Rivista BraviAutori - il Foglio letterario

Transcript

Rivista BraviAutori - il Foglio letterario
Editoriale
Un nuovo numero di
BraviAutori - Il Foglio Letterario
Gordiano Lupi
www.infol.it/lupi
C
2
i proviamo ancora. Il numero 2
di Bravi Autori - Il Foglio Letterario tenta di riempire il vostro
tempo libero con racconti, poesie, recensioni, interviste, narrazioni cinematografiche, brevi saggi filosofici e letterari.
Vogliamo diventare una piacevole abitudine, anche se siamo consapevoli della
difficoltà di pubblicare una rivista letteraria con l’ambizione di conquistare un
pubblico più o meno vasto. Stampare
una rivista e mandarla in libreria è diventato impossibile, una vera e propria
operazione suicida, perché i ricavi non
ammortizzano neppure i costi di produzione.
Per un piccolo editore è sempre più
dura. Nel settore libri le cose non vanno
meglio, se pensate che un nostro libro
vende al massimo 1.500 copie. Il nostro
maggior successo ha raggiunto una diffusione di 3.000 copie (L’isola), ma si
tratta di una splendida eccezione perché
la media vendite si attesta attorno alle
300 - 500 copie per titolo. Non sono poche se pensate che editori come Rizzoli
faticano a vendere 2.500 - 3.000 copie
di autori italiani poco noti e di autori
stranieri non amati dal grande pubblico.
Non è facile il mondo editoriale italiano.
Diventa ancora più complesso in tempi
in cui la cultura è poco supportata e
spedire un pacco è divenuto un vero onere. Impossibile spedire riviste e libri
contrassegno, perché il costo del servizio supera quello del prodotto.
Aiutare la cultura? No, grazie. Siamo
italiani. Guardiamo la televisione e ci
facciamo di grandifratelli fino allo sfinimento. La soluzione allora viene da
internet e dagli e-book come la rivista
che sfogliate telematicamente sul vostro
computer. Il primo numero gratuito è
stato scaricato da circa 500 persone,
mentre altre 50 hanno fatto download di
Fuori dal gioco di Heberto Padilla, importante volume di poesia cubana che
nel 1971 rappresentò la prima dura critica al regime di Castro. Continueremo
su questa strada, tempo e voglia permettendo, come proseguiremo a fare libri, non assecondando il mercato, ma
facendo le cose che ci interessano, sperando di convincere qualcuno a seguire
le nostre produzioni orgogliosamente
underground. Qualche soddisfazione ce
la siamo presa, alla faccia di tanti soloni
della vera letteratura: Lorenza Ghinelli
con Il divoratore è approdata a Newton
& Compton, Wilson Saba (Sole & Baleno) a Bompiani, Gianfranco Franchi
(Pagano, Disorder, L’inadempienza) a
Castelvecchi e Arcana, Sacha Naspini (I
sassi) a Elliot e Perdisa, Marco Ballestracci (Il compagno di viaggio e Bluespadano) a Instar Libri… Non è poca cosa, e forse dimentico qualcuno, senza
contare che il nostro catalogo di narrativa è pieno zeppo di ottimi autori, anche
se non hanno avuto successo e pure se
hanno venduto soltanto 200 copie. Non
è il successo di cassetta a fare il buon
libro. Non è il numero di copie vendute
a decretare chi è uno scrittore. La produzione di best-seller non fa parte della
nostra missione associativa di piccolo
In
questo
numero
53
Poeta, dove vai?
55
Una vita nel mistero
58
Prima di... - racconto
62
I maestri del fuoco
66
L’uovo del Diavolo - racconto
68
Jane Austen
2
Editoriale: Un nuovo numero di ...
72
Roberta Guardascione
4
Sacha Naspini - novità editoriali
77
Mare di Libri Festival dei ragazzi...
6
Frank Spada - intervista e recensione
80
Un’introduzione all’Archeoastronomia
10
Ci vediamo tutti al RADUNO!
84
Breve introduzione al Connetivismo
11
Storia Rinascimentale - disegno
88
Alla riscoperta dei B-Movie - intervista
12
Claudio Fallani - intervista
99
I Violentatori della Notte - recensione
16
Il latino e noi
102
La Terra non è abbastanza
20
Roberto Quagliano - intervista
106
Lo stile del Campione
22
Via da Las Vegas - racconto
111
Pater Noster - intervista + recensione
25
Fiera del Fumetto Bologna 2010
29
Franck I miei Fumetti
30
Sotto falso nome - racconto
37
De Andrè, la leggenda di Natale
39
La mia Avana - - racconto
40
Moriremo tutti, anche se non siamo...
43
Josè Saramago
46
La figura e l'opera di Lev Tolstoj
50
ORB, musica liquida
e tante altre notizie e
recensioni dal sito web
www.ilfoglioletterario.it
www.ilfoglioletterario.it
www.braviautori.it
3
SACHA NASPINI
Sacha Naspini, Grosseto, 1976. Ha pubblicato i romanzi: L’ingrato (Effequ), I
sassi (Il Foglio), Never alone (Voras), Cento per cento (Historica), I Cariolanti (Elliot). Collabora con diverse realtà editoriali, ricoprendo i ruoli di editor, correttore di bozze, concept e grafico esecutivo.
Il suo sito web è: www.sachanaspini.eu
I Cariolanti
Sacha Naspini
Edizioni Elliot
Te mica lo sai che vuol dire nascere di traverso.
1918, campagna toscana. Per non partire soldato nella Prima guerra mondiale, un uomo nasconde suo figlio di nove anni e sua moglie in un buco scavato nel bosco. Lì dentro la famiglia passa quasi tutto il tempo, il padre esce solo per prendere l’acqua e per cacciare, ma a volte il cibo non si trova e allora bisogna affondare le
dita nella terra umida per vedere se salta fuori un baco o una radice da masticare, oppure rassegnarsi a mangiare carne umana. Inizia così l’avventura di Bastiano, che cerca di riscattare la sua vita
solitaria e animalesca innamorandosi di Sara, la figlia del padrone
per cui va a lavorare come aiutante stalliere. Ma il fango quasi
mai incontra la luce, e allora finirà per sporcarsi totalmente, uccidere colpevoli e innocenti, scappare, trasformarsi in un animale da
preda, perdersi, per poi ritrovarsi anni dopo in quella tana in mezzo al bosco, la sua vera casa. I
Cariolanti è un romanzo di deformazione, selvatico e rabbioso, dove il vero protagonista è la bestialità, non la bestialità malvagia e gratuita, ma quella istintiva e viscerale di chi uccide per sopravvivere. Una favola nera in tredici istantanee dove si respirano atmosfere che vanno da Truffaut a Stephen King, alle Fiabe italiane di Calvino.
