaborazione del paziente, ma il
Doppler continuo evidenziava, un gradiente di 40mmHg, in assenza di run-off. Un soffio con caratteri
suggestivi di coartazione in un paziente con un ventricolo dilatato impone un’accurata definizione
dell’anatomia istmica aortica, anche se il monitoraggio domiciliare dei valori pressori era normale e l’Rx
torace non mostrava incisure costali. Fu pertanto programmata un’angio-TAC (Figure 1-2).
COMUNICAZIONI E POSTER
CARDIOLOGIA
311
La tomografia computerizzata è una metodica diagnostica non invasiva capace di fornire immagini
tridimensionali di elevata definizione. Le radiazioni ionizzanti e la necessità di mezzo di contrasto a
base di iodio ne limita l’utilizzo a casi selezionati. Nel nostro paziente (obeso, con elevata impedenza
acustica toracica, poco collaborante), l’esame è stato estremamente utile. La coartazione aortica era di
media entità, per cui, il management successivo sarà completare la stratificazione funzionale con un ECG
dinamico sec Holter e con un test da sforzo (per valutare la risposta pressoria con l’esercizio).
COMUNICAZIONI E POSTER
312 CARDIOLOGIA
IL CICLO CARDIACO IN FASI DIFFERENTI DI CRESCITA:
STUDIO ECOCARDIOGRAFICO DI UNA POPOLAZIONE DI SANI
S. Caputo*, A.M. Basilicata, G. Furcolo, R. Rabuano, L.M. Pilla, F. Quarantiello, G. Vetrano, Villari B*
*U.O.C. di Cardiologia, UTIC, Emodinamica. Ospedale Fatebenefratelli, Benevento
U.O.C. di Neonatologia, TIN, Pediatria. Ospedale Fatebenefratelli, Benevento
Introduzione
L’attività cardiaca è organizzata in una successione di cicli, ognuno dei quali è costituito da sei fasi, di
cui due sistoliche (contrazione isovolumetrica, periodo eiettivo) e quattro diastoliche (rilasciamento
isovolumetrico, riempimento ventricolare precoce, diastasi, sistole atriale). La durata dei cicli cardiaci
(frequenza cardiaca) si modifica in età differenti, ma non è ancora ben definito l’adattamento sistodiastolico ventricolare durante la crescita.
Scopo dello studio. Valutare il ciclo cardiaco ventricolare sinistro in soggetti sani di differente età mediante
ecocardiografia Doppler.
Metodi
Da Maggio a Settembre 2008, sono stati reclutati 78 soggetti (48M/30F) sani consecutivi che, in relazione
ad età e peso corporeo, sono stati distinti in cinque gruppi. Per poter confrontare soggetti con frequenza
cardiaca differente, la durata di ogni fase del ciclo cardiaco è stata calcolata come valore percentuale.
L’analisi statistica è stata effettuata con SPSS (rel 10.1).
Risultati
Le caratteristiche dei 5 sottogruppi sono riassunte nella Tabella 1
Ciclo cardiaco e flusso transmitralico sono stati confrontati tra i 5 sottogruppi (Tabella 2)
COMUNICAZIONI E POSTER
CARDIOLOGIA
Discussione
313
Questo è il primo studio che ha valutato con tecnica ecocardiografica il ciclo cardiaco in età differenti
di vita. Il principale risultato è che a parità di durata del ciclo cardiaco, la durata della diastole “nonatriale” (tempo di rilasciamento isovolumetrico e diastasi) è significativamente inferiore nel neonato
con peso inferiore a 2Kg rispetto al neonato con peso medio di 3.30±0.57Kg. La durata della diastole
“non atriale” aumenta progressivamente negli anni, raddoppiando nei bambini di età superiore ai tre
anni (p=0, 0294). Il miocardio ventricolare, dunque, modifica progressivamente le proprie caratteristiche
funzionali: nel tempo, utilizza meglio la diastole, rendendola meno dipendente dall’attività atriale. Questo
è confermato anche dal progressivo aumento del rapporto E/A che equivale ad un riempimento precoce
progressivamente più rapido.
COMUNICAZIONI E POSTER
314 CARDIOLOGIA
Un caso di trasposizione corretta delle grandi arterie.
(TCGA)
N. Napolitano1, I. Pierucci1, G. Mion1, V. Stifano1, P. Sarnicola2
1
2
U.O.C.Pediatria
P.O.Sapri ASL-SA-3
B.M. nato a 40 settimane da parto eutocico con peso di 2970 gr.ed Apgar 9-10.
Normale l’adattamento neonatale.In terza giornata comparsa di un soffio sistolico la cui intensità aumenta
rapidamente.
Assenza di cianosi, la F.C. e la F.R. risultano sempre normali.
L’EGA, i valori pressori differenziali agli arti nonché la saturazione pre duttale e post duttale dell’O2
risultano sempre normali durante la degenza.
La Rx del torace è normale.
L’ECG evidenzia un BAV di I° grado.
*L’ ECO cuore in quarta giornata evidenzia una (TCGA) con forame ovale pervio e DIV sottopolmonare*.
La (TCGA) è una rara malformazione cardiaca con frequenza al di sotto dell’1% fra le malformazioni
cardiache, con rapporto 4/1 maschio femmina, caratterizzata da una doppia discordanza atrio ventricolare
e ventricolo arteriosa.
L’atrio Dx è connesso col ventricolo sinistro(anatomico) posto a destra e questo con l’arteria polmonare.
L’atrio Sx è connesso col ventricolo destro(anatomico) e questo con l’aorta.
L’arteria polmonare viene a trovarsi a Dx e posteriormente e l’aorta a Sx ed anteriormente.
L’anomalia è dovuta ad una cattiva rotazione del tubo cardiaco embrionale.
Dal punto di vista fisiopatologico il sangue venoso arriva normalmente ai polmoni ed il sangue arterioso
all’aorta però spinti da ventricoli non appropriati.
Pertanto, in assenza di malformazioni associate ci si può aspettare un decorso asintomatico per un lungo
periodo tanto che le donne possono anche portare a termine una gravidanza.
Alcune volte la TCGA è diagnosticata in tarda età per comparsa di insufficienza mitralica, aritmie o turbe
della conduzione.
Tuttavia, raramente questa malformazione è isolata ma si associa ad altri difetti che ne rendono necessario
l’intervento chirurgico.
I difetti che si associano alla TCGA sono:
-Difetto interventricolare.
-Ostruzione dell’efflusso ventricolare Dx fino alla stenosi polmonare.
-Insufficienza della tricuspide.
Inoltre si sviluppa sempre un disturbo del ritmo e della conduzione tipo BAV di tutti i gradi dovuta ad una
fibrosi che si instaura nel punto di giunzione tra il nodo atrio ventricolare ed il fascio atrio ventricolare.
I casi di TCGA totalmente asintomatici, perciò, raramente giungono all’età adulta.
CHIRURGIA PEDIATRICA
Momenti congressuali
COMUNICAZIONI E POSTER
316 CHIRURGIA PEDIATRICA
INVAGINAZIONE INTESTINALE AD INSORGENZA PRECOCE:
UNA NOSTRA ESPERIENZA
P. Paladini1, G. Lezzi2
Ospedale “V. Fazzi” - Lecce
1
U. O. di Neonatologia UTIN
2
U.O. di Pediatria
L’invaginazione intestinale o intussuscezione è una condizione patologica grave, caratterizzata dalla
penetrazione di un segmento di intestino in un altro immediatamente successivo.
Sebbene l’invaginazione intestinale sia una patologia che si può verificare in qualsiasi tratto dell’intestino
tenue o del colon, nella maggior parte dei casi interessa la zona più prossimale o comprendente la
giunzione ileocecale. E’ più frequente nell’infanzia rispetto all’età adulta, soprattutto nei bambini di età
superiore ai due anni, con rapporto maschio/femmina pari a 3:2. Può essere idiopatica o secondaria a
condizioni anatomiche favorenti come l’adenite mesenterica, il diverticolo di Meckel ecc.
La diagnosi clinica può risultare spesso ardua in quanto la classica triade “ dolore addominale, feci ematiche
e massa palpabile “ è presente nel 50% dei casi e può essere una delle tante cause di errore diagnostico
e di difficoltà gestionale nell’addome acuto. Sintomi precoci sono nausea, dolore addominale, dapprima
intermittente e poi continuo, vomito biliare, successivamente compaiono feci muco-sanguinolenti e
sanguinamento rettale. Complicanze temibili della patologia sono l’ischemia, la peritonite, la perforazione
intestinale e lo shok fino alla morte.
L’indagine diagnostica più adeguata è il clisma, con aria o bario come mezzo di contrasto, che possiede
anche finalità terapeutiche. Negli ultimi anni si è ben consolidato il ruolo diagnostico dell’ecografia con
valori di sensibilità che in alcuni casi raggiungono il 100%. Infatti, considerato il caratteristico aspetto
ecografico dell’invaginazione, è spesso possibile distinguere tra una invaginazione ileo-cecale e una ileocolica.
Caso clinico : F. L. femmina di 9 mesi nata a termine da parto eutocico e gravidanza decorsa nella norma.
La bimba in pieno benessere si sveglia all’improvviso con una crisi di pianto inconsolabile per cui viene
inviata in consulenza nel nostro reparto.
L’esame clinico all’ingresso accerta discrete condizioni generali: facies sofferente, cute intensamente
pallida, lingua umida, faringe roseo, obiettività cardiopolmonare e neurologica negativa, addome
trattabile e forse dolorabile; di tanto in tanto la piccola presentava perdita di coscienza, stato soporoso e
crisi di pianto di brevissima durata soprattutto durante la palpazione dell’addome in fossa iliaca dx.
Dopo aver escluso cause infettive veniva posto il sospetto di probabile invaginazione intestinale e quindi
si eseguiva Rx diretta addome che segnalava “ non evidenti livelli idroaerei né segni di paralisi intestinale,
presenza di opacità a densità dei tessuti molli a livello della flessura epatica del colon compatibile con
invaginazione intestinale”. Veniva, pertanto, eseguito eco addome che segnalva in sede sottoepatica una
neoformazione a salsicciotto, lunga circa 5 cm e di diametro di 3 cm con alone ipoecogeno e parte centrale
iperecogena, confermando, quindi, la diagnosi di invaginazione ileo colica. La piccola veniva portata in
sala operatoria e sottoposta a laparotomia esplorativa urgente che accertava una invaginazione ileo
cecale che veniva ridotta manualmente.
Decorso post-operatorio nella norma.
Conclusioni : L’invaginazione intestinale è una patologia non comune di urgenza, che necessita di una
diagnosi molto precoce; il ritardo nella diagnosi e quindi il trattamento non tempestivo può essere
causa di gravi complicanze con severi danni tissutali, a volte irreversibili, accompagnati da perforazioni
intestinali, infezioni e, non di rado, morte del paziente.
L’Rx addome e il clisma opaco, assieme all’ecografia addominale costituiscono il “ gold standard “
diagnostico; il clisma opaco oltre ad essere un ottimo strumento di indagine, spesso risolve oltre il 75%
dei casi.
COMUNICAZIONI E POSTER
CHIRURGIA PEDIATRICA
317
OUTCOME A LUNGO TERMINE DELLA NISSEN LAPAROSCOPICA NEI
PAZIENTI PEDIATRICI AFFETTI DA MRGE
I. Giurin, C. Esposito, C. De Luca, F. Perricone, F. Alicchio, A. Roberti, S. Scermino, A. Savanelli,
G. Ascione, A. Settimi
Dipartimento di Pediatria, Area Funzionale di Chirurgia Pediatrica, Università di Napoli “Federico II”
Introduzione
La plastica antireflusso per via laparoscopica rappresenta il trattamento chirurgico “gold standard”
nei pazienti affetti da MRGE. Pochi sono i lavori pubblicati nella letteratura internazionale riguardanti
l’outcome a lungo termine dei pazienti operati.
Materiali e Metodi: Nel nostro studio, riportiamo i risultati del follow-up a lungo termine di 36 pazienti
sottoposti a fundoplicatio sec. Nissen per via laparoscopica da gennaio a novembre 1998. Il follow up
è stato di almeno 10 anni. I pazienti sono stati contattati telefonicamente e invitati a sottoporsi ad un
controllo clinico. Per valutare i risultati a lungo termine abbiamo utilizzato il questionario QPSG Roma III
dell’ESPGHAN.
Dei 36 pazienti trattati, 15/36 non sono stati contattati per l’impossibilità di reperire un recapito
telefonico, 1/36 ha rifiutato di sottoporsi al questionario e 2/36 non si sono presentati all’appuntamento.
Il questionario è stato proposto a 18/36 pazienti (50%) (11 M, 7 F), di età compresa tra 12 e 26 anni (età
media: 16,2 anni). I pazienti sono stati intervistati sulle loro condizioni cliniche dopo l’intervento e sulla
presenza di dolore addominale, eruttazioni, vomito, disfagia ed eventuale uso di farmaci antiacidi o IPP.
Sono stati valutati, inoltre, il peso, l’aspetto delle ferite e la qualità di vita.
Risultati
Nei 18 pazienti analizzati abbiamo ottenuto i seguenti risultati: nell’89% (16/18) dei pazienti il RGE
è guarito anche agli esami strumentali, mentre in 2/18 pazienti (11%) è presente un lieve RGE residuo
che viene trattato farmacologicamente. Il 29% dei pazienti (5/18) presenta ancora una lieve disfagia per
alcuni cibi. La disfagia era presente nel 60% dei pazienti nell’immediato post-operatorio ed è andata
migliorando nei 6 mesi successivi all’intervento nella maggioranza dei casi. 12/18 pazienti (66%) possono
eruttare spontaneamente, 5/18 (27%) possono anche vomitare. L’aspetto delle ferite è stato giudicato
buono nel 95% dei casi. 16/18 pazienti (90%) hanno un peso soddisfacente per età e altezza. Per quel che
riguarda l’uso di farmaci antiacidi o IPP, solo 3/18 pazienti (16%) utilizzano saltuariamente tali farmaci. Per
quel che riguarda la percezione della qualità di vita, questa risulta soddisfacente nel 100% dei pazienti ed
in particolare buona o ottima nell’89% dei pazienti e discreta nell’11%.
Conclusioni
Secondo la nostra esperienza, la fundoplicatio sec. Nissen per via laparoscopica rappresenta una tecnica
valida ed efficace per il trattamento dei pazienti pediatrici affetti da MRGE. I vantaggi legati al migliore
aspetto estetico delle ferite e alla riduzione della degenza post-operatoria si associano a buoni risultati
a lungo termine dal punto di vista clinico e ad una qualità di vita sovrapponibile a quella dei coetanei
sani.
COMUNICAZIONI E POSTER
318 CHIRURGIA PEDIATRICA
Ptosi palpebrale: aspetti clinici e chirurgici
S. Brongo, A. Altieri, S. Campa, F. D’Andrea
Cattedra di Chirurgia Plastica e Ricostruttiva - Seconda Università degli Studi di Napoli
Introduzione
Si definisce ptosi palpebrale l’abbassamento del margine palpebrale superiore che risulta localizzato
inferiormente rispetto al controlaterale o rispetto alla norma. Può essere monolaterale o bilaterale.
È una patologia abbastanza frequente e rappresenta l ‘1% di tutti gli interventi a carico della palpebra
superiore.
Eziologia
La ptosi palpebrale viene classificata in congenita e acquisita. La forma congenita nella maggior parte dei
casi è secondaria ad alterazioni distrofiche a carico del muscolo elevatore della palpebra superiore, fanno
eccezione la ptosi di Marcus-Gunn, che è dovuta ad una errato orientamento del nervo oculomotore
comune, e la blefarofimosi ; la forma acquisita può essere di origine neurogena, miogena, traumatica,
meccanica o una pseudoptosi.
Clinica e diagnosi
La ptosi comporta disturbi visivi dovuti alla parziale o totale copertura del forame pupillare da parte
del margine palpebrale superiore ptosico. È molto importante ai fini di un corretto inquadramento
diagnostico e terapeutico distinguere tre gradi di gravità per la ptosi palpebrale che pertanto viene
definita: lieve, moderata o grave in base all’abbassamento in millimetri del margine palpebrale superiore
rispetto alla posizione che dovrebbe normalmente assumere; pertanto la ptosi viene definita lieve se
l’abbassamento del margine palpebrale superiore è di 1-2 mm, viene definita moderata quando è di circa
3 mm, viene definita grave quando è di 4 mm o piu. Un altro parametro da prendere in considerazione
nell’ inquadramento diagnostico della ptosi palpebrale è la valutazione della funzione del muscolo
elevatore della palpebra superiore; questa può essere: eccellente se l’escursione palpebrale determinata
dalla contrazione di questo muscolo e di circa 12-15 mm, buona se l’escursione palpebrale è di 8-12 mm,
scarsa se è di 5-7 mm e infine cattiva se non supera i 2-4 mm.
Terapia
Il trattamento è chirurgico. Il tipo di intervento varia in funzione della gravità della ptosi e del grado di
funzionalità del muscolo elevatore della palpebra superiore.
Nei pazienti con funzione muscolare assente e ptosi grave si esegue come intervento gold standard un
bendaggio a fionda. L’ intervento si esegue in anestesia locale negli adulti e in anestesia generale nei
bambini e prevede la sospensione della palpebra superiore mediante un tirante che è ottenuto prelevando
un frammento di tessuto da un tendine della coscia; il tirante viene poi ancorato al muscolo elevatore del
sopracciglio. L’obiettivo di questo intervento è di operare una correzione statica poiché la palpebra viene
tirata verso l’alto passivamente dal corrugamento del muscolo elevatore del sopracciglio.
Nei pazienti con funzione muscolare sufficiente si esegue un intervento di accorciamento muscolare.
Questa tecnica prevede l’eliminazione della parte muscolare non contrattile e il salvataggio della parte
muscolare che si contrae normalmente. Il muscolo accorciato viene poi reinserito sul margine superiore
del tarso in modo tale da ripristinare l’unità funzionale delle palpebre.
L’intervento correttivo di ptosi palpebrale è caratterizzato da una buona riuscita
anche se talvolta possono presentarsi complicanze quali: l’ incompleta correzione del difetto, problemi
estetici, l’entropion e l’ectropion.
COMUNICAZIONI E POSTER
CHIRURGIA PEDIATRICA
319
RARO CASO DI GLOBO VESCICALE DA IMENE IMPERFORATO
A. Colucci1, M. D’Amato2, G. Colucci1
1
2
U.O.C. di Pediatria -Pres. Ospedaliero di Ostuni (Br)
U.O.C. di Chirurgia - Az Osped. Universitaria “Giovanni XXIII” - Bari
La ritenzione acuta di urine in età pediatrica è un evenienza poco frequente, e riconosce diverse
cause1-2.
Il caso di una bambina con globo vescicale secondario ad imene imperforato ci ha indotto ad un’esame
della letteratura. Pur essendo una patologia molto rara (l’imene imperforato si verifica all’incirca 1:3000
bambine, e raramente si manifesta con globo vescicale)3 appare chiaro che quasi sempre è sufficiente un
esame obiettivo accurato dei genitali esterni per giungere alla diagnosi4.
Case report
Una ragazza di 13 anni viene ricoverata presso l’U.O. di Pediatria del Presidio Ospedaliero di Ostuni per
ritenzione acuta di urine da circa 12 ore, associata ad algie addominali in sede ipogastrica.
La piccola non aveva mai sofferto di disuria, infezioni delle vie urinarie e dolori addominali ricorrenti.
Presentava addome globoso con globo vescicale e iperemia delle piccole labbra.
Durante la cateterizzazione uretrale si evidenzia un imene imperforato.
L’esame ecografico rivela la presenza di un ematocolpo del diam. max di circa 12 cm, e lieve dilatazione
pielicoureterale destra.
La bambina viene quindi sottoposta ad intervento chirurgico di imenotomia crociata con risoluzione
della sintomatologia.
Discussione
In età pediatrica la ritenzione acuta di urine può essere dovuta a processi infiammatori delle vie urinarie
o dell’apparato genitale, a farmaci (antistaminici o anticolinergici) o può essere secondaria a vescica
neurologica. Infine una neoformazione pelvica può comprimere l’uretra1-2.
In questo caso l’ematocolpo causa la ritenzione urinaria o in seguito ad una compressione ab estrinseco
sull’uretra, o attraverso l’irritazione che la massa causa sul plesso sacrale. Inoltre l’ematoma vaginale può
causare alterazioni dell’angolo tra il collo della vescica e l’uretra, ostacolando la minzione.
Poiché il primo trattamento della ritenzione urinaria è rappresentato dalla cateterizzazione, è utile che
questa venga eseguita dal medico in maniera tale che possa cogliere l’occasione per analizzare in maniera
più accurata l’aspetto dell’introito vaginale. In tale maniera si giungerebbe ad una diagnosi precoce e si
eviterebbero esami strumentali e di laboratorio inutili.
Conclusioni
Poiché generalmente le adolescenti con ritenzione urinaria vengono visitate in prima istanza presso il
dipartimento di urgenza, l’ipotesi di imene imperforato deve essere considerato nelle adolescenti con
sintomi urinari in assenza di ciclo mestruale.
L’ispezione dei genitali esterni, durante la cateterizzazione e l’accurata indagine circa il menarca, possono
prevenire errori di diagnosi e indirizzare verso le indagini e il trattamento opportuno.
Bibliografia
1. Gatti JM, Perez-Brayfield M, Kirsch AJ, Smith EA, Massad HC, Broecker BH. Acute urinary retention in children.
J Urol 2001;165:918-21.
2. Peter JR, Steinhardt GF. Acute urinary retention in children..Pediatr Emerg Care 1993;9:205-7.
3. Ruwaida H. Imperforate hymen with bilateral hydronephrosis in a neonate.Saudi J Kidney Dis Transplant
1998; 9(1):33-35.
COMUNICAZIONI E POSTER
320 CHIRURGIA PEDIATRICA
4. Attaran M, Falcone T, Gidwani G. Obstructive Mullerian anomalies. In: Gidwani G, Falcone T, eds. Congenital
Malformation of the Female Genital Tract: Diagnosis and Management. Philadelphia: Lippincott Williams &
Wilkins, 1999: 145-68.
5. Tompkins P. The treatment of imperforate hymen with hematocolpos: a review of 113 cases in the literature
and the report of five additional cases. JAMA 1939;113:913.
COMUNICAZIONI E POSTER
CHIRURGIA PEDIATRICA
321
TRATTAMENTO DEL DOLORE POST-OPERATORIO DELL’IPOSPADIA NEL
PAZIENTE PEDIATRICO
V. Ferrara, A. Savanelli, M. Iaquinto, R.M. Festa, S. Iacobelli, A. Farina, I. Giurin, F. Alicchio,
S. Scermino, C. Esposito, A. Settimi
Dipartimento di Pediatria, Area Funzionale di Chirurgia Pediatrica, Università di Napoli “Federico II”
Introduzione
L’ipospadia è un’anomalia congenita, con un’incidenza di 1/300 nuovi nati, caratterizzata da: meato urinario
non in sede fisiologica, curvatura ventrale dell’asta e schisi del prepuzio. La correzione chirurgica di tale
patologia, eseguita preferibilmente durante i primi 18 mesi di vita, prevede la ricostruzione dell’uretra
(uretroplastica) ed una prepuzioplastica. Al termine dell’intervento è posizionata una derivazione urinaria
sovrapubica temporanea per poter garantire la cicatrizzazione e il consolidamento della neo-uretra. Nel
decorso post-operatorio, il bambino può lamentare dolore a livello inguinale, pubico e penieno,
soprattutto nei primi 3-4 gg del post-operatorio.
Materiali e metodi
Nel nostro studio abbiamo realizzato un adeguato programma di prevenzione del dolore, intervenendo
durante tutto il periodo peri-operatorio, iniziando con la premedicazione pre-operatoria (midazolam
0,5mg.kg-1 per os), poi con l’anestesia intra-operatoria tramite epidurale caudale (naropina 0,25%) e
concludendo con un’adeguata analgesia post-operatoria ed un programma di monitoraggio e valutazione
del dolore. L’analgesia post-operatoria, per i nostri pazienti, è così strutturata: I giornata, Contramal, 1mg.
kg-1 ogni 6h; Tachipirina, 15mg.kg-1 ogni 6h (entrambi ogni 4h, se è presente dolore); II e III giornata, stessa
terapia ogni 8h (od ogni 6h, se è ancora presente dolore); dalla IV in poi, Lonarid supposte (paracetamolo
200mg + codeina fosfato 5mg), solo se strettamente necessario. Per la misurazione del dolore, nel nostro
studio abbiamo utilizzato: la Children Hospital of Eastern Ontario Pain Scale (CHEOPS), la Faces Pain Scale
(FPS) e la Visual Analogue Scale (VAS). Per ogni scala algometrica abbiamo individuato un valore soglia,
che, in particolare, per la CHEOPS è pari a 7, oltre il quale il paziente deve essere automaticamente trattato
con i farmaci previsti dal protocollo. È importante verificare anche l’efficacia delle somministrazioni
suppletive di analgesici con ulteriori misurazioni del dolore.
Risultati
Nei 370 pazienti operati per ipospadia nel nostro reparto dal 2003 al 2007 abbiamo valutato il dolore
post-operatorio utilizzando i parametri sopraindicati. Il 95% dei casi (351/370) hanno avuto un decorso
post-operatorio giudicato privo di dolore sia dai medici che dai genitori. Il restante 5% (19/370), invece,
ha presentato dolorabilità ed una valutazione del controllo del dolore nel post-operatorio giudicata
insoddisfacente. Cause di insoddisfazione sono state: per il 60% (11/19) vomito; per il 38% (7/19) lievi
dolori (dovuti a residui spasmi vescicali) e senso di peso a livello inguinale; per il 2% (1/19) reazioni avverse
minori (lieve prurito, bruciore durante la minzione, inappetenza, stipsi etc.).
Conclusioni
La valutazione del dolore post-operatorio nei pazienti operati di ipospadia rappresenta una metodica
estremamente utile per lo studio e la modulazione della terapia antidolorifica da somministrare a questi
pazienti.
