I gioielli popolari e gli amuleti della collezione
Transcript
I gioielli popolari e gli amuleti della collezione
I gioielli popolari e gli amuleti della collezione Gaetano Perusini. Storia, tipologie, funzioni, valori. Gian Paolo Gri La storia e le ragioni della collezione Gaetano Perusini (1910-1977) ha contribuito in molti modi alla ricerca della cultura tradizionale e popolare del Friuli. Fra i meriti, va segnalato in particolare lo sforzo di intrecciare in maniera nuova e coerente etnologia e storia, restituendo al discorso sulle caratteristiche specifiche della tradizione friulana, in contrapposizione alla superficialità dello sguardo folkloristico precedente, profondità temporale e attenzione ai processi di mutamento. La riuscita del suo progetto aveva come condizione obbligata, sul piano metodologico, l’utilizzo e l’integrazione di fonti diverse. Esemplari, da questo punto di vista, restano i suoi contribuiti sul diritto consuetudinario (culminati in Vita di popolo in Friuli. Patti agrari e consuetudini tradizionali, il volume edito a Firenze nel 1961, entro la prestigiosa collana “Biblioteca di Lares” della Olschki) e i saggi (scritti, in un primo tempo, insieme a Lea D’Orlandi) dedicati alla ricostruzione storica e tipologica delle forme di abbigliamento tradizionale e popolare del Friuli. Nella ricerca sui contesti delle forme giuridiche di tradizione orale e sulle forme d’abbigliamento egli incontrò subito i gioielli e alcuni dei problemi di descrizione e interpretazione che essi comportano. Una prima questione – quella da cui mosse anche la ricerca di Perusini – è rappresentata dalla connotazione prevalentemente femminile degli ori, rispetto alla distribuzione sociale più generica degli amuleti. Anche nella consuetudine friulana la trasmissione degli ori nelle famiglie avveniva (e in parte ancora avviene) prevalentemente per via femminile. I gioielli derivano da un sapere e nascono dalle mani di un artigianato maschile, ma poi si addensano nei corredi e accompagnano – con poche e interessanti eccezioni – i momenti più significativi (i rituali “della prima volta”) delle biografie femminili. Con una connotazione di genere concludono spesso anche il loro viaggio, quando divengono oggetto di dono votivo ad alcune immagini della Madonna. Gli ori, inoltre, erano corredo obbligato del sistema d’abbigliamento anche a livello popolare: partecipavano all’insieme d’ornamentazione, con ricami e merletti; aderivano al corpo, lo impreziosivano e in certo qual modo lo difendevano (basti pensare alla loro collocazione tradizionale sui punti d’apertura, nelle ‘aree di confine’ del corpo verso l’esterno); come oggetti privilegiati di dono e come parte sostanziale del rapporto fra dote e controdote, ‘condensavano’ nella loro natura materiale e formale la sostanza profonda delle relazioni fra famiglie e persone, erano indicatori privilegiati di status a vari livelli; erano anche un bene-rifugio e costituivano una forma di investimento economico e di garanzia. Già queste prime sommarie indicazioni fanno comprendere la natura complessa dei gioielli e l’interesse che essi presentano in prospettiva storico-antropologica. Fu merito di Gaetano Perusini assumere quest’ambito di ricerca e accompagnare per la prima volta in maniera sistematica una attenta e analitica ricerca documentaria intorno ai “gioielli scritti” (presenti cioè nelle carte d’archivio, a diversi livelli; patti e inventari dotali, legati testamentari, inventari di bottega, registri di pegno, e così via) con la raccolta e la catalogazione degli stessi nella loro concreta materialità. Dovette superare molte difficoltà, intrinseche a quest’area di collezionismo difficile, perché se agli ori difficilmente si rinuncia quando sono carichi di ricordi e di affetti, è anche vero che i gioielli si disperdono facilmente (soprattutto quelli di minor valore, come in contesto popolare), si vendono, vengono fusi per farne di nuovi, si falsificano, vengono rubati, e quant’altro. Non a caso la quasi totalità della collezione copre un periodo che va dal tardo Settecento a metà Novecento; i manufatti più antichi sono pochi e non sempre di ambito popolare. Resta sempre vera l’affermazione (e rappresenta una sfida per la ricerca etnografica) secondo cui è meglio documentato il sistema di ornamentazione del mondo antico, grazie al lavoro degli archeologi, che quello popolare di età moderna. Anche un’altra ragione spinse Gaetano Perusini ad affrontare questo particolare contesto di ricerca. Nel 1911, per celebrare il primo cinquantennio dell’Italia unita, si tenne a Roma una Mostra di etnografia italiana. Essa segnò una tappa importante nella storia degli studi demo-etnologici nazionali. Per la prima volta, e dopo una intensa campagna di ricerche locali coordinate da Lamberto Loria, si tentò la presentazione generale delle specificità regionali entro un quadro unitario nazionale. I materiali di quell’esposizione, concluso l’evento, rimasero a lungo accantonati e soltanto decenni dopo divennero fondamento delle collezioni presenti nel Museo nazionale delle arti e tradizioni popolari, a Roma-EUR. Parte cospicua della raccolta di