Noir Désir né vincitor né vinti
Sacha Naspini
Perdisa Pop
4
Il 26 luglio 2003, in un albergo di Vilnius, Bertrand Cantat,
leader dei Noir Désir, schiaffeggia a più riprese la sua compagna,
Marie Trintignant. La notizia fa il giro del mondo. Marie entra in
coma, morirà qualche giorno dopo. Bertrand tenta inutilmente il
suicidio. Il tribunale lituano lo condanna a otto anni di carcere
per omicidio colposo. Dopo avere scontato metà della pena, Cantat ottiene la semilibertà, ritorna insieme alla moglie Kristina,
madre dei suoi due fi gli, che non lo aveva abbandonato durante
il processo e la detenzione. Quando si parla con insistenza di un
nuovo disco in uscita, l’11 gennaio 2010 Kristina si suicida mentre Cantat dorme nella stanza accanto. Sembra un sipario che cala una volta per tutte. Il 29 luglio 2010, Bertrand Cantat finisce
di scontare la pena, è un uomo libero. Forse per i Noir Désir non
è detta l’ultima parola
(Continua da pagina 2)
editore non profit. Il Foglio
Letterario si è ritagliato alcuni settori dove è riconoscibile: cinema, fumetto,
saggistica alternativa (Il
dark, i manga, gli anime…),
letteratura e cultura cubana. Continueremo a specializzarci e a proporre novità
interessanti,
consapevoli
che il futuro sarà sempre
più duro. Non abbiamo nessuna intenzione di arrenderci, fino a quando il bilancio
segnerà un minimo di attivo
e ci consentirà di fare nuovi
libri. Abbiamo raggiunto un
buon livello di distribuzione
grazie alla collaborazione
con NDA di Editoria & Ambiente che porta i nostri libri
in tutta Italia, pure se il
rapporto è economicamente
pesante. Veniamo da un
buon successo come il Pisa
Book Festival dove in tre
giorni abbiamo venduto
quasi 200 volumi e adesso
prepariamo alcune interessanti uscite natalizie. A livello locale abbiamo studiato la collaborazione con il
Corriere di Livorno che a dicembre uscirà con un nostro libro allegato (Piombino
leggendaria - storia e miti
della Val di Cornia). Per le
prossime fiere diamo a tutti
appuntamento a Modena,
dal 19 al 20 febbraio 2011.
Venite a farci visita allo
stand!
Concludo
ringraziando
tutti gli autori che contribuiscono alla realizzazione
della rivista telematica, dedicando il loro tempo libero
alla concretizzazione di una
passione. Non è possibile
citarli uno a uno, sarebbe
un elenco troppo lungo e
(Continua a pagina 9)
Anno XII - Numero 2
Dicembre 2010
Direttore Responsabile:
Fabio Zanello
Editore:
Associazione Culturale Il Foglio
via Boccioni 28 - 57025 Piombino (LI)
mail: [email protected]
Copertina:
Riccardo Simone
Progetto grafico e impaginazione:
Giovanni Capotorto
Redazione:
Massimo Baglione, Alessandro Napolitano
Collaboratori:
Gordiano Lupi, Giovanni Capotorto, Pia Barletta,
Miriam Mastrovito, Matteo Mancini, Riccardo
Simone, Fabio Zanello, Ylenia Zanghi
In questo numero:
Cataldo Balducci
Sandro “zoon” Battisti
Patrizia Birtolo
Vincenzo Bonicelli
della Vite
Alessandro Cal
Luisa Catapano
Luigi Cristiano
Nancy Cutrera
Angela Di Salvo
Roberto Guarnieri
Tania Maffei
Simone Messeri
Stefano Napolitano
Sacha Naspini
Roberta Pappalardo
Roberto Paura
Alejandro T. Ruiz
Luciano Somma
IL FOGLIO LETTERARIO
Registrato al numero 666 al Tribunale
di Livorno il 1° Febbraio 2000
5
Frank
Spada
Miriam Mastrovito
Marlowe e Frank Spada: due nomi
legati a filo doppio. Un detective sopra le righe il primo, il suo creatore
il secondo, ad accomunarli, sicuramente è l’aura enigmatica che li avvolge entrambi.
Che significato e quale peso attribuisce al mistero nel suo universo
letterario?
Personaggio e autore (eteronimi
scambievoli nei ruoli, si badi bene) ripropongono il tema della doppia identità e il paradosso tra unione e scissione di chi riconosce nell’assunto “io sono la realizzazione dei tuoi pensieri e
tu la mia immagine” il principio uniformante e paradigmatico della propria
vita. Questo tema, che trovò fulminea
diffusione letteraria nel periodo romantico – quando le storie incentrate
sul doppio incatenarono un soggetto
immaginario, sempre maschile, alla
mercé di quello reale –, fu successivamente innalzato alla gloria dei cinefili
dall’espressionismo della cinematografia tedesca, anticipata dalla psicoanalisi, e subito dopo da quella degli Studios hollywoodiani. Per quanto ci riguarda, ritengo che la fisiologia respiratoria, unita alla curiosità che spinge
Marlowe a vivere appesantendosi l’aria
e il suo compare, il “perturbante”, a
dedicarsi con costanza agli esercizi
spirituali (intesi come alcolici) costituiscano tutti assieme il nucleo del mistero che racchiude anche l’autore. Uno
che fuma da quand’era ragazzino e
6
Le interviste
di
BraviAutori
Intervista al creatore
di Marlowe, detective
sopra le righe
che, ancora oggi,
non
mastica
gomma americana solo perché
un tizio, una volta, mostrandogli
un’emblematica
lastra tutta nera
pretendeva
di
convincerlo della
sua
chiaroveggenza:
i
fatti
l’hanno smentito
– precisato che Frank Spada è ancora
vivo, piuttosto in là con gli anni e ha
smesso di pregare iniziando a scrivere
il 7 gennaio del 2007.
Come nasce Marlowe?
Il suo nome doveva essere Marlow,
stando al desiderio di suo padre, ma
all’anagrafe, sa com’è, a volte basta
un’aggiunta, un’omissione… cosicché
fu chiamato erroneamente Marlowe.
Marlowe è anche il nome del celebre
detective forgiato dalla penna di
Chandler. Una semplice coincidenza
o un omaggio voluto a questo grande autore?