Il nostro studio ha dimostrato che la maggioranza dei pazienti (95%) grazie alla terapia antidolorifica di
supporto ha un decorso postoperatorio privo di dolore. Solo il 5% dei genitori ha giudicato il controllo
del dolore insoddisfacente.
EMATOLOGIA-ONCOLOGIA
Antonio Correra
COMUNICAZIONI E POSTER
EMATOLOGIA-ONCOLOGIA
323
ANEMIA MEGALOBLASTICA IN UN PAZIENTE AFFETTO DA DEFICIT DI
METILENTETRAIDROFOLATO REDUTTASI: IPOTESI DIAGNOSTICHE
S. Esposito
Pediatria di Base, ASL Napoli 1, Distretto 45
Introduzione
L’enzima metilentetraidrofolato reduttasi (MTHFR) catalizza la reazione di riduzione del 5-10
metilentetraidrofolato a 5-metiltetraidrofolato, che fornisce il gruppo metilico necessario per la
metilazione dell’omocisteina a metionina. Una sua grave carenza può portare ad accumulo nel plasma
di omocisteina, non potendo, quest’ultima, essere trasformata normalmente in metionina. L’aumento
dell’omocisteina plasmatica è considerato un fattore di rischio per trombofilia. Il gene che codifica
per l’enzima MTHFR è mappato sul cromosoma 1 ed il deficit enzimatico è trasmesso con modalità
autosomica recessiva. Le manifestazioni cliniche di tale deficit dipendono dalla sua entità e vanno dalla
neuropatia periferica al lieve ritardo mentale e alle convulsioni, nei casi di assenza parziale, fino ad apnea
e convulsioni miocloniche, che possono condurre a coma e morte, nei casi di assenza totale. Il deficit di
MTHFR è conosciuto anche col nome di omocistinuria di tipo III: infatti le caratteristiche di laboratorio
di questa patologia comprendono aumento dell’omocisteina plasmatica ed urinaria con metioninemia
bassa o ai limiti inferiori della norma.
L’anemia magaloblastica non fa parte del quadro clinico della malattia.
Obiettivo del presente lavoro è descrivere un caso di omocistinuria di tipo III accompagnato da anemia
megaloblastica secondaria a deficit di vitamina B12 e discutere delle più probabili cause di quest’ultima.
Caso clinico
A. è nato nel dicembre del 2000 da genitori non consanguinei. Nessuna patologia di rilievo si è messa in
evidenza in epoca neonatale ed il piccolo ha goduto di apparente buona salute fino al 2007. All’età di sei
anni, viene alla nostra attenzione per pallore, astenia ed irritabilità ingravescenti. Praticato l’emocromo, si
evidenzia una macrocitosi ed una riduzione della concentrazione sierica dell’emoglobina. Il piccolo viene
indagato per l’anemia megaloblastica ma, nel frattempo, viene diagnosticato un contestuale aumento
dell’omocisteina plasmatica, che la consulenza genetica permette di correlare a deficit di MTHFR. In
particolare, il nostro paziente presenta un’omozigosi per il polimorfismo A1298C dell’enzima MTHFR, un
difetto che ha una frequenza di portatori in eterozigosi del 40% della popolazione ed una frequenza
di omozigosi dell’11%. Solo la condizione di omozigosi per la mutazione è responsabile di una ridotta
attività enzimatica ed è considerata un fattore di rischio per malattia vascolare se associata ad aumento
dei livelli circolanti di omocisteina. Nel nostro paziente, i livelli di omocisteina plasmatica sono molto
elevati, fino a tre volte i valori normali.
Discussione
Nel quadro clinico del deficit di MTHFR è presente una iperomocisteinemia con omocistinuria, di solito
di lieve entità. I valori molto elevati di omocisteina plasmatica riscontrati nel nostro paziente, associati
alla presenza di anemia megaloblastica, fanno supporre la presenza di una patologia associata, che al
momento ci sfugge e che stiamo ricercando. I nostri sospetti si concentrano soprattutto su una forma
giovanile di anemia perniciosa o su un difetto geneticamente determinato del recettore per il fattore
intrinseco complessato con la vitamina B12 a livello dell’ileo terminale, sede dell’assorbimento intestinale
di quest’ultima (sindrome di Imerslund-Grasbeck, associata, tra l’altro, a proteinuria). Entrambe queste
patologie si associano ad un ridotto assorbimento intestinale di vitamina B12, responsabile dell’anemia
megaloblastica. Tra l’altro, lo stesso deficit di vitamina B12, indipendentemente dalla causa scatenante,
può causare un aumento dei livelli sierici di omocisteina. Nel nostro paziente quest’evenienza, sommata
al deficit di MTHFR, potrebbe giustificare i valori di omocisteina più elevati di quanto il solo deficit di
MTHFR farebbe attendere.
COMUNICAZIONI E POSTER
324 EMATOLOGIA-ONCOLOGIA
Conclusioni
Il nostro paziente dovrà essere sottoposto ad una serie di indagini per verificare le nostre ipotesi
sull’eziologia dell’anemia megaloblastica, tra cui: ricerca di autoanticorpi anti-fattore intrinseco e anticellule parietali gastriche, dosaggio della bilirubina totale e frazionata, test di Schilling, dosaggio della
proteinuria delle 24 ore ed analisi genetica per il gene CUBN (mappato sul cromosoma 10p12.1 e
responsabile, se mutato, della sindrome di Imerslund-Grasbeck)
In ogni caso, andrà avviata una terapia di supplementazione con vitamina B12 intramuscolo (1mg/mese)
e dovranno essere sempre tenuti sotto controllo i livelli ematici di omocisteina per monitorare il rischio
trombotico.
COMUNICAZIONI E POSTER
EMATOLOGIA-ONCOLOGIA
325
Associazione insolita di eritema multiforme e porpora
trombocitopenica idiopatica
G. D’Urzo1, M. Amendolara1, G. Attianese1, A.M. Aurino1, M.A. Cascone2, R. Di Concilio1, C. Di
Filippo1, S. Mauriello1, C. Romano1, A. Stefanelli1, G. Cappuccio1, G. Amendola1
1
2
U.O.C. Pediatria-TIN P.O. Umberto I Nocera Inferiore (SA)
U.O.C. Pediatria C/mare Di Stabia (NA)
L’eritema multiforme è una rara affezione dermatologica in cui si ritiene che il danno epidermico sia
dovuto alla distruzione dei cheratociti da parte di citochine rilasciate da monociti attivati da una abnorme
reazione immunologica. Presentiamo il caso di una bambina di sedici mesi che ha presentato tale affezione
concomitatamente ad una porpora emorragica conseguente a piastrinopenia acuta idiopatica.
A.G. giunge alla nostra osservazione per la comparsa di elementi orticarioidi al volto ed agli arti e
di petecchie al tronco. All’anamnesi viene riferito un episodio di otite acuta febbrile trattata con
amoxicillina+acido clavulanico una settimana prima della comparsa delle lesioni cutanee. All’esame
clinico sono state riscontrate le manifestazioni cutanee descritte e mucosite a carico della alte vie aeree
in assenza di linfoadenopatia e di organomegalia. Gli esami ematochimici praticati all’ingresso hanno
evidenziato piastrinopenia (PLT 13.000), aumento degli indici di flogosi, aumento dei CD19+, riduzione
dei CD8+. Nella norma gli esami di routine, le immunoglobuline sieriche, il profilo coagulativo, lo striscio
periferico, il Test di Coombs, negativi gli esami colturali e sierologici. L’esame morfologico del midollo ha
evidenziato la presenza di numerosi megacariociti con normalità dei progenitori eritroidi e granulocitari
compatibile con la diagnosi di porpora trombocitopenica idiomatica; è stata, inoltre, segnalata la
presenza di numerosi istiociti con attività emofagocitica. La terapia con immunoglobuline endovena alla
dose di 800 mg/Kg/die per 2 giorni, è stata seguita da un graduale incremento fino alla normalizzazione
della conta piastrinica. Le manifestazioni cutanee hanno assunto, nel corso del ricovero, un caratteristico
aspetto a ghirlanda tipico dell’eritema multiforme. Ad un mese di follow-up la piccola sta bene, con conte
ematiche periferiche nella norma. E’ verosimile che l’episodio febbrile, che ha preceduto la comparsa
delle manifestazioni cutanee, abbia innescato nella paziente una abnorme risposta immunologica,
come dimostrato dalla espansione del compartimento B linfocitario e dalla emoistiofagocitosi midollare,
determinando sia la produzione di anticorpi anti-piastrine e conseguente distruzione piastrinica, sia
l’attivazione di una risposta cellulo-mediata e conseguente eritema multiforme.
COMUNICAZIONI E POSTER
326 EMATOLOGIA-ONCOLOGIA
BASSA PREVALENZA DI TIROIDITE AUTOIMMUNE IN PAZIENTI CON
LEUCEMIA LINFATICA ACUTA FUORI TERAPIA
L. Pomponia Brescia
U.O. “F.Vecchio” - Dipartimento di Biomedicina dell’Età Evolutiva” - Università degli Studi di Bari
Introduzione
La prognosi per bambini affetti da leucemia linfatica acuta (LLA) è notevolmente migliorata negli ultimi 30
anni e gli studi di follow-up per la valutazione delle complicanze della terapia antineoplastica diventano
sempre più importanti. Una alterazione della funzionalità dell’asse ipofisi-tiroide è stata talvolta riscontrata
in pazienti trattati sia con chemioterapia (CT) che con irradiazione profilattica del tratto cranio-spinale.
Pochi i dati disponibili in pazienti trattati solo con CT. Scopo del nostro studio è valutare la funzione
tiroidea e la prevalenza di tiroidite autoimmune in pazienti con LLA fuori terapia trattati solo con CT.
Materiali e metodi
Criteri di inclusione: Gruppo campione: 1. diagnosi: LLA; 2. trattamento: CT; 3. periodo fuori terapia:
almeno 12 mesi.
Gruppo controllo: soggetti sani di pari età
Criteri di esclusione gruppo campione: 1. recidiva; 2. radio-terapia.
Gruppo campione: 73 pazienti (29 femmine).
Gruppo controllo: 42 soggetti (24 femmine).
Caratteristiche gruppo campione: età alla diagnosi 5.9 ∼ 3.4 aa; età a fine terapia 7.8 ∼ 3.4 aa; età al
momento dello studio 12.2 ∼ 4.1 aa; periodo fuori terapia: 4.3 ∼ 3.2 aa.
1. valutazione clinica, con particolare attenzione a sintomi di patologia tiroidea
2. laboratorio: TSH, T4 libera (fT4), anti-tireoglobulina, anti-tireoperossidasi (nel gruppo controllo: solo
TSH ed fT4)
Risultati
Clinica: nessun paziente era in trattamento con levo-tiroxina o presentava anamnesi positiva per patologia
tiroidea. Nessun paziente presentava gozzo o sintomi di patologia tiroidea.
TSH (v.n. 0.35 - 5.5 μU/ml): Gr. campione: 2.6 ± 1.6 μU/ml. Al di sopra della norma in 6 pz (5.6 - 8.0 μU/ml).
Gr. controllo: 2.9 ± 1.2 μU/ml. Al di sopra della norma in 1 pz (7.2 μU/ml)
fT4 (v.n. 0.8 - 1.8 ng/dl): Gruppo campione: 1.21 ± 0.15 ng/dl. Nella norma in tutti i pz. Gruppo
controllo: 1.22 ± 0.12 ng/dl. Nella norma in tutti i pz
Anti-tireoglobulina ed anti-tireoperossidasi: negativi in tutti i pz del campione.
Discussione
Sebbene alcuni studi dimostrino che la CT eserciti effetti negativi sulla funzionalità tiroidea, altri affermano
che un eventuale danno permanente non è da imputare alla CT.
Nel nostro studio, circa l’8% dei pazienti del gruppo campione presentava ipotiroidismo subclinico,
percentuale leggermente superiore al 2.4% (p = ns) riscontrato nel gruppo controllo ma inferiore al dato
del 12% (p = ns) riportato in un uno studio multicentrico Italiano condotto su 199 bambini sani. Nessuno
dei nostri pazienti ha presentato positività degli anticorpi specifici per la tiroide, sebbene tale prevalenza
nella popolazione pediatrica sia stata del 10% nello studio Italiano citato e dell’1-10% in lavori condotti
in altri Paesi europei.
Conclusioni
La percentuale di ipotiroidismo subclinico non sembra statisticamente superiore rispetto al gruppo
controllo e sovrapponibile a quanto già descritto nella popolazione Italiana. Il trattamento con solo CT
sembra non aumentare il rischio di tiroidite autoimmune a medio termine in pazienti con LLA in età
pediatrica. Sono in corso l’ampliamento della casistica ed il dosaggio degli anticorpi anti-tiroide nei
soggetti arruolati nel gruppo controllo al fine di confermare o meno queste conclusioni.
COMUNICAZIONI E POSTER
EMATOLOGIA-ONCOLOGIA
327
LA VACCINAZIONE ANTINFLUENZALE NEI BAMBINI CON MALATTIA
ONCOLOGICA
D. Amato
U.O. “Federico Vecchio” - Dipartimento di Biomedicina dell’Età Evolutiva - Università degli Studi di Bari
Introduzione e obiettivi
L’influenza è una malattia particolarmente severa nei bambini affetti da tumore. Sebbene la vaccinazione
antinfluenzale sia raccomandata ai bambini con patologie croniche, e specialmente con patologie
neoplastiche, la copertura vaccinale in questo gruppo rimane bassa. L’ obiettivo del nostro studio è
stato quello di confrontare la copertura vaccinale antinfluenzale nei bambini fuori terapia per malattie
oncologiche ed in bambini sani, di indagare quali fattori influenzino la pratica vaccinale e ricercare
modalità per aumentarla.
Materiali e metodi
Casi: bambini fuori terapia per malattia oncologica; controlli: bambini sani. Studio in due fasi.
Fase 1 E’ stato somministrato un questionario ai genitori dei soggetti arruolati riguardante la situazione
vaccinale dei loro figli nella stagione influenzale 2005-2006.
Fase 2 Ai genitori dei bambini fuori terapia per malattia oncologica è stata proposta la vaccinazione
antinfluenzale per i loro figli gratuitamente, per la stagione 2006-2007, con tre modalità differenti,
previa randomizzazione dei soggetti in tre gruppi: nel primo gruppo i genitori sono stati contattati
direttamente dai medici del centro di riferimento oncologico che hanno offerto la vaccinazione gratuita
presso l’ambulatorio di oncologia; nel secondo gruppo i genitori sono stati contattati egualmente dai
medici del centro di riferimento che hanno offerto la vaccinazione gratuita nello stesso ospedale, ma in
un ambulatorio diverso; nel terzo gruppo i genitori sono stati contattati da un medico esterno al centro di
riferimento che ha offerto la vaccinazione gratuita presso un ambulatorio esterno.
Risultati
Fase 1 72 di 400 (15%) tra i bambini sani e 53 di 199 (24.12%) tra quelli oncologici sono risultati vaccinati
contro l’influenza nella stagione 2005-2006, il fattore che maggiormente ha influenzato i genitori nella
scelta della pratica vaccinale è risultato essere la raccomandazione del medico, soprattutto nel gruppo
degli oncologici.
Fase 2 Le tre strategie vaccinali proposte si sono rivelate tutte egualmente efficaci nell’incrementare
la quota di copertura vaccinale antinfluenzale tra i bambini oncologici da 24.12% della stagione 20052006 al 52.68% registrato nella stagione 2006-2007. Inoltre, in questo gruppo, la vaccinazione si è rivelata
utile nel ridurre di circa il 50% il numero di infezioni respiratorie e gastrointestinali durante la stagione
influenzale.
Conclusioni
Fase 1 La nostra ricerca è giunta alla conclusione che i genitori riferiscono che a consigliare loro la
vaccinazione antinfluenzale è principalmente il Pediatra di Famiglia per i bambini sani, il Medico del
Centro di Riferimento per i pazienti oncologici. Infatti, è la raccomandazione del medico a diventare la
ragione principale per un genitore, sia di un bambino sano che di uno con patologia neoplastica, a far
somministrare la vaccinazione contro l’influenza al proprio figlio. Inoltre nelle classi di bambini oncologici
gioca un ruolo importante anche il timore che l’infezione influenzale possa aggravare la patologia di
base.
Fase 2 Le tre strategie vaccinali si sono rivelate egualmente utili nell’incrementare la copertura vaccinale
nella popolazione degli oncologici. E’ dunque di forte impatto il ruolo che i genitori affidano al Pediatra di
Famiglia o del Centro di Riferimento, nel consigliare e far eseguire la vaccinazione antinfluenzale.
COMUNICAZIONI E POSTER
328 EMATOLOGIA-ONCOLOGIA
SINDROME TAR (TROMBOCITOPENIA-ASSENZA DEL RADIO):
EVOLUZIONE NEL PRIMO ANNO DI VITA
S. Esposito
Pediatria di Base, ASL Napoli 1, Distretto 45
Introduzione
La sindrome TAR (Trombocitopenia-Assenza del Radio) è clinicamente caratterizzata da trombocitopenia
severa con normale volume piastrinico associata ad assenza o ipoplasia bilaterale del radio (in letteratura
sono stati riportati solo cinque casi di assenza monolaterale del radio) con mani e dita normali. Questa
sindrome, che ha un pattern di ereditarietà autosomico recessivo, è un esempio di citopenia isolata, senza
evoluzione verso la pancitopenia o la malignità. I pazienti sono generalmente identificati alla nascita sulla
base della combinazione tra l’aspetto fisico e la trombocitopenia. Le manifestazioni emorragiche, spesso
già presenti alla nascita, si manifestano nel 95% dei casi entro il quarto mese di vita. Circa il 20% dei
pazienti inoltre presenta diarrea sanguinolenta nell’infanzia da riferire ad intolleranza alle proteine del
latte vaccino (IPLV). La dieta priva di proteine del latte vaccino, infatti, allevia questo sintomo e può, forse,
determinare un miglioramento della trombocitopenia. In ogni caso, la trombocitopenia nella sindrome
TAR tende a divenire meno severa dopo il primo anno di vita.
Scopo del presente lavoro è illustrare l’evoluzione di un caso di sindrome TAR nel corso del primo anno
di vita.
Caso clinico
La nostra paziente, F., è nata a 38 settimane di età gestazionale, da taglio cesareo d’elezione, dopo una
gravidanza normocondotta. Alla nascita il peso è stato 2800 gr, la lunghezza 49 cm, la circonferenza cranica
33 cm e l’indice di Apgar 8 al primo minuto e 9 al quinto. La piccola viene alla nostra attenzione per la prima
volta in venticinquesima giornata di vita con una diagnosi di agenesia bilaterale del radio. L’esame obiettivo
mostrava polsi e mani introflessi e normoconformati. L’accrescimento staturo-ponderale appariva allora
soddisfacente con latte formulato. Al compimento del primo mese di vita si sono evidenziate cianosi
delle estremità inferiori e micropetecchie diffuse, da attribuire alla severa trombocitopenia, per la quale
si è resa necessaria la terapia trasfusionale. Dopo aver effettuato la consulenza genetica, è stata posta
diagnosi di TAR. Nel corso del terzo mese di vita la piccola ha inoltre manifestato una IPLV ed ha iniziato
pertanto una dieta priva di proteine del latte vaccino proseguita anche durante e dopo lo svezzamento
(iniziato nel quinto mese di vita). Il latte vaccino è stato infatti reintrodotto nella dieta solo al compimento
del decimo mese di vita, senza problemi. Attualmente la piccola ha superato l’anno di vita e la sua conta
piastrinica, monitorata costantemente, da risultati incoraggianti (in effetti, l’ultima conta piastrinica, di
39.000 elementi/µL, pur confermando la trombocitopenia, non rende necessarie ulteriori trasfusioni).
Discussione
La trombocitopenia della sindrome TAR ha, dal punto di vista molecolare, un’eziologia ignota. In questa
sindrome solo la linea megacariocitaria risulta essere significativamente colpita: infatti le colture cellulari
di cellule staminali emopoietiche totipotenti indicano che le linee cellulari mieloide ed eritroide sono
normali. L’esame del midollo dei pazienti affetti mostra un ridotto numero di megacariociti mentre in
vitro si osserva la mancata crescita delle colonie megacariocitarie in risposta alla trombopoietina, pur in
presenza di una normale funzionalità del suo recettore di membrana.
Conclusioni
La trombocitopenia della sindrome TAR è un enigma poiché spesso regredisce durante i primi anni di
vita e le sue basi molecolari restano ignote. La terapia più importante è rappresentata dalle trasfusioni
di piastrine necessarie durante gli episodi emorragici e gli interventi chirurgici ed indicate inoltre, come
profilassi, nei neonati con trombocitopenia grave. La conta piastrinica dovrebbe essere mantenuta tra
le 10.000 e le 15.000 unità/µL. La previsione è che la durata del supporto sia limitata (meno di un anno)
COMUNICAZIONI E POSTER
EMATOLOGIA-ONCOLOGIA
329
e la prognosi per i pazienti con TAR è nel complesso buona. I pazienti che superano il primo anno di
vita, infatti, presentano uno spontaneo aumento della conta piastrinica fino a livelli che permettono loro
anche di sottoporsi agli interventi ortopedici di cui necessitano per correggere le alterazioni a carico degli
arti superiori.
COMUNICAZIONI E POSTER
330 EMATOLOGIA-ONCOLOGIA
SORVEGLIANZA ANGIO-RMN DEGLI EVENTI TROMBOEMBOLICI
CEREBRALI IN PAZIENTI PEDIATRICI AFFETTI DA LEUCEMIA
LINFOBLASTICA ACUTA. STUDIO PILOTA
M. Grassi1, P. Giordano1, V. Cecinati1, G.C. Del Vecchio1, F. Di Cuonzo2, M. Palma2, D. De Mattia1,
N. Santoro1
1
U.O. “F.Vecchio” - Dipartimento di Biomedicina dell’Età Evolutiva - Università degli Studi di Bari
Dipartimento di Scienze Neurologiche e Psichiatriche - Sezione di Neuroradiologia - Università degli
Studi di Bari
2
Introduzione
Gli eventi tromboembolici (ETE) rappresentano una seria complicanza associata alla terapia della Leucemia
Linfoblastica Acuta (LLA) nei bambini. La maggior parte degli ETE cerebrali (ETEC) è rappresentata da
trombosi dei seni venosi (TSV). Le TSV nei bambini sono a volte misconosciute perché paucisintomatiche
o con sintomi aspecifici.
Obiettivi
Confrontare l’incidenza di ETEC riscontrati con una strategia basata sul riconoscimento delle sole
manifestazioni cliniche e quindi confermati con angioRM encefalo rispetto a quelli riscontrati con
AngioRM encefalo seriate indipendentemente dall’obiettività clinica.
Materiali e metodi
Studio pilota, prospettico, randomizzato. Pazienti: bambini di età compresa tra 1 e 18 anni, affetti da
LLA, trattati secondo il protocollo AIEOP LLA 2000, tra Gennaio 2003 e Agosto 2005, durante la fase di
Induzione della chemioterapia, randomizzati in due gruppi.
Gruppo A: diagnosi di ETEC sospettata per la presenza di segni e sintomi suggestivi, e confermata con
AngioRM encefalo; gruppo B: pazienti sottoposti a valutazioni seriate con AngioRM encefalo in assenza
di sintomatologia. Ipotizzata una frequenza di ETEC del 5% nel gruppo A e una frequenza maggiore nel
gruppo B nella misura del 30% e considerata una potenza superiore al 60% e un livello di significatività
del 95%, sono stati arruolati 23 pazienti per ogni gruppo.
Tempi dello studio
Induzione del protocollo LLA 2000. Nel gruppo B valutazioni AngioRM encefalo: esordio (T0), giorno +24
(T1), giorno +36 (T2), giorno +52(T3).
Dosati all’esordio i complessi Trombina-Antitrombina (TAT), markers di attivazione protrombotica, per
confrontare le caratteristiche dei due gruppi di pazienti.
Dati espressi in mediana, minimo e massimo ed in percentuale e analizzati con test U di Mann-Whitney e
test esatto di Fisher.
Risultati
Abbiamo arruolato 46 pazienti; 23 pazienti (15 M e 8 F) sono stati assegnati al gruppo A e 23 pazienti (14
M e 9 F) sono stati assegnati al gruppo B. I due gruppi non mostravano differenze significative per sesso,
età, immunofenotipo LLA e valori dei TAT all’esordio.
Abbiamo riscontrato un ETEC nel gruppo A e anche un ETEC nel gruppo B solamente però a seguito della
comparsa di sintomatologia suggestiva.
Conclusioni
Il nostro studio pilota non ha evidenziato differenze significative nell’identificazione precoce di ETEC
tra i due gruppi di pazienti e non sembra, quindi, suggerire l’esecuzione di valutazioni seriate mediante
angioRM encefalo per la ricerca di ETEC asintomatici nei bambini in chemioterapia per LLA, durante
la fase di induzione. Al contrario potrebbe essere utile sottoporre i pazienti a valutazione angioRM
COMUNICAZIONI E POSTER
EMATOLOGIA-ONCOLOGIA
331
encefalo a seguito della comparsa di sintomi e segni anche minimamente suggestivi di ETEC nelle
fasi di chemioterapia in cui l’incidenza di tali complicanze è più alta, proprio come le fasi di induzione
e reinduzione della chemioterapia, al fine di ottenere una diagnosi precoce. Il sospetto clinico sembra
essere fondamentale per orientare la scelta di una appropriata valutazione strumentale.