oggetti avviata in vista dell’iniziativa del 1911 riguardò i costumi regionali e i relativi accessori d’ornamentazione. Con i gioielli acquisiti in quel primo Novecento, nel 1964 l’etnologa Annabella Rossi organizzò a Roma un’esposizione dedicata all’Oreficeria popolare italiana. L’occasione permise di rilevare la completa assenza di documentazione friulana: le campagne di ricerca e di raccolta documentaria che prepararono l’esposizione nazionale del 1911 avevano tenuto in scarso conto o avevano fallito il rilevamento in quest’area già di per sé laterale e marginale, caratterizzandola come una sorta di zona etnografica grigia. Nel 1962 il Comune di Udine aprì finalmente, sia pure in sede provvisoria, la tanto attesa sezione etnografica dei Civici Musei. Il nuovo Museo friulano delle arti e tradizioni popolari doveva molto all’iniziativa e alle collezioni di Gaetano Perusini. Amico di Annabella Rossi, egli si ripromise di rimediare anche al vuoto documentario friulano nel settore dei gioielli. Nel 1965 iniziò una campagna sistematica di acquisti per arricchire il primo modesto nucleo di ori che aveva raccolto durante le campagne di ricerca sul costume popolare nel Maniaghese e nel Cividalese. L’acquisizione continuò poi in maniera ininterrotta fino alla sua morte; alla fine, i pezzi da lui riuniti e schedati furono oltre 5500, circa duemila più di quanti ne conta l’intera collezione nazionale romana. Insieme con la raccolta, egli avviò pure iniziative di riproposta. In collaborazione con i Musei Civici udinesi, nel 1966 organizzò in Castello una prima mostra di oreficeria popolare, utilizzando materiali della propria collezione, unendoli a gioielli della raccolta presente nei depositi del museo cittadino e a gioielli tradizionali posseduti dal maestro orafo Eliseo Zoratti. L’illustrazione della raccolta continuò poi attraverso saggi e interventi vari, man mano che la stessa si arricchiva di documenti non solo friulani e giuliani (triestini e istriani), ma anche veneti, balcanici, e soprattutto siciliani e valsesiani, in collegamento con gli sviluppi dei suoi studi e con l’interesse comparativo che li caratterizzava. Alla morte di Gaetano Perusini, per sua volontà la collezione pervenne al Sovrano militare Ordine di Malta; trasferita materialmente presso la Cassa di Risparmio di Udine (ora presso la Fondazione collegata alla stessa), per volontà dei due enti venne schedata e illustrata in maniera sistematica da Novella Cantarutti e Gian Paolo Gri, allievi e collaboratori in molte campagne di ricerca di Perusini. Dopo una prima esposizione riassuntiva nei locali della Cassa di Risparmio (primavera del 1989), una ricca selezione di gioielli della collezione poté essere ammirata dal pubblico nella mostra Ori e tesori d’Europa. Mille anni di oreficeria nel Friuli-Venezia Giulia, organizzata a Villa Manin di Passariano fra l’estate e l’autunno del 1992. In quell’occasione, i materiali della collezione Perusini poterono per la prima volta essere accostati agli importanti nuclei di gioielli tradizionali presenti nelle collezioni del musei udinesi, di Gorizia e di Trieste. Le caratteristiche e l’organizzazione della collezione La collezione Perusini documenta in particolare l’area del Friuli Venezia Giulia: vi si riferiscono oltre metà dei gioielli raccolti (1800 circa in area friulana, 1200 circa in area giuliana e istriana). Altri nuclei consistenti rimandano alla tradizione popolare del Veneto, della Lombardia, della Valsesia (nucleo legato a una ricerca sui costumi tradizionali di quella valle, avviata nei primi anni Settanta) e della Sicilia (circa 600 pezzi raccolti con intento comparativo, anche con l’aiuto di colleghi etnologi locali). Ma l’importanza della collezione Perusini non è soltanto di ordine quantitativo; la caratteristica è data fondamentalmente dalla prospettiva specificamente etnografica del rilevamento. La raccolta non era guidata da intendimenti estetici, insomma; si trattava di documentare tipologie, di raccogliere quante più varianti possibile delle stesse, di utilizzare gli ori non per meri fini documentari, ma come fonti per la ricostruzione di funzioni e significati più generali presenti nell’orizzonte tradizionale e popolare. Quest’ottica particolare spiega anche lo sforzo di acquisire per quanto possibile non pezzi singoli, ma serie intere, consistenti e omogenee. L’iniziativa più importante, in questa prospettiva, fu l’acquisizione di diversi nuclei di gioielli provenienti da piccoli santuari locali; proprio questi insiemi organici costituiscono in assoluto il settore della collezione più interessante, dal punto di vista storico-etnologico. Durante la sua vita, Perusini tornò ripetutamente sui criteri di ordinamento della collezione. Man mano che essa cresceva, alcune questioni si facevano più chiare (che significato dare alla qualifica di ‘popolarità’ attribuita ai gioielli, ad esempio), problemi nuovi si presentavano (in ordine ai processi di mutamento ed evoluzione delle tecniche di produzione, in particolare) e man mano che lo sguardo comparativo si faceva più lucido, si mostrava sempre più complessa e intricata la questione della ‘geografia degli ori’. Come altri elementi del sistema d’ornamentazione collegato all’abbigliamento (fazzoletti da spalle, copricapi, passamaneria preziosa, calzature festive, e simili), poiché erano elemento portante del circuito dei doni – del dono nuziale, in particolare – i gioielli giravano, erano caratterizzati da una mobilità più alta di quanto non fosse per altri aspetti della cultura materiale tradizionale. Giravano soprattutto in contesti di contatto culturale e segnati da forte emigrazione, come il Friuli, al centro per secoli di correnti che mediavano fra mondo nord-adriatico (con la grande tradizione della gioielleria veneziana, in contrappunto con la produzione di conterìe) e mondo transalpino e danubiano. Altro nodo cruciale che si presentò immediatamente a Perusini, fin dall’acquisizione dei primi pezzi già nelle campagne di ricerca sui costumi popolari del Friuli, fu quello rappresentato dal peso della funzione protettiva. Venne sempre più attratto dal settore degli amuleti. In molti casi il carattere amuletico degli ‘oggetti da indossare’ era esplicito: si trattava, aiutandosi con i risultati di altre imprese collezionistiche precedenti (Bellucci, in particolare) e con l’aiuto di una bibliografia amplissima, di raccogliere, catalogare, distinguere per tipologie e specificità (amuleti legati all’infanzia e alla maternità; amuleti per soldati, settore importante del “folklore di guerra” che fu più volte al centro dell’interesse di Perusini; amuleti terapeutici, da viaggio, legati al mondo della religione o a pratiche esoteriche, e così via). In altri casi la funzione era più ambigua, e il tema incrociava quello più generale dei simbolismi utilizzati nella produzione e nell’acquisizione degli ori: forme, colori, qualità delle pietre, richiami al simbolismo vegetale e animale e a quello di alcune parti del corpo, incisioni e scritture, collocazioni, associazione con pratiche rituali (fino all’ex voto prezioso) e altro ancora. L’ultimo volume che Perusini aveva in mente al momento della scomparsa, e del quale restano soltanto appunti preparatori (ma un saggio importante già lo aveva dato con Amuleti ittici del 1970), era dedicato proprio al mondo degli amuleti. La complessità delle questioni spiega e per molti aspetti giustifica il criterio misto utilizzato da Perusini nell’ordinare la collezione, suddividendola in settori e sottosettori. La partizione più larga tende a incrociare le tipologie fondamentali del gioiello tradizionale europeo individuate utilizzando la terminologia che richiama o rimanda alla collocazione sul corpo (ornamenti da testa, orecchini, collane, braccialetti, anelli, spilloni e spille, pendenti) con la partizione areale; ma anche qualche altro criterio viene utilizzato, e incrocia i precedenti: in alcuni casi tipologie speciali di manufatti (rosari, ex voto d’argento, medaglie di santuario e confraternita, catene d’orologio, bottoni), contesti più specifici (gioielli da lutto, per bambole, gioielli di scavo), materiali particolari (il corallo, segnatamente). All’interno delle grandi partizioni, la suddivisione è più minuta; incrocia varianti formali, tecniche di lavorazione, materiali utilizzati, elementi decorativi. Il dono degli ori e i riti di passaggio Gli ori prevalentemente si donavano e si donano. Rappresentano una delle categorie di oggetti più intriganti, perché non esauriscono mai la propria storia nei circuiti dello scambio economico e pratico. Sostengono (esprimono, rappresentano, ma anche determinano) i circuiti della reciprocità. Sono oggetti totali: frutto di saperi e tecniche specializzate, si fanno scegliere per tradizione o per moda, costano, hanno sempre un valore estetico, assolvono funzioni pratiche (trattengono capelli, veli, lembi di abiti; sostengono altri manufatti), hanno collocazioni definite sul corpo, dichiarano appartenenze specifiche ma anche aspirazioni a mutarle, esprimono bisogno di protezione, sono la materializzazione di legami, passando di mano si caricano di valori, affetti e storie. Un criterio di lettura degli ori porta a seguirli proprio in questo loro viaggio di accompagnamento delle vicende personali più importanti; sono il contrappunto dei riti di passaggio, con le loro caratteristiche di genere. Il vincolo della tradizionalità si rende più evidente proprio nelle tipologie di gioielli legate ai contesti rituali. Secondo forme tradizionali, erano dono di battesimo, si offrivano per la prima comunione e la cresima, avevano ruolo centrale e segnavano le tappe del fidanzamento e del matrimonio, entravano nei legati testamentari e passavano di generazione secondo circuiti predeterminati. Suggellavano a questo modo i rapporti di parentela e garantivano quei legami più sottili che trovavano forma nelle figure della parentela simbolica e spirituale: madrine, padrini, compari e comari. Reggevano i giochi dell’amicizia e dell’amore; erano pegno di promessa, garantivano e perpetuavano il ricordo. Per questa capacità di rappresentazione e di condensazione, i gioielli rappresentano una chiave preziosa per cogliere l’universo dei significati e dei valori di una comunità e di una cultura. Mi