Certamente. Ma quello si chiamava
Philip, mentre questo è Marlowe e basta, anche per sua madre, e proprio in
conseguenza a un nome affibbiatogli
per caso. Ovvio che un implicito omaggio a Raymond Chandler – quantomeno con il romanzo d’esordio intitolato
“Marlowe ti amo” – non è
da escludersi; benché
l’introduzione a questo
libro del prof. Franz Haas induca il lettore a fargli credere che Marlowe
sia anche lui stesso.
Molti autori avvertono
i loro personaggi come
creature vive, entità
che una volta create,
chiedono
insistentemente di essere raccontate e che, a un certo punto, sembrano acquisire una propria autonomia. Quale il suo
rapporto con Marlowe?
Tra Marlowe e l’autore,
come non bastasse il
tentativo di far rivivere in
modo originale un celeberrimo detective a oltre
mezzo secolo dalla morte
di Chandler – problemino non da poco per
quanto già detto –, si incunea il fatto che questo
Marlowe è vittima di un
perturbante.
Talché,
s’immagini
l’ingombro
quotidiano che pesa sulla vita di chi vagheggia la
sopravvivenza mostrandosi indifferente agli occhi di qualcuno alla ricerca di se stesso e che,
guardandosi allo specchio
ogni
mattina,
s’illude di continuare a
farla franca sbarbando
chi si è nascosto dietro
uno pseudonimo.
Come tutti i detective
che si rispettino Marlowe è sempre alle prese
con dei gialli da risolvere. Da dove trae ispirazione per la creazione dei suoi casi?
Se le dicessi che
l’autore ne sa quanto il
detective e che entrambi
si trovano coinvolti, capovolti e catapultati nel
passato – il “luogo” dove
ci si sente sempre a casa
m a
r e c l u s i
nell’impossibilità di fuggire dai ricordi, risentimenti e rimpianti compresi? Mi scusi se a questa domanda ho risposto
interrogando il caso.
Ritiene sia più difficile
imbastire un buon intreccio noir o dar vita a
un personaggio capace
di imprimersi in maniera
indelebile
nell’immaginario
dei
lettori?
Il noir è una buona
metafora della ricerca
filosofica e scientifica in
genere, e tanto più se ci
restituisce un’immagine
caricaturale, proprio per
questo chiara e vivida
dell’uomo, dei suoi geni
connaturati al “male” e
dell’avidità che spinge le
sue azioni. A iniziare da
quando fracassò con una
pietra il cranio di chi
pretendeva che un infinitesimo granello ruotante
nello spazio non fosse
soltanto roba dell’altro –
Marlowe… nell’ambiguità
cosciente di una nevrotica solitudine, pessimistica e angosciante, tiene in
fondina una 45 per far
da testimone a quanto
avviene, ancora, attorno
e dentro di lui, perpetuando l’illusione letteraria di una storia dove
mescolanze e contaminazioni sono il kit per non
smentire
il
fato.
Leggendo i suoi libri si
ha quasi l’impressione
di guardare un film.
Una suggestione alimentata dallo stile cinematografico,
dall’efficacia delle descrizioni e dal sottofondo musicale che costantemente accompagna
la
narrazione.
Quanto e come la passione per il cinema ha
influenzato la sua scrittura?
Il cinema è stato definito la settima arte –
quella che le riunisce
tutte distinguendole nei
ruoli, mettendo spesso in
primo piano quel che
non si vede a occhio nudo – va da sé che qualcuno che non amava andare a scuola ne abbia approfittato per capire meglio il panorama, a volte
inzuccherandosi
le
orecchie con le colonne
sonore.
Come mai ha scelto di
ambientare i suoi romanzi
in
America?
Quale il suo legame con
questa terra?
La casualità non è che
la norma di muoversi in
fretta per non farsi prendere, possibilmente, e gli
spazi degli States, la libertà
che…
caspita
quanto sono immensamente grandi anche in
un vicolo!
Oltre a trasportarci sulla West Coast, i suoi libri ci fanno viaggiare a
ritroso nel tempo fa-
7
cendo rivivere gli anni
’50. Cosa la affascina di
quegli anni?
A questa domanda –
agganciandomi a quanto
ho risposto sopra interrogando il caso, ma precisando un luogo –, risponderei che non dovrebbe essere difficile fare un conticino: i cavalloni del Pacifico in corsa
galoppando, le bellezze
in aderenti Jantzen al
sole, per non dire delle
chincaglierie in curva
che…
ritmo
veloce
all’imbrunire con le prove in spiaggia? – Shorty
Rogers disse che non ci
fu nulla di premeditato,
nel suonare qualcosa di
8
così specifico e diverso
da poter essere chiamato
per sempre “West Coast
Jazz”.
Il secondo romanzo
della serie dedicata a
Marlowe, ha un sottotitolo molto suggestivo:
“Cinque
sensi
e
un’anima”. La stessa
idea è richiamata nel
suo
blog,
con
un’aggiunta che colpisce quasi come un pugno
allo
stomaco
(“cinque
sensi
e
un’anima che non perdona”). Possiamo dire
che in queste poche ma
efficaci parole sia condensato il senso più
profondo di questo libro?
Sì, questo è possibile,
e vale per Marlowe come
per chiunque altro abbia
la dannata fortuna di voler interrogarsi in proposito, prima di portare i
panni sporchi in lavanderia.
Se le dico “Il Cannocchiale a rovescio”?
É lo strumento per allontanare la visione del
reale a chi vive in anticipo i ricordi e avvicinare
con la curiosità e l’ironia
rivolta senza limiti spazio-temporali, o di genere, l’irreale a chi lo segue
come un’ombra.
Atmosfera ovattata, quasi surreale, odore di fumo, sottofondo jazz e immagini
Recensione di in un bianco e nero che si declina in molteplici sfumature.
Miriam Mastrovito É l’universo che abbiamo imparato a conoscere in “Marlowe ti amo” e che in
questo secondo libro della serie, sempre più, richiama l’idea di un buon film
d’annata.
A supportare la suggestione le ambientazioni rese con tale efficacia da farci
respirare l’aria salmastra della West Coast, e il personalissimo stile cinematografico che, arricchendosi di originali metafore, contraddistingue la scrittura di
Frank Spada al pari di un marchio di qualità.
Il tenebroso detective è alle prese con un nuovo caso. Una coppia di gemelle
tanto belle da mozzare il fiato, un amore saffico e due antichi gioielli che si uniscono a simboleggiare la vita eterna ma che scatenano la furia omicida di
qualcuno. Un intrigante intreccio noir in grado di tenere sulle spine e sfidare lo
stesso lettore a risolvere l’enigma. Eppure il mistero più affascinante rimane la
complessa personalità di Marlowe il cui carisma, sebbene unico, è paragonabile
per intensità a quello dei più celebri investigatori della tradizione letteraria.