COMUNICAZIONI E POSTER
332 EMATOLOGIA-ONCOLOGIA
Studio epidemiologico di una casistica di linfoadenopatie
afferenti all’U.O. di pediatria del P.O. di S. Cataldo
dal gennaio 2001 al dicembre 2007
G. Tumminelli1, L. G. Tumminelli2, M. Tumminelli2, C. D’Aleo1, S. Attardo1
1
2
Operativa di Pediatria e Neonatologia Ospedale “Maddalena Raimondi” S. Cataldo ASSn°2
Università degli studi di Palermo
Le linfoadenopatie sono frequenti nella pratica clinica. Queste vanno da forme banali, ai limiti con il
fisiologico, fino a forme gravi e talvolta fatali, attraverso una vasta e polimorfa gamma di quadri clinici. Esse
infatti interessano tutte le discipline della medicina. I meccanismi responsabili dell’aumento volumetrico
dei linfonodi possono essere intrinseci o estrinseci al linfonodo stesso. I meccanismi intrinseci consistono
nella proliferazione attiva di cellule normalmente residenti nel linfonodo
proliferazione linfocitaria in risposta a stimoli antigenici(linfadeniti virali, fungine o protozoarie)
proliferazione di linfociti correlata ad iperplasia linfoide primitiva(linfomi)
proliferazione istiocitaria primitiva o secondaria alla captazione di sostanze prodotte in eccesso(tesaurismosi
lipidiche e glicolipidiche)
I meccanismi estrinseci sono dovuti alla colonizzazione ed infiltrazione dei linfonodi da parte di cellule
non residenti:
Infiltrazione di polimorfonucleati
Infiltrazione di cellule leucemiche
Infiltrazione di cellule tumorali metastatiche
Per dare un giudizio sull’ingrandimento patologico di uno o più linfonodi, si deve fare riferimento a tre
criteri fondamentali: dimensione, sede e semiologia, e si deve avere una conoscenza completa di tutte
le possibili cause di adenomegalia. Una prima distinzione và fatta tra le linfoadenopatie isolate e quelle
generalizzate. La maggioranza delle adeniti è rappresentata dalle forme infettive seguite dalla miscellanea
quindi dalle forme reattive aspecifiche, dalle forme neoplastiche e infine dalle connettiviti. La conoscenza
epidemiologica delle cause è utili per la formulazione di ipotesi diagnostiche.
Metodi
Allo scopo di poter fornire elementi epidemiologici utili ai fini di un inquadramento etiologico delle
linfoadenopatie, abbiamo esaminato le cartelle cliniche dei pazienti ricoverati in regime di DH, dal
gennaio 2001 al dicembre 2007, presso l’U.O di Pediatria dell’Ospedale Maddalena Raimondi, dell’azienda
AUSL n°2, Caltanissetta. Sul totale di 3.697, i ricoverati con tale diagnosi sono stati 290, con un’incidenza
pari all’5%.
Risultati
L’ età media dei pazienti esaminati è di 8 anni con un rapporto M:F=2:1.
Fonte: Nostra elaborazione su cartelle cliniche; anni 2001-2008
COMUNICAZIONI E POSTER
EMATOLOGIA-ONCOLOGIA
333
La distribuzione in base all’età mostra un picco di prevalenza pari al 65% intorno ai 2-6 anni, seguito da
una diminuzione pari al 21% intorno ai 7-10 anni, e una frequenza pari al 14% intorno agli 11 anni.
Fonte: Nostra elaborazione su cartelle cliniche; anni 2001-2008
Le stazioni linfonodali più frequentemente interessate sono: cervicali(75%), con un maggiore
interessamento delle Latero-Cervicali; angolo-mandibolari(16%); e sotto-mandibolari(9%).
Fonte: Nostra elaborazione su cartelle cliniche; anni 2001-2008
La distribuzione in base all’etiologia mostra una prevalenza delle forme infettive(72%), di cui il 50% di
natura batterica(Streptococco, Stafilococco etc) e il 22% di natura virale(EBN, CMV etc), seguite da forme
in cui non è possibile individuare un agente patogeno (18%); nel 5% dei casi si è trattato di iperplasia
reattiva aspecifica; nel 2% di Linfoma di Hodking, nell’1% di LLA e infine nel 2 % dei casi si è trattato di
Artrite reumatoide giovanile.
COMUNICAZIONI E POSTER
334 EMATOLOGIA-ONCOLOGIA
Fonte: Nostra elaborazione su cartelle cliniche; anni 2001-2008
Questi dati concordano con quelli riportati in letteratura. Per l’approccio diagnostico ci siamo basati su
anamnesi, esame obiettivo, indagini bioumorali e strumentali e biopsia linfoghiandolare.
Conclusioni
Data la notevole eterogeneità delle cause responsabili di adenomegalia e l’elevata incidenza e gravità, fra
queste, delle patologie neoplastiche, per formulare una esatta diagnosi è necessario ricorrere ad indagini
di primo livello(emocromo- transaminasi- LDH- Ac specifici- rx torace ed ecografia addome), di secondo
livello(emocultura- aspirato midollare- Ac anti organo e non organo specifici) ed ove queste non fossero
in grado di dare un’indicazione diagnostica, si deve ricorrere all’esame bioptico.
Bibliografia
1. Margileth M.A:, Classificazione delle cause di linfoadenopatia. Doctor pediatria 1995 (ott): 13-9
2. Leung AKC, Lane W, Robson M. Childhood cervical lymphadenopathy. J Pediatr Health Care 2004, 18:3-7
3. Vecchi V., Burnelli R:, Linfoadenopatia dell’infanzia: studio epidemiologico e approccio diagnosticoterapeutico. Pediatria e Neonatologia, Editeam, Bologna 1997
4. Bugio GR. Linfoadenopatia cervicale. Secondo metodologia di approccio e in cenni clinici. Area pediatrica
2001; 10:5-38
5. Epaud R, Fauroux B, Boule M, Clement A. Deseases of the lymphatic system in children. Rev Pneumol Clin
2003; 59: 7-15
6. Pession A, Burnelli R, Prete A. Malattia di Hodking. In: Ematologia e oncoematologia pediatrica(a cura di
Burgio GR e Pession A). UTET Periodici, Milano 2000;161-8
7. Romano V, Di Benedetto V, Lo Nigro L, Bottino D, Di Cataldo A. Quando e perché biopsare un linfonodo nel
bambino. Rivista Ped Siciliana 1997;52:227-234
COMUNICAZIONI E POSTER
EMATOLOGIA-ONCOLOGIA
335
Ruolo della Serin- Proteasi HtrA1 nella proliferazione e
differenziazione delle cellule di neuroblastoma
G. Pecoraro
Servizio di Oncologia Pediatrica, Seconda Università Degli Studi Di Napoli
Introduzione
Il neuroblastoma è un tumore solido caratteristico dell' età pediatrica che origina dalle cellule della
cresta neurale e presenta caratteristiche cliniche e biologiche molto eterogenee. La proteina HtrA1
appartiene alla famiglia delle serin - proteasi HtrA che hanno un ruolo centrale nella proliferazione e nel
differenziamento cellulare.
Obiettivi
Scopo della ricerca è stato quello di valutare la modulazione dell’espressione e della localizzazione di
HtrA1 alla diagnosi in tessuti tumorali di bambini affetti da neuroblastoma per valutare l’eventuale
coinvolgimento di tale proteina nella patogenesi e nella progressione del Neuroblastoma, per individuare
nuovi fattori che potrebbero condizionare l’evoluzione di questa neoplasia che, per molti aspetti, rimane
ancora variabile.
Materiali e metodi
In questo studio abbiamo effettuato un' analisi quantitativa e qualitativa dell’espressione e della
localizzazione di HtrA1 in 60 tessuti tumorali derivanti da 50 bambini con neuroblastoma (NB) e 10
bambini con ganglioneuroblastoma (GNB) diagnosticati e trattati presso il Servizio di Oncologia Pediatrica
della Seconda Università di Napoli. In accordo con le linee guida del sistema classificativo International
Neuroblastoma Staging System, il nostro gruppo di osservazione risulta così costituito: 26 pazienti stadio
I e II, 14 stadio III, 16 stadio IV e 4 pazienti stadio IVs. L'analisi quantitativa è stata effettuata mediante
Western Blotting Assay mentre quella qualitativa è stata effettuata con immunoistochimica.
Risultati
L’ analisi quantitativa ha dimostrato che HtrA1 è espressa in 56/60 campioni (93, 3%) con livelli proteici
bassi in 36/56 (64, 3%) e alti in 20/56 (35, 7 %). I livelli più alti sono stati individuati nei campioni
appartenenti agli stadi I e II e IVs con 16/20 (80%). Al contrario, livelli più bassi sono stati individuati
negli stadi III e IV (24/36 = 66.6%) con una differenza statisticamente significativa(p<0.05). Inoltre tutti I
GNB esprimono (100%) alti livelli di HtrA1. L' analisi qualitativa ha evidenziato la presenza di HtrA1 nelle
aree più differenziate, caratteristiche del ganglioneuroblastoma; al contrario, nelle aree indifferenziate
del neuroblastoma la proteina è risultata scarsa o non valutabile.
Conclusioni
I nostri dati evidenziano che l’ iperespressione di HtrA1 nel neuroblastoma sembra essere associata alla
differenziazione delle cellule maligne e ad una ridotta diffusione metastatica della neoplasia. HtrA1
potrebbe rappresentare, in aggiunta ai parametri prognostici noti, un nuovo elemento per individuare
fenotipi meno aggressivi con importanti risvolti prognostico-terapeutici.
COMUNICAZIONI E POSTER
336 EMATOLOGIA-ONCOLOGIA
Subcutaneous immunoglobulin (SCIG) nel trattamento
della Sindrome di Wiskott Aldrich (S.W.A.): descrizione di un
caso clinico
N. Benincori1, G. Pingitore1, A.R. Bellomo1, M. Mottola2, L. Lombardozzi2, F. Paolini1
1
2
U.O.C Pediatria/Neonatologia Ospedale G.B.Grassi - Azienda USL Roma D
Area delle Politiche del Farmaco Azienda USL Roma D
La SWA è un raro disordine congenito legato al cromosoma X, classificata tra le immunodeficienze primitive
combinate. L’incidenza della malattia è di 4 casi ogni 1.000.000 di neonati maschi e si può manifestare sin
dalla nascita con segni di emorragia da piastrinopenia con micropiastrine, eczemi e infezioni ricorrenti.
La prevenzione delle infezioni si ottiene con l’infusione regolare di immunoglobuline endovena ogni
3-4 settimane, associata a profilassi antibiotica; ma la terapia di elezione della SWA resta il trapianto di
midollo osseo.
Descriviamo il caso di un ragazzo di 13 anni, affetto da SWA severa, che ha manifestato nel corso
dell’ultimo quinquennio 2-4 episodi/anno di infezioni basse vie respiratorie, un episodio di rinosinusite
grave, ricorrenti infezioni virali tra cui molluscum contagiosum, varicella zoster, malattia erpetica a
localizzazione facciale e cervico-scapolare con residua paralisi facciale periferica. Nell’ aprile 2008 il ragazzo
ha presentato un episodio di artrite reumatoide trattata con alti dosaggi di corticosteroidi. Nel luglio 2008
si è iniziata la somministrazione di SCIG (Vivaglobulin), programmata per la ormai scarsa compliance del
paziente alla somministrazione di immunoglobuline ev. Il nostro risulta essere il primo caso trattato in
Italia con questa metodica.
Le SCIG sono state somministrate settimanalmente alla dose di 100 mg/kg pari 0, 6 ml/kg, mediante due
pompe infusionali contemporanee, alla velocità di 12 ml/h, per un volume massimo di 10 ml per luogo
di inoculazione. Ogni volta venivano infusi 27 ml di prodotto attraverso tre siti di inoculazione, di cui 2
contemporanei ed uno successivo.
Le prime 4 dosi sono state praticate in regime di Day Hospital (DH), le successive a domicilio con notevole
gradimento del ragazzo.
La tollerabilità è stata buona (solo lieve prurito alla seconda inoculazione), non si sono verificate emorragie
nel sito di inoculazione, i livelli di IgG pre somministrazione, valutati dopo 3 mesi di utilizzazione delle
SCIG, sono risultati maggiori rispetto a quelli raggiunti con le immunoglobuline endovena.
Studi di letteratura internazionale confermano la sicurezza, la buona efficacia e la tollerabilità delle SCIG.
Bibliografia
1. Nicolay u. et all.:” Health related quality of life and treatment satisfation in North American patients with
primary immunodeficiency disease receving subcutaneous IgG self infusion at home”Journal of Clinical
Immunology, 2006, Jan; 26(1):65-72
COMUNICAZIONI E POSTER
EMATOLOGIA-ONCOLOGIA
337
Supplementazione di proteina C concentrato in pazienti
oncologici pediatrici in corso di neutropenia febbrile
V. Cecinati1, P. Giordano1, N. Santoro1, M. Grassi1, L. Brescia1, G.C. Del Vecchio1, M. Delvecchio2,
F. De Leonardis1, D. De Mattia1
1
2
U.O. “F. Vecchio” - Dipartimento di Biomedicina dell’Età Evolutiva - Università degli Studi di Bari
U.O. “B. Trambusti” - Dipartimento di Biomedicina dell’Età Evolutiva - Università degli Studi di Bari
Introduzione e obiettivi
La neutropenia febbrile è una complicanza della chemioterapia utilizzata per la cura dei tumori infantili.
Nel 50% dei pazienti neutropenici febbrili è presente una infezione occulta o dimostrata e in quest’ultimo
caso è possibile parlare di sepsi.
Uno stato di ipercoagulabilità è spesso presente in corso di sepsi. La proteina C attivata (PCa) svolge
importanti ruoli nella modulazione della coagulazione. Diversi studi mostrano un severo deficit di PCa
in corso di sepsi conclamata, correlato alla gravità dello stato settico, e l’efficacia della supplementazione
con concentrati di proteina C nel ridurre la durata dello stato settico febbrile e nel migliorare l’outcome
clinico di pazienti pediatrici settici. Scopo: confrontare la durata della febbre in neutropenia in pazienti
oncologici pediatrici che hanno ricevuto supplementazione di proteina C concentrato (a valori di PCa <
60%) rispetto a pazienti cui non è stata somministrata perché non ancora disponibile.
Materiali e Metodi: studio retrospettivo caso-controllo. Pazienti: bambini affetti da leucemia, trattati
presso il nostro centro AIEOP, che presentavano neutropenia (< 500/mmc), febbre (> 38°C) e condizioni
cliniche scadenti (torpore, tachicardia, dispnea)
Risultati
Arruolati 6 pazienti, età 11.1 (2.7-16.3) anni, e 6 controlli storici, età 4.7 (2.1-13.6) anni. I pazienti mostravano
valori di PCa pari a 45.6% (29.7-58) e sono stati supplementati con proteina C concentrato. I controlli
storici mostravano valori di PC a pari a 60% (21-78). In nessun caso le emocolture hanno permesso di
isolare patogeni. La durata della febbre in neutropenia è stata di 4 giorni (3 - 5) nei pazienti e di 6 (3 - 9)
nei controlli (p = 0.537). I pazienti hanno mostrato un miglioramento più rapido delle condizioni cliniche
generali rispetto ai controlli.
Conclusioni
Sebbene di dimensioni molto limitate e con risultati non statisticamente significativi, lo studio sembra
mostrare che la supplementazione con proteina C concentrato nei pazienti oncologici selezionati con i
suddetti criteri, possa abbreviarne la durata della febbre in corso di neutropenia e migliorarne l’outcome
clinico rispetto al gruppo controllo che mostrava, inoltre, un valore di PCa iniziale tendenzialmente
maggiore rispetto al gruppo supplementato (60% vs 45.6%; p =0.177).
COMUNICAZIONI E POSTER
338 EMATOLOGIA-ONCOLOGIA
TERAPIA COMBINATA IN PAZIENTI CON PORPORA
TROMBOCITOPENICA IDIOPATICA
M.A. Aurino, M. Amendolara, G. Attianese, R. Di Concilio, C. Di Filippo, G. D’Urzo, S. Mauriello,
C. Romano, A. Stefanelli, G. Cappuccio, G. Amendola
U.O.C. Pediatria-TIN P.O. Umberto I Nocera Inferiore (SA)
Introduzione
La causa più comune di trombocitopenia in età pediatrica è la porpora trombocitopenia idiopatica (PTI).
E’ una patologia che quasi sempre presenta una remissione spontanea entro sei mesi dall’esordio (PTI
acuta). Talvolta però la piastrinopenia può persistere per un periodo superiore ai sei mesi con andamento
ciclico e dimostrando una refrattarietà-dipendenza dal trattamento farmacologico (PTI cronica).Non ci
sono evidenze che dimostrano che la terapia riesce a modificare la prognosi a lungo e breve termine ma
bisogna intraprenderla quando si vuole indurre un aumento più rapido della conta piastrinica, un controllo
della sintomatologia e quando il rischio di emorragie è importante. Il protocollo terapeutico prevede in
prima istanza la somministrazione di IVIG(0.8gr/Kg/die) o, meno frequentemente, di cortisonici ev. ad
alto dosaggio o di steroidi per os. Schemi terapeutici diversi sono stati utilizzati quando la clinica (grave
sintomatologia associata ad importante diatesi emorragica) e/o la dipendenza refrattarietà lo impongono.
La splenectomia non trova consenso in età pediatrica per i possibili rischi infettivi e trombotici che si
possono verificare in seguito all’asportazione di questo organo.
Scopo del lavoro
Valutare l’efficacia e la tollerabilità di una terapia che si avvale dell’uso combinato di IVIG (400 mg/Kg/
die per 1g) e steroidi ev (metilprednisolone 30mg/Kg/die per 1 g) in pz che risultano refrattari alla terapia
tradizionale.
Materiali e metodi
Sono stati studiati 6 pz (3M; 3F), età alla diagnosi 7-168 mesi (media 58.8 mesi) non responsivi alla terapia
secondo protocollo. Tutti presentavano recidive dopo terapia con IVIG o cortisone a distanza di 15. In 5/6
pz è stato praticata anche terapia con Rituximab senza successo.
Discussione
4/6 pz non hanno presentato più recidive né sintomatologia emorragica, e non richiedonopiù alcun
trattamento ad un anno circa di distanza dall’inizio della terapia.In particolare sono andati in remissione
parziale 3pz (PLT< 50.000 >150.000), 1 in remissione completa (PLT> 150.000). Gli altri 2 pazienti hanno
presentato invece solo un allungamento dei tempi di recidiva e di comparsa della sintomatologia e
manifestazioni emorragiche (>30 gg).
Conclusioni
La terapia combinata IVIG e corticosteroidi laddove non ha garantito la remissione completa o parziale ha
consentito di allungare i tempi di recidiva e di controllare le manifestazioni emorragiche e la sintomatologia
clinica in pz non controllati con la terapia tradizionale, consentendo di ridurre anche gli effetti collaterali
dei farmaci e di evitare e/o procrastinare l’intervento di splenectomia.
COMUNICAZIONI E POSTER
EMATOLOGIA-ONCOLOGIA
339
Un caso di malattia di Castleman
S. Mauriello, M. Amendolara, G. Attianese, M.A. Aurino, R. Di Concilio, C. Di Filippo, G. D’Urzo,
C. Romano, A. Stefanelli, G. Cappuccio, G. Amendola
U.O.C. Pediatria-TIN P.O. Umberto I Nocera Inferiore (SA)
Gli autori descrivono un caso di “malattia di Castleman o iperplasia linfoide angiofollicolare”. La malattia
di Castleman è un raro disordine linfoproliferativo con prevalenza di meno di 1: 100. 000, caratterizzato
da iperplasia linfoide angiofollicolare. Si conoscono 2 forme:
- una localizzata più frequente e ad andamento benigno;
- una forma multicentrica ad andamento aggressivo e potenzialmente fatale.
L’eziologia non è nota, ma diversi studi confermano un ruolo del virus HHV8 responsabile del “sarcoma di
Kaposi” soprattutto nella forma multicentrica. La diagnosi è istologica. Nella forma localizzata è necessaria
una completa escissione chirurgica che risolve la patologia.
Il paziente, veniva ricoverato a quattro mesi di vita, per processo respiratorio acuto. Durante la degenza
veniva evidenziata linfoadenopatia sopraclaveare sinistra. L’ecografia confermava la presenza di multiple
linfoadenomegalie tondeggianti ipoecogene, del diametro massimo di 22, 8 mm. L’ecografia dell’addome
risultava nella norma senza interessamento di altri distretti linfoghiandolari. Negativi gli indici di flogosi
e di lesione.
Nella norma: emocromo, ed indagini virali. Data la persistenza della linfoadenopatia il paziente veniva
quindi inviato al reparto di chirurgia pediatrica per la biopsia. L’esame morfologico mostrava “parenchima
linfonodale sede di numerosi follicoli, con centri germinativi talora in regressione circondati da una
spessa zona mantellare con aspetto a bulbo di cipolla, nelle aree interfollicolari, numerosi vasi iperplastici,
eosinofili e sparsi blasti CD30+”.
Tale reperto è compatibile con “malattia di Castleman “(tipo vascolare ialino). Sulla scorta di tale diagnosi
il paziente praticava altre indagini, inclusa TAC total body che escludevano ulteriori localizzazioni di
organi ;veniva quindi avviato di nuovo in chirurgia pediatrica per l’escissione completa del pacchetto
linfoghiandolare. Da allora pratica controlli periodici clinici ematochimici ed ecografici per escludere
nuove localizzazioni della malattia.
COMUNICAZIONI E POSTER
340 EMATOLOGIA-ONCOLOGIA
Una diagnosi difficile di Malattia di Hodgkin
R. Di Concilio, M. Amendolara, G. Attianese, M.A. Aurino, C. Di Filippo, G. D’Urzo, S. Mauriello,
C. Romano, A. Stefanelli, G. Cappuccio, G. Amendola
U.O.C. Pediatria-TIN P.O. Umberto I Nocera Inferiore (SA)
La tumefazione di un linfonodo costituisce un sintomo estremamente vario e può essere indotto da
patologie sia benigne che maligne. Il decorso di una linfomegalia merita attenzione ed un approfondimento
diagnostico quando l’anamnesi, le dimensioni, la persistenza e/o elementi clinici di allarme, locali o
generali, persistono. Presentiamo un caso clinico per il quale l’attento monitoraggio, ed il vivo sospetto
diagnostico, non suffragato dalle indagini condotte, ci ha consentito di assumere un corretto approccio
diagnostico e terapeutico.
E.C. è giunto alla nostra osservazione, nel luglio 2007, quartogenito maschio, di 15 anni di età, in apparente
buona salute e con anamnesi familiare e personale negativa; da circa un mese presentava la comparsa di
una tumefazione latero-cervicale sinistra isolata e nessun altro dato degno di rilievo. Dopo aver praticato
esami ematochimici e strumentali, il paziente, per la persistenza della linfomegalia, veniva avviato
all’esame bioptico che evidenziava una iperplasia linfoghiandolare di tipo misto. L’esame istologico
oltre ad essere analizzato dal nostro laboratorio di anatomia patologica era stato anche inviato al centro
di riferimento nazionale di Bologna che aveva confermato il referto. La persistenza della tumefazione
linfonodale, in assenza di altri sintomi obiettivi, ci hanno indotto ad un monitoraggio attento mensile.
Nel marzo 2008, nel corso del solito follow up, il paziente segnalava che da qualche giorno presentava
febbricola e sudorazione con comparsa di nuovi elementi linfoghiandolari sempre in latero-cevicale sx.
Si avviavano i controlli ematochimici e strumentali con esiti sovrapponibili ai precedenti ed una nuova
biopsia il cui esito, questa volta, deponeva per diagnosi di “Linfoma di Hodgkin”. Il paziente, sottoposto a
stadiazione (stadio II B), è stato avviato a trattamento chemioterapico secondo protocollo AIEOP LH 2004
ed attualmente è in buone condizioni di salute.
La persistenza del quadro clinico, l’asimmetria senza segni colliquativi, l’insorgenza di sintomi
precocemente riferiti ci hanno consentito di giungere correttamente alla diagnosi suggestiva fin dal primo
approccio poichè l’identificazione precoce delle caratteristiche cliniche e biologiche rappresentano un
fattore prognostico favorevole nelle malattie neoplastiche.
ENDOCRINOLOGIA
Momenti congressuali
COMUNICAZIONI E POSTER
342 ENDOCRINOLOGIA
ASCOLTARE PER COMPRENDERE E CURARE: L'ESPERIENZA DI UN
CENTRO REGIONALE DI DIABETOLOGIA PEDIATICA
E. Zito, G. Vortice, G. Cannavale, E. Mozzillo, M. Muselli, A. Franzese
Dipartimento di Pediatria Università degli Studi di Napoli “Federico II”
Nei bambini e adolescenti affetti da diabete mellito i processi psichici non possono essere ignorati da
chi affronta l’approccio terapeutico. E’importante che s’instauri una stretta collaborazione tra team
terapeutico e pazienti+famiglie che devono trovare una giusta motivazione.
Le peculiarità dell'età evolutiva rendono ulteriormente difficile la gestione del diabete.
Descriviamo la nostra esperienza come Centro di Riferimento Regionale per la Diabetologia Pediatrica
dell’Università “Federico II” di Napoli nella realizzazione di un progetto di assistenza integrata per la cura
del diabete.
Dal Gennaio 2006, un team pluridisciplinare costituito da pediatri, psicologo, infermieri, dietisti ed
assistente sociale utilizza un preciso programma di approccio centrato sull’ascolto, a partire dal primo
incontro con il paziente e la sua famiglia.
L'attività assistenziale medica prevede: un primo ricovero ospedaliero, di durata 1-2 settimane, per i
pazienti di nuova diagnosi, per trattare l’emergenza, individuare il piano di insulinoterapia e fornire
un'educazione alimentare e di management;; follow-up con day-hospital annuale e ambulatori trimestrali,
eventuali successivi ricoveri in caso di scompenso glico-metabolico.
Il sostegno psicologico prevede: un approccio esplorativo su tutte le nuove diagnosi, un servizio di
accoglienza, ascolto ed informazione per pazienti e genitori attivo in ambulatorio; colloqui individuali di
counselling breve e prolungato per casi di disagio.
Nel diabete dell’età evolutiva la gestione terapeutica deve essere necessariamente individualizzata
tenendo conto non solo degli aspetti clinici, ma anche di quelli emozionali e psicologici.
Un approccio integrato sistematico può riuscire a migliorare significativamente la compliance al
trattamento.