limiterò a qualche cenno al contesto friulano. La collezione Perusini permette di documentare in maniera analitica, in tutta la gamma di variazioni, soprattutto due momenti particolarmente intensi del circuito tradizionale del dono: il legame con il complesso (soprattutto sul versante femminile) rito di passaggio del fidanzamento e del matrimonio e la pratica tradizionale del dono votivo degli ori personali alla Vergine Maria. “Indorare” la sposa e “indorare” l’immagine sacra erano atti simbolici fortemente connessi. Nella società preindustriale, la presenza degli ori caratterizzava la donna sposata e ne segnalava lo status. «Vera e tondini» (l’anello a fascia e la collana di perle metalliche, magari solo di metallo, se non potevano essere d’argento) rappresentavano il minimo di dotazione che la tradizione richiedeva in età moderna; a lungo ci fu la cintura preziosa (sciolta quando la sposa restava in-cinta, appunto), abbandonata in area friulana nel corso del Cinquecento; poi vennero il cordon d’oro e il pontapèt. Il dono di gioielli accompagnava tutte le tappe dell’avvicinamento al matrimonio, a partire dalla prima frequentazione, segnalandole alla comunità e rendendole vincolanti. Anche in area friulana, come in quella veneta e istriana, fra Seicento e Ottocento, quando una ragazza mostrava di accettare la corte, prima di impegnarsi formalmente, riceveva dal ragazzo insieme con altri doni simbolici un anellino a fascia decorato con simboli amorosi. La collezione documenta una vasta gamma di tipologie, più o meno antiche: anelli in forma di serpente a più spirali, a forma di mani intrecciate, con un simbolo religioso, con il cuore o la chiave; con qualche scritta a stampo (anche i gioielli accompagnano la storia dell’alfabetizzazione): ‘Spero’, ‘Oso’, ‘Amo’ e ‘Amor’, ‘Fede’ e simili. La promessa formale, che richiedeva la stipula dell’accordo matrimoniale verbale fra le famiglie, era rappresentata dal dono e dichiarata dall’esibizione della stella da infilare nella striscia di velluto intorno al collo, della spilla pontapèt con la pietra augurale rossa, del pendente formato da una moneta d’oro o d’argento legata (l’osella o il mocenigo veneziani o il tallero asburgico, più spesso), oppure dal cuore o dalla croce, in tantissime varianti. Poco prima del matrimonio la ragazza riceveva in dono gli spilloni da infilare nei capelli con la testa o i fiori oscillanti (i tremoli) in filigrana; talvolta un paio di orecchini: in Friuli i pìrui dai lunghi pendenti, rìncjas o rincjns a cerchio o mezzaluna, bùculis con la pietra; in Istria, le navisele in lamina decorata e traforata. Dalla propria famiglia riceveva il manìn o cordon d’oro (o spagnolét, un nome che derivava dalla tecnica di lavorazione adottata a Venezia) computato poi fra i beni dotali, oppure la collana di granati o di coralli; in tempi più antichi, fin dentro il Seicento, la collana di perusini: con i grani d’oro o d’argento lavorati in filigrana. Dalla madrina di battesimo riceveva un paio di orecchini. Altri gioielli potevano entrare nella dote, ma a caratterizzare il matrimonio, nel bilanciamento di beni consegnati agli sposi dalle rispettive famiglie e tradotto simbolicamente nella pratica dei doni e dei controdoni, restavano comunque gli anelli: la vera o rincja dello sposo, l’anello del compare, molto spesso l’anello con pietra della suocera; la sposa ricambiava con capi d’abbigliamento (manufatti “morbidi”, dunque: camicia, fazzoletto soprattutto) impreziositi dal ricamo e dal merletto. Il capitolo sui doni e controdoni nuziali è fra i più interessanti: meglio che altrove vi si apprezzano la combinazione di gratuità e obbligo che è caratteristica del dono, la lunga durata delle tradizioni che implicano la presenza di manufatti preziosi, la conservatività particolare delle tradizioni friulane e istriane nel fondere in intreccio originale consuetudini nuziali antiche, latine e germaniche. C’è una correlazione interessante che va segnalata anche nelle tradizioni popolari friulane: è la presenza del simbolismo dei gioielli utilizzati nel rito di passaggio nuziale nell’ambito della tradizione orale formalizzata, nel canto cioè e nelle fiabe e leggende. Proprio gli ori si ritrovano, infatti, fra il materiale simbolico utilizzato nel canto di tradizione orale per esprimere l’opposizione fra mondo desiderato e mondo reale: Oh saltàit, balàit fantates Fin che il deit no l’é leât, Quant che il deit a l’a la rincja Il bon timp a l’è passât Oh saltate, ballate ragazze finché il dito non è legato; quando il dito ha l’anello il buon tempo è passato fra apparenza e realtà: Ce cj zòvin las tos cercjes E po’ ancje i cjei rincjns, Se tu sos di ches cavernes Fôr dal mont dai moscardins? Che ti giovano le tue collane e anche i tuoi orecchini, se tu sei di quelle caverne lontane dal mondo degli eleganti? nel sottile gioco di allacciamento dei rapporti attraverso il motteggio fra ragazzi e ragazze: Lis fantatis tauseanis Le ragazze di Tausia Nome pirui e ricioz, solo orecchini pendenti e riccioli, E tre dis dopo sposadis e tre giorni dopo sposate Van tirant i scafaroz; vanno trascinando le ciabatte a tradurre nel