Il tappetino, l`uva e la Cassazione

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Il tappetino, l`uva e la Cassazione
Il tappetino, l’uva e la Cassazione
Gaetano Forte
1.- L’evoluzione del mercato e le problematiche connesse
L’evoluzione delle metodologie commerciali globali hanno portato anche il mondo
ortofrutticolo a ricercare e trovare soluzioni per la fornitura di prodotti migliori, più freschi
e quindi più appetibili al consumatore finale. Da qualche anno tra queste nuove
metodologie campeggia l’annosa questione del c.d. tappetino di protezione per l’uva. Gli
operatori del settore ben conoscono la problematica: l’uva da tavola fresca viene
imballata sovrapponendovi un tappetino di carta impregnato di metabisolfito di sodio con
funzione di “filtro protettivo” della merce dal momento della produzione fino al termine
della filiera: il tappetino viene infatti rimosso poco prima dell’esposizione del prodotto alla
vendita al consumatore finale.
La stessa Corte di Cassazione si è pronunciata in merito con la sentenza n. 883 del 18
maggio 2006 (depositata il 4 luglio 2006).
La vicenda portata al vaglio della Suprema Corte traeva origine da una contestazione
mossa dall'ASL di Trento, la quale aveva proceduto a prelievo ufficiale dell'uva di
provenienza extra comunitaria “trattata” con questo particolare tappetino in funzione
antimicrobica o conservante.
Secondo l'ipotesi accusatoria, “l'apposizione di un foglio di carta trapuntato con
metabisolfito di sodio all'interno del sacco di plastica chiuso contenente l'uva ... integra ...
un'aggiunta di additivo conservante anidride solforosa non consentito dal DM 27.02.1996
n. 209 e successive modificazioni ed integrazioni” 1 .
Il problema nasceva dal fatto che il laboratorio non aveva rinvenuto sulla frutta
campionata ed analizzata residui di anidride solforosa, bensì aveva semplicemente
rilevato il materiale utilizzo del tappetino contenente metabisolfito con specifica funzione
di generare anidride solforosa. In altri termini, la presenza del tappetino di carta era stata
considerata sufficiente per configurare ex se un trattamento post-raccolta con additivo
conservante non consentito dalla legge.
Il Tribunale di primo grado aveva condiviso ed accolto la ricostruzione così come
(1) La fattispecie contestata era quella p. e p. dall’art. 5 lett. g) l. 283/62, che prevede il divieto di “ impiegare nella
preparazione di alimenti o bevande, vendere, detenere per vendere o somministrare come mercede ai propri
dipendenti, o comunque distribuire per il consumo sostanze alimentari: ….g) con aggiunta di additivi chimici di qualsiasi
natura non autorizzati con decreto del Ministro per la sanità o, nel caso che siano stati autorizzati, senza l'osservanza
delle norme prescritte per il loro impiego. I decreti di autorizzazione sono soggetti a revisioni annuali”. La relativa
sanzione, prevista dall’art. 6, consiste nella pena alternativa dell’arresto fino a un anno o dell’ammenda da € 309 a
€30.987.
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formulata dalla Procura, emettendo sentenza di condanna.
L'azienda aveva proposto ricorso per Cassazione 2 , richiamando anzitutto altre pronunce
provenienti dal medesimo Tribunale di Trento, di segno assolutamente opposto rispetto
alla sentenza impugnata. Le altre contestazioni si erano infatti concluse con decreti di
archiviazione, nei quali si rilevava il difetto dell’elemento oggettivo del reato (e pertanto la
mancanza della violazione della legge speciale sugli additivi, sanzionata dalla norma
penale in bianco costituita dagli artt. 5 e 6 L. 283/62), visto che l’analisi effettuata
evidenziava che non erano stati superati i limiti di legge, nonché dell’aspetto soggettivo,
poiché per quanto atteneva alle modalità di conservazione dell’uva …la circostanza era
controversa (aspetto questo avvalorato dal fatto che le pronunce riportate provenivano
dallo stesso Tribunale ed avevano impulso dalla stessa Procura della Repubblica di
Trento!) e non si poteva far pagare il prezzo dell’interpretazione all’imputato… farebbe
difetto il requisito legale tipico della colpa.