COMUNICAZIONI E POSTER
ENDOCRINOLOGIA
343
ASSOCIAZIONE DI PIASTRINOPENIA AUTOIMMUNE IN UN CASO DI
DIABETE MELLITO TIPO 1 ALL’ESORDIO: PRIMA DESCRIZIONE DELLA
LETTERATURA
L. Russo, D. Iafusco, C. D’Elia, F. Casaburo, L. Troise, F. Prisco
Seconda Università di Napoli, Dipartimento di Pediatria
Caso clinico
Anna, 10 anni giunge alla nostra osservazione per la comparsa di petecchie ed ecchimosi spontanee agli
arti inferiori e al tronco. A. familiare: nonna paterna tiroidite di Hashimoto; nonna e zie materne diabete
di tipo 2; nega familiarità per coagulopatie. A. fisiologica: gravidanza normocondotta, nata a termine da
parto distocico, peso alla nascita 2,700 kg. Accrescimento nella norma; allattamento materno; divezzo al
V mese, alvo e diuresi regolari.
A p. p.: negativa. E. O.: condizioni generali buone, peso 18 kg, apiressia; mucose rosee; numerose
petechhie ed alcune ecchimosi di recente insorgenza agli arti inferiori, in regione glutea e mammaria
sinistra. Obiettività cardio-toracica nella norma; addome trattabile e non dolente alla palpazione, organi
ipocondriaci nei limiti. Assenza di linfoadenomegalia. Stadio puberale PH3 B3. Dagli esami praticati
emergeva un quadro di piastrinopenia isolata, PLT 4000 mcL; inaspettatamente, però, la glicemia risultava
313 mg/dL. Elettroliti nella norma., Combur test: pH 6; ps 1010; chetoni - , glicosuria +++, sangue +. La
madre negava poliuria, polidipsia, nicturia, calo ponderale. Si inizia per la piastrinopenia acuta ( Ig e. v. 400
mg/ kg/ die per 5 gg) e per l’iperglicemia ( in doppia via: reidratazione con soluzione fisiologica, glucosata,
elettroliti ed insulina 0,05/ kg/ h modificata in base alle glicemie controllate ogni due ore secondo G. E .T.
REM. modificato). Dagli esami emergeva : funzione epato- renale, profilo coagulativo, Ig sieriche e pattern
autoanticorpale ( ANA, antiDNA, SMA) nella norma; profilo infettivologico negativo; HbA1c 11,9 mg/dl;
tampone faringeo positivo per Streptococco beta emolitico ( gruppo A ). La piccola veniva dimessa in 5°
giornata con 244000 PLT/mcL, con terapia domiciliare insulinica ed antibiotica.
Conclusioni
Presentiamo questo caso per la peculiare associazione tra piastrinopenia autoimmune (PTI) e DM.
L’etiopatogenesi del DM, presumibilmente autoimmune, sarà chiarita con i risultati dei markers
autoimmuni ( ICA, GAD, IA2 e IAA). Il DM, paradigma delle malattie Th1 mediate, si associa ad altre
patologie autoimmuni Th1 ( tiroidite 14%, celiachia 6%, S. di Addison 1%, ecc.), per cui non ci sorprende
che possa associarsi alla PTI anche se, per quanto di nostra conoscenza, esistono pochissime segnalazioni
in merito. E’ probabile che la mancanza di sintomatologia del diabete sia dovuta alla precocità della
diagnosi posta in maiera casuale per la contemporaneità tra le due patologie.
COMUNICAZIONI E POSTER
344 ENDOCRINOLOGIA
COSTANTE ADEGUAMENTO DELLA DIABETOLOGIA PEDIATRICA ALLA
SOSTITUZIONE DEI PREPARATI INSULINICI:”CHANGING DIABETES”
S. Confetto, D. Iafusco, A. Piscopo, F. Casaburo, A. Zanfardino, F. Prisco
Seconda Università di Napoli, Dipartimento di Pediatria
Premesse
Negli ultimi anni, per quanto riguarda i preparati insulinici in commercio, si sta assistendo ad un totale
sovvertimento. Sono stati infatti introdotti analoghi rapidi, quali le Insuline Lispro (Humalog), Aspart
(Novorapid), Glulisina (Apidra ). Queste insuline hanno una farmacocinetica più veloce rispetto a quella
umana regolare, hanno come vantaggi un rapido assorbimento ed una riduzione del picco iperglicemico
postprandiale, la riduzione delle ipoglicemie a distanza, la possibilità di somministrazione postprandiale
regolando la dose sulla base dei carboidrati assunti; gli svantaggi sono la riduzione della insulinizzazione
a distanza dalla somministrazione, per cui richiedono una buona insulinizzazione basale, il rischio di
ipoglicemie precoci e, per i suddetti motivi,la necessità di un assiduo monitoraggio glicemico. Sono stati
introdotti in commercio anche gli analoghi lenti Glargine(Lantus), che a pH neutro, come nel tessuto
sottocutaneo,precipita in microcristalli che vengono assorbiti lentamente e la Detemir(Levemir)iii che
nel tessuto sottocutaneo si lega all’albumina. Esistono, inoltre, delle miscele di Insulina ultrarapida ed
intermedia in tutte le proporzioni, come la NovoMix 30, 50, 70; la Humalog Mix 25, 50.
Il “Changing Diabetes” può essere datato nel Gennaio 2006, quando la maggiore azienda produttrice di
insulina,la Novo Nordisk, ha ritirato dal commercio tutte le insuline umane lasciando solo gli analoghi. E’
stato allora che in Pediatria ci si è dovuti adattare, velocemente, alle nuove insuline inventando, per così
dire, nuovi schemi terapeutici.
Obiettivi
Lo scopo di questo studio è quello di paragonare le terapie praticate nel Servizio di Diabetologia Pediatrica
“G.Stoppoloni” prima e dopo il Changing Diabetes.
Materiali e metodi
Sono stati presi in considerazione 437 pazienti ( 228 Maschi; 209 Femmine) con età media di 16,5±4,7
anni ( range 5,4-23,35 ) ed almeno 2 anni di malattia. In tutti questi pazienti sono state confrontate le
terapie insuliniche praticate nei mesi di Luglio-Settembre-Ottobre del 2006 con quelle praticate negli
stessi mesi del 2007.
Risultati
1. Prima del Changing Diabetes: Il 62% dei pazienti utilizzava le insuline umane secondo uno schema che
prevedeva insulina Rapida a colazione; insulina Rapida + Intermedia a pranzo,l’uso di insulina Rapida a cena
e di insulina Intermedia al Bed-Time. Il 13% utilizzava le miscele di insulina Regolare secondo uno schema
che prevedeva l’uso di insulina Rapida a colazione,una miscela 50/50 a pranzo,una miscela 50/50 oppure
30/70 a cena. Il 22% utilizzava una terapia basal-bolus che prevedeva l’uso, in monosomministrazione, di
insulina Glargine ( Lantus ) più boli di rapida in corrispondenza dei pasti.
2. Dopo il Changing Diabetes: Il 40% dei pazienti utilizzava le insuline umane secondo lo schema prima
descritto. Il 18% utilizzava le miscele di analogo secondo uno schema che prevedeva l’uso di High Mix
(miscele a prevalenza di analogo rapido) a colazione e a pranzo, una Low Mix (Miscele a prevalenza di
analogo protaminato ) a cena. Il 41% dei pazienti utilizzava una terapia basal-bolus.
Da tali dati, quindi, si evince che attualmente il numero di pazienti che adopera le insuline umane si
è ridotto; il numero di pazienti che pratica la terapia basal-bolus è quasi raddoppiato; il numero di
pazienti che adoperano le miscele è aumentato, considerando però che oggi si utilizzano miscele a base
di Analogo rapido + Analogo protaminato, mentre prima si utilizzavano miscele a base di Regolare +
Intermedia. Inoltre, andando a valutare i pazienti per fascia di età, si è visto che i pazienti di età compresa
tra i 5 ed i 9 anni continuano a praticare, nella maggior parte dei casi, le insuline umane, utilizzano solo nel
COMUNICAZIONI E POSTER
ENDOCRINOLOGIA
345
9% dei casi le miscele, non utilizzano la terapia basal-bolus; i pazienti di età compresa tra i 13 ed i 15 anni
hanno ridotto l’utilizzo delle insuline umane,che dal 79% sono passate al 52%; è aumentato l’utilizzo delle
miscele e della terapia basal-bolus, soprattutto in pz che vogliono saltare lo spuntino e che richiedono
una maggiore flessibilità degli orari dei pasti; inoltre in questa fascia di età si è avuto un aumento delle
dosi insuliniche medie che sono passate da uno 0,9±0,20 UI/Kg ad un 1,02±0,27 UI/Kg.
Questo significativo aumento,che è sicuramente dovuto al passaggio puberale,è massimo in quei pazienti
che utilizzano le insuline umane mentre non riguarda i pazienti che utilizzano una terapia basal-bolus.
I pazienti di età compresa tra i 18 ed i 20 anni hanno ridotto l’utilizzo delle insuline umane, dal 49%
sono passate al 29%, hanno aumentato l’utilizzo dello schema basal-bolus, che dal 34% è passato al 56%
ed utilizzano in ugual misura le miscele. I pazienti di età compresa tra i 22 ed i 25 anni hanno ridotto
l’utilizzo delle insuline umane,che dal 51% sono passate al 30% ,mentre hanno aumentato l’utilizzo delle
miscele,che dal 18% sono passate al 24%,e l’utilizzo della terapia basal-bolus che,passando dal 28% al
45%, è diventata la terapia maggiormente utilizzata.
Conclusioni
Il diabete e le insuline stanno cambiando, per cui si rende necessaria una ripersonalizzazione delle terapie
insuliniche; pertanto i Pediatri Diabetologi stanno velocemente imparando a “creare” nuovi schemi
terapeutici che prevedono l’utilizzo delle nuove insuline e che garantiscano, oltre al buon controllo
metabolico, anche una buona qualità della vita.
COMUNICAZIONI E POSTER
346 ENDOCRINOLOGIA
DATI PRELIMINARI DEL PROGETTO PRISMA (RETE DIABETOLOGICA
PEDIATRICA REGIONALE): ADOLESCENTI A RISHIO DI SINDROME
METABOLICA NELLA POPOLAZIONE GENERALE
S. Genovese, G.F. Mazzarella, L. Baldini, R. Rettura, P. Di Napoli, N. Racioppi, F. Castaldo,
G. De Luca, P. Nanni Mancinelli, P. Miranda, G. Formisano, A. Federico, M. Izzo, G. Di Maio,
V. Rinaldi, S. Perrotta, C. Di Matteo, M. Matarazzo, M.A. Iuorio, R. Petrenga, E. Ciarma,
M.G. Di Nardi, O. D’Amico, F. Califano, G. Cupo, F. Cotugno, P. D’Ambrosio, D. Civitillo, D. Iafusco,
A. Franzese, F. Prisco
Seconda Università di Napoli, Dipartimento di Pediatria
Obiettivo
La maggioranza degli studi pubblicati sulla prevalenza della Sindrome Metabolica (SM) in età
adolescenziale riguardano popolazioni selezionate, afferenti o a centri di 2-3 livello o selezionati dai
Pediatri di Famiglia. Inoltre sono spesso usate definizioni di SM diverse. Obiettivo del lavoro è stato quello
di definire la prevalenza del rischio di SM e di alcune variabili associate in un campione rappresentativo
della popolazione generale delle seconde classi delle scuole primarie di secondo grado nella regione
Campania.
Metodi
E’ stato eseguito un campionamento del tipo Cluster Sampling Survey. La lista di campionamento
è costituita da tutte le scuole pubbliche e paritarie della regione. L’ unità campionaria (grappolo) era
la singola scuola. Dopo un breve studio pilota sono stati rilevati i parametri auxologici e la pressione
arteriosa degli alunni; sono inoltre stati somministrati questionari sia ai genitori che agli alunni. Sono
stati inviati ad eseguire indagini ematochimiche gli alunni che presentavano un BMI (CDC 200) > = 85
centile o una Circonferenza Addominale > = 90 centile. La definizione di Rischio di SM usata è stata quella
suggerita recentemente dalla International Diabetes Federation (IDF) ovvero la presenza contemporanea
di almeno 2 dei 5 segni previsti.
Risultati
Sono stati visitati 303 alunni, età media pari a 12 aa e 4 mesi. Maschi 140 (BMI mediano 22,2), femmine 123
(BMI mediano 21,1). Presentavano 0,1,2,3 segni della SM rispettivamente 261 alunni (86,1 %), 34 (11,2%),
6 (2%) e 2 (0,7%). I dati preliminari mostrano, dunque, che gli alunni che hanno presentato almeno 2 segni
di SM sono stati 8 (2,7%).
Conclusioni
Tali risultati preliminari mostrano che la prevalenza degli adolescenti a rischio di SM nella popolazione
generale di età pari a 12-13 anni sembrerebbe essere, utilizzando i recenti criteri suggeriti dalla IDF,
inferiore a quella emersa da studi simili ma effettuati su popolazioni per vari motivi selezionate (Medicina
di Famiglia o afferenti al 2-3 livello).
COMUNICAZIONI E POSTER
ENDOCRINOLOGIA
347
diabete mellito tipo 1: Retinopatia.
Prevalenza DOPO 15 anni di Malattia
T. Libondi1, D. Iafusco2, A. Piscopo2, V. Fierro2, R. Cricelli2, F. Prisco2
1
2
Seconda Università di Napoli Dipartimento di Oftalmogia
Seconda Università di Napoli, Dipartimento di Pediatria
Introduzione
Nell'ambito delle complicanze del diabete mellito la retinopatia si colloca al primo posto e la sua prevalenza
e severità sono strettamente correlate alla durata della malattia ed al grado del controllo metabolico. Gli
studi sia precedenti che successivi al DCCT hanno dimostrato che, dopo circa 20 anni di malattia, un'alta
percentuale di pazienti affetti da diabete mellito di tipo 1 e un certo numero di quelli con diabete mellito
di tipo 2 possono sviluppare retinopatia. Dal punto di vista anatomo-palogico si riscontra un diffuso
danno dei capillari retinici, a carico dei quali è possibile osservare ispessimento della membrana basale
dell'endotelio, deposizione di materiale ialino e sclerosi della parete con perdite di periciti in numerosi
tratti dei capillari.
L'occlusione dei vasi e la loro aumentata permeabilità vengono ritenute, quindi, le principali vie
patogenetiche delle alterazioni retiniche.
Importanti fattori di rischio sono rappresentati da iperglicemia, ipertensione arteriosa, fumo di sigarette
e dislipidemia.
Le evidenze scientifiche oggi disponibili hanno dimostrato che, mediante programmi di screening e
trattamento della retinopatia diabetica, è possibile ridurre drasticamente la cecità da diabete.
La Retinopatia Diabetica è infatti la patologia per la cui prevenzione vi è il miglior rapporto costo
beneficio.
Obiettivo
Lo scopo di questo studio è stato dunque quello di valutare la prevelenza di retinopatia in pazienti
diabetici con una durata di malattia di almeno sedici anni (media 16,8 ± 0,4).
Materiali e metodi
Sono stati studiati 29 pazienti(14 M;15 F), diagnosticati nel 1991 con età alla diagnosi (aa) 8,4 ± 4,2. Per tale
lavoro è stato utilizzato il retinografo KOWA, macchinario innovativo che ci ha permesso la valutazione
più dettagliata del fondo oculare e la digitalizzazione delle immagini.
Risultati
Dalle retinografie effettuate è risultato che soltanto 2 pz. su 29 presentano lieve retinopatia diabetica.
Conclusioni
Tale studio ha quindi dimostrato che la prevalenza di retinopatia diabetica in pz. in terapia intensificata è
sicuramente inferiore rispetto a quanto preventivamente dimostrato dalla letteratura.
COMUNICAZIONI E POSTER
348 ENDOCRINOLOGIA
EDUCAZIONE ALIMENTARE PER I BAMBINI E GLI ADOLESCENTI CON
DIABETE MELLITO TIPO 1
F. Musella, D. Iafusco, C. Malmo, A. Folgore, G. Senatore, F. Prisco
Seconda Università di Napoli, Dipartimento di Pediatria
Il diabete di tipo 1 è la malattia metabolica più diffusa in età pediatrica e si calcola che in Italia ne siano
colpiti circa 200.000 bambini., è dovuto alla distruzione autoimmune delle cellule β-pancreatiche e
riconosce fattori etiopatogenetici, sia genetici che acquisiti. Su un terreno geneticamente predisposto,
un’aggressione infettiva o ambientale possono innescare un meccanismo autoimmune contro le cellule
del pancreas che producono insulina.
Il diabete di tipo 2 è dovuto, invece, a resistenza periferica all’azione dell’insulina; al contrario di quanto
avviene negli adulti è molto meno frequente in pediatria; tuttavia, parallelamente all’incremento
dell’obesità e della sedentarietà infantile, la sua prevalenza negli adolescenti sta aumentando in modo
preoccupante persino nel nostro paese che precedentemente era famoso per la “dieta mediterranea”.
La sintomatologia del diabete tipo 1 nel bambino, che spesso emerge dopo stress o infezioni, comporta
più comunemente: perdita di peso (almeno nel 60% dei casi), nonostante l’appetito sia conservato,
poliuria e polidipsia.
La sintomatologia, invece, del diabete di tipo 2 nell’adolescente molto spesso è scarsa o manca del tutto.
Si tratta di soggetti obesi che presentano una graduale iperglicemia e che arrivano alla diagnosi di solito
per caso.
La terapia del bambino con diabete di tipo 1 ha l’obiettivo di consentirgli una vita il più possibile simile a
quella dei coetanei e prevede la terapia insulinica, un’alimentazione equilibrata e l’attività fisica.
Nel diabete di tipo 2, invece, è sufficiente una corretta alimentazione che permetta al bambino di dimagrire
e quindi di ridurre l’insulino-resistenza associato ad un incremento dell’esercizio fisico.
Nel servizio di diabetologia pediatrica “G.Stoppoloni” abbiamo elaborato un piano educativo alimentare
sia per bambini con diabete di tipo 1 che per bambini con diabete di tipo 2.
Nel diabete di tipo 1 si evidenziano due fasi distinte: la prima è la diagnosi, durante la quale è necessario
utilizzare una dieta personalizzata con precise indicazioni della grammatura degli alimenti e del tipo di
cottura. Superata la fase diagnostica, bisogna fornire gli strumenti utili per modificare autonomamente
il piano alimentare. La seconda fase, quindi, prevede il coinvolgimento dei genitori a cui fornire liste di
scambio degli alimenti isocaloriche, isolipidiche, isoglicidiche. E’ questa anche la fase durante la quale
insegnamo ai genitori la lettura delle tabelle nutrizionali e di conseguenza ad introdurre nel piano
alimentare anche prodotti del commercio che per obbligo di legge devono apportare i valori nutrizionali
sulla confezione.
L’ esperienza nel servizio di diabetologia pediatrica ha apportato una modifica radicale della terapia
del paziente con diabete di tipo 1 e soprattutto ha evidenziato l’importanza di un “team” composto dal
medico, dal nutrizionista, da un infermiere e dallo psicologo per conoscere il paziente da un punto di vista
bio-psico-sociale.
Nei casi di diabete mellito tipo 2 i livelli d’insulina sono molto elevati sia in condizioni basali sia dopo
stimolo. L’alimentazione nel diabete di tipo 2 ha un ruolo chiave in quanto, molto spesso, questi pazienti
non sono trattati con insulina ma grazie ad un piano alimentare equilibrato ed alla conseguente
riduzione del peso corporeo, la resistenza all’insulina diminuisce e di conseguenza è possibile “guarire”
dalla patologia. Si tratta comunque di adolescenti obesi, con ridotta spesa energetica, con dislipidemie e
in particolare ipertrigliceridemie ed ipercolesterolemia.
In questi pazienti con un passato di disturbi alimentari, legati soprattutto ad un eccesso di alimenti ad alta
densità calorica e poveri di fibre, è stato particolarmente importante insistere sulla regolarizzazione del
loro piano alimentare integrato all’esercizio fisico, evitando in particolare gli alimenti ricchi di grassi saturi
e di zucchero e mangiare abbastanza da coprire il 70% del fabbisogno energetico giornaliero.
COMUNICAZIONI E POSTER
ENDOCRINOLOGIA
349
Importante è la frequenza dei controlli: al fine di favorire il raggiungimento ed il mantenimento degli
obiettivi nutrizionali. Sono richiesti almeno 3 - 4 incontri nei primi tre mesi e, successivamente, almeno
4 - 6 incontri/anno.
Come per tutte le diete deve prevalere il buon senso puntando al raggiungimento del peso ideale in
modo graduale.
Nostro scopo è stato e sarà quello di educare il paziente diabetico ad una corretta alimentazione che
possa poi essere mantenuta come sana abitudine nell’ambito del proprio stile di vita.
COMUNICAZIONI E POSTER
350 ENDOCRINOLOGIA
IL BAMBINO E LA SUA FAMIGLIA: UN’ALLEANZA FORTE PER VIVERE
CON IL DIABETE,UNA MALATTIA DELL’INTERO SISTEMA FAMILIARE
I. Nocerino, D. Iafusco, G. Griso, A. Piscopo, S. Guercio Nuzio, C. D’Elia, F. Prisco
Seconda Università di Napoli, Dipartimento di Pediatria - Università Federico II, Dipartimento di Pediatria
Il diabete altera l’equilibrio che la persona coinvolta ha raggiunto nella propria vita richiedendo ai piccoli
pazienti e alle loro famiglie una continua autogestione e un chiaro senso di responsabilità. È necessario
molta cura ed attenzione al controllo medico del diabete ma è altrettanto importante considerare che la
rigidità delle regole e le eccessive ansie dei genitori possono creare non poche difficoltà di accettazione
e di adattamento del bambino alla nuova condizione di “bambino con diabete”. È, sicuramente, vero
che il principale attore in questa situazione è il bambino con le sue risorse e capacità, ma è altrettanto
importante, se non fondamentale, il ruolo che la stessa famiglia svolge ed il modo in cui la malattia viene
da loro vissuta. Attraverso gli occhi dei genitori che il bambino conosce il mondo, esperisce le gioie e i
dolori. Come reagiscono i genitori? L’atteggiamento dei genitori, nei confronti del diabete, si riflette sulla
capacità di accettazione o non della malattia da parte del bambino; infatti, se il genitore è incerto, insicuro
e pauroso rischia di trasmettere le sue sensazioni al proprio figlio e di innescare un circolo improduttivo di
pessimismo; se invece, il genitore ha fiducia nel buon adattamento del diabete e delle cure, può riuscire a
trasferire questi aspetti positivi al bambino e fornirgli “iniezioni di sicurezza”. È importante, pertanto, che
i genitori:
SIANO SINCERI CON I PROPRI FIGLI
I figli hanno bisogno di verità e di chiarezza per affrontare con coraggio e consapevolezza la loro
patologia. Essa non deve essere nascosta ai propri figli ma rivelata con semplicità ed amore adeguandola
alle capacità e alle competenze del bambino così da poterlo rassicurare sul loro amore per lui.
NON NASCONDANO IL DIABETE
Il rifiuto dei genitori di divulgare la diagnosi ai familiari più stretti o alle persone che popolano il
mondo del proprio figlio (maestre, amici) determina nel bambino l’acquisizione di un atteggiamento di
segretezza e di chiusura che, inevitabilmente, favorisce l’insorgenza della paura e del timore di essere
giudicati solo per “il cattivo funzionamento” del proprio corpo piuttosto che per la loro personalità o per
il proprio comportamento; ciò impedisce lo sviluppo dell’autostima, ostacolando e ritardando l’ingresso
e integrazione nel gruppo dei pari.
SIANO UNITI E COERENTI
La migliore garanzia che i genitori possono offrire per favorire un buon adattamento e una chiara
comprensione del diabete ai propri figli, è rappresentata da un’“unione serena e calorosa” basata sulla
reciproca comprensione. Le difficoltà e le ansie legate alla gestione della patologia possono generare o
intensificare ostilità o incomprensioni tra i coniugi o tra altri familiari che si riflettono sull’immagine che
il bambino si è costruito di sé ossia di un bambino cattivo responsabile delle difficoltà e delle discordie
familiari.
SIANO CAPACI DI DIRE “HO SBAGLIATO E HO BISOGNO DI AIUTO!”
È necessario capire che un buon genitore non è colui che non sbaglia o non commette errori, ma è
colui che si assume le proprie responsabilità, che ammette di aver sbagliato, che chiede aiuto all’equipe
diabetologia (medici, infermiere, psicologa) per affrontare la situazione, quando diventa insostenibile.
NON SI ANNULLINO COME COPPIA
È necessario che i genitori non si annullino come “coppia” per garantire al figlio tutto il sostegno
necessario, per assicurare regolarità nei ritmi alimentari e regolare la somministrazione dell’insulina. La
reazione dei genitori è quella di interrompere drasticamente le abitudini familiari per riorganizzare tutto
COMUNICAZIONI E POSTER
ENDOCRINOLOGIA
351
in funzione del diabete: molte mamme decidono di lasciare il lavoro nella convinzione che sia necessario
una vicinanza fisica costante con il figlio; altri genitori passano intere notti in bianco accanto al letto del
figlio o lo riportano a dormire nella loro camera.
Un sereno e graduale adattamento del bambino al diabete può avvenire soltanto se c’è la convinzione e
la consapevolezza che il proprio bambino non è diverso dagli altri perché ha diabete, ma è un bambino
come tutti gli altri che non deve essere iperprotetto e accontentato in tutto per compensare le privazioni
a cui è costretto.
COMUNICAZIONI E POSTER
352 ENDOCRINOLOGIA
OBESITÀ IN ETÀ EVOLUTIVA: MOTIVAZIONE PERSONALE E
COMPLIANCE TERAPEUTICA
M. Sticco1, O. Cavaliere1, V. D’Alessandro1, A. Caiazza1, G. Cannavale1, G. Valerio2, A. Franzese1
1
2
Dipartimento di Pediatria, Università Federico II
Dipartimento di Studi delle Istituzioni e dei Servizi Territoriali, Università Parthenope, Napoli
Il trattamento dell’obesità infantile è notoriamente gravato di alto numero di insuccessi e di drop-out.
L’impegno sanitario al trattamento è scoraggiato dal frequente fallimento degli sforzi effettuati.
Scopo
Valutare se la motivazione personale del paziente costituisce un motivo di migliorata risposta al
trattamento negli obesi in età evolutiva.