Qui lo ritroviamo in sella alla sua Olds, tra sigarette, “pollicini” , confronti
Dimmi chi sei,
con il suo doppio e scambi accesi con il suo Pa’. Tutti elementi che lo connoMarlowe
tano provocando un piacevole senso di familiarità in chi lo ha già frequentato
Cinque sensi e
ma insufficienti a dissipare l’enigma di un malessere che, a volte, pare sospinun’anima
gerlo sull’orlo della follia a dispetto di quel sense of humour che pure lo caratFrank Spada
terizza e, a tratti, gli conferisce un’aria scanzonata.
Robin Edizioni
Questa volta l’autore ci regala nuovi tasselli atti a comporre il puzzle. Rapidi
flashback ci concedono uno sguardo sul passato del detective mentre momenti di debolezza ci lasciano intravedere il suo nucleo fragile, quello in cui probabilmente si annida il vero segreto del
suo fascino. Cionondimeno, a fine lettura, le zone d’ombra permangono e, risolto il caso, la figura
di Marlowe rimane impressa nel nostro immaginario ad alimentare la speranza di rivederlo presto
in azione.
Preciso, in ogni caso,
che questo Blog è stato
aggiornato di recente –
dopo 909 commenti che
lo avevano reso “pesante”
in pochi mesi – per aprire Il Cannocchiale a rovescio 2, sempre di
Frank Spada, sul sito
Poche chiacchiere di Robin Edizioni dove si può
colloquiare con l’autore.
Frank Spada non è solo
autore
di
romanzi.
All’attivo ha anche diversi racconti che, peraltro, hanno ottenuto
vari riconoscimenti e
sono stati pubblicati in
diverse antologie. Di
recentissima pubblicazione la raccolta anto-
logica “Riso nero” edita
da DelosBooks che, tra
gli altri autori, ospita
anche lei. Le va di svelarci qualcosa a proposito della sua partecipazione a questo progetto editoriale?
L’antologia, nata su
iniziativa degli editorialisti Graziano Braschi e
Mauro Smocovich diThriller Magazine, vede
riuniti 50 scrittori in un
libro di oltre 250 pagine:
un mix di umorismo nero costituito da 25 racconti gialli & comici, 64
brividi brevi e numerose
comiche letali racchiuse
in una sola frase – Frank
Spada è presente con un
racconto, sei brividi brevi
e dieci comiche letali.
Concludo questa piacevole
chiacchierata
chiedendole di anticiparci qualcosa sui suoi
progetti futuri. Avremo
il piacere di rincontrare Marlowe?
Nel ringraziarla per
avermi dato la possibilità
di capire un po’ meglio
quel che sta succedendo,
posso dirle che Marlowe
ha preso appuntamento
con un vecchio amico in
un cimitero – probabilmente s’incontreranno a
maggio 2011.
(Continua da pagina 5)
correrei il rischio di annoiarvi.
Permettetemi di menzionare solo
due persone: Massimo Baglione,
admin di BraviAutori.it, un sito
che trasuda arte (non solo letteraria) e passione; Alessandro Napolitano, già autore del Foglio
letterario, capace di scegliere i
pezzi che vengono proposti per la
rivista, fino a riunirci sotto questo tetto di kilobyte che odora di
buono, odora di cultura.
9
Ci vediamo tutti
al RADUNO!
S
ono un'assidua frequentatrice di forum.
Uno, in particolare, è
sempre stato la mia “casa”
sul web, il posto in cui sono
sempre tornata, perché è lì
che vive la mia “famiglia”
internettiana. Quel posto
speciale è The Blue Divide.
Non voglio parlare del
mio rapporto con il forum
(pare che il mio articolo
NON occuperà tutto il resto
della rivista, dimostrazione
che Alessandro – il redattore ndr - non ha ancora capito con quale Grande Talento ha a che fare – l’ha capito!! Ma mi
tocca dare spazio a tutti. ndr - ).
Ciò di cui voglio parlare riguarda quello
che è successo alla fine di ottobre, quando ho
realizzato il mio sogno di ragazzina, partecipando al mio primo e sicuramente memorabile
RADUNO
10
Il Raduno Blu si è svolto durante il diluvio
univers... pardon, il Lucca Comics and Games.
È cominciato tutto con una telefonata e con
le indicazioni per raggiungere il caffè Carducci e siccome le indicazioni erano davvero ottime (si sa, i postini...) in un batter d'occhio l'incontro: eccoli lì, proprio come li avevo visti
nelle foto (dei raduni passati o di feisbuc), tutti intenti a una disputa (sulla mia età -.- )!
Li incontravo per la prima volta ma la sensazione era ovviamente quella di rivedere gli
amici di sempre e nei giorni successivi abbiamo chiacchierato su tutto (“dovete assolutamente leggere la Hobb” “questi menù coi
prezzi gonfiati secondo me li tirano fuori solo
per la fiera” “ai miei tempi sì che Bonelli...”
“chi ha visto l'ultimo post del blog di Andrea
D'Angelo?”) mentre Horner si vantava per la
vittoria al Trivial e Libero Assassino cercava
DI WEB
IN WEB
Ylenia
Zanghi
di fotografare il Corvo
che entrava in chiesa o
l'Enigmista che mangiava un gelato.
Coronamento di tutto, la
cena con Terry Brooks,
l'uomo che ci ha fatti
(metaforicamente) incontrare, dato che The
Blue Divide nasceva
come sito dedicato a lui
(e ora è il suo sito ufficiale, terrybrooks.it).
Pioggia, freddo, rocambolesche avventure per
cercare posteggio non hanno per nulla sminuito la magia di una serata indimenticabile
(quando ci ricapiterà di avere i camerieri vestiti da elfi?!). L'impagabile Brin si è rivelata
una straordinaria esperta di organizzazione
(con un cellulare morto e uno moribondo riesce a spostare 30 persone) e i ragazzi hanno
dimostrato che la cavalleria non è morta, disposti a farsi 50 chilometri in più di strada
solo per farmi partecipare all'appuntamento
(tranquilli, non è stato necessario).
Anche se ho dovuto congedarmi e lasciare
il ristorante in fretta e furia (gli ombrelli!) con
Rainwall per correre a prendere l'autobus (che
poi ha ritardato lasciandoci sotto la pioggia)
me la sono goduta tutta, la serata, fino agli
ultimi momenti (sull'autobus, a parlare delle
edizioni storiche di Topolino o a ricordare il
nick di ognuno degli altri).
Lo so, lo so, questo racconto tende allo
sdolcinato, ma che posso farci? Sono di parte
quando si parla della mia famiglia!
