Gioco dunque sono_Eco di Bergamo_20apr012
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Gioco dunque sono_Eco di Bergamo_20apr012
Eco di Bergamo 1 di 2 http://swap.ecodibergamo.it/SWAP/Bergamo/GiornaleOnLineNew/sta... Venerdì 20 Aprile 2012 TERZA Pagina 51 Martino Doni e Stefano Tomelleri presentano oggi in città il loro saggio sull'attività ludica come iniziazione alle norme dell'età adulta Giulio Brotti E tu, perché giochi? Rivolta a chi è intento a far volare un aquilone o a muovere delle pedine sulla scacchiera, la domanda è perlopiù destinata a restare senza risposta. Quest'ultima, in alternativa, potrebbe assomigliare a una tautologia: si gioca perché il gioco basta a se stesso, non rinvia ad altro; ovvero, perché nell'illusio propria del ludus si inaugurano mondi diversi rispetto a quello della prosa quotidiana, "giardini delle delizie" in cui non si è assillati dal principio di prestazione. Può essere, allora, che proprio per la sua gratuità e autosufficienza il gioco esprima un aspetto essenziale della condizione umana? Friedrich Schiller, ricercando un modo per riconciliare la ragione con gli affetti e le regole con la libertà, giungeva alla conclusione che «l'uomo gioca unicamente quando è uomo nel senso pieno della parola ed è pienamente uomo unicamente quando gioca»; mentre lo storico olandese Johan Huizinga, nel 1938, in Homo ludens, proponeva l'idea affascinante che «la cultura sia dapprima giocata», nel senso che tutte le sue istituzioni "serie", dalla poesia ai riti religiosi, dal diritto all'arte della guerra, avrebbero avuto inizialmente un aspetto ludico. Ci pare che si richiami a questa intuizione, attualizzandola, il bel volume di Martino Doni e Stefano Tomelleri Giochi sociologici. Conflitto, cultura, immaginazione (Raffaello Cortina, pp. 164, euro 16), che sarà presentato dagli autori oggi alle 18 e 30 nella Libreria Articolo 21 di largo Rezzara. Nel primo capitolo di questo loro saggio Doni e Tomelleri (rispettivamente, membro del Centro di ricerca interdisciplinare «scienze umane salute e malattia» dell'Università di Bergamo e docente di Sociologia generale nello stesso ateneo) affermano, in effetti, che «giocare non significa fuggire la realtà: la realtà del gioco non è una pura evasione. Spesso, nel linguaggio comune, soprattutto nel linguaggio delle istituzioni educative, utilizziamo la parola «gioco» per contrapporla alla parola «serietà», come a dire: «perder tempo a chi più sa più spiace» (Purgatorio, III, 78). Ci illudiamo così di controllare il tempo, di dargli una disciplina, un senso adulto e incontrovertibile: ciò che produce ed è conforme a criteri di utilità e di contabilità va bene, il resto è lusso o spreco». All'opposto, i riscontri delle scienze umane dovrebbero indurci a riconoscere che la dimensione del gioco « è il nucleo stesso della vita, nella sua manifestazione più elementare e, a un tempo, più foriera di sviluppi e ramificazioni evolutive. Perdere tempo a giocare significa di fatto guadagnare il tempo, il tempo che è tentativo ed errore, condivisione di prove, esperienza in comune. Tutto ciò fa di noi creature speciali, viventi che non hanno pari tra i viventi». Per governare l'angoscia In Giochi sociologici si mostra al lettore, anche attingendo a un'ampia letteratura sul tema, come le diverse forme di attività ludica possano servire a governare l'angoscia, a rendere sopportabile la palese caducità di tutte le cose che ci attorniano: il bambino descritto da Freud, in Al di là del principio di piacere, mentre ripetutamente lancia via da sé e poi recupera un rocchetto, proietta su di esso il rancore per l'assenza della madre e il desiderio che lei ritorni; così come nel gioco del «lupo», fuggendo per non farsi afferrare, si sperimenta la propria capacità di resistere al «predatore», archetipo della fragilità che sempre si accompagna all'esistenza umana. Non solo: durante l'infanzia, il gioco sembra costituire una sorta di iniziazione graduale alle norme esplicite e implicite in vigore nella «società adulta». In gara per pareggiare 20/04/2012 09:30 Eco di Bergamo 2 di 2 http://swap.ecodibergamo.it/SWAP/Bergamo/GiornaleOnLineNew/sta... Vorremmo qui ricordare lo stupore con cui gli etnologi hanno appreso dai bambini tangu, in Papua Nuova Guinea, le regole del taketak: le due squadre che lanciano rudimentali trottole per abbattere delle spine di foglia di palma conficcate verticalmente nel terreno, mirano in realtà a pareggiare, in modo che vi siano solo vincitori e non perdenti; analogamente, in quella cultura tribale gli adulti sono soliti praticare uno scambio rituale di cibo regolato dal principio dell'equivalenza, stabilita di comune accordo dai partecipanti. La parte pratica Nel libro di Doni e Tomelleri è compresa anche una parte propriamente pratico-ludica, con la proposta di quattro «giochi sociologici» (Totem e tribù, Greci e Persiani, Agorà, Il crollo) che possono essere svolti in gruppo da membri di uffici, organizzazioni, équipe di ricerca per prendere coscienza delle dinamiche relazionali in atto nelle stesse. L'assunto di base è che anche nei contesti professionali e scientifici votati all'efficienza non debba andare perduta la dimensione giocosa, estetica dell'agire, pena una crisi complessiva del sistema: «La capacità di essere creativi – affermano ancora Doni e Tomelleri – si riduce enormemente se si schiacciano i differenti livelli di significazione sul piano della monotonia di una realtà unica e immediata. Smettere di giocare significa perdere il senso della realtà». 20/04/2012 09:30