Sono stati osservati longitudinalmente 126 bambini o adolescenti obesi pervenuti nell’ambulatorio
del Dipartimento di Pediatria per obesità nel periodo 2005-2006, di cui 36 spinti da una motivazione
personale (gruppo A, 37.9%) e 90 spinti da famiglia/scuola/medico di famiglia (Gruppo B, 62.1%). Veniva
valutato il BMI z-score (CDC 2000) alla presentazione (tempo 0) e dopo 3, 6 e 12 mesi di follow-up. A tutti i
soggetti veniva prescritta una dieta moderatamente ipocalorica e incremento dell’ attività fisica.
Risultati
I pazienti del gruppo A avevano un’ età significativamente più elevata di quelli del gruppo B (11, 41 ±
1, 67 anni vs 9, 75 ± 2, 33 anni p< 0.0001), erano in prevalenza di sesso femminile (58, 3% vs 41, 6%, p =
0.06), mentre non differivano per gravità di obesità alla presentazione iniziale (BMI z-score 2.17±0, 29 vs
2.31±0.49). Il drop out a 12 mesi riguardava il 63, 8 % nel gruppo A e l’ 83% nel gruppo B (p = 0.017); non
vi erano differenze nelle percentuali tra i sessi (mediamente 80%), tranne che nei maschi del gruppo A
dove era del 40%. I gruppi A e B avevano la stessa entità di calo ponderale a 12 mesi (Delta BMI z-score -0,
77±0, 29 vs -0, 66±0, 37).
Conclusioni
La motivazione personale del bambino e dell’adolescente con obesità potrebbe essere un elemento
predittore di migliore riuscita del trattamento dell’obesità, come dimostrato dal minore numero di drop
out a 12 mesi. Inizialmente sono più motivabili gli adolescenti e i soggetti di sesso femminile, anche se
dopo un anno la minore percentuale di drop out riguarda i maschi. Bisognerebbe implementare nuove
strategie per aumentare l’adesione al trattamento a lungo termine dell’ obesità in età evolutiva.
COMUNICAZIONI E POSTER
ENDOCRINOLOGIA
353
Prevalenza del Sovrappeso e dell’Obesità nei Bambini della
II Infanzia. Indagine Multidistrettuale AUSL 6 Palermo
G. Anzelmo1, R. Malandrino1, F.P. Volpe2, V. Cucinella1 et al
1
2
U.O.C. di Pediatria P.O. di Partinico
Pediatria di Famiglia Prov. di.Palermo
Premessa
L’Obesità in Età Evolutiva, negli ultimi 25 anni, è notevolmente aumentata in tutto il mondo tanto da
costituire,adesso, una Emergenza Socio-Sanitaria Pediatrica per l’aumento di bambini con quadri
Dislipidemici,Steatosi Epatica,Sindrome Metabolica,NIDDM,Disturbi Psicosociali.
Scopo dell’Indagine
Valutare la prevalenza del sovrappeso e dell’obesità nei bambini della 2^ infanzia,in due classi d’età
omogenee: 1° gruppo 3 anni +/- 6 mesi e 2°gruppo 6 anni +/- 6mesi (nati nel 2001)
Materiali e Metodi
Costituzione dell’Equipe: n.6 Pediatri Ospedalieri(Partinico,Termini Imerese,Petraia Sottana) e n.16 Pediatri
di Famiglia operanti nell’AUSL 6 di Palermo
Lettera di adesione alle Scuole ed ai genitori degli alunni della 1^ classe elementare
Questionario sulle abitudini alimentari e sull’attività motoria dei bambini di 1^ elementare
Rilevazione dei dati antropometrici (peso ed altezza)
per i bambini di 3 anni +/- 6 mesi dal 7° Bilancio di Salute dei Pediatri di Famiglia ,
per i bambini di 6 anni +/- 6 mesi direttamente a scuola
Strumenti e procedure per la rilevazione dei dati
Statimetro, rigido o avvolgibile a parete, Bilancia aneroide,Abbigliamento dei bambini al momento della
rilevazione del peso: canottiera, mutandine e calzini.
Valutazione dei BMI con i Cut-off x età e sesso di Cole et al (BMJ 2000;320:1240-1243)
Correzione dell’età cronologica bei bambini (+/-3mesi)
L’indagine e stata condotta dal 15 Ottobre 2007 al 15 Dicembre 2007 in
N. 7 Distretti Sanitari dell’AUSL 6 di Palermo (n 4 in Provincia e n.3 a Palermo), ed ha coinvolto n.23
Direzioni Didattiche o Istituti Comprensivi (n.19 in Provincia, n. 4 a Palermo)
Risultati
Sono stati valutati n. 854 (M.463 F.391) bambini di 3 anni +/- 6mesi e n.1.513 (M 806 F.707) bambini
di 6 anni +/- 6 mesi con:
- Bambini in Eccesso di Peso il 23,37% e Obesi l’8,08% (femmina 8.18% maschio 7.99%) a 3 anni
- Bambini in Eccesso di Peso il 31,53%,e Obesi il 13,88% (femmina 14.71% maschio 13.15%) a 6 anni
La prevalenza dell’Obesità a 6 anni è stata intorno al 14% in tutti i Distretti Sanitari ,con la percentuale più
alta di bambini in Eccesso di Peso nel Distretto di Carini (36.41%)
Dai dati ricavati dai 1.124 questionari compilati risulta che solo il 2% dei genitori è cosciente
che il proprio bambino sia in eccesso di peso, che il 12% dei bambini non fa colazione,che il 98% fa lo
spuntino e la merenda ed i il 90% non fa attività motoria libera o in palestra.
Analisi dei dati
La prevalenza del Sovrappeso e dell’Obesità riscontrata nel nostro territorio nei bambini di 3 anni di età è
ancora più alta di quella riscontrata nel 2006 in una popolazione pediatrica del Salento da De Giovanni (L.
De Giovanni et al Pediatria Preventiva e Sociale 2006) mentre viene confermato l’aumento esplosivo(>8
punti %) di bambini in eccesso ponderale nel passaggio dai 3 ai 6 anni di età. Ciò non può non chiamare
in causa i pediatri ed i genitori, considerato che sino a questa età i bambini sono di esclusiva competenza
COMUNICAZIONI E POSTER
354 ENDOCRINOLOGIA
assistenziale pediatrica e l’Obesità è una malattia che nel 95% dei casi riconosce,come causa, un
aumentato e squilibrato introito alimentare ed una ridotta attività fisica.
Riflessioni
E’ deontologicamente corretto pensare all’obesità come una malattia ed attivarsi per trovare gli strumenti
per contenere adeguatamente questa epidemia.I pediatri e la famiglia genitoriale “allargata” dovrebbero
avere le competenze e gli strumenti adeguati per agire con successo,in questa fascia d’età.
E’ necessario che i pediatri continuino a seguire con attenzione l’alimentazione dei bambini,sia dal punto
di vista qualitativo che quantitativo,anche dopo il 1° anno di vita ,responsabilizzando adeguatamente sia
i genitori che i nonni e che la condizione di Sovrappeso o di Obesità venga rilevata e segnalata,dai Pediatri
Ospedalieri,come diagnosi secondaria,nei bambini ricoverati per altra patologia al fine di accrescerne la
consapevolezza nei genitori e nei medici di famiglia.
COMUNICAZIONI E POSTER
ENDOCRINOLOGIA
355
Sindrome autoimmune polighiandolare tipo II:
descrizione di un caso clinico
A. D’Apuzzo1, G. Miranda1, A. Miranda1, R. Coppola2
1
Clinica S.Lucia S.Giuseppe Vesuviano
Università Campus Biomedico - Roma
2
La malattia di Addison è un’insufficienza surrenalica di varia eziologia, caratterizzata nella forma acuta
da un quadro di schok e nella forma cronica da astenia, anoressia, alterazioni elettrolitiche (iposodiemia,
iperkaliemia) ed iperpigmentazione cutanea. La sua prevalenza sarebbe di 6 casi per 100000 abitanti, di
cui circa 4 della forma idiopatica. La distruzione primitiva della corteccia surrenalica è una delle cause più
frequenti di insufficienza in età pediatrica. La distruzione autoimmunitaria della ghiandola è la causa più
frequente, essendo divenute le lesioni tubercolari molto meno frequenti. Nella maggior parte dei casi,
sono reperibili anticorpi citoplasmatici anti-surrene, immunoglobuline bloccanti l’ACTH, e spesso sono
presenti autoanticorpi anti 21-idrossilasi. La pz. A.B., di anni 16, affetta da ipotiroidismo e in trattamento
con levotiroxina, viene alla n/s osservazione con un’anamnesi di astenia e stanchezza protratte; da qualche
mese riduzione dell’appetito e del flusso mestruale. E.O.: Condizioni generali discrete, magra, la paziente
riferisce della comparsa di numerose aree di iperpigmentazione cutanea da aver alterato il suo aspetto fi sico,
nonostante si fosse esposta al sole raramente. Lamenta inoltre malessere, indifferenza comportamentale,
perdita dell’affettività, calo ponderale e ipotensione posturale e desiderio insaziabile di sale da circa 1
anno, e sintomi di ipoglicemia (sudorazione e tremori). Esami significativi: Iposodiemia, iperkaliemia ed
ipocloremia e ipoglicemia..Nel sospetto di insufficienza surrenalica si dosano i corticosteroidi prima e
dopo il test di stimolo con ACTH (250 ùg di ACTH 1-24 in bolo rapido endovena), che non è in grado di
aumentare il tasso degli steroidi. Si ha inoltre diminuita escrezione dei 17 ketosteroidi e 17OH corticoidi,
bassi valori di aldosterone, aumento di TSH, presenza di anticorpi anti-treoglobulina e anti-perossisomi..
Nella norma l’eco addome, anticorpi antiendomisio e antitransglutaminasi, gli indici infiammatori, la
calprotectina fecale, EKG, Ecocardio, reazione alla Mantoux. Assente la ricerca di sostanze tossiche nelle
urine. Il morbo di Addison riconosce una patogenesi autoimmune, e va distinto dalla sindrome depressiva,
dall’uso di droghe, dalla celiachia, infezioni croniche, malattie infiammatorie croniche intestinali,, diabete
mellito, neoplasie. La malattia di Addison si associa alla alla candidosi mucocutanea cronica, celiachia,
ipoparatiroidismo, nell’ambito della sindrome poliendocrina tipo1 a trasmissione A.R. il cui gene è stato
isolato sul cromosoma 21, e alla tireopatia, celiachia e diabete mellito nella sindrome poliendocrina tipo
2. L’Addison nei maschi va differenziato dalla forma attenuata di Adrenoleucodistrofia, forma recessiva
legata all’X, a espressione in età adolescenziale e adulta, che per anni si può manifestare con sola
insufficienza surrenalica, e successivamente compaiono i segni neurologici. La paziente inizia terapia con
glicocorticoidi, mineralcorticoidi, tiroxina. Un successivo controllo a distanza di qualche anno evidenzia
una iperglicemia con positività degli anticorpi anti-insula, antibetacellule pancreatiche. Si ricercano gli
anticorpi antisurrene e anti 21-idrossilasi, che risultano positivi, Si pone pertanto diagnosi di Sindrome
autoimmune polighiandolare tipo II.
COMUNICAZIONI E POSTER
356 ENDOCRINOLOGIA
STATURA E INSULINO-RESISTENZA IN BAMBINI CON OBESITÀ AD
ESORDIO PRECOCE
G. Valerio1, O. Cavaliere, MR Licenziati3, G. Vortice, A. Caiazza, A. Franzese2
1
Dipartimento di Studi delle Istituzioni e dei Servizi Territoriali, Università Parthenope, Napoli
Dipartimento di Pediatria, Università Federico II Napoli
3
AORN Cardarelli, Napoli
2
L’alta statura, sia essa assoluta o relativa al potenziale genetico, è un carattere frequentemente associato
all’obesità pediatrica. Ciò potrebbe essere spiegato dall’aumento delle concentrazioni della forma libera
di IGF-1, secondario all’ iperinsulinismo. Lo scopo del nostro lavoro è stato quello di valutare le relazioni
tra statura, eccesso ponderale e insulino-resistenza in bambini con obesità precoce.
I dati antropometrici (peso, altezza, BMI, circonferenza vita) e l’ HOMA-IR (glicemia x insulina/22.5) utilizzato
come indice di insulino-resistenza sono stati valutati in 88 bambini (36 maschi) con obesità precoce (BMI
> 95° percentile, età media di 5.8 anni, range 1.5-10 anni; durata di obesità 3.5 ± 1.8 anni), reclutati presso
il Dipartimento di Pediatria, Università Federico II, Napoli. Altezza e BMI sono stati trasformati in z-score
secondo i parametri di riferimento del CDC 2000.
Sessantanove bambini (78.4%) avevano obesità severa (z BMI > 2.5); 21 bambini (24%) presentavano alta
statura (z Altezza > 2 SD); 27 bambini (30.7%) presentavano insulino-resistenza (HOMA-IR > 2.5). I dati
antropometrici sono stati confrontati tra bambini insulino-resistenti (IR) e non insulino-resistenti (NIR). I
risultati sono mostrati in tabella.
Lo z score dell’ altezza correlava con lo z BMI (r = 0.198, p = 0.025) e con la circonferenza vita (r 0.367, p =
0.0001), mentre l’ HOMA-IR correlava positivamente con lo z-BMI (r 0.245, p = 0.024), z altezza (r = 0.244
p = 0.024) (analisi della correlazione parziale, controllando per età e sesso). In un modello di regressione
multipla, l’ HOMA-IR era indipendentemente influenzato da sesso, età, z altezza e zBMI (r2 = 0.283, r2
corretto 0.248).
In conclusione, una maggiore crescita staturale contraddistingue i bambini prepuberi obesi con insulinoresistenza. Insieme con l’età, il sesso e la severità dell’ eccesso ponderale essa è un predittore indipendente
di insulino-resistenza.
COMUNICAZIONI E POSTER
ENDOCRINOLOGIA
357
STUDI DELLA PREVALENZA-CONCORDANZA DEL DAIBETE MELLITO
TIPO 1 IN COPPIE DI GEMELLI ITALIANI: REGISTRO ITALIANO GEMELLI
A. Piscopo, D. Iafusco, F. Casaburo, L. Russo, L. Nisticò, M.A. Stazi, R. Cotichini, A. Galderisi,
F. Prisco
Seconda Università di Napoli, Dipartimento di Pediatria
Obiettivi
Valutare il contributo dei fattori ambientali e genetici allo sviluppo del Diabete Mellito tipo 1 (DMT1)
attraverso lo studio della concordanza/discordanza di malattie in coppie di gemelli reclutati attraverso
registro nazionale.
Disegno
I gemelli sono una risorsa unica per la ricerca medica nell’analisi delle possibili cause di numerose
patologie, infatti una concordanza di malattia nelle coppie monozigoti maggiore rispetto ai dizigoti, ci
porta alla definizione di una patologia prevalentemente genetica mentre un tasso di concordanza uguale
nei due gruppi orienta verso una maggiore influenza di fattori ambientali. Diversi sono gli studi in merito,
ma fino ad oggi mancava, in letteratura, il dato italiano. Popolazione: 13 coppie di gemelli MZ e 24 DZ,
almeno uno dei membri delle coppie è affetto da DMT1. Metodi: Uno dei bias più frequenti negli studi
sui gemelli è l’errore di selezione del campione, per cui, affidandosi alla memoria dei curanti, si rischia di
includere prevalentemente gemelli in cui entrambi i membri della coppia siano malati. Una selezione
attraverso registro evita tale possibile errore. Nell’ambito del Gruppo di Studio sul Diabete della SIEDP
abbiamo richiesto a tutti i Centri di Diabetologia ed Endocrinologia Pediatrica italiani gli elenchi completi
dei loro pazienti, abbiamo poi confrontato i loro codici fiscali con l’anagrafe del registro nazionale gemelli
presso l’Istituto Superiore di Sanità, ottenendo coloro che “probabilmente” avevano un gemello. I singoli
centri hanno poi verificato il dato confermando la gemellarità.
Materiali e metodi
Dopo aver ricevuto il consenso informato dei partecipanti, entrambi i gemelli hanno compilato un
questionario, volto ad analizzare le caratteristiche dei componenti della coppia (somiglianza, ordine di
nascita, peso alla nascita, gruppo sanguigno), la data d’esordio di DMT1 e la presenza di altre patologie
autoimmuni associate (celiachia, Crohn, Graves, Hashimoto, LES, anemia perniciosa, psoriasi, vitiligine,
RCU, AR, SM, vitiligine, corea di Huntington). La valutazione della zigosità e lo studio di prevalenza degli
alleli HLA più comunemente associati al DMT1 saranno effettuati con l’analisi del DNA ottenuto da un
campione di saliva di entrambi i membri della coppia (EngOrageneKit).
Risultati
Concordanza nei MZ 30,7%; nei DZ 4,1%. Intervallo esordio di malattia nei MZ da 34gg a 1903gg.
Nei gemelli discordanti per malattia non c’è una differenza di peso alla nascita (p=0,347). Nei gemelli
concordanti per malattia non c’è una differenza di peso alla nascita tra chi ammala prima e dopo (p=0,8)
Tra tutti i gemelli, concordanti e discordanti per diabete non c’è mai concordanza per altre patologie
autoimmuni.
Discussione
I nostri dati concordano con i tassi di concordanza osservati in letteratura (0% e 3,8% nei dizigoti e 21%
e 70% nei monozigoti). La valutazione della concordanza nei MZ e nei DZ ci permette di fornire un
ulteriore dato per la definizione eziologica del DMT1, un orientamento alla ricerca epidemiologica dei
fattori di rischio e all’analisi genetica. Nonostante negli ultimi anni, per un sempre maggior numero di
casi di diabete in età pediatrica si sia individuata una eziologia genetica e un pattern di trasmissione ben
definiti, il DMT1 a eziologia sconosciuta resta la forma più frequente di diabete in questa popolazione.
Ribadiamo, comunque, alla luce della esperienza clinica e dei numerosi dati di letteratura che per il DMT1
COMUNICAZIONI E POSTER
358 ENDOCRINOLOGIA
non si può parlare di ereditarietà ma di vulnerabilità, e sarà prezioso nel colloquio clinico poter fornire
al paziente la stima della probabilità di trasmettere la malattia. (studio realizzato con la Collaborazione
dell’Istituto Superiore di Sanità Prof. A.Stazi, dr.L.Nisticò, dr.R.Cotichini e del Gruppo di Studio sul Diabete
della SIEDP, Coordinatore dr. D.Iafusco).
COMUNICAZIONI E POSTER
ENDOCRINOLOGIA
359
Telarca precoce isolato, follow-up di una coorte
A. D’Apuzzo, G. Miranda, A. Miranda
Clinica S.Lucia S.Giuseppe Vesuviano
Il telarca precoce isolato è un’entità clinica relativamente frequente in pediatria. E’ un fenomeno benigno
che va differenziato dalla pubertà precoce. Abbiamo seguito una coorte di 10 bambini affetti da telarca
prematuro. Nel 75% dei casi la tumefazione mammaria compariva prima dei due anni. Nel 20% dei casi
nel periodo neonatale. Lo sviluppo mammario nella maggior parte dei casi era bilaterale e simmetrico e
non si accompagnava a distanza di anni a pubarca precoce, né ad età ossea avanzata. I valori sierici delle
gonadotropine e del deidroepiandrosterone erano di tipo prepubere, i valori dell’estradiolo inizialmente
erano aumentati per decrescere successivamente.
La sequenza degli eventi che caratterizzano il normale sviluppo puberale sia nel maschio sia nella
femmina è ben documentato, nella femmina, il primo segno visibile dell’attivazione dell’asse ipotalamoipofisi-ovaio e della secrezione gonadica di estrogeni è la comparsa del bottone mammario (telarca),
che si realizza normalmente tra i 10 anni e mezzo e gli 11 anni. La comparsa del pelo pubico (pubarca) e
ascellare(axillarca) è dovuta invece alla secrezione di androgeni da parte del surrene. Questo fenomeno,
definito adrenarca, spesso precede o comunque accompagna lo sviluppo puberale ma non è espressione
di attivazione gonadica e ha luogo normalmente tra i 6 e gli 8 anni. Esiste un ampio range di variabilità
individuale con cui possono comparire e sviluppare i vari caratteri sessuali secondari. In presenza di una
bambina con segni di sviluppo precoce, bisogna distinguere tra un ampio spettro di manifestazioni che
vanno da condizioni benigne e transitorie, come il telarca prematuro alla pubertà precoce. Poiché nella
pubertà normale non tutti i caratteri sessuali maturano nello stesso tempo, quindi il telarca potrebbe
rappresentare solo il primo segno di un completo processo di sviluppo puberale. L’anamnesi, la
valutazione clinica e il riscontro di una maturazione ossea non avanzata ci indirizzeranno verso il carattere
non evolutivo della manifestazione e un monitoraggio clinico nei 6-12 mesi successivi sarà sufficiente
a confermare la diagnosi. Le cause del telarca prematuro includono un’attivazione parziale dell’asse
ipotalamo-ipofisi-gonadi, un deficit dell’involuzione follicolare, disturbi che producono estrogeni quali
la sindrome di McCune-Albright o i tumori secernenti estrogeni, e l’esposizione a estrogeni esogeni. Le
condizioni che possono apparire simili allo sviluppo del seno includono anomalie al seno congenite,
neurofibromi, sarcomi, cisti da inclusione epiteliale, estasia duttale e mastite.
COMUNICAZIONI E POSTER
360 ENDOCRINOLOGIA
UN NUOVO PARAMETRO DIAGNOSTICO E PROGNOSTICO:
LA POSOLOGIA INSULINICA TOTALE ( PIT ) ENDOVENOSA
ALL’ESORDIO NEL DIABETE MELLITO TIPO1
F. Casaburo, D. Iafusco, A. Piscopo, L. Russo, C. Pelliccia, F. Prisco
Seconda Università di Napoli, Dipartimento di Pediatria
Premesse
Tutti i pazienti che giungono in chetoacidosi presso il Servizio di Diabetologia pediatrica G. Stoppoloni,
vengono trattati secondo il protocollo G.E.T.REM.( Glucose Evaluation Trial REMission ) che prevede la
somministrazione contemporanea, per via
endovenosa, di liquidi (soluzione fisiologica per glicemia superiori a 250 mg/dl; soluzione glucosata al
10% per glicemia inferiori a 250 mg/dl con chetoni e soluzione glucosata al 5% per glicemia inferiori a
250 mg/dl senza chetoni + potassio) tramite l’utilizzo di una macropompa e di insulina rapida tramite
una micropompa.1 La velocità di infusione dell’insulina varia a seconda dei valori glicemici riscontrati
ogni ora per le prime 4 ore e ogni due ore successivamente. Questo tipo di reidratazione lenta comporta
un netto miglioramento delle condizioni cliniche del paziente e consta di due fasi: una prima, di
durata variabile,che va dal ricovero fino alla normalizzazione della chetonemia; ed una seconda fase,
immediatamente successiva, che dura 72 ore.2
Obiettivi
L’obiettivo del nostro studio è stato quello di correlare la PIT con la gravità dello squilibrio metabolico
all’esordio e con la prognosi metabolica nei primi due anni successivi alla diagnosi.
Materiali e metodi
E’ stato individuato ed utilizzato un parametro, definito Posologia Insulinica Totale ( PIT ) che rappresenta
la quantità di insulina somministrata durante l’intera durata del protocollo G.E.T.REM. ed è espressa in UI/
Kg/h.
Sono stati presi in considerazione 69 pazienti con diabete tipo 1 neodiagnosticato tra il 31/12/2004 e il
1/1/2006, non pre-trattati presso altre strutture e con all’esordio un grado variabile di compromissione
metabolica, dalla sola iperglicemia alla chetoacidosi grave; la loro età media era di 8,8+3,4 anni ( range
1,9-16,1 anni ) e la HbA1c all’esordio media era di 10,9+1,8 % ( range 6,8-14 % ) . Di ciascun paziente è
stata calcolata la PIT, quindi è stata misurata la mediana di tali valori ( 0,0379 UI/Kg/h ), in base alla quale
i pazienti sono stati divisi in due gruppi, con maggiore o minore fabbisogno insulinico. Tenendo sempre
presente tale suddivisione, la PIT è stata poi correlata a vari parametri dell’esordio ed oltre.
Risultati
La PIT si è rivelata correlata in maniera statisticamente significativa con la chetonemia all’esordio (
p=0,00001), con la glicemia all’esordio (p=0,00001),con la glicemia media delle prime 24 ore (p=0,00001)
( Figg. 1, 2, 3 ).
Nei pazienti con esordio meno grave, inoltre, la dose insulinica necessaria a mantenere il controllo
metabolico è significativamente inferiore all’esordio e si mantiene tale per i almeno i primi due anni di
malattia ( Fig. 4 ).
Conclusioni
La PIT può essere considerato un parametro correlato con la gravità all’esordio e con i primi 15 mesi di
malattia.
COMUNICAZIONI E POSTER
ENDOCRINOLOGIA
361
UNA NUOVA FORMA DI DIABETE NON AUTOIMMUNE IN ETA’
PEDIATRICA: IL DIABETE DA MUTAZIONE DEL GENE DELL’INSULINA
C. Gemma, D. Iafusco, S. Guercio Nuzio, L. Russo, F. Pisani, F. Prisco
Seconda Università di Napoli, Dipartimento di Pediatria
Premessa
Il diabete mellito neonatale è una condizione metabolica rara (1: 400000–1:500000 neonati), caratterizzata
da iperglicemia, per difetto della funzione e/o della quantità delle β-cellule pancreatiche, che insorge entro
il primo mese di vita, richiede terapia insulinica e ha durata superiore a due settimane. Si distinguono due
varianti cliniche: il diabete neonatale transitorio (che rappresenta il 50-60% dei casi di Diabete Neonatale
e necessita di terapia insulinica per un periodo massimo di 540 giorni) e il diabete neonatale permanente
(che non va incontro a remissione). Sono stati descritti diversi casi di diabete neonatale transitorioricorrente, nei quali si è verificata la ripresa della malattia dopo un periodo più o meno lungo di benessere:
la ricorrenza si verificherebbe in circa il 40% dei casi di diabete neonatale transitorio. Nonostante tale
definizione, nelle varie casistiche descritte in letteratura sono diversi i casi “etichettati” come diabete
neonatale ed esorditi oltre tale periodo suggerendo, pertanto, la definizione di diabete early-onset. Se
alla definizione temporale vogliamo sostituirne una patogenetica, il cut-off tra la maggioranza di casi di
diabete non autoimmune ad insorgenza precoce e i primi casi di diabete autoimmune può essere portato
a sei mesi di vita.