Quindi, se non avete ancora incontrato dal
vivo i vostri amici di tastiera, radunatevi, gente, perché il risultato potrebbe essere un momento di assoluta perfezione (Leah! Leah!
Leah!).
Storia Rinascimentale
11
Claudio
Fallani
Alessandro Napolitano
Ciao Claudio, iniziamo la nostra piacevole conversazione con una domanda quasi di rito: come ti sei avvicinato alla fotografia? É da molto
che scatti?
Quattro anni fa non sapevo neanche
cosa fosse un otturatore. Pensavo che
il diaframma fosse un anticoncezionale
e che il fotografo fosse una sorta di
mago con la capacità di trasformare la
realtà, plasmarla a suo piacimento con
l’ausilio dei suoi poteri paranormali.
Chi non lo penserebbe guardando
una foto di Steve McCurry, Ansel
Adam, Henry Cartier Bresson o Robert
Mapplethorpe?
E in parte è vero, fotografi si nasce.
Bisogna avere una certa predisposizione, una certa sensibilità.
Se facessimo fotografare a cento fotografi lo stesso soggetto, non ne uscirebbe una foto uguale a un'altra. Ognuno ha la propria sensibilità, la propria visione del mondo.
Eppure, guardando il mondo attraverso gli occhi di quei fotografi che
hanno fatto della fotografia un arte,
possiamo migliorare il proprio modo di
guardarsi attorno e di comporre le nostre fotografie.
É stato così, guardando le foto dei
professionisti della Magnum che mi
sono appassionato alla fotografia. Così
nel 2006 partii per un viaggio e comprai la prima macchina fotografica digitale “seria” (almeno per me che avevo
sempre scattato foto inutili con usa e
12
Le interviste
di
BraviAutori
La fotografia vista
da un “amatore”
dello scatto emotivo
getta della Kodak): una Panasonic
FZ20, un macchina niente male a quel
tempo nel panorama delle Bridge Camera, con obiettivo Leica molto luminoso e un bello zoom ottico. Scattai alcune foto di luoghi, persone e natura,
il risultato non era eccelso, ma erano
le prime foto e io ero contento del risultato.
Il buongiorno si vede dal mattino…
Non direi proprio. Guardando oggi
quei trecento scatti, ne salverei quattro, cinque al massimo. Ma allora mi
piacquero e decisi di impegnarmi a migliorare. Frequentai un paio di corsi e
da lì a breve feci le prime esposizioni.
Alessandro, il mio maestro, un tipo
duro quando si tratta di criticare una
foto, mi prese ben presto “sotto la sua
cupola” assieme ad altri allievi, ormai
amici, con i quali organizziamo esposizioni e progetti fotografici.
Guardando le tue foto non è chiaro
quale genere prediligi: passi dal reportage, al ritratto, dal paesaggio alla foto artistica…
Di solito tendiamo a etichettare i fotografi affibbiando loro un genere fotografico, quello per cui in realtà sono
diventati famosi, sia esso reportage,
moda, ritratto o altro.
In realtà non saprei cosa rispondere
alla tua domanda, il mio approccio alla
fotografia è puramente emotivo. Il soggetto e il genere variano molto secondo
Foto 1 - uomo allo specchio
il mio umore. O forse devo semplicemente trovare la mia via…
Mi preme specificare,
che non sono un professionista, ma un semplice
amatore e come amatore
ho ancora molto da imparare.
Cosa è per te la
fotografia?
Vedo la fotografia come un arte e diffido di
chi usa il fotoritocco e
poi va in giro raccontando che quella è fotografia, non capendo che tra
fotografia e arte grafica
c’è una bella differenza.
La macchina fotografica per me è il mezzo tramite il quale riesco a dare una mia interpretazione della realtà.
Quindi, per effettuare
uno scatto, il soggetto
deve suscitarmi una certa reazione che mi spinga a fotografarlo. Può essere un evento particolare, la consistenza di un
materiale, il tipo di luce,
un sorriso. Qualsiasi cosa, anche la più piccola,
può far scattare il desiderio
di
conservare
quell’immagine. Se questo rapporto emotivo con
il soggetto viene meno,
viene meno la fotografia.
Sono capace di camminare giornate con chili di
pesante attrezzatura fotografica
sulle
spalle
senza scattare una foto.
Ma
sono
soddisfatto
quando porto a casa almeno un buono scatto.
Quindi in genere i tuoi
scatti sono spontanei?
Escluso still life di piccoli oggetti e alcuni ritratti, sono rare le occasioni in cui costruisco
una foto. Penso che una
delle foto “costruite” meglio riuscita sia quella
dell’uomo allo specchio
(fig.1): uno scatto in
bianco e nero in cui ogni
elemento all’interno di
essa è un simbolo (lo
specchio frammentato, il
riflesso all’interno dello
specchio, il crocefisso) e
dove il significato è dato
dalla relazione di questi.
Già a un primo sguardo
superficiale si intuisce
un significato più o meno complesso, tutto da
scoprire…
13
Questa è una delle
“eccezioni che confermano la (mia) regola” secondo la quale in genere non
intellettualizzo, scatto.
Tempo fa, a una esposizione, qualcuno mi
chiese il significato di
una foto, risultato di un
mero impulso emotivo.
A questa persona e alle
altre rispondo semplicemente che seguo le emozioni, difficilmente mi
chiedo (al momento dello
scatto) cosa significhi
quello che sto fotografando.
A meno di non seguire
un tema preciso per
comporre i propri scatti,
intellettualizzano in genere i critici o chi osserva, dato che per natura
umana tendiamo a ricercare un significato a
tutto.
14
E se un significato
non ci fosse (mi verrebbe
da dire con intento provocatorio),
l’immagine
sarebbe meno bella?
Forse no, ma probabilmente più “vuota”…
Non intellettualizzare
al momento dello scatto
non significa che il risultato
sia
sempre
“insensato”.
L’inconscio è più veloce di noi, riesce a cogliere cose di cui non siamo
consapevoli e che solo
dopo, riguardando il risultato finale saltano alla
nostra attenzione e raggiungono la soglia della
coscienza. Almeno per
me è così. Come in questa foto (fig.2), scattata
durante un Safari in
Kenya nel parco Amboseli. Distrattamente po-
Foto 2 - carovana elefanti
tremmo dire che è una
banale foto di animali
(bella o meno bella, decidete voi). Ma guardate
attentamente… due giraffe sembrano fermarsi
a spiare la scena da lontano e gli elefanti in fila
(è una carovana, il terzo
di elefante che esce dalla
foto ce lo suggerisce),
procedono avanti, imperterriti con indifferenza.