gioco dei simboli matrimoniali – le perle per lei, il cappello fiorito per lui – lo scambio degli affetti: Daimi daimi chel garoful Che lu meti sul cjapiel, Jò us darai un fîl di perles Che les metis tor il cuel; Datemi, datemi quella rosa per metterla sul cappello, io vi darò un filo di perle perché le mettiate intorno al collo e viceversa: Oh vô daimi quatri perlis Che les meti ator il cuel, Us darai un mac di rosis Che les metis sul cjapiel Oh voi datemi quattro perle perché le metta intorno al collo, io vi darò un mazzo di fiori perché li mettiate sul cappello I canti di tradizione orale conservano memoria anche dello stereotipo del corredo e dei controdoni preziosi che si riteneva dovesse accompagnare la sposa: ...Rincjns tes orelis Cordon tor il cuel: Ti cjali bambine, Ti sposi par chel …Orecchini nelle orecchie cordone intorno al collo: ti guardo, bambina, ti sposo per quello Cjolu cjolu tu Tonina Ch’a l’è ancja un bon paron! A cj dona l’anel d’oro Cui rencjns a pindulon. Prendilo, prendilo tu Tonina che è anche benestante! Ti regala l’anello d’oro con gli orecchini a pendente Un rituale comporta sempre un controrituale. Così, al rito nuziale dell’anello infilato al dito corrispondeva il controrituale del lasciar cadere l’anello; la tradizione ricorda anche il simbolismo negativo dell’anello spezzato o dell’anello mandato volutamente a perdere. Entrambi i riti, in ogni caso, rimandano alla coscienza profonda della singolare efficacia simbolica connessa alla manipolazione degli anelli. L’espressione più forte di questa coscienza continua ad essere affidata ancora una volta alla formalizzazione del canto di tradizione orale e ad alcuni temi narrativi. Così la villotta Legramenti fantacinas Fin che il dêt no l’è leât, Parcè dopo ‘o podês dilu: Oh ben miò, la sestu lât? Allegramente ragazzine finché il dito non è legato, perché poi potrete dirlo: Oh felicità mia, dove sei andata? Leâ e disleâ – legare e slegare – sono verbi di particolare carica simbolica: connessi non solo con la coscienza di un particolare impegno di tipo giuridico (impegn, in friulano, è il termine con cui si designa l’obbligo morale di trasformare la promessa in matrimonio, sostanziandolo con il dono di un pegno/segno prezioso da esibire), ma anche con la coscienza di un legame di natura più intrigante; leâ e disleâ – come, del resto, l’inzercolare del vicino Veneto in riferimento al simbolismo del circoscrivere e del comandare – sono anche i verbi utilizzati per esprimere le azioni del fascinare, dell’ammaliare, dello stregare, del prendere possesso ‘magico’ di una persona, e della liberazione ad opera di un contro-stregone o di una benedizione religiosa. La natura profonda del vincolo ha la sua tradizione narrativa più forte nelle fiabe che anche in Friuli variano il tema di Lenore: dalla promessa fatta al ragazzo alla vigilia della partenza per la guerra (o l’emigrazione) e che, morto in terre lontane, torna fantasma a chiedere il rispetto della promessa, Madalene potrà liberarsi soltanto col taglio doloroso dell’anulare; resterà comunque segnata nel corpo per il gesto rituale compiuto. Ma se c’è il dono dei gioielli, c’è anche il dono del dono. Un tratto specifico della collezione Perusini, come si diceva, è la presenza di un consistente manipolo di gioielli derivato dall’acquisizione di alcuni nuclei completi (una decina) di ori votivi appartenenti a piccoli santuari o ad altari mariani di chiese friulane. La tradizione di donare al simulacro sacro i gioielli personali (la parte più preziosa di sé, in termini simbolici; l’intera storia della propria vita, espressa attraverso i simboli culminanti dei riti di passaggio che l’hanno segnata) è antica; il cristianesimo e in particolare la devozione mariana la ripresero e la rilanciarono. Il caso del gioiello trasformato in dono votivo fa pensare a un’ulteriore funzione, rispetto alle tante che i gioielli assolvevano (funzioni pratiche, estetiche, di investimento economico, di segnalazione degli status, di esibizione e di seduzione, di pegno e ‘segno’ di legami, alleanze e affetti; funzioni cosmologiche e funzioni terapeutiche e protettive, e altro ancora); essa rimanda al fenomeno della votività entro la sfera religiosa, con i suoi risvolti ancora una volta pratici (dopo tutto, le offerte costituiscono la ‘dote’ della chiesa, e anche i gioielli votivi si possono fondere, vendere, sequestrare o rubare) e simbolici, e al bisogno di liberare questo tratto culturale dalle interpretazioni banali in termini di “do ut des” fra devoto ed entità sacra. Il tema antropologico della reciprocità pare più pertinente: anzi, si intravede qui una sorta di sublimazione della reciprocità. Anche se talvolta gli ori collegati ai simulacri sacri possono richiamare valori di ‘consumo vistoso’, di esibizione e di prestigio (l’analogia con le reliquie potrebbe essere illuminante), essi rimandano più normalmente ai contesti antropologici della sventura e dell’affidamento. Come tali, richiamano un nodo di esperienze vitali e di emozioni non tradotto in discorsi, ma come oggettivato in ‘cose’, e in “cose preziose”. In termini antropologici, il richiamo immediato