Il PNDM è geneticamente più eterogeneo ed è associato a mutazioni in 8 geni differenti (IPF-1, EIF2AK3,
GCK, FOXP3, KCNJ11, PTF1A, ABCC8, GLIS3). Mutazioni della subunità Kir6.2, codificata dal gene KCNJ11,
sono responsabili da un terzo a metà dei casi di PNDM nella razza caucasica. Le mutazioni dominanti di
ABCC8 ammontano al 7-12% dei casi di diabete. I pazienti con PNDM hanno bisogno di terapia insulinica
ma quelli con mutazioni di KCNJ11 e ABCC8 possono essere trattati con successo con sulfaniluree.
Obiettivi
In quasi la metà dei casi documentati in Italia le cause genetiche restano sconosciute: la popolazione di
37 pazienti della coorte italiana con diabete “early-onset” presentava in 19 casi mutazioni di KCNJ11 e
in uno mutazione di ABCC8. Sulla base di tale premessa, il Gruppo di Studio del Diabete della SIEDP ha
intrapreso negli anni scorsi uno studio genetico, immunologico e metabolico in quei pazienti ancora
senza diagnosi allo scopo di verificare ulteriori caratteristiche patogenetiche responsabili per l’insorgenza
precoce del diabete mellito.
Metodi
Considerando alcune caratteristiche metaboliche, come il livello di C-peptide al tempo della diagnosi
sorprendentemente alto in uno di questi pazienti, si sono trovate alcune analogie con l’IPERINSULINEMIA
FAMILIARE, causata da mutazioni puntiformi nelle sequenze codificanti la proinsulina. Si è allora ipotizzato
che mutazioni del gene dell’insulina potessero dar vita ad alcune forme di diabete mellito ad esordio
precoce e si è sequenziato il gene Ins di questi pazienti con PNDM da mutazioni sconosciute.
Risultati. I genetisti del gruppo di studio sul Diabete Mellito Early-onset della SIEDP hanno identificato 7
mutazioni eterozigoti del gene Ins in 10 probandi con diabete early-onset. In tutte, tranne 2 famiglie, la
mutazione è originata de novo. Tutti i pazienti erano nati da gravidanza normocondotta: in 9/10 il peso
alla nascita era vicino alla norma. Questo riscontro era in netto contrasto con il peso alla nascita di pazienti
con mutazioni KCNJ11 (2,455 +/- 370 g). Se i pazienti erano stati ricoverati in ospedale per iperglicemia
con chetosi. Al tempo della diagnosi il C-peptide era identificabile in 8 su 10. La diagnosi di diabete nei
pazienti con mutazioni di INS può presentarsi dopo il sesto mese di vita.
Gli studi di traduzione supportano l’ipotesi che le mutazioni del gene Ins riportate nei pazienti con PNDM
causano misfolding proteotossico della proinsulina (cattivo avvolgimento), con ingorgo del RE delle
β-cellule e attivazione di segnali apoptotici a valle: le proinsuline mutanti, oltre alla perdita di funzione,
COMUNICAZIONI E POSTER
362 ENDOCRINOLOGIA
possono anche compromettere la vitalità delle β-cellule (aumento di funzione tossica).
Conclusioni
Le mutazioni del gene INS sono la seconda causa (10 di 37) dopo le mutazioni attivanti di KCNJ11 (19 di
37). I bambini con mutazione del gene INS possono presentarsi clinicamente come i pazienti con diabete
tipo 1. Ciò è particolarmente interessante, visto che l'età della diagnosi del diabete tipo 1 è diminuita nel
corso degli anni, con molte diagnosi prima o attorno ai 4 anni di età, mettendo in evidenza la necessità
di conoscere lo stato dei markers autoimmuni. Proponiamo di sostituire il termine PNDM con quello di
DIABETE MONOGENICO DELL’INFANZIA, definizione più ampia che può includere ogni forma di diabete
– permanente o transitoria – riflettendo sulla consapevolezza che l’esordio dell’iperglicemia si estende, a
volte, ben oltre il periodo neonatale, esordendo durante il primo anno di vita e riconoscendo come causa il
difetto di un singolo gene. Inoltre, una migliore comprensione dei meccanismi che portano a disfunzione
delle β-cellule in pazienti con diabete causato da una mutazione del gene INS sarà fondamentale per
definire nuove terapie, soprattutto se si considera la possibilità di aumentare la secrezione di insulina
attraverso l’upregulating del normale allele del gene INS.
EPIDEMIOLOGIA
Momenti congressuali
COMUNICAZIONI E POSTER
364 EPIDEMIOLOGIA
Analisi dei flussi al P.S. - Ospedale Santobono nel primo
semestre 2008
A. Ciao, B. Borrelli, C. Ciao, V. Tipo, E.M. Laurito
AORN Santobono Napoli
Scopo del lavoro è individuare le attuali problematiche organizzative e comportamentali prospettando
le soluzioni a migliorare la qualità del servizio stesso. Nel nostro studio sono state presi in considerazione
diversi indicatori quali età, sesso, provenienza geografica dell’utenza, tipologia della patologia osservata,
andamento temporale dei flussi, percentuale di ricovero nonchè l’interfaccia con i diversi servizi
territoriali.
Il P.S. dell’ospedale Santobono per la sua localizzazione ma soprattutto per la sua decennale precipua
attività pediatrica e tipologia, ovvero presenza nel suo ambito di uu.oo.specialistiche, ha un numero
annuale di accessi superiore ai 70.000, la maggior parte dei quali di interesse pediatrico. Tale trend si è
confermato anche nel semestre in esame dove il numero di accessi è stato di 36420 di cui 26.870 dedicati
esclusivamente all’area pediatrica. L’età maggiormente rappresentata era compresa tra 0 e 5 anni con
prevalenza, anche se di poco, del sesso femminile (56%). Per quanto riguarda la provenienza geografica
dell’utenza circa il 44% era metropolitana mentre il 50% della provincia ed infine il 6% apparteneva a
popolazione di altre province campane. Le patologie più frequenti riscontrate erano a carico dell’apparato
respiratorio (41%), dell’apparato digerente (32%), dermatologiche (16%), altre (11%). Analizzando, poi,
l’affluenza settimanale si evidenziava un notevole incremento di prestazioni nel week end rispetto a quella
nei giorni infrasettimanali nonché una distribuzione giornaliera bimodale con picchi a fine mattinata e nel
tardo pomeriggio/prima serata.Il ricovero rappresentava il 10% di tutti gli accessi nel cui ambito quello a
bassa/media complessità era prevalente (68%).
Risulta evidente che l’enorme numero di prestazioni al ns.P.S. riconosce diverse cause quali “mores
partenopeae” ma anche la mancanza di continuità assistenziale specialistica nei fine-settimana ed uno
scollamento tra ospedale e servizi territoriali. Tale marea montante prestazionale a volte condiziona
negativamente la qualità della prestazione stessa con ricoveri per patologia a bassa /media complessità.
Fig. 1 percentuale di accessi in P.S. per fasce di età
Fig.2 percentuale delle patologie più frequentemente riscontrate in P.S.
GASTROENTEROLOGIA E NUTRIZIONE
Momenti congressuali
COMUNICAZIONI E POSTER
366 GASTROENTEROLOGIA E NUTRIZIONE
Acido ursodesossicolico nell’ipertransaminasemia cronica
sine causa in età pediatrica
G. Ranucci, F. Ferrari, A.M. Salzano, A. Vicinanza, V. Terlizzi, M. Tufano, F. Lombardi, S.
Minichiello, F. Cirillo, R. Iorio
Dipartimento di Pediatria, Università di Napoli Federico II
Obiettivi
L’acido ursodesossicolico (UDCA) ha molteplici proprietà: fluidificanti la bile, antiapoptotiche,
citoprotettive, antiossidanti, immunomodulatrici e stabilizzanti le membrane. Attualmente è largamente
impiegato in età pediatrica per il trattamento delle epatopatie colestatiche. E’ stato riportato che in
circa il 13% di bambini con ipertransaminasemia cronica non viene identificata alcuna causa. L’efficacia
dell’UDCA nei pazienti pediatrici con ipertransaminasemia cronica sine causa non è stata finora valutata.
Il presente studio era finalizzato a valutare la risposta biochimica alla terapia con UDCA in un gruppo
di bambini con ipertransaminasemia cronica sine causa afferenti al Dipartimento di Pediatria dell’AOU
Federico II di Napoli.
Pazienti e metodi
Sono stati studiati retrospettivamente 21 pazienti (13 maschi) con ipertransaminasemia cronica sine
causa, seguiti presso la nostra struttura dal Dicembre 1993 al Luglio 2008. In tutti i pazienti erano escluse
le cause maggiori di ipertransaminasemia: epatiti virali, epatopatie genetico-metaboliche, malattia
celiaca, epatiti autoimmuni, epatopatia steatosica da obesità, patologie delle vie biliari diagnosticabili
all’ecografia, patologie extraepatiche (ipotiroidismo, miopatie). Di tutti i pazienti erano analizzate: le
transaminasi e la GGT alla diagnosi e durante il trattamento con UDCA.
Risultati
Tra i 21 pazienti (13 maschi) con ipertransaminasemia cronica sine causa (età mediana alla diagnosi 80
mesi, range 7-145), 11 (52%) avevano ipertransaminasemia isolata, i restanti 10 (48%) avevano anche un
aumento della GGT. Nessun paziente era iperbilirubinemico. Alla diagnosi, 7 pazienti (33%) avevano storia
di dolori addominali, mentre 14 (66 %) erano asintomatici; cinque pazienti (23%) avevano epatomegalia,
solo 2 (9%) avevano splenomegalia. All’esordio, i livelli sierici medi delle transaminasi erano: ALT 228,
4 ± 207, 9 UI/L; AST 145, 2 ±153, 7. Nei pazienti con iperGGT i livelli sierici medi all’esordio erano di 86,
3 ± 56, 1 UI/L. I 21 pazienti erano trattati con UDCA ad una dose media 15 mg/kg/die e monitorati per
un periodo mediano di 48 mesi (range 2-168). Quattro pazienti (19%) risultavano non-responder alla
terapia. Dei 17 pazienti (80%) responder alla terapia: tredici (76 %) normalizzavano le transaminasi dopo
un periodo mediano di 3 mesi (range 1-17) e attualmente sono ancora in terapia con UDCA; due pazienti
(11%) mostravano una riduzione media del 67, % dei valori delle transaminasi; 2 (11%) normalizzavano le
transaminasi dopo un periodo mediano di 2, 5 mesi (range 1-4) e attualmente mantengono valori normali
anche dopo la sospensione dell’UDCA. Dei 13 pazienti che sono ancora in terapia con UDCA dopo aver
normalizzato le transaminasi, in 10 pazienti (76%) è stata tentata la sospensione della terapia e in tutti si è
avuto un incremento dei valori delle transaminasi in un periodo mediano di 5, 5 mesi (range 2-17). Negli
stessi pazienti la ripresa del trattamento con UDCA era seguita da normalizzazione delle transaminasi
in un periodo mediano di 4 mesi (range 1-20). L’UDCA-dipendenza era pertanto dimostrata in 10 dei 21
pazienti studiati (47%).
Conclusioni
Nel nostro gruppo di pazienti con ipertransaminasemia cronica sine causa, la terapia con UDCA si è
dimostrata efficace nel ridurre i valori delle transaminasi nell’80% dei casi. L’11% di questi pazienti risolveva
l’ipertransaminasemia mantenendo livelli normali di transaminasi off-therapy. Nel 58% dei bambini si
dimostrava invece una stretta dipendenza della normalizzazione delle transaminasi dalla terapia con
UDCA, facendo ipotizzare un meccanismo patogenetico sensibile a tale farmaco.
COMUNICAZIONI E POSTER
GASTROENTEROLOGIA E NUTRIZIONE
367
ASSOCIAZIONE TRA NODULARITÀ ANTRALE, GASTRITE SEVERA,
SIEROLOGIA POSITIVA PER CagA, eta’, sesso e gruppo sanguigno
IN BAMBINI AFFETTI DA HELICOBACTER PYLORI
T. Sabbi, M.G. Baiocchini, M. Palumbo
U.O.Pediatria Ospedale Belcolle, Viterbo
Introduzione
Helicobacter pylori (Hp) è associato a gastrite ed ulcera peptica in età pediatrica. E’ ben noto che antigeni
dei gruppi sanguigni sono in relazione con lo sviluppo di ulcera peptica e cancro gastrico.
Scopo. Determinare l’associazione tra nodularità antrale, sierologia positiva per cagA, età, sesso, gruppo
sanguigno e patologia da Hp in età pediatrica.
Metodi
25 pazienti (15 Maschi; range età 3-18 years; età media 9 years) sottoposti ad esofagogastroduodenoscopia
con biopsie antrali (esame istologico e test rapido all’ureasi) per
il sospetto di una patologia del tratto gastrointestinale superiore. In tutti i pazienti erano presenti gli
anticorpi IgG antiHp e la Cag A e i gruppi sanguigni sono stati determinati con le tecniche standard. Per
ogni paziente sono stati raccolti i dati relativi ad età e sesso.
Risultati
In 19 bambini (76%) riscontrata la presenza dell’Hp all’esame istologico (colorazione Giemsa) e al test
rapido all’ureasi. 15 di questi 19 (79%) pazienti positivi avevano anche una sierologia con valori patologici
della CagA. L’esame endoscopico dei 19 bambini affetti evidenziava iperemia e fragilità della mucosa
dell’antro gastrico in 7 di loro (37%), mentre l’aspetto di nodularità antrale si riscontrava negli altri 12 (63%)
bambini. L’esame istologico di tutti i pazienti affetti mostrava gastrite attiva microerosiva e gastrite cronica.
I bambini con sierologia positiva per CagA presentavano un aspetto endoscopico caratterizzato da più
intensa iperemia della mucosa dell’antro gastrico, associata ad importante infiltrato linfoplasmacellulare
ed a lesioni degenerative e vacuolari dell’epitelio gastrico, evidenziate all’esame istologico. I 6 pazienti
(24%) non affetti, che avevano anche la sierologia per CagA negativa, mostravano una mucosa gastrica di
aspetto macroscopicamente normale, ma presentavano iperemia della regione cardiale ed erosioni del
III esofageo distale. Nei pazienti non affetti l’esame istologico delle biopsie gastriche risultava normale.
Come anche rilevato in altri studi, anche noi abbiamo riscontrato che la sieropositività per Hp aumenta
con il crescere dell’età e che non ci sono differenze tra maschi e femmine. Allo stesso modo la sierologia
per Hp non mostra differenze tra i diversi gruppi sanguigni.
Conclusioni
La nodularità antrale associata alla sierologia positiva per CagA, in età pediatrica, è indice della presenza
dell’infezione da Hp ed è marker di gastrite di grado severo. Non abbiamo riscontrato associazione tra la
presenza dell’Hp e nessuno in particolare dei gruppi sanguigni.
COMUNICAZIONI E POSTER
368 GASTROENTEROLOGIA E NUTRIZIONE
“Bile spessa”: causa di ipertransaminasemia
M. Tumminelli1, L.G. Tumminelli1, L. Nicosia2, C. D’Aleo3, S.Attardo3, G. Tumminelli3
1
Università di Palermo
U.O. di Medicina interna Ospedale “Maddalena Raimondi” S.Cataldo ASS n°2
3
U.O. di Pediatria e Neonatologia Ospedale “Maddalena Raimondi” S.Cataldo ASS n°2
2
L’ipertransaminasemia può fare parte di un quadro clinico particolare oppure essere un reperto
laboratoristico occasionale in assenza di sintomatologia. Può essere di origine virale, da intossicazione da
farmaci o droghe, da malattie metaboliche, da epatite su base autoimmune o da patologie biliari.
Materiali e metodi
Trattasi di bambina dell’età di 12 anni giunta alla nostra osservazione per dolore epigastrico irradiantesi
al dorso e all’ipocondrio destro insorto improvvisamente all’incirca quattro giorni prima. All’anamnesi
prossima si segnala l’insorgenza, circa 20 giorni prima, episodio di flogosi delle alte vie respiratorie,
trattato con Eritromicina per circa 8 giorni. All’E.O. si rileva condizioni generali discrete, fegato debordante
3 cm dall’arcata costale di consistenza parenchimatosa e leggermente dolente alla palpazione, Segno di
Murphy positivo. Milza nei limiti della norma. Nulla da rilevare a carico dei rimanenti organi e apparati.
Gli esami di laboratorio danno i seguenti valori: G.R 4500/mm3; Hb 13.1 g/dL; Ht 39.1%; G.B. 10 600
cell/mm3(neutrofili 69.7%; linfociti 17%; monociti 7.6%); Bil 1.10 mg/dL; Bil Diretta 0.48 mg/dL; CK, ALP,
Amilasi, lipasi, EMA e Transglutaminasi negativi; LDH 585 U/I, AST 301 U/l, ALT 301 U/l, GGT 120, Ves 1h 20,
PCR 21.1 mg/l, Trigliceridi nella norma, Colesterolo totale, Colesterolo HDL e Colesterolo LDL nei range
della norma. Markers virologici per virus epatitici maggiori e minori negativi, Sideremia e Cupremia nella
norma.
L’ecografia epatica mette in evidenza statosi epatica di media entità. La colecisti, ben distesa, presenta
discreto strato di bile densa.
Dopo 2 mesi di terapia con Deursil, il reperto ecografico è rimasto invariato;non è stata segnalata
sintomatologia dolorosa all’epigastrio né all’ipocondrio destro
Conclusione
Il caso riportato è meritevole di segnalazione perché di fronte ad un’aumento marcato delle transaminasi
bisogna pensare anche in età pediatrica, ad una patologia epatobiliare non necessariamente litiasica.
Bibliografia
1. Iorio R, et al. Hypertransaminasemia in childhood as a marker of genetic liver disorders. J Gastroenterol
2005;40:859-60
2. Daniel S, Ben-Menachem T, Vasudevan G, et al. Prospective evaluation of unexplained chronic liver
transaminase abnormalities in asymptomatic and symptomatic patients. Am J Gastroenterol 1999;94: 3010-4.
3. Dossing M, Sonne J. Drug-induced hepatic disorders. Incidence, management and avoidance. Drug Saf 1993;
9: 441-9.
4. A. Cuadrado and J. Crespo Hypertransaminasemia in patient with negative viral markers
5. Rev Esp Enferm Dig 2004;96:484-500,
COMUNICAZIONI E POSTER
GASTROENTEROLOGIA E NUTRIZIONE
369
COLESTASI INTRAEPATICA FAMILIARE PROGRESSIVA DI TIPO 3 IN DUE
FRATELLI
D. Cioffi, S. Maddaluno, C. Veropalumbo, I. De Napoli, C. Gentile, G. Capuano, P. Vajro
Dipartimento di Pediatria, Università di Napoli, “Federico II”
Introduzione
La colestasi familiare intraepatica progressiva PFIC di tipo 3 è una epatopatia cronica colestatica
che può evolvere in cirrosi e insufficienza epatica. E’ caratterizzata da elevati livelli sierici di
gammaglutammiltranspeptidasi (GGT) ed è causata da mutazioni del gene MDR3 (ABCB 4). I casi sinora
descritti in letteratura pediatrica con caratterizzazione genetica ed immunoistochimica sono ancora
pochi (1).
Scopi
Scopo del presente abstract è pertanto riportare la nostra esperienza relativa a 2 fratelli affetti da questo
raro disordine.
Casistica
Olimpia (6 anni e 5 mesi) e Luigi (4 anni e 6 mesi) sono 2 fratelli nati da genitori non consanguinei. I
primi segni della malattia sono comparsi all’età rispettivamente di 2 e 13 mesi di vita con ittero, prurito
ed epatomegalia. Un accurato iter diagnostico differenziale ha permesso di escludere le principali cause
di colestasi su base virale, autoimmune, strutturale, endocrina e genetico-metabolica. Per la presenza
di elevati livelli di GGT e di acidi biliari sierici associati a proliferazione duttulare all’istologia epatica in
assenza di evidenti segni di ostacolo sulla via biliare principale (Ecografia; Colangio RMN a sequenza
veloce) sono state avviate indagini miranti ad escludere la PFIC di tipo 3.
L’esame della bile ottenuta mediante sondaggio duodenale ha rivelato l’assenza dei fosfolipidi biliari.
La immuno-colorazione della biopsia epatica con anticorpi anti-MDR3 (in collaborazione con l’Istituto di
Anatomia Patologica di Napoli e di Basilea) evidenziava l’assenza della proteina MDR3 in entrambi.
Il risultato dell’indagine genetica (in collaborazione con il Laboratorio di Genetica Medica del Policlinico
di Milano) mostrava le stesse 2 mutazioni missense: c.2168 G>A (exon17)/p.G723E (TM7) + c.3577G>A
(exon27)/p.A1193T (NBD2), confermando la diagnosi di PFIC di tipo 3.
Nonostante un trattamento di associazione con diversi farmaci coleretici (Acido ursodesossicolico,
colestiramina, rifampicina) entrambi hanno presentato un’evoluzione di cirrosi compensata con poussées
di intensa colestasi clinica ed elevazione degli enzimi epatici.
Conclusioni
I nostri casi evidenziano la variabilità dell’epoca di presentazione del quadro clinico-laboratoristico di
colestasi e la possibile rapida evoluzione cirrogena nonostante una terapia coleretica precoce ed intensiva.
E’ previsto uno stretto monitoraggio per assicurare un buono stato nutrizionale, una copertura completa
vaccinale qualora fosse necessario il ricorso all’epatotrapianto per insufficienza epatica o scarsa qualità di
vita (prurito intrattabile).
Bibliografia
1. Jacquemin E, De Vree JM, Cresteil D et al. The wide spectrum of multidrug resistance 3 deficiency: from
neonatal cholestasis to cirrhosis of adulthood. Gastroenterology. 2001;120:1448-58.
COMUNICAZIONI E POSTER
370 GASTROENTEROLOGIA E NUTRIZIONE
EPATITE AUTOIMMUNE: DESCRIZIONE DI UNA CASISTICA PEDIATRICA
N. Di Cosmo, M. Caropreso, A. Varriale, S. Maddaluno, S. Lenta, I. De Napoli, M. Esposito,
G. Capuano
Dipartimento di Pediatria, Università di Napoli, “Federico II”
Introduzione
L’ epatite autoimmune (AIH) è una malattia infiammatoria cronica del fegato nella cui genesi assume
primaria importanza un meccanismo autoimmune, geneticamente determinato per l’associazione con
l’allele HLA DR3, DR4, DR52. L’AIH tipo 1 presenta anticorpi antinucleari (ANA) e/o antimuscolo liscio
con peculiare specificità verso i microfilamenti d’actina del citoscheletro intracellulare (SMA-AA). La AIH
tipo 2 è caratterizzata dalla presenza di anticorpi contro i microsomi di fegato e di rene di ratto (LKM1), con specificità verso l’isoforma 2D6 del citocromo P450. L’AIH tipo 3 è caratterizzata dalla presenza
di autoanticorpi contro un antigene solubile epatico citoplasmatico (citocheratina-SLA/LP) e da
autoanticorpi anti-citosol epatico LC1. Circa il 10% dei casi d’AIH è privo di autoanticorpi noti. Le modalita’
di gestione sono tuttora non ben codificate in eta’ pediatrica.
Scopo Dello Studio
Scopo dello studio è quello di descrivere le caratteristiche demografiche, clinico-laboratoristiche,
istologiche, e la risposta alla terapia in una casistica di 22 pazienti affetti da epatite autoimmune.
Pazienti e metodi
I pazienti oggetto dello studio sono 10 maschi e 12 femmine con età media alla diagnosi di 8.5 anni. La
presenza di anticorpi circolanti ANA, LKM, SMA, LC-1 è stata verificata mediante immunofluorescenza
indiretta e western-blotting. La positività agli autoanticorpi circolanti è stata correlata con i tests di
funzionalità epatica, la presenza di ipergammaglobulinemia, l’istologia epatica. In caso di anomalia dei
test di laboratorio, sono state escluse mediante indagini appropriate altre cause di disfunzione epatica.
Tutti i pazienti sono stati sottoposti ad agobiopsia epatica per via percutanea sotto guida ecografica.
Risultati
Dei 22 pazienti, undici (50%) sono risultati positivi per ANA; cinque (23%) mostravano un’immunofluorescenza
di tipo LKM. Quattro (18%) pazienti erano isolatamente positivi per autoanticorpi LC1 e due (9%) pazienti
risultavano sieronegativi. Cinque bambini ANA positivi mostravano anche positività per SMA.
L’ipergammaglobulinemia era presente alla diagnosi nel 73 % (16/22) dei pazienti.
L’istologia epatica era caratterizzata in 21 pazienti da epatite d’interfaccia di grado medio- severo associata
ad infiltrato infiammatorio degli spazi portali. In una paziente con associata anemia emolitica il quadro
istologico era caratterizzato da trasformazione gigantocellulare.
Due pazienti con epatite autoimmune presentavano diagnosi concomitante di malattia celiaca, un
paziente presentava “sindrome da overlap”: epatite autoimmune - colangite sclerosante. Caratteristiche
peculiari sono state riscontrate in un paziente che in associazione all’epatite autoimmune ANA
positivi ha presentato tiroidite con ipofunzione in assenza di anticorpi tiroidei, positività per anticorpi
antipofisi, candidasi mucocutanea, lupus a localizzazione cutanea con negatività del test molecolare per
poliendocrinopatia autoimmune (APECED). L’esordio in una paziente è stato caratterizzato da epatite
acuta ed anemia emolitica.