Ecco quello che mi ha
spinto a scattare, la totale indifferenza del gruppo che procede sui propri passi, noncuranti di
tutto quello che li circonda.
Oppure nell’altra foto
(fig.3) di una giapponese
(voi non lo sapete, questo
lo so solo io!) che affacciata dalla terrazza del
Piazzale
Michelangelo
guarda Firenze, ma la
Foto 3 - giapponese “ammira” Firenze
guarda in modo particolare, lo
ammira. Ciò che ho fotografato
è l’ammirazione per l’arte e non
una semplice turista che guarda Firenze. Ma questo al momento dello scatto, non lo sapevo, lo intuivo soltanto.
“Quando è ben fatta, la
fotografia è interessante.
Quando è fatta molto bene,
diventa irrazionale e persino magica.
Non ha nulla a che vedere con la
volontà o il desiderio cosciente del
fotografo.
Quando la fotografia accade, succede senza sforzo, come un dono
che non va interrogato né analizzato. “
Elliott Erwitt
Foto 4 - volto di donna
15
Il latino
e noi
Angela Di Salvo
N
egli ultimi anni è stato molto
acceso il dibattito sulla necessità o meno di mantenere lo
studio del latino in ordini di studio diversi dal liceo classico, e in particolare
nel liceo linguistico e psico-pedagogico
e nel liceo scientifico.
Molti si sono chiesti perché perseguire lo studio di una lingua che non è
più parlata da secoli ed esigere dagli
studenti un impegno aggiuntivo e
non certo molto ag e v o l e
nell’apprendimento
di questa lingua
che
all’apparenza
pare non “serva a
niente”.
In effetti la recente riforma Gelmini
ha leggermente ridimensionato il carico
di monte ore destinato allo studio del
latino ma non l’ha abolito, evidentemente per delle ragioni che non hanno
tenuto conto di proposte frettolose e
superficiali che avrebbero voluto liquidare in quattro e quattr’otto un bagaglio culturale dalle tradizioni consolidate e capace di fornire agli studenti
una formidabile abilità logica e di approfondimento della lingua madre.
Il fatto è che spesso ci si dimentica
che l’italiano è figlio del latino e che
un’analisi comparata e “contrastiva”
fra le due lingue può senza dubbio raf16
Studiare il latino
è ancora utile?
Un dibattito aperto
forzare le competenze linguistiche della
lingua che adesso parliamo, permettendo ai ragazzi di prendere coscienza
che la maggior parte delle parole che
usiamo nella vita quotidiana derivano
proprio da quel latino che si vorrebbe
cancellare o relegare agli studi specialistici di pochi eletti.
A questa crescente demonizzazione
del latino ha contribuito l’adozione di
un metodo rigido e normativo
da parte dei docenti,
metodo
che non appare
più idoneo alla
“forma mentis”
delle nuove generazioni.
Per lo più il latino è stato fatto
odiare dal grammaticalismo, ossia da una scuola che ha insegnato
troppa grammatica e non la vera lingua, tediando e demotivando
l’adolescente con esasperanti eccezioni
studiate a memoria e con norme sintattiche finalizzate a una traduzione in
latino oggi priva di senso.
Prima di tutto è fondamentale che
gli studenti fin dal primo giorno
sentano il desiderio di intraprendere lo
studio del latino come quello di una
nuova e avvincente disciplina e di ricavarne il massimo profitto, consapevoli
che la conoscenza del latino non potrà
non essere per loro che
un grande arricchimento
spirituale. Varrà la pena
di ricordare ai ragazzi come lo studio del latino,
c o m e
q u e l l o
dell’archeologia,
sia
l’unico strumento di cui
disponiamo per acquistare una conoscenza
viva
della
cultura
dell’antica Roma in cui
affonda le proprie radici
tutta la nostra civiltà occidentale.
Il modo di vivere e i
valori del popolo romano,
la storia dell’impero, la
letteratura e l’arte di Roma che assimila e rielabora la cultura greca, costituiscono l’eredita di una delle età più importanti del genere umano ,
e questa eredità vive tuttora nel nostro mondo.
Ma non solo.
Il latino è stato lo
strumento principale con
cui la civiltà occidentale
si è espressa nel Medioevo, nell’Umanesimo, nel
Rinascimento e nell’età
moderna; in questa lingua sono state composte
opere fondamentali per il
progresso morale, civile,
politico, giuridico, scientifico
e
filosofico
dell’intera umanità.
Nel dibattito culturale
a favore del latino sono
state addotte numerose
ragioni che, da sole, non
sono sufficienti a giustificare la scelta dello studio
del latino.
Luigi Miraglia nel suo
libro “Nova via. Latine
doceo” elenca alcune di
queste argomentazioni,
suggerite da varie parti a
supporto della validità
dello studio del latino
nelle scuole, ritenendole
troppo deboli per poter
fare vera presa sugli animi degli adolescenti.
Lo studioso afferma
che è vero che ancora oggi
la
nomenclatura
scientifica della zoologia,
della botanica, della medicina e della giurisprudenza sono
in latino.
Ma questo può giustificare le ore che il ragazzo
impiegherà a studiare
Cicerone
questa lingua nel suo
percorso liceale?
S’usano ancora molte
espressioni latine (“la
ratio” di una legge, il
“referendum”,
il
“quorum”, il “qui pro
quo”,
“verba
volant,
scripta
manent”,
“in
itinere”,
“lupus
in
fabula”, “bis”, “gratis”,
”curriculum”, ”facsimile”,
”idem” , “post scriptum”,
“in extremis”, “pro capite”,
“vademecum”,
“tabula rasa” ,”dulcis in
fundo”, “lapsus” ,”ex aequo”,
“promemoria”,
ecc.ecc.), mostrando anche come esse siano tal-
mente note e usate da
essere spesso oggetto di
distorsione a scopo umoristico (si pensi ad alcune piccole perle di Totò)
o per finalità pubblicitarie: ma può questo relitto
di vita essere il motivo
per cui si debba studiare
per cinque anni una lingua? Che il latino sopravviva ancora nella
chiesa cattolica, rimanendo formalmente la
lingua delle encicliche,
delle bolle, dei brevi, recentemente
richiamata
dall’esilio liturgico, non
entusiasmerà più di tanto i nostri ragazzi.
Miraglia pone invece
l’accento sull’apprendimento dell’italiano e sul
lessico latino perché con
questa scelta si potrà facilmente permettere ai
discenti di prendere atto
degli enormi vantaggi
che l’apprendere il latino
porterà loro per una migliore conoscenza e una
più ampia consapevolezza della lingua che usano ogni giorno
Sarà interessante notare l’evoluzione del latino nelle lingue romanze
e
in
particolare
nell’italiano, lo sbocco
nelle lingue neolatine, la
sua sopravvivenza nelle
“voci dotte”, prese dal la17
18
tino e rimaste nell’uso
delle persone colte.