Nelle accennate ipotesi, pertanto, il Giudice per le indagini preliminari sosteneva la tesi
della difesa ricordando che il corretto presupposto del reato in esame era soltanto la
rilevazione effettiva della presenza dell’additivo sul prodotto alimentare: ritenere
sussistente il reato per la mera contiguità del tappetino con la frutta quando era stato
dimostrato analiticamente che la stessa non presentava residuo alcuno significava
stravolgere la norma ed impedirne una corretta lettura.
2.- La norma speciale di riferimento: il decreto additivi e la sua rilevanza nella fattispecie
penale
D’altra parte il D.M. 209/1996, rubricato “Regolamento concernente la disciplina degli
additivi alimentari consentiti nella preparazione e per la conservazione delle sostanze
alimentari in attuazione delle direttive n. 94/34/CE, n. 94/35/CE, n. 94/36/CE, n. 95/2/CE
e n. 95/31/CE”, definisce additivo alimentare “qualsiasi sostanza, … che si possa
ragionevolmente presumere diventi … un componente di tali alimenti direttamente o
indirettamente”.
Dal campo di applicazione del decreto, inoltre, sono esclusi gli additivi alimentari non
presenti sul prodotto perché mai esistiti o perché non più esistenti nel momento attuale
(art. 2). La necessità che l’additivo sia ancora presente sul prodotto finito viene
confermata anche dal successivo art. 15, comma 7, il quale recita “salvo diversa
indicazione le dosi massime d’impiego indicate negli allegati X, XI, XII e XIII si riferiscono
ai prodotti alimentari pronti per il consumo, preparati secondo le istruzioni per l’uso”.
Nel caso oggetto di esame, era certo che l’additivo non fosse diventato parte integrante
dell’alimento, con la conseguenza dell’incomprensibile contestazione del reato di cui
all’art. 5 lett. g) l. 283/62, ove il legislatore vieta la vendita di alimenti “…con aggiunta di
(2) Si ricordi che l’art. 593 c.p.p. non consente l’appello avverso sentenze di condanna con le quali sia stata applicata la
sola pena dell’ammenda. Nel caso de quo, pertanto, si è presentato direttamente il ricorso alla Corte di Cassazione.
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additivi chimici …non autorizzati”: in esito ad inconfutabili accertamenti tecnici, l’uva
incriminata era risultata priva di ogni genere di additivo. Questo aspetto era certamente
fondamentale, dal momento che non si trattava di rilevazione quantitativa inferiore o
superiore alla soglia di tolleranza, bensì di completa assenza della sostanza
presuntivamente additivante.
In ogni caso, la difesa era supportata anche da argomentazioni scientifiche: appositi studi
universitari avevano rilevato che “considerando la tipologia di confezionamento del
prodotto, si può constatare come il tappetino di carta, che racchiude in appositi alveoli
metabisolfito in polvere come potenziale generatore di SO2 … si trovi sopra altri fogli di
separazione quindi isolato e non a contatto diretto con l’alimento (uva) che è
autonomamente avvolto da altri fogli. Si può ritenere pertanto che il tappetino sia inserito
al fine di creare una barriera fisica e potenzialmente antiossidante per contrastare le
infiltrazioni d’aria e di microrganismi contaminanti… la presenza del tappetino non si
configura come trattamento dell’uva, ma bensì, a tutela dei consumatori e in riferimento
alle norme HACCP, un modo per limitare, in un punto critico quale può essere l’apertura
non ermetica della confezione, l’ingresso di ossigeno e/o di aria contaminata da
microrganismi patogeni e tossigeni che avrebbero potuto nuocere alla sicurezza
alimentare del prodotto con conseguenti problematiche igienico – sanitarie sicuramente
più gravi per la salute dei consumatori”.