Tutti i pazienti sono stati trattati con un’unica somministrazione giornaliera al mattino di prednisone
o prednisolone al dosaggio iniziale di 1-2 mg/Kg/die (fino ad un massimo di 60 mg/die) da solo od in
associazione con l’azatioprina al dosaggio di 1-2 mg/Kg/die. Il successivo tapering del prednisone è
iniziato dopo 2-4 settimane fino a raggiungere nel corso di alcuni mesi il dosaggio di mantenimento
pari a 0.1-0.2 mg/kg/die o 5 mg/die. La sospensione del prednisone al dosaggio di mantenimento è
stata effettuata dopo almeno 2 anni di normalizzazione dei tests di funzionalità epatica e dopo biopsia
epatica di controllo. La maggioranza dei pazienti ha presentato una risposta completa alla terapia
COMUNICAZIONI E POSTER
GASTROENTEROLOGIA E NUTRIZIONE
371
immunosoppressiva con normalizzazione degli indici di funzionalità epatica associata a riduzione delle
gammaglobuline per almeno sei mesi dalla terapia di mantenimento. Cinque su 22 pazienti (23%) hanno
presentato risposta incompleta con recidiva della malattia in corso di tapering del prednisone che ha
richiesto un aumento dell’immunosoppressione. Tre dei 5 pazienti con risposta incompleta sono steroidodipendenti. Uno di essi ha iniziato un trattamento con ciclosporina con normalizzazione degli indici di
funzionalita’ epatica.
Conclusioni
La nostra casistica di bambini con AIH sottolinea la possibile mancata risposta alla terapia
immunosoppressiva convenzionale (steroidi ± azatioprina) e la conseguente necessita’ di prendere in
considerazione protocolli alternativi (acido micofenolico, ciclosporina).
Bibliografia
1. Czaja and Frese. Diagnosis and Treatment of Autoimmune Hepatitis. Hepatology 2002; 36: 479- 497;
2. Luxon. Diagnosis and Treatment of Autoimmune Hepatitis. Gastroenterol Clin N Am 2008; 37: 461-478.
COMUNICAZIONI E POSTER
372 GASTROENTEROLOGIA E NUTRIZIONE
EPATITE AUTOIMMUNE IN ETÀ PEDIATRICA: LO SCORE DIAGNOSTICO
DELL’INTERNATIONAL AUTOIMMUNE HEPATITIS GROUP CI AIUTA
SEMPRE PER IL TRATTAMENTO?
A.M. Salzano, A. Vicinanza, M. Tufano, V. Terlizzi, G. Ranucci, F. Ferrari, F. Lombardi,
S. Minichiello, F. Cirillo, R. Iorio
Dipartimento di Pediatria, Università degli Studi di Napoli “Federico II”
Introduzione
L’epatite autoimmune (EAI) è un’epatopatia infiammatoria progressiva di origine sconosciuta, caratterizzata
da epatite all’interfaccia e dalla presenza di iperγglobulinemia e di autoanticorpi circolanti. Due tipi di EAI
sono stati descritti sulla base del profilo immunologico: tipo I (ANA e/o SMA+), tipo II (LKM1+). L’EAI,
se non trattata adeguatamente, ha una evoluzione sfavorevole, con estensione progressiva del danno
epatico e sviluppo di cirrosi epatica. Il trattamento di scelta è rappresentato dagli steroidi utilizzati
singolarmente o in associazione con l'azatioprina e induce una remissione in oltre il 90% dei pazienti. La
diagnosi di certezza dell’EAI si basa su un sistema a punteggio proposto dall’International Autoimmune
Hepatitis Group.
Caso clinico
Riportiamo il caso di un bambino di 3 anni e 5 mesi giunto alla nostra osservazione per ipertransaminasemia
cronica ed iperGGT identificate nel contesto di una infezione mononucleosica indotta da EBV. Le indagini
di laboratorio mostravano funzionalità epatica protidosintetica nella norma, sierologia positiva per
EBV (IgM ed IgG), per CMV (IgM), per Herpes Simplex (IgM ed IgG), positività degli ANA, degli anticorpi
anti DNA ed ENA. Si escludevano epatopatie dismetaboliche, celiachia, patologie biliari, fibrosi cistica,
epatotossicità da farmaci e da virus epatotropi maggiori. Elevati valori di transaminasi persistevano al di
là dei tempi usualmente compatibili con l’infezione mononucleosica. La biopsia epatica, praticata dopo 9
mesi dall’esordio, evidenziava modesta infiammazione, microvacuolizzazione degli epatociti periportali,
moderata fibrosi portale, focale interruzione della lamina limitante e modesta neoduttulazione. Sulla
base dello score dell’International Autoimmune Hepatitis Group non si confermava il sospetto di epatite
autoimmune, anche se il quadro istologico e la storia clinica erano fortemente suggestive di una EAI.
Si decideva pertanto di non cominciare il trattamento immunosoppressivo, ma di monitorare i livelli delle
transaminasi e il titolo degli autoanticorpi.
La presenza di una significativa fibrosi, l’esclusione di tutte le principali cause di epatopatia e la
consapevolezza dell’evolutività dell’EAI, talvolta con andamento fulminante, rendevano molto
impegnativa la scelta del non trattamento. D’altra parte, considerato che il trattamento dell’EAI è basato
su una terapia steroidea di lunga durata nemmeno è proponibile un trattamento indiscriminato di tutti i
pazienti con sospetta EAI.
Il presente caso, pertanto, desidera richiamare l’attenzione sulle difficoltà diagnostiche e terapeutiche di
alcune forme di epatite autoimmune e sulla mancanza di criteri, universalmente accettati, che consentano
una gestione unitaria di tali pazienti.
COMUNICAZIONI E POSTER
GASTROENTEROLOGIA E NUTRIZIONE
373
FAMILIAL AGGREGATION IN CHILDREN AFFECTED BY FUNCTIONAL
GASTROINTESTINAL DISORDERS
R. Buonavolontà, P. Coccorullo, G. Boccia, R. Turco, L. Greco, A. Staiano
Department of Pediatrics, University of Naples, Federico II, Naples, Italy
Introduction
Adults with Irritable Bowel Syndrome (IBS) may often have a first-degree relative with abdominal pain
and bowel problems. However, studies designed to evaluate possible familial aggregation are scarce.
Aims & methods
The aims of this study were: 1) to evaluate the prevalence of Functional Gastrointestinal Disorders (FGIDs)
in parents of children affected by FGIDs and 2) to evaluate whether or not independent factors, such as
gender, sex, age, parenteral occupation, civil status and education level could influence the prevalence
of FGIDs in parents of children with and without FGIDs. One hundred-three patients affected by FGIDs
52.99 months, range ∼ SD: 92.57 ∼ according to Rome III Criteria (mean age 11-215 months) and their
parents (103 fathers and 103 mothers) filled out validated questionnaires for GI symptoms, depression
and anxiety. These patients 51.84 ∼ SD: 89.72 ∼ were compared to 65 age and sex matched controls (mean
age months, range 22-216 months) referred to the Primary Care Center of Department of Paediatrics at
the University of Naples, “Federico II” for non GI symptoms. All the parents were given a questionnaire
including queries on gender, sex, age, occupation, civil status, education level and standard of living.
Results
The parents of children with FGDIs showed a significantly higher prevalence of FGID compared to the
parents of children without FGID (p < 0.0001). No significant differences between the groups were
observed for civil status, occupation, education level and standard of living. A correlation between the
children’s type of GI disorder and their parents’ disorders was found in 33.9% (35/103). In particular, a
correlation between the children’s and mother’s type of GI disorders was found in 25.2% (26/103) of
patients.
Conclusion
Our study confirms that both heredity and social learning may contribute to a predisposition for FGDIs
in children. Unlike previous studies, ours was conducted on pediatric patients and it includes most FGIDs
instead of IBS alone, using Rome III Criteria.
COMUNICAZIONI E POSTER
374 GASTROENTEROLOGIA E NUTRIZIONE
FUNCTIONAL GASTROINTESTINAL DISORDERS AND CELIAC DISEASE
IN CHILDREN: IS THERE A RELATIONSHIP?
G. Boccia, R. Turco, R. Buonavolontà, F. Manguso, D. Russo, A. Staiano
Background & aims
Activation of gastrointestinal (GI) mucosal immune system may be one of the causative factors in
the pathogenesis of functional gastrointestinal disorders (FGIDs). Whether the gluten-induced gut
inflammation of celiac disease (CD) also predisposes to FGIDs is unclear.
The aims of our study were to assess. 1) the prevalence of FGIDs, 2) the effect of a gluten-free diet and 3)
the role of psychological aspects on the development of functional GI symptoms in children with CD.
Methods
Seventy celiac children (50F-20M, mean age 8.4, range 4-18years) who had been in remission according to
laboratory parameters (negative endomysial and anti-tissue transglutaminase antibodies), were randomly
selected from a computerized database after one year of gluten-free diet. All children completed a medical
and a psychological questionnaire, the Rome III Diagnostic Questionnaire for the Pediatric FGIDs and the
Stait-Trait Anxiety Inventory for Children (STAIC). GI symptoms at diagnosis and after one year of glutenfree diet were compared. Fifty-six age and sex matched healthy children represented the control group.
Results
Twenty-eight of 70 (41.4%) patients fulfilled the Rome III criteria for FGDIs compared with 5/56 (8.9%)
controls (p<0.001). Among celiac children with FGIDs, Irritable Bowel Syndrome (IBS) was the most
prevalent disorder (55.6 %), followed by Functional Constipation (FC) (46.4%), Aerophagia (25%),
Functional Abdominal Pain (FAP) and Functional Dyspepsia (FD) (14.3%, each). Only IBS and FD were
found in 7.1% and 1.7% controls, respectively (p<0.001, compared to celiac children). After one year of
gluten-free diet 25/50 (50%) children complaining of GI symptoms at CD diagnosis, developed a FGID
compared to 10/31 (32.2%) celiac children complaining of extraintestinal symptoms and 4/19 (21%)
celiac children who were asymptomatic at diagnosis (p<0.01 and p<0.005, respectively). Vomiting and
abdominal pain at diagnosis seemed to be predictors of FGIDs in these children. Celiac children with
FGDIs presented significantly higher anxiety and depression compared to children without functional
disorders and controls (p< 0.001).
Conclusion
Many celiac children may develop a FGID irrespective of the gluten-free diet. Specific GI symptoms
at diagnosis seem to be directly related to the development of FGIDs in celiac children in remission.
Psychological factors such as anxious and/or depressed personality profiles may play an important role
in this process.
COMUNICAZIONI E POSTER
GASTROENTEROLOGIA E NUTRIZIONE
375
INCIDENZA DA HELICOBACTER PYLORI IN PAZIENZI PEDIATRICI.
NOSTRA CASISTICA
R. Ricciardi, A.M. Ricciardi, L. Pisano, R. Ebraico, P. Migliaccio, M. Mungiguerra
Dipartimento di Patologia Clinica - Settore di Microbiologia - Laboratorio Analisi P.O. “S.G. Moscati” Aversa
ASL CE 2
Introduzione
L’ Helicobacter pylori (H.P.) è un batterio gram-negativo in grado di colonizzare la mucosa gastrica e di
provocare patologie gastro-intestinali quali la gastrite cronica, l’ulcera peptica e il carcinoma gastrico.
Dopo il primo isolamento avvenuto nel 1982 da parte di Marshall e Warren nella mucosa gastrica di
soggetti con gastrite, Helicobacter pylori è oggi riconosciuto in tutto il mondo come uno degli agenti
patogeni più comuni e importanti. Nei paesi in via di sviluppo il 70% - 90% della popolazione è portatrice
di Helicobacter pylori; nei paesi sviluppati invece, la prevalenza dell’infezione va dal 25% al 50% ed è
acquisita soprattutto durante l’infanzia. L’infezione di Helicobacter pylori contratta in età pediatrica,
oltre alle patologie gastro-intestinali, ha anche un ruolo nel determinismo di patologie extragastriche
provocando una ridotta crescita nei bambini.
Lo scopo del nostro studio è stato quello di verificare l’incidenza di infezione da Helicobacter pylori nel
biennio 2006-2007 in pazienti pediatrici ricoverati presso il P.O. “S.G. Moscati” di Aversa.
Materiali e metodi
Sono stati testati 84 campioni fecali di pazienti pediatrici inviati al Laboratorio di Microbiologia per la
determinazione della presenza degli antigeni fecali mediante HpSA ImmunoCard STAT!HpSA Meridian.
Si tratta di un test immunologico di facile utilizzo, rapido che può essere utilizzato nella routine di
laboratorio per la diagnosi di infezione da Helicobacter pylori su materiali fecali. Il dispositivo per il test
ImmunoCard è una membrana cromatografia contenente un anticorpo di cattura monoclonale anti-H.
pylori e una proteina animale per il controllo. Come anticorpi di rivelazione per i test e i controlli, le
membrane contengono anche anticorpi anti-H.pylori coniugati con il lattice rosso ed anticorpi antiproteina coniugata con il lattice blu.
Risultati
Nel biennio 2006-2007 sono stati analizzati 84 campioni di feci di bambini per la ricerca di Helicobacter
pylori, di cui 23 nel 2006 e 61 nel 2007. Nel 2006 2 campioni sono risultati positivi (9%) e 21 invece negativi
(91%). Nel 2007 14 campioni sono risultati positivi per Helicobacter pylori (23%) mentre 47 (77%) sono
risultati negativi. I dati ottenuti dal metodo di diagnostica applicato durante il periodo di osservazione
sono riportati nella figura 1.
Fig. 1 - Percentuali dei risultati ottenuti nel biennio 2006-2007.
COMUNICAZIONI E POSTER
376 GASTROENTEROLOGIA E NUTRIZIONE
Conclusioni
Dai nostri dati si evince un notevole aumento (quasi una triplicazione) della percentuale di positività per
Helicobacter pylori (dal 9% del 2006 al 23% del 2007). Il test immunologico oggetto del presente studio,
dotato di sensibilità analitica, riproducibilità e specificità, può essere considerato un valido strumento per
la diagnosi di infezione ha Helicobacter pylori in età pediatrica.
COMUNICAZIONI E POSTER
GASTROENTEROLOGIA E NUTRIZIONE
377
Impedance esophageal-pH monitoring parameters reveals
no correlation between Gastroesophageal Reflux and
Chronic Unexplained Cough in children.
P. Coccorullo, G. Boccia, P. Masi, D. Ummarino, L. Greco, A. Staiano
Department of Pediatrics of University “Federico II”, Naples, Italy
Background
Gastroesophageal Reflux (GER) has traditionally been considered one of the most important cause of
chronic unexplained cough, defined as non productive cough lasting longer than 4 weeks in the absence
of identifiable respiratory disease or known aetiology. Extraesophageal symptoms of GER (Atypical GER)
can apparently be caused by both acid and non-acid reflux. The standard diagnostic tool for atypical GER
is esophageal Multichannel Intraluminal Impedance/pH-monitoring (MII/PH).
Aims
To evaluate the relationship between chronic unexplained cough and GER using MII/PH and to assess the
efficacy of proton pump inhibitor (PPI) in children with reflux-related chronic cough.
Methods
A prospective study was conducted in 54 children (mean age ± SD: 52.77 ± 50.48 months; range:
2-204 months; M/F: 32/22) from October 2006 trough December 2007 who were referred for chronic
unexplained cough. Other causes of chronic cough were excluded. All patients underwent MII/PH and
the validated cough-score was recorded by children’s caregiver. The MII/PH parameters evaluated were
type of reflux, total numbers of reflux episodes, total duration of GER, height of reflux; Median Bolus
Clearance Time (MBCT) and Bolus Exposure Impedance (BEI). Children with MII/PH positive for GER were
treated with PPI at the standard dose for three months. GI symptoms were recorded at entry and at the
end of the acid-suppressive treatment period. Results: GER was diagnosed in 30 (55.6%) out of 54 children
with chronic unexplained cough; in particular, acidic reflux was reported in 24 (80%) patients, alkaline
reflux in 5 (16.6%) patients while both acid and alcalin refluxes were registered in 1 (3.3%) child.
No statistically significant association was found among cough-score and type of reflux (Acid, p= 0.475;
Non-Acid, p=0.262), total number of reflux episodes (p=0.453), total duration of GER (p= 0.493), height of
reflux (p=0.2.35); MBCT (p=0.458); BEI (p=0.369).
At the end of the 3-month PPI therapy a complete symptom resolution was observed in 56.6% children;
23.3% had improved symptoms, and 20% had minimal or no improvement.
Conclusions
Children with chronic chough show a high prevalence of GER. In our study, chronic cough seems not to
be related to GER type, severity and height as well as altered esophageal clearance. However, the good
response to PPI-therapy suggests mechanisms other than direct aspiration in reflux-related chronic
cough.
COMUNICAZIONI E POSTER
378 GASTROENTEROLOGIA E NUTRIZIONE
POSSIBILE ASSOCIAZIONE TRA DERMATITE ATOPICA E SINDROME DI
ALAGILLE
A. Vicinanza, M. Tufano, A.M. Salzano, V. Terlizzi, G. Ranucci, F. Ferrari, F. Lombardi,
S. Minichiello, F. Cirillo, R. Iorio
Dipartimento di Pediatria, Università degli Studi di Napoli “Federico II”
Introduzione
La Sindrome di Alagille (AGS) è un disordine genetico di sviluppo multisistemico. Le mutazioni del
gene Jagged che mappa sul cromosoma 20p12 sono state identificate nel 94% degli individui con una
diagnosi clinicamente confermata di AGS. Recenti studi hanno dimostrato il coinvolgimento della regione
cromosomica 20p12 nella patogenesi della dermatite atopica. La dermatite atopica (AD) è una sindrome
eczematosa cutanea a decorso cronico-recidivante la cui diagnosi può essere fatta con ragionevole
certezza nella maggior parte dei casi basandosi sull’esame obiettivo delle lesioni cutanee. Nei Paesi
Occidentali fino al 15% dei bambini è affetto da dermatite atopica. Obiettivo specifico del presente studio
era quello di indagare circa un’eventuale correlazione tra AGS e AD.
Pazienti e metodi
Tredici bambini affetti da AGS, osservati presso il Dipartimento di Pediatria dell’Università di Napoli
“Federico II” in un periodo compreso dal 1993 al 2007, epatotrapiantati e non, sono stati indagati per
l’individuazione di segni clinici di AD durante i controlli periodici effettuati presso la nostra struttura. In
ognuno di essi era stata effettuata l’analisi mutazionale su tutta la porzione codificante del gene Jagged1.
La diagnosi di AD non era presa in considerazione se il paziente (pazienti) presentava prurito e alterazione
degli indici di colestasi. Erano utilizzate tabelle di contingenza con il test chi-square che mettevano in
relazione la presenza o l’assenza di AD nei pazienti epatotrapiantati e non e la presenza o assenza di
mutazioni per l’AGS nei pazienti con AD.
Risultati
Sette dei 13 (54%) bambini analizzati non avevano ricevuto epatotrapianto ed erano in buon equilibrio
clinico e senza segni di colestasi in seguito all’inizio della terapia con acido ursodesossicolico, i rimanenti
6 (46%) avevano necessitato di epatotrapianto ad un’età mediana di 20 mesi (range 16-51 mesi)
prevalentemente per prurito intrattabile ed erano sottoposti a terapia immunosoppressiva. Nessuno dei
pazienti epatotrapiantati presentava segni di colestasi. Complessivamente, 6 dei 13 bambini (46%) con AGS
studiati presentavano segni clinici di AD nel corso delle osservazioni. Tra i 7 pazienti non epatotrapiantati,
5 (71%) avevano AD, mentre tra i 6 pazienti epatotrapiantati solo uno (17%) aveva segni di AD (p<0.05). I
pazienti epatotrapiantati effettuavano terapia immunosoppressiva con Tacrolimus che, in forma topica,
è uno dei presidi farmacologici utilizzati nella AD. Tra i 5 pazienti non epatotrapiantati con AD, 4 (80%)
presentavano mutazioni a carico del gene Jagged1 e 1 (20%) non aveva mutazioni note del gene. L’unico
epatotrapiantato con AD non presentava mutazioni note a carico della porzione genica analizzata.
Conclusioni
Pur con i limiti legati all’esiguità del campione studiato, il nostro studio evidenzia una elevata prevalenza
da AD nei bambini con AGS. Studi caso-controllo su popolazioni più ampie sarebbero auspicabili per
dimostrare la non casualità dell’associazione.
COMUNICAZIONI E POSTER
GASTROENTEROLOGIA E NUTRIZIONE
379
Sangue e muco nelle feci da polipo giovanile, diagnosticato
con indagine radiologica ed endoscopica in bambina di 4
anni
M. Tumminelli1, L.G. Tumminelli1, G. Tumminelli2
1
Università di Palermo
U.O. di Pediatria e Neonatologia Ospedale “Maddalena Raimondi” S.Cataldo ASS n°2
2
Introduzione
Il polipo gastrointestinale è una piccola massa aggettante il lume intestinale di origine mucosa. Nell’80%
dei casi si presenta soprattutto nel retto e nel restante 20% in qualunque altra regione dell’intestino.
Esso può essere sessile se adeso alla parete intestinale o peduncolato se collegato alla mucosa e alla
sottomucosa da un traliccio connettivo-vascolare. Da un punto di vista istologico, i polipi si distinguono
in due categorie: polipi intestinali amartomatosi con scarsissima evoluzione neoplastica(10%), tra questi
rientrano la poliposi giovanile colica o generalizzata e la sindrome di Peutz-Jeghers; polipi intestinali
adenomatosi con maggiore rischio di trasformazione neoplastica quali la poliposi adenomatosa familiare,
la sindrome di Gardener e di Turcot.
Il polipo giovanile solitario o polipo infiammatorio è quello più frequentemente riscontrato in età
pediatrica, con una frequenza che raggiunge l’1-2 % dei bambini in età pre-scolare e scolare. L’età media
alla diagnosi è di 4 anni. I sintomi che più frequentemente portano alla diagnosi sono: dolori addominali
non localizzati, muco e sangue nelle feci e a volte anemia da sanguinamento occulto.
L’etiologia è sconosciuta, si pensa siano conseguenti ad un processo flogistico a carico della mucosa
intestinale. La diagnosi differenziale di rettorragia nei pazienti tra 1 e 10 anni di vita include: Diverticolo
di Merckel, Emorroidi, Lesioni vascolari, Invaginazioni, Diarrea infettiva, Fistola anale, Iperplasia
linfoghiandolare, Sindrome emolitico-uremica, Porpora di Schonlein-Henoch, Malattia infiammatoria
cronica, Celiachia, Emorroidi interne.
La terapia prevede la loro asportazione per via endoscopica al fine di permettere la loro diagnosi
istologica; poiché generalmente la loro crescita è eccessiva rispetto alla loro vascolarizzazione, spesso si
autoamputano alla pubertà.
Materiali e metodi
Trattasi di bambina dell’età di 4 anni, che da circa tre mesi presenta aumento della frequenza delle
defecazioni con feci di consistenza normale con abbondante muco e a volte sanguinamento rosso vivo
dopo la defecazione che spesso vernicia le feci. Il sanguinamento rettale non si accompagna a dolore
né durante né dopo la defecazione; non ha presentato stipsi, febbre e calo ponderale. Da rilevare
nell’anamnesi familiare, la presenza di poliposi colica nella nonna paterna.
Diagnosi Differenziale: abbiamo escluso le ragadi perianali, le emorroidi esterne e ci siamo indirizzati verso
o una poliposi del colon o una rettocolite ulcerosa o emorroidi interne. Dirimente sono stati il clisma a
doppio contrasto e la colonscopia. Gli esami di routine hanno dato i seguenti valori: Emocromo e Ferritina
nella norma, Proteine di fase acuta negative, EMA e Transglutaminasi negative, Calprotectina normale,
VES:7, PCR: negativa, Esame virologico e Coprologico e Parassitologico delle feci negativo, Ricerca sangue
occulto nelle feci positivo. Con l’esplorazione digitorettale si è apprezzata piccola massa aggettante
nel lume rettale. Dopo circa 10 giorni, la piccola ha espulso spontaneamente materiale che all’esame
istologico risultava costituito da materiale purulento, necrotico, fibrino-leucocitario(amputazione di
polipo peduncolato?). L’endoscopia con biopsia rettale, eseguita dopo circa 1 mese, ha evidenziato esiti
di pregresso danno mucoso. Non si è potuto procedere oltre con la sonda endoscopica, per la scarsa
pulizia intestinale. Con il Clisma a doppio contrasto e principalmente con l’indagine endoscopica, dopo
accurata toulette intestinale, si è evidenziato, a carico del colon discendente, a circa 40 cm dal margine
anale, la presenza di macropolipo peduncolato delle dimensioni >20 mm con zone di ulcerazione (Figura
COMUNICAZIONI E POSTER
380 GASTROENTEROLOGIA E NUTRIZIONE
I). Si è introdotta ansa diatermia, si è aggancianto il polipo e lo si è resezionato. L’esame istologico ha
evidenziato formazione polipoide di cm 2.5*1.2*0.7 avente carattere istologico di polipo giovanile. Colon
trasverso e sigma esenti da lesioni. Al successivo controllo endoscopico, buona l’emostasi sulla pregressa
zona d’impianto del polipo (Figura II).
Conclusioni
Il caso riportato è degno di segnalazione perché evidenzia che bisogna tenere in considerazione, anche
se con minor frequenza che in età adulta, la presenza di macropolipi responsabili di rettorragia tra le più
comuni e frequenti cause di sangue e muco nelle feci in età pediatrica.
Non è ancora noto se i polipi solitari giovanili(<5), possono evolvere verso una neoplasia colon-rettale. In
letteratura sono riportati casi di bambini con polipi multipli (>5-10) che hanno subito una trasformazione
in senso adenomatoso implicando un maggiore rischio di sviluppare una neoplasia rispetto a bambini
con pochi polipi(<5). Appare evidente come sia necessaria una maggiore sorveglianza clinica, durante la
prima infanzia, di questi pazienti e un follow up a lungo termine.
Figura 1
Figura 2
Bibliografia
1. Corredor J, Wambach J, Barnard J. Gastrointestinal polyps in children: Advances in molecular genetics,
diagnosis, and management. Journal of Ped. May 2001; 138(5):621-8.