è alla categoria degli oggetti-preghiera (Bastide): quegli oggetti, presenti in tutte le culture – ciottoli che i passanti aggiungono a certi mucchi sul margine delle strade, bastoni o pietre fitte in terra, stoffe o aquiloni lasciati al vento – che sono materializzazione di bisogni e di desideri; sono smarrimento e invocazione; sono tentativi di relazione ed espressione dei sentimenti di finitudine, dipendenza, affidamento e gratitudine. Ci sono, poi, anche importanti risvolti documentari legati a questa vicenda degli ori che vedono la collocazione nella sfera del sacro come ultima loro destinazione. Il fatto di poter disporre, come nella collezione Perusini, di nuclei di gioielli di provenienza omogenea, da piccoli santuari e da piccole chiese di paese, rende più agevole il lavoro di determinazione delle caratteristiche areali o subareali, permette il riconoscimento di fenomeni di ritardo e di prestito, garantisce la fondatezza delle procedure comparative intorno a oggetti dotati per loro natura di una notevole tendenza alla mobilità e alla dispersione. La dimensione simbolica Alla preziosità intrinseca, ai valori connessi al fatto di essere oggetti di dono, gli ori votivi vedono dunque aggiungersi un nuovo livello di valore. Come dono di doni, essi assumono l’intero contesto dei significati e delle funzioni che ho cercato di richiamare insieme con gli ambiti storici di riferimento, e li trasferiscono oltre la soglia dei contesti abituali. I gioielli non sono più cose; sono integralmente simbolo e valore. Nel contesto della sacralità è come si consumasse (nel senso che il verbo possedeva quando era riferito alla pratica del sacrificio, con l’immolazione e la consumazione di ciò che era presentato all’altare) l’intero complesso simbolico che caratterizza i gioielli. Gaetano Perusini, da etnologo, pensò e organizzò la collezione con particolare attenzione alla dimensione simbolica. Gli ori, infatti, non soltanto concentrano e incrociano al proprio interno simbolismi complessi, ma ne permettono anche la conservazione, la trasmissione e la lunga durata. Lo sguardo sulla collezione nel suo insieme fa apprezzare immediatamente questa dimensione: vi appaiono evidenti il simbolismo delle materie prime utilizzate dagli orafi, quello dei colori, delle forme e dei moduli decorativi, dei punti (liminari) e dei modi della collocazione sul corpo. Vi appaiono in relazione – resi coerenti e reciprocamente permutabili – le simboliche connesse al mondo dei minerali e dei vegetali, il simbolismo animale e quello legato alle parti del corpo umano; si incrociano il simbolismo dei colori e dei numeri, degli astri, dei caratteri e delle forme geometriche. Un aspetto particolare del versante simbolico è rappresentato poi dal rapporto fra ori e amuleti: l’attribuzione, cioè, per credenza tradizionale, ad alcuni oggetti preziosi che fanno parte del sistema di ornamentazione del corpo, o ad alcuni loro particolari costitutivi, di un valore aggiuntivo rappresentato dall’efficacia, in relazione ai bisogni di difesa dalla malattia, dalla sventura e dall’aggressione magica (stregoneria, malocchio), e in relazione ai bisogni di previsione e propiziazione del bene. Questo aspetto si fece presente a Perusini fin dalle prime inchieste (nei tardi anni Trenta del Novecento) sul costume popolare friulano. Lea D’Orlandi, con cui stabilì allora un solido vincolo di amicizia e collaborazione, già si interessava di “credenze e superstizioni”: raccoglieva informazioni, schedava con scrupolo e iniziava a predisporre la documentazione che sarebbe confluita più tardi nei saggi dedicati agli usi matrimoniali friulani. Proprio lì, in riferimento al rito di passaggio centrale delle biografie femminili, si creava l’impasto più interessante di tematiche relative al vestire, all’ornarsi, al proteggersi, allo scambiarsi reciproco, al propiziarsi futuro fecondo. Per tutte queste ragioni, va quasi da sé che la riproposta della collezione Perusini si lasci pensare e organizzare secondo i maggiori campi simbolici che essa documenta. Mi limiterò qui a qualche cenno. Il simbolismo delle materie costitutive e il simbolismo dei minerali, innanzi tutto. Da questo punto di vista, la collezione rappresenta il versante materiale del sistema di credenze documentato in Friuli già nelle pagine di Valentino Ostermann, e meglio precisato in questi ultimi decenni dai ricercatori, soprattutto attraverso la ricca documentazione inquisitoriale friulana. Nel tardo Ottocento, Ostermann riscontrava fra orefici e gioiellieri di Udine la tenuta delle credenze, fissate nei Lapidari medievali e nelle volgarizzazioni successive, intorno alle ‘virtù’ dei cristalli, del diaspro, smeraldo, diamante, giacinto, turchese, calcedonio, crisolito, acquamarina, ametista, agata, ambra, altri materiali ancora, oltre naturalmente all’oro, all’argento, al ferro, rame e calamita. Molte sezioni della collezione garantiscono descrizioni analitiche della forza simbolica del rubino e delle pietre rosse succedanee. Ha radici profonde la credenza nella forza del carbonchio, a legare e alimentare le relazioni d’amore: gioielli con una vistosa pietra rossa