Il valore dello studio
del latino è magistralmente spiegato da Mandruzzato nel suo interessante libro “Il piacere del
latino”, in cui dichiara
che è possibile far comprendere,
anche
con
semplici esempi, che lo
studio della lingua di Roma è indispensabile per
formarci quel gusto che
ci permette di leggere i
nostri grandi scrittori
con una più fine sensibilità per il loro stile e le
loro scelte stilistiche e
sintattiche, molto spesso
modellate o ricalcate sul
latino.
Lo studio del latino
non può essere messo in
secondo piano rispetto
allo studio delle lingue
straniere perché un apprendimento più accurato della grammatica e
della sintassi porterà loro, come sostengono i
fautori della “Formale
Bildung”, una maggiore
capacità analitica e attentiva finalizzata alla
comprensione dei fenomeni e della struttura di
tutte le lingue che eventualmente potranno essere apprese nell’arco
della loro vita.
Le ragioni della sopravvivenza del latino
vanno di certo ricercate
non solo nell’incalcolabile
peso
culturale
patrimonio della nostra
civiltà, nell’accesso alla
storia e alla memoria ma
in particolare in un paese come l’Italia, le ragioni
sono quelle della sua
promozione, della sua
crescita, della sua valorizzazione
sia
a
livello scolastico che a livello universitario.
Una solida conoscenza
linguistica permette un
i m m e d i a t o
e
autentico legame con
l’antropologia culturale,
con l’antichità classica e
con il recupero delle nostre lontane radici.
Molti di coloro, che nel
passato hanno studiato
il latino, affermano che è
una lingua difficile ma è
Giulio Cesare
vero esattamente il contrario, l’hanno studiata
soltanto male.
Non si tratta affatto di
una materia per iniziati o
per superdotati, è una
lingua e, come tutte le
lingue, può essere imparata con i metodi giusti e
con il giusto impegno.
La lettura dei testi
(non solo quelli classici
antichi ma anche i testi
del medioevo,del Rinascimento e dell’età moderna) è la meta che bisogna raggiungere attraverso un “colloquio” e
non con una faticosa decifrazione, così da sentire
e ascoltare il messaggio
che viene da chi - come
scrive
Miraglia
(generazioni di uomini e
l’improba fatica di scribi
e copisti o la cura di bibliotecari) ha ritenuto di
dover salvare dall’oblio.
Dopo che finalmente si
è capito che quello che
non andava era il metodo e non la difficoltà intrinseca del latino, molti
studiosi di recente si sono adoperati per rinnovare le metodologie didattiche obsolete e demotivanti,
proponendo
soluzioni alternative.
Di recente molto successo ha avuto il metodo
di Hans Orberg che propone
l’apprendimen-to
del latino attraverso dei
moduli didattici ricalcati
sullo studio delle lingue
vive e sulla centralità del
testo, recuperando il met o d o
d e g l i
umanisti e partendo dalla memorizzazione graduale del lessico di base
fino a giungere, con le
necessarie ma semplificate conoscenze morfosintattiche, a un apprendimento proficuo e rapido della lingua di Roma
facendo
leva
proprio
sull’importanza del lessico e delle parole chiave
della cultura romana.
Come afferma anche
Angelo Diotti nella prefazione del suo testo scolastico “Lexis”, partendo
da uno studio sistematico del lessico di base e
da esercizi mirati di contestualizzazione risulterà
molto più agevole e veloce la comprensione testuale, obiettivo basilare
e irrinunciabile per poter
accostare i testi letterari
direttamente in lingua originale per analizzarli e
“gustarli”.
Una metodologia di
questo tipo risulta in
perfetta sintonia con lo
studio sia della lingua
materna, sia delle lingue
straniere moderne, a
patto che il lessico e i testi latini proposti siano
rappresentativi di tutte
le varietà linguistiche e,
soprattutto, dei linguaggi
settoriali (della politica,
del diritto, della storia,
della filosofia, della religione,d ella
sc ie nza,
dell’alimentazione,
dei
“ludi”). Del resto la conoscenza dei termini utilizzati dalla lingua latina risulterà in ogni caso molto vantaggiosa, se si pensa che, in un moderno
vocabolario della lingua
italiana, mediamente il
54,28% dei lemmi presentano
un’etimologia
derivante dal latino. E se
Enciclopedia online in latino
prendiamo in considerazione le 60.000 parole
del
lessico
di
base
dell’italiano, la percentuale di termini con radici
latine sale addirittura al
98%.”
Se così è, come è mai
possibile che dopo cinque anni di studio scolastico di una lingua straniera moderna un allievo
sia in grado di comprendere bene o discretamente i testi (oltre che di produrne), mentre dopo gli
stessi anni di latino, lo
stesso allievo riesca a
malapena a tradurre (e
s
p
e
s
s
o
inadeguatamente)
un
passo di Cicerone?
É evidente che nel
passato si è sbagliato tutto, sop r a t t u t t o
l’approccio metodologico.
Se
la
scuola
cambierà strada
e applicherà la
giusta metodologia, potrà salvare
il
latino
da
una ingiusta e
immeritata decadenza, permettendoci di riappropriarci di un
Sito scolastico dedicato allo studio del latino
patrimonio cul-
turale che ci appartiene
e facendo acquisire alle
nuove generazioni uno
strumento
formidabile
capace di superare i confini spaziali e temporali
in un colloquio vitale con
coloro che, come scrisse
Petrarca,
“volti verso il mondo molti
secoli prima di noi, vivono
c o n
n o i ,
abitano con noi, ci
parlano ancora”.
Nessun Dove
Pianeta Fantasy
via Montecitorio, 29
70023 Gioia del Colle BA
www.pianetafantasy.com
19
Roberto
Quagliano
Alessandro Napolitano
Le interviste
di
BraviAutori
Regista e
responsabile di
Rivista 451
Abbiamo il piacere di intervistare
Roberto Quagliano, regista, e responsabile della neonata rivista letteraria
“Rivista 451”.
Roberto, siamo felici di ospitarti su
queste pagine e condividere con te
qualche momento di piacere letterario. Raccontaci di questo nuovo progetto: la Rivista 451.
Grazie a voi, per avermi invitato.