A ciò si aggiunga che il metabilsolfito in polvere è generatore solamente potenziale di
anidride solforosa, ossia non vi è certezza assoluta che il tappetino generi
autonomamente ed incondizionatamente anidride solforosa.
La Corte di Cassazione non ha potuto che condividere l'argomentazione della difesa.
La stessa Corte aveva affermato in precedenza che additivi chimici sono solo quelli che:
“…3) diventino per ragionevole presunzione componenti della sostanza alimentare” 3 , e
nella sentenza oggetto di esame ribadisce che “ai sensi dell'art. 2, condizione
indispensabile per l'applicazione del DM 209/96 è che la presenza di additivi sia
comunque effettivamente riscontrata sul prodotto alimentare, eventualmente anche in
forma modificata”.
La Corte ha pertanto cassato la sentenza del Tribunale di Trento, rimettendo gli atti al
medesimo Giudice per ulteriore valutazione.
3.- Il reato di pericolo ed il pericolo del pericolo
La vicenda finora descritta mette in luce un ulteriore problema di carattere più
squisitamente giuridico: la fattispecie di cui all’art. 5 lett. g) L. 283/62 ha quale bene
giuridico tutelato la salute del consumatore: esso è un reato commissivo di pericolo
presunto. Il nostro sistema penale deve rispettare, tra i valori di fondamento
costituzionale, il c.d. principio di offensività (che costituisce una sfumatura del più noto
(3) Cass. pen., sez. III, n.1936/97.
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principio di legalità): in altri termini, una fattispecie penale per poter essere
costituzionalmente conforme deve essere strutturata in modo tale che la sua violazione
vada ad attentare o ledere un bene costituzionalmente protetto come, nel caso della l.
283/62, la salute dei consumatori. Orbene, al di là dell’aspetto astratto appartenente alla
teoria del diritto, in sede di concreta applicazione accade talvolta che l’eccessivo zelo
degli operatori porti ad arretrare in modo indebito la soglia della rilevanza penale del
fatto. Applicando quanto detto al caso rappresentato non vi è chi non veda che il Giudice
di prime cure, sanzionando penalmente la mera presenza del tappetino senza che vi
fosse alcun additivo residuo concretamente rilevato sul prodotto, ha “detto troppo”: la
pena è stata irrogata per il mero pericolo o rischio che vi fosse un pericolo per la salute in
dipendenza del tappetino, il quale semplicemente avrebbe potuto (senza certezza)
rilasciare la sostanza vietata. In realtà la giurisprudenza è ferma nel ritenere che soltanto
“con la certezza della presenza dell’additivo non autorizzato la prova che la condotta
incriminata è stata posta in essere è, infatti, raggiunta” 4 .
Per la sussistenza del reato non è necessario pertanto dimostrare la concreta tossicità
del prodotto (c.d. reato di danno), ma, quantomeno, è necessario dimostrare la presenza
dell’additivo (c.d. reato di pericolo).
In caso contrario, ossia in assenza di riscontro analitico, si verrebbe a punire un
comportamento sulla sola base del pericolo del pericolo o pericolo remoto.
In definitiva, la mancanza del rischio pur solamente astratto per la salute del
consumatore (interesse protetto dalla norma), porterebbe a punire l’agente sulla base del
solo rischio astratto o pericolo remoto (non solo non occorrerebbe la concreta nocività,
ma non sarebbe nemmeno richiesto un oggettivo riscontro analitico!), con un eccessivo
arretramento della tutela penale della salute, in palese contrasto con il principio di legalità
e, quindi, col dettato costituzionale.
(4) Cass. 14 ottobre 1999, Meroni, FI, 2000, II, 556.
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