hanno accompagnato per questo con tenacia i tempi rituali della promessa e del rito nuziale. Il Friuli entra in un’area di diffusione più ampia, di qua e di là delle Alpi, ad esempio, per quanto riguarda la presenza nei corredi femminili della vistosa spilla in oro a stampo con pietra rossa, nel corso dell’Ottocento, con la funzione di chiudere sul petto l’incrocio del fazzoletto da spalle e della ruta (nel Friuli orientale e in area slovena); di questo gioiello, la collezione Perusini contiene una ricca e articolata tipologia, con innumerevoli varianti giocate dalla diversa combinazione di toni d’oro, cornici di nastri intrecciati, motivi naturalistici (fiori, foglie, racemi), ciondolini, applicazioni di ornamenti. Talvolta gli spilloni sono in parure con gli orecchini. La pietra rossa augurale si presenta anche in diverse varianti dell’anello di promessa a forma di spirale (una tipologia – la bissa – diffusa anche oltralpe e giù, su entrambe le coste adriatiche), incastonata sulla testa della serpe. Uno dei primi gioielli ad entrare nella collezione, recuperato tramite Lea D’Orlandi, fu un filo con tre perle in pasta vitrea di colore lattiginoso, da collocare sul capezzolo, utilizzato da una balìa udinese per favorire la lattazione. Già da solo, quel modesto oggetto avvia la possibilità di un percorso affascinante all’interno della collezione. Con una prima biforcazione: da un lato il viaggio che porta a incontrare i tanti e multiformi preziosi connessi alle pratiche di tutela della gestazione, del parto e della prima infanzia (con il richiamo alla ricca documentazione archivistica, storica ed etnografica presente in Friuli su questo tema); dall’altro il tema affascinante della perla (vera, o nelle imitazioni più diffuse a livello popolare): gioiello femminile e nuziale per eccellenza, centro cosmologico in miniatura associato all’acqua, alla luna, alla fertilità. Il primo sentiero potrebbe essere messo sotto il segno del rametto di corallo che anche in Friuli compare al collo di tante immagini di Gesù Bambino in braccio alla madre, e il viaggio porterà a incontrare le ricche sezioni che Perusini ha dedicato proprio al corallo, in forza del suo ricco valore simbolico. Esso, infatti, al simbolismo del colore unisce la suggestione dell’ambiguità classificatoria, per la collocazione all’incrocio di mondo marino, minerale, animale e vegetale. Più in generale, la profondità storica e mitica degli amuleti ittici interessò molto Perusini. La collezione documenta con ricchezza anche la presenza della conchiglia (vera, nella varietà delle sue forme, o riprodotta in metallo prezioso: la Cypraea soprattutto, col suo simbolismo sessuale femminile, il Pecten, l’opercolo di Trochus per la protezione degli occhi); essa, fin dalla preistoria fonde in sé la funzione ornamentale con quella apotropaica. Ma al mondo marino rimandano anche altri amuleti-gioielli, con altri materiali, altre forme e raffigurazioni: il delfino, il cavalluccio marino, le chele, l’aculeo, le pinne dorsali o la coda di alcune specie di pesci e molluschi, i corallari fossili ricercati come pietre stregonie, i denti di squalo soprattutto se pietrificati (glossopietre: ritenute denti di antichi serpenti-drago, simili per molti aspetti alle punte di freccia in selce che i contadini trovavano nei campi e legavano in oro come pendenti, ritenendole pietre del fulmine, punte materializzate di saetta). Un’altra dimensione simbolica profonda, particolarmente ben documentata all’interno della collezione Perusini è relativa al mondo animale e al mondo vegetale. Vi si riscontra ad esempio, giocata in molti materiali e su tipologie diverse di gioielli, la ricca varietà figurativa del serpente, con valenza evidentemente positiva, come simbolo di fertilità ctonia; ma anche il cane (fedeltà), l’uccellino, la farfalla, il cavallo, il gallo. Fra gli amuleti connessi con il mondo animale, la collezione presenta diversi esemplari di denti (di lupo, cinghiale, tigre, leone, e altro) legati in oro o argento: l’utilizzo come pendente è da ricondurre alle credenze sulla loro efficacia particolare, così come il motivo del corno, contro la stregoneria e l’epilessia (l’ongia della gran bestia, di alcuni inventari di età moderna) e per favorire la dentizione dei bambini. Altrettanto ricca, per la possibilità di variazione ornamentale che garantiva agli artigiani, si presenta la documentazione relativa alla simbologia vegetale, sia in rappresentazione realistica che stilizzata. I gioielli riprendono i linguaggi dei fiori e dei frutti, in analogia e coerenza con gli antichi rituali di corteggiamento e con i motivi decorativi di ricami e cassoni nuziali: messaggi d’amore (la rosa, con la diversa gamma di sentimenti esprimibile attraverso i colori; il garofano), la memoria (la viola del pensiero, il myosotis), la fedeltà (la foglia d’edera), il ramo o i due rami intrecciati a spirale (l’intrecciarsi dei destini, lo svilupparsi della famiglia), la fertilità e la fecondità: la melagrana, il viticcio e il grappolo d’uva, la ghianda (in particolare dopo il recupero neoclassico). Riunendo pezzi che datano in larghissima maggioranza