2. Scott RJ, Maldrum C, Crooks R, Spigelman AD, Kirk J, Turcker K, Koorey D. Familial adenomatous polyposis:
more evidence for disease diversity and genetic heterogeneity. GUT April 2001; 48(4):508-14.
3. Thompson-Fawcett MW, Marcus VA, Redston M, Cohen Z, McLeod RS. Adenomatous polyps develop
commonly in the ileal pouch of patients with familia adenomatous polyposis. Diseases of the colon and rectum.
Mar2001; 44(3):347-353.
4. Erdman SH, Barnad JA. Gastrointestinal polyps and polyposis in children. Curr Opin Pediatr. 2002;14(5):576-82
5. Hyer W, Beveridge I, Domizio P, Philips R. Clinical management an genetics of gastrointestinal polyps in
children. Pediatrics 2000;31:469-79.
6. Lowchik A, Jackson WD, Coffin CM. Gastrointestinal polyposis in childhood: clinicophatologic and genetic
feature. Pediatr Dev Pathol 2003;6(5):371-91.
7. Nugent KO, Talbot IC, Hodgson SV et al. Solitary juvenile polyps: not a marker for subsequent malignancy.
Gastroenterology 1993;105:698-700.
8. Bua J, Norbedo S, Martelossi S. Sangue e muco nelle feci. Medico e Bambino pagine elettroniche 2006;9(2).
COMUNICAZIONI E POSTER
GASTROENTEROLOGIA E NUTRIZIONE
381
SINDROME DI CRIGLER-NAJJAR: CARATTERIZZAZIONE CLINICA,
GENETICA E NEUROFISIOPATOLOGICA
G. Crispino1, S. Maddaluno1, C. Veropalumbo1, I. De Napoli1, G. Capuano1, C. Gentile1,
A.Perretti2, A.Iolascon3, P. Vajro1
1
Dipartimento di Pediatria, Università di Napoli, “Federico II”
Dipartimento di Neurologia, Università di Napoli, “Federico II”
3
CEINGE- scarl, Napoli
2
Introduzione
La sindrome di Crigler-Najjar (CN) è causata un’alterazione nel gene UGT1A1 che codifica per l’enzima
uridin-difosfo-glicuronil-transferasi (UGT). La sindrome di CN si suddivide in più tipi (tipo I, tipo II, tipo
intermedio I/II) in base alla gravità del quadro iperbilirubinemico e all’entità della risposta al fenobarbitale
(PB). L’iperbilirubinemia cronica può essere causa di danno neurologico (kernittero, alterazioni cognitive,
cerebellari, piramidali ed extrapiramidali).
Scopi
Scopo dello studio è quello di approfondire l’aspetto neurologico di adolescenti con sindrome di CN,
geneticamente caratterizzati, valutando in particolare le alterazioni elettrofisiologiche.
Pazienti
Sono stati studiati 10 adolescenti (M:F=7:3). Quattro di essi, affetti da sindrome di CN tipo I, sono stati
sottoposti ad epatotrapianto con risoluzione dell’iperbilirubinemia. Di altri 3 pazienti affetti dal tipo II,
2 sono stati trattati con PB con buona risposta alla terapia. Altri 3 pazienti con sindrome di CN tipo I/II
hanno dimostrato una scarsa risposta al PB richiedendo spesso l’aggiunta di fototerapia, colestiramina e
diverse sedute di plasmaferesi.
Metodi
Tutti i pazienti oggetto dello studio hanno praticato analisi del gene UGT1A1, una valutazione clinica
neurologica e uno studio neurofisiologico multimodale comprendente EEG, potenziali evocati visivi
(PEV), motori (MEP), e uditivi del tronco encefalico (BAEP).
Risultati
I pazienti affetti da sindrome di CN tipo I (epatotrapiantati) presentano piccole delezioni (100%), in
omozigosi (75%). I pazienti affetti dal tipo II presentano mutazioni di tipo missense (66%) in omozigosi
(50%) o in eterozigosi (50%). I pazienti affetti dal tipo intermedio presentano tutti mutazioni di tipo
missense (100%) in eterozigosi nel 66.6%.Tutti i pazienti con CN II, uno con CN I/II e uno con CN I
presentano polimorfismo associato a sindrome di Gilbert.
L’esame clinico neurologico ha mostrato presenza di tremore (30%); l’EEG ha mostrato grafoelementi
aguzzi ipervoltati (40%). I MEP hanno mostrato un aumento del tempo di conduzione centrale motoria
(55, 5%); i PEV hanno rivelato un aumento della latenza della P100 (50%).Non si sono osservate alterazioni
ai BAEPs.
Conclusioni
Il tipo di mutazione più frequente implicato nella sindrome di CN tipo I è rappresentato dalla delezione; le
mutazioni puntiformi missense sono invece più frequentemente coinvolte nel tipo II e I/II; il coinvolgimento
di entrambi gli alleli del gene UGT1A1 è correlato con un quadro iperbilirubinemico più grave come pure
la coesistenza del polimorfismo della sindrome di Gilbert. Le indagini elettrofisiologiche sono utili per
monitorare il danno neurologico in adolescenti e giovani adulti affetti da sindrome di CN, eccetto i BAEPs;
tali indagini hanno evidenziato un quadro EEGrafico conforme a quanto già osservato in letteratura e
correlabile con la gravità dell’iperbilirubinemia (pazienti con CN I e I/II).
COMUNICAZIONI E POSTER
382 GASTROENTEROLOGIA E NUTRIZIONE
Hanno evidenziato inoltre alterazioni non presenti clinicamente del sistema visivo e motorio centrale finora
non riportati in letteratura, rivelando buona sensibilità di tali test nel monitoraggio degli effetti tossici
dell’iperbilirubinemia sul sistema nervoso centrale. Tali reperti sembrano correlarsi all’entità dell’ittero nel
caso dei PEV (pazienti con CN I e I/II) ma non nel caso dei MEP (anche pazienti con CN II), suggerendo che
l’alterazione elettrofisiologica sia da rapportarsi ad un danno “funzionale” della bilirubina.
COMUNICAZIONI E POSTER
GASTROENTEROLOGIA E NUTRIZIONE
383
Un caso complicato di APLV
G. Nocerino, E. Brigante, P. Montaldo, E. Melillo, M.C. Petagna
U.O. Allergologia Pediatrica - Fisiologia e Patologia Respiratoria, Ospedale SS. Annunziata - Napoli
La storia
Adele R., età 11 mesi. Segnalata una storia di bronchiti asmatiche ricorrenti (ben cinque episodi
negli ultimi quattro mesi di cui tre seguiti da ricovero ospedaliero). La piccola ha risposto bene alla
terapia broncodilatatrice e cortisonica ma, ogni volta quest’ ultima è stata sospesa, si sono verificate
puntualmente ricadute. Un approfondimento anamnestico ha evidenziato che, nei primi due mesi di vita,
Adele ha presentato frequenti episodi di rigurgito qualcuno associato a vomito e due episodi di apnea
postprandiale. Per questo motivo è stata consigliata terapia antireflusso (latti AR, ranitidina, domperidone)
non seguita da alcun apprezzabile miglioramento.
Il ricovero
Discrete condizioni cliniche generali. Peso ed altezza nei centili per l’ età. Esami ematochimici con
funzionalità epato-renale nella norma così come Rx del torace, EEG ed Ecocardio, Rx transito esofago
- stomaco. Una pH-metria esofagea ha mostrato un quadro pHgrafico di acidità esofagea di grado
moderato. Prick test, prick by prick e RAST alle frazioni del latte nella norma. Durante il ricovero Adele ha
continuato a rigurgitare ed a presentare persistentemente broncospasmo.
In relazione alla storia clinica abbiamo valorizzato, osservando la piccola, alcuni aspetti della sintomatologia
presentata: gli episodi di wheezing non erano preceduti da rinite, la piccola iniziava a fischiare in pieno
benessere durante o subito dopo il pasto, il broncospasmo si risolveva in poco tempo, a volte già durante
l’ assunzione del latte la piccola impallidiva presentando estremità molto fredde.
Nel fondato sospetto di APLV, pur in presenza di “esami allergologici” non sospetti, abbiamo introdotto
una formula a base di miscela di aminoacidi. In pochi giorni si è assistito ad un miglioramento critico
della sintomatologia che è notevolmente migliorata fino alla scomparsa, in pochi giorni, degli episodi
di rigurgito e di broncospasmo. Abbiamo, contemporaneamente, sospeso la terapia antireflusso, mai
precedentemente interrotta. La diagnosi di APLV è stata confermata dopo circa sei mesi con test di
scatenamento in ambiente protetto. La piccola ha acquisito tolleranza per le PLV dopo circa due anni
durante i quali non ha presentato alcuna successiva sintomatologia.
Il messaggio
Il RGE è spesso causa di crisi di apnea e di ricorrenti episodi di wheezing nel lattante (microaspirazione
di latte vaccino causa di flogosi allergica responsabile di alterata motilità gastroesofagea). In questi casi
la sintomatologia respiratoria è, quasi sempre, poco responsiva alla terapia boncodilatatrice ma migliora
con la terapia antireflusso.
Appare possibile che lo stesso RGE possa essere causa di APLV e quindi di broncospasmo ricorrente
nel lattante. La microaspirazione di latte nelle vie aeree porterebbe infatti, in soggetti predisposti, ad
una precoce sensibilizzazione all’ alimento con attivazione linfocitaria T e produzione “in loco” di IgE
specifiche.
Un GER che non risponde alla terapia dovrebbe essere sempre considerato come secondario ad un’ APLV
(20 - 40 % dei casi).
Il nostro caso potrebbe essre individuato come una forma di APLV non IgE mediata.
L’ approccio diagnostco-terapeutico di fronte ad una clinica suggestiva di RGE-APLV dovrebbe considerare
una dieta di esclusione prima d’ intraprendere un trial terapeutico farmacologico e di riservare quest’
ultimo solo ai casi non responsivi alla dieta di esclusione.
Non escludere “a priori” un’ APLV, in casi particolari e suggestivi, anche di fronte ad esami allergologici
negativi.
COMUNICAZIONI E POSTER
384 GASTROENTEROLOGIA E NUTRIZIONE
UN NUOVO CASO INUSUALE DI MALATTIA LINFOPROLIFERATIVA
POST EPATOTRAPIANTO EBV CORRELATO CON VIREMIA NEGATIVA
N. Di Cosmo1, S. Lenta1, M. Caropreso1, S. Maddaluno1, I. De Napoli1, G. Capuano1, M. Esposito1,
G. Torre2
1
2
Dipartimento di Pediatria, Università di Napoli, “Federico II”
Pediatria- Ospedali Riuniti di Bergamo.
Introduzione
I pazienti sottoposti ad epatotrapianto possono andare incontro a numerose complicanze a breve ed a
lungo termine. Una delle più temibili è la malattia linfoproliferativa post trapianto (PTLD) frequentemente
correlata all’infezione da Epstein-Barr Virus (EBV). In genere la PTLD si associa ad un’elevata carica viremica
dell’EBV e presenza dell’EBV DNA nel tessuto bioptico. Un piccolo numero di casi di PTLD EBV correlati
con negatività della viremia periferica è stato tuttavia descritto (1). La patogenesi di questi ultimi rimane
comunque incerta.
Scopi
Scopo del presente abstract è riportare un caso di PTLD EBV-correlato a localizzazione faringo-laringea
insorto a lungo termine post-epatotrapianto in una paziente con assenza di segni ematici di attiva
replicazione virale.
Caso clinico
Simona è una bambina di 8 anni, epatotrapiantata all’età di 8 mesi per atresia delle vie biliari extraepatiche. Il trapianto è stato complicato da trombosi della vena porta con conseguente sviluppo di
ipertensione portale. Tale condizione è attualmente trattata con terapia ipotensivante del circolo portale
(beta bloccante) e legatura delle varici esofagee. Da alcuni anni la paziente presentava quadri recidivanti
di bronco pneumopatia interstiziale da Clamydia e Mycoplasma associati a desaturazione e distress
respiratorio. Nonostante cicli protratti di terapia antibiotica e.v. e la normalizzazione dei parametri
flogistici Simona continuava a presentare dispnea e ipossiemia. Nel corso di una seduta endoscopica
di follow-up dell’ipertensione portale, all’età di 7 anni (Marzo 2008), è stata scoperta la presenza di
neoformazioni vegetanti a livello del faringe e dell’aditus laringeo. Il quadro istologico ha evidenziato un
denso infiltrato linfoide diffuso con prevalenza di elementi a fenotipo B (DC 20+, CD 79a+, CD5-) con rare
cellule positive per EBV. Il riarrangiamento IgH mostrava un quadro di policlonalità. La viremia per EBV era
costantemente negativa e la sierologia per il virus era caratterizzata da IgG positive/IgM negative. Visto
il quadro macroscopico e i dati compatibili con PTLD polimorfica-policlonale si decideva di sospendere
la somministrazione di Tacrolimus e di iniziare terapia con Prednisone. Tenuto conto del quadro di
rigetto cronico già presente alle precedenti biopsie epatiche si è ritenuto prudenziale sospendere
completamente la terapia immunosoppressiva solo per un breve periodo e di introdurre accanto allo
steroide la Rapamicina (Sirolimus) per la sua efficacia immunosoppressiva ed anti-proliferativa.
Tale approccio ha determinato negli ultimi 7 mesi un miglioramento delle condizioni cliniche di
Simona con normalizzazione del quadro respiratorio (scomparsa della dispnea) e normalizzazione
delle saturimetrie anche durante il sonno. All’ultimo controllo laringoscopico si è evidenziata una netta
regressione del quadro con residua minima neoformazione in sede anteriore. Per l’esiguità del quadro
non è stato possibile eseguire biopsia.
Conclusioni
Il nostro caso conferma che il monitoraggio della viremia dell’EBV non è sempre in grado di identificare
pazienti a rischio e/o affetti da PTLD EBV correlato. Il giudizio clinico è di fondamentale importanza nella
ricerca di tale complicanza anche in assenza di parametri laboratoristici suggestivi.
COMUNICAZIONI E POSTER
GASTROENTEROLOGIA E NUTRIZIONE
385
Bibliografia
1. Levenson BM, Ali SA, Timmons CF, Mittal N, Muthukumar A, Payne DA. Unusual case of Epstein-Barr virus
DNA tissue positive: Blood negative in a patient with post-transplant lymphoproliferative disorder. Pediatr
Transplant. 2008 [Epub ahead of print]
COMUNICAZIONI E POSTER
386 GASTROENTEROLOGIA E NUTRIZIONE
UNA ESPERIENZA DI QUASI MORTE PER UNA MALATTIA DI MODA TRA
NOI PEDIATRI
L. Acampora1, A. Granata2, G. Rossi2, M.A. Faraldo1
1
2
Unità Operativa Pediatria A.O. San Sebastiano Caserta
Pediatria di Base. ASL CE 2. Distretto 38.
Caso clinico
Giunge in PS alle ore 21:56 un maschietto di 52 giorni privo di sensi. Interrogati i genitori si apprende che il
piccolo aveva avuto una crisi di apnea mentre la madre lo stava cambiando con impallidimento ed ipotono
muscolare. Anamnesi familiare : (madre allergica, nonna materna ipertesa, nonna paterna diabetica.)
Anamnesi personale (nato da parto distocico, peso alla nascita kg 3, 650, allattato al seno.) Anamnesi
patologica remota (a 36 gg crisi respiratoria da “ ab ingestis”, 2 esami ecocardiografici (inizialmente piccolo
DIA, successivamente non più confermato.) No disturbi del sonno, no problemi alimentari.
ESAME OBIETTIVO ALL’INGRESSO IN PS :Peso kg 5, 750, T 36, 50° C, SAT O2 93%, FC 121 b/m, tachipnea.
Cute pallida, subcianosi periorale, appare inanimato, ipotonico, immobile,. Viene rianimato, si riprende in
pochi minuti,. Praticato un prelievo d’urgenza ed un esame radiografico. A causa di difficoltà di prelievo
arrivano solo alcune risposte: PT 81, 3 % INR 1, 11, PTT 32 sec. GB 12, 420, GR 3.010.000, HT 25%, HB 8,
5 g %, PLT 384.000. l’ RX torace evidenzia una accentuazione della trama polmonare. Viene ricoverato e
monitorato con saturimetro. Durante il ricovero appare sempre sofferente con cute pallida. Al torace si
apprezza respiro aspro diffuso con ronchi e rantoli su tutto l’ambito respiratorio. Un piccolo soffio 1-2/6
sulla parasternale sx. Il giorno successivo al ricovero alla ore 8.25 viene praticato ecocolordoppler cerebrale
risultato nella norma. Si programmano : EAB, routine ematologia pediatrica + RAST per PLV, Tamponi,
EEG, Holter, ECG, ecocardiogramma. Prescritta la seguente terapia : (lavaggi nasali, aerosol con clenil A e
soluzione fisiologica, 3 volte al dì). Alle ore 18: 40 nuova crisi di apnea : SAT O2 95 %, EAB : PH 7.47, PCO2
16 mmHg, PO2 76, Na + 157mEq/L, K+3.6 Ht 20%, Be -12.1 mmol/L. Viene applicato cardiomonitor e si
aggiunge in terapia ranitidina (1, 5 ml x 2).
RISPOSTE ESAMI : Emocromo (GB 13.650, GR 3.260.000) PLT 499.000, HB 9.3 gr/Dl, HT 27.1%. Sierologia
ed indici infiammatori nella norma. IGE totali e RAST X PLV. Negativi. Ricerca sangue occulto negativo.
Coprocultura x SS negativa. EAB venoso : PH 7.33, pCO2 45 mmhg Po243, BE-2.2. EEG (nella norma) Gli
esami strumentali sono tutti nella norma. Holter (extrasistolia ventricolare non frequente.). Dal diario
clinico giornaliero si rileva che le crisi di apnea sono più frequenti nelle ore pomeridiane e notturne,
il pz presenta spesso crisi di pianto rabbioso inconsolabile, mostra schiumetta alla bocca, assume un
atteggiamento in opistotono inarcando il tronco ed il collo.
Si fa diagnosi: Condizione SIMIL ALTE. SINDROME DI SANDIFER. MALATTIA DA RGE. Alla dimissione:
terapia posturale antireflusso e Ranitidina x os (10 mg/kg b.i.d.). Non viene ritenuta necessaria la PH
impedenziometria
GENETICA E SINDROMI MALFORMATIVE
Giosi Saggese
COMUNICAZIONI E POSTER
388 GENETICA E SINDROMI MALFORMATIVE
Case report: Sindrome di Leopard aspetti clinici ed
anestesiologici
L. Moccia, S. Campa, R. Grella
Seconda Università degli Studi di Napoli - Cattedra di Chirurgia Plastica e Ricostruttiva
Introduzione
La sindrome di LEOPARD è una rara sindrome malformativa caratterizzata da alterazioni cardiache,
cutanee e facciali. La denominazione deriva da un acronimo inglese in cui L sta per lentigines, E per
electrocardiographic conduction defects, O per ocular hypertelorism, P per pulmonary stenosis, A per
abnormality of the genitalis, R per retarded growth e D per deafness.
La reale incidenza di questa sindrome rimane sconosciuta anche se viene stimata intorno a 1 /1000-2500;
colpisce in uguale misura sia il sesso maschile che quello femminile.
È una sindrome che viene trasmessa con modalità autosomica dominante; in circa l’85% dei casi è stata
riscontrata una mutazione missenso degli esoni 7, 12 o 13 del gene PTPN11 mappata in 12q24 che regola
la produzione della proteina SHP-2.
La diagnosi si basa sulle valutazioni cliniche che comprendono la necessità di eseguire videat: cardiologici,
endocrinologici, neuropsichiatrici e otorinolaringoiatrici ed un esame istologico.
La terapia chirurgica ha l’obiettivo di curare le varie anomalie apparse.
Caso clinico
Presentiamo il caso di X. X di anni 15 arrivato alla nostra osservazione nel 2006 con diagnosi di Sindrome
di Noonan variante di LEOPARD.
Il paziente si presentava all’esame obiettivo con un aspetto caratteristico del viso di forma triangolare
e con bassa attaccatura delle orecchie; quest’ultime presentavano entrambe una conformazione ad
ansa e una deviazione dell’asse verticale particolarmente evidente all’ altezza del padiglione auricolare.
Presentava inoltre lentiggini su viso e collo.
Il paziente è stato dunque sottoposto ad intervento chirurgico di otoplastica volto a correggere i dimorfismi
a carico delle orecchie. L’intervento può essere eseguito in anestesia locale con o senza sedazione oppure
in anestesia generale in funzione dell’età del paziente. Consiste nell’asportazione di una piccola ellisse di
cute della faccia posteriore del padiglione auricolare, successivamente si indebolisce la cartilagine con
il bisturi e si provvede al rimodellamento e al riposizionamento di quest’ultima che viene suturata nella
nuova posizione con punti non riassorbibili.
Al termine dell’intervento è stata realizzata una medicazione modicamente compressiva e instaurata una
terapia analgesica per os e una terapia antibiotica.
COMUNICAZIONI E POSTER
GENETICA E SINDROMI MALFORMATIVE
389
DISOSTOSI ACROFACCIALE TIPO NAGER
F. Fulia1, P. Meo1, C. Cacace1, A. Anania1, G. Corsello2
1
Unità di Terapia Intensiva Neonatale (Direttore: Dott. Elio Coletta) - Ospedale di Patti (ME)
Dipartimento Materno Infantile Università di Palermo (Direttore Prof. Giovanni Corsello)
2
Neonata di sesso femminile nata da taglio cesareo d’elezione alla 38^ settimana da gravidanza decorsa
in modo fisiologico. Peso alla nascita 2940 gr. Trasferita presso il nostro reparto reparto la piccola viene
sottoposta ad un attento esame clinico che evidenzia dismorfisimi facciali evidenti quali: Rime palpebrali
antimongoliche; stenosi dei dotti lacrimali; naso grosso a bulbo; macrostomia; macroglossia; agenesia
della lamina posteriore del palato; micrognazia; ipoplasia malare; padiglioni auricolari ad impianto basso;
I dito della mano con impianto prossimale; stenosi del condotto uditivo esterno di destra. La facies tipica
delle forme di disostosi mandibolo-facciale associata alle anomalie degli arti superiori ci ha permesso di
porre diagnosi di Sindrome di Nager. Si tratta di una rara forma di disostosi oro-facciale caratterizzata da
dimorfismi facciali tipici quali: ipoplasia malare e mandibolare marcate, rime palpebrali inclinate verso
il basso con assenza delle ciglia nella parte media della palpebra inferiore, talora assenza o stenosi dei
condotti lacrimali e palatoschisi; padiglioni auricolari a basso impianto, dismorfici, con stenosi o atresia
dei condotti uditivi esterni, talvolta presenza di appendici cutanee preauricolari. In più sono tipiche le
anomalie del pollice:ipoplasia, aplasia, trifalangismo, con o senza anomalie delle ossa dell’avambraccio:ipoaplasia del radio e sinostosi radio-ulnare con estensione limitata dell’avambraccio. Sono incostanti altri
difetti quali: la sindattilia o l’assenza delle dita dei piedi, ipoplasia delle coste, la lussazione dell’anca,
la bassa statura, il criptorchidismo, la displasia delle mammelle, raramente i difetti cardiaci. Posta la
diagnosi di sindrome malformativa la paziente è stata sottoposta ad una serie di indagini strumentali.
La radiografia del torace, delle mani, degli avambracci e l’ecografia cardiaca sono risultate negative.
L’ecografia cerebrale ha evidenziato un pregresso versamento emorragico in regione subependimale di
sinistra. L’ecografia renale, invece, ha mostrato una iperecogenicità della midolla regredita ai controlli
successivi. La tomografia assiale computerizzata ha confermato la stenosi del condotto uditivo esterno di
destra. Ugualmente positivi (TEOAE : refer) sono risultati i test audiologici. La prevalenza non è nota; sono
stati pubblicati circa 70 casi di sindrome di Nager. Come la maggior parte dei casi descritti in letteratura
anche il nostro risultava un caso sporadico, legato ad una nuova mutazione. Di questa sindrome è certa
la base genetica, c’è evidenza di trasmissione sia a carattere dominanate che recessiva soprattutto per le
forme con gravi difetti degli arti e palatoschisi. Il gene è stato mappato sul cromosoma 9 (9q32). I soggetti
affetti da tale patologia presentano problemi di respirazione ed alimentazione correlati all’ipoplasia
delle vie aeree superiori. Nella nostra paziente si è resa necessaria solo ossigenoterapia per un periodo
di 5 giorni. Per quanto riguarda le problematiche alimentari la piccola è stata nutrita con sondino orogastrico. In atto le condizioni clinico-auxologiche sono soddisfacenti ed è stato avviato un programma di
follow-up multidisciplinare.
COMUNICAZIONI E POSTER
390 GENETICA E SINDROMI MALFORMATIVE
La malattia di Morquio, descrizione di un caso clinico
A. D’Apuzzo, G. Miranda, A. Miranda, A. Borrelli, P. Ranieri, A. Possemato, M. Sansone, S.
Tarallo, M. Caputo
Clinica S.Lucia S.G. Vesuviano
La malattia di Morquio o Mucopolissacaridosi IV è una malattia lisosomiale causata dal difetto di due
enzimi coinvolti nella degradazione dei mucopolissacaridi : la galattosidasi-6-sulfatasi (Morquio A) e la
Beta-galattosidasi(Morquio B). Ambedue sono trasmesse con modalità autosomica recessiva. Il gene che
codifica la galattosidasi -6-sulfatasi è stato localizzato sul cromosoma 16q24. Le malattie lisosomiali sono
caratterizzate da una sintomatologia progressivamente ingravescente psicomotoria e a carico della milza,,
del fegato, dello scheletro, della cute, degli annessi cutanei e dell’occhio. Esordiscono generalmente nei
primi mesi di vita oppure nei primi 2 anni di vita, hanno un decorso progressivo e cronico e presentano
caratteristiche cliniche comuni(un aspetto dismorfico e gargoil-simile del viso, macrocrania, nanismo,
disostosi multiple, limitazione della motilità, ritardo mentale (che è assente nella m. di Morquio), e una
serie di altri sintomi quali epatosplenomegalia, frequenti bronchiti, sordità, opacità corneali. Esistono
tuttavia mal