dal tardo Settecento a metà Novecento, la collezione Perusini riflette il fenomeno culturale per cui, con l’avanzare della civiltà borghese, l’ornamentazione preziosa acquistò carattere quasi esclusivamente femminile (salvo l’orecchino maschile, a livello popolare, e la catena d’orologio). Non meraviglia che uno degli elementi simbolici di maggior tenuta e durata sia la luna, emblema per eccellenza della femminilità e della fertilità. L’orecchino a cerchio lunato rappresenta la tipologia più antica presente anche in Friuli, e la più conservativa nelle aree marginali; nel primo Novecento diventa quasi caratteristica specifica delle donne di montagna. Ma la mezzaluna è elemento decorativo diffuso in tutta la gamma dei gioielli, e talvolta assume valore esplicitamente amuletico, in rapporto all’epilessia e a disturbi analoghi. Egualmente per il motivo della stella: accanto al valore segnico che esso assume nel pendente femminile legato al passaggio nuziale, la tradizione riconosce anche il suo valore apotropaico (contro il malocchio, a difesa dai naufragi come orecchino maschile in area lagunare friulana e istriana, contro il mal d’orecchi) e anche in ambito popolare è documentata la penetrazione dei significati debitori della tradizione ermetica, connessa all’uso difensivo del pentacolo e – nella forma a sei punte – dei ‘sigilli’ e ‘nodi di Salomone’. Anche l’universo degli utensili compare, miniaturizzato, nel quadro dei gioielli documentati nella collezione. Ancora una volta è diretto il rapporto con il simbolismo dei rituali, là dove il mondo degli oggetti mostra d’essere, entro la cultura popolare, ben più che una questione di ragione pratica e tecnica: oggetto di dono anch’essi, e dunque di reciprocità che li faceva passare di mano in mano secondo regole tradizionali, capaci di incorporare e rappresentare affetti, ruoli, identità. Ecco dunque sugli ori la chiave (talvolta in associazione con il lucchetto), simbolo di possesso e di padronanza non soltanto del cuore, ma anche della casa (come in tanti ritratti di donne di Carnia a partire dal tardo Settecento); amuleto anche, e parte essenziale dei rituali di cura del mal caduco e di alcuni riti di divinazione. Ed ecco l’àncora (simbolo di stabilità e di fedeltà), il nodo (simbolo fra i più utilizzati nei gioielli di legame), la fibbia della cintura (ultimo residuo, si direbbe, dell’antico e prezioso dono nuziale documentato negli inventari friulani fino al Cinquecento), il ferro di cavallo, il pugnale, e fra gli oggetti simbolo della laboriosità femminile il fuso e le forbici. Anche la raffigurazione di alcune parti del corpo umano assume nei gioielli valore simbolico rilevante (il cuore, in particolare; le due mani che si stringono, in una diffusa tipologia di anelli a fascia legati alla promessa nuziale) e spesso un evidente valore amuletico, di propiziazione (la gobba) o di protezione controaggressiva: l’occhio, la mano che fa le fiche, la mano che fa le corna. La collezione presenta anche una sezione dedicata ai moretti: in diversi materiali e con l’applicazione di smalti e pietre benaugurali, di influenza veneziana e diffusi almeno dal sec. XVII, nel corso del Novecento divennero caratteristici dell’area istriana e dalmata. Un cenno almeno merita la ricca documentazione offerta dalla collezione in riferimento al rapporto fra ori e contesto religioso. I segni della religione portati sul corpo hanno il loro emblema nella varietà di pendenti a forma di croce (una delle sezioni più ricche dell’intera collezione) e nelle medaglie. Anche gli “oggetti di preghiera” venivano trasformati in accessori preziosi: così i rosari, nelle diverse tipologie per numero di grani e di poste e nei diversi materiali, analoghi per preziosità e lavorazione a quelli utilizzati per le collane (pietre dure, ambra, corallo, granato, tondini e perusini). Di particolare interesse è la documentazione che rinvia all’uso terapeutico e protettivo, in contesti di rischio, degli ori a sfondo religioso. Vi appartengono pendenti con raffigurazioni di santi protettori: la medaglia o la moneta con San Giorgio e sul verso la nave in balia delle onde, a difesa degli incidenti a cavallo e soprattutto a tutela dai naufragi, particolarmente diffusa sulla costa istriana; anelli, pendenti, orecchini, scapolari con Madonne (del Rosario, del Carmelo, della Cintura…), sante e santi invocati contro malattie specifiche, acquistati magari presso qualche santuario (Sant’Antonio; Santa Apollonia, per il mal di denti; i santi Osvaldo, Sebastiano e Rocco contro la peste; e così via). Di particolare rilievo nella collezione la presenza del più ricercato degli oggetti religiosi carichi di valore protettivo: l’agnus dei, da quello ‘papale’ in cera, ottenuto a Roma e poi variamente incorniciato e legato in metalli preziosi, fino ai più modesti agnus dei riprodotti a stampo su medagliette da portare al collo, cucite sugli abiti o appese alla culla dei bambini, o fatti da sé, cucendo all’interno di un sacchettoscapolare un grano d’incenso e uno di sale, una foglia d’ulivo, una goccia di cera benedetta e qualche altra sostanza legata all’universo della sacralità.