Questo progetto di cui sono responsabile è la continuazione dell'edizione italiana su carta e on line della New York
Review of Books, e la produzione di una sua versione in video seguendo le
tecniche di videoletteratura già da me
usate per produrre le versioni video
degli articoli Pubblico & Privato di Alberoni (per RAI 3), dei Salmi della Bibbia (RAI UNO), del Profeta di Gibran
(RAI 3), delle poesie di Attilio Bertolucci (RAI 2), del saggio di filosofia
"L'Illusione della Fine" di J Baudrillard
(RAI 2), dei romanzi "Cent'anni di solitudine" e "Il senso di Smilla per la neve" (Canale 5), e diversi altri. I più curiosi potranno trovare qualche esempio
di video lettura cliccando
www.kamelfilm.it,
oppure
http://vimeo.com/15318874
20
Di cosa tratta la rivista NY Review
of Books?
La rivista parte dall'occasione
dell'uscita di nuovi libri per parlare in
modo aggiornato e approfondito di tut-
te le materie del sapere sia scientifico
che umanistico al di là di come il tema
venga trattato nel libro uscito. In ogni
numero mensile ci sono articoli di
premi Nobel o di accademici delle più
prestigiose università americane e
inglesi. Ma la cosa straordinaria è che
le materie sono trattate in modo
assolutamente non accademico e quindi alla portata di un vastissimo
pubblico, se solo fosse a conoscenza
dell'esistenza della Rivista stessa.
Sono certo che la fruibilità di questi articoli
diventerà un’arma a tuo favore. Spiegaci come
pensi di elaborare la
versione in video degli
articoli.
Parto da un esempio
concreto per rendere meglio l'idea di base. Nel
febbraio di quest'anno è
apparso sulla NYR un
articolo dal titolo "Un
salto nel grande ignoto".
L'articolo consiste nella
recensione
del
volume di Frank Wilczek
“La leggerezza dell'essere. La massa, l'etere e
l'unificazione delle forze”
appena pubblicato da Einaudi
e
illustra
le tesi sostenute dallo
stesso dall'autore, premio
Nobel
per
la
fisica
nel
2004.
Wilczek è uno dei più
brillanti fisici delle particelle e commentando
questo testo, il redattore
dell'articolo
Freeman
Dyson (professore di fisica a Princeton) coglie
l'occasione per fare un
quadro aggiornato di
quella branca della fisica
che cerca di comprendere i più piccoli elementi
costitutivi del cielo e della terra.
Caratteristica di questo articolo, come di quasi tutti quelli che appaiono sulla Rivista, è di partire dal motivo contingente del commento alla
particolare uscita editoriale per poi tratteggiare
un profilo storico della
materia in oggetto in un
sintetico ma esaustivo
excursus.
L'articolo
in
sostanza
diviene occasione per aggiornare l'esperto
sugli
esiti
ultimi
della ricerca
nel particolare settore e
per
rendere
e d o t t o
il non professionista
su
quello che è il
percorso storico in cui la
ricerca stessa si è inserita. Il tutto con linguaggio
estremamente comprensibile e il più delle volte
molto adatto ad una sua
trasposizione in video.
Come saranno strutturati i video che produrrete? Come agevolerete
chi ascolterà i vostri
contenuti?
Nella realizzazione del
video, della durata presumibile di 15 minuti,
allo speaker fuori campo
che leggerà le parole
dell'autore si affiancheranno le immagini di
supporto alle parole. Immagini
che
a
volte
avranno un riferimento
diretto con le parole stesse ed a volte evocheranno il racconto e i concetti
più per via espressiva
che
non
denotativa
(seguendo l'esempio già
da noi adottato nei lavori
di videoletteratura).
Sarebbe
interessante
un impiego che potesse
andare oltre il semplice
intrattenimento.
Ci proveremo. Come
potete immaginare, l'utilizzo di questi video e
quindi della versione video della rivista in ambito scolastico sarebbe
estremamente innovativo
e di sicuro appeal per gli
studenti.
Veramente interessante. Noi per il momento
ti ringraziamo per averci tenuto compagnia.
Aspettiamo tue notizie
circa l’evolversi del
progetto di videolettura e l’uscita del formato
cartaceo
della
Rivista 451.
E io ringrazio voi per
l’occasione che mi avete
concesso, con la promessa che ci risentiremo
quanto prima.
Software autoprodotto
di pubblico dominio, in
italiano
www.micla.org
21
Via da
Las Vegas
Patrizia Birtolo
L
a sera che conobbi Bruno ero
uno schianto: maglioncino rosso
scollato dietro, capelli in ordine
(ero appena passata da Jill) e truccata
divinamente.
Una sera adatta a conoscere qualcuno con cui mettersi per un po'.
Ma occorre fare attenzione a ciò che
si chiede: a volte gli dei esaudiscono le
nostre richieste.
Andai da Jack, al Quattro Assi, un
pub sulla Strip. Ha un'insegna al
neon che si illumina in progressione:
un mazzo da poker in cui prima brillano i cuori, poi quadri, fiori e picche.
Una volta accese tutte, le luci nel profilo dell'insegna si mettono a sfarfallare impazzite per qualche istante.
Quella sera bagnavano di bagliori
multicolore la faccia del buttafuori.
Era uno nuovo.
Un armadio. Taglio da marine, facciona da bambino, sguardo cupo.
Svettava sul mare di teste altrui almeno trenta centimetri. E mi stava osservando.
Fissava la mia schiena nuda. Lo vedevo riflesso nello specchio sopra il
bancone.
Mi girai. Abbassò gli occhi, voltandosi dall'altra parte. Un timido, qui, è
come una perla in un banchetto di
cianfrusaglie al mercato. L'ingenuità è
merce assai rara, a Las Vegas.
Nonostante tutto, amo questa città.
22
i racconti
di
BraviAutori
Il racconto vincitore
della GARA 16 del
forum Bravi Autori
La amo quando sfavilla di luci già al
crepuscolo e la amo addormentata nel
sole accecante che arroventa la Strip
alle due del pomeriggio.
Non chiedetemi di abitarci, però.
Sto bene qui, dove comincia il deserto.
Il Mojave. Tutta la libertà immaginabile… Non saprei più farne a meno.
Le mie fantasticherie spaziano, indisturbate, sullo sfondo di uno scenario
immutabile agli occhi umani.
Nel deserto non abbiamo stagioni.
Per me lo scorrere del tempo è scandito dai costumi in preparazione. Non
l'ho detto? Faccio la sarta.
Ho studiato da costumista a
Hollywood, e son finita a cucire paillettes per le ballerine che si esibiscono
nei night di Las Vegas.
Da gennaio a marzo lavoro alle divise del Caesars, quelle delle ragazze vestite da ancelle romane. Tulle bianco e
fermagli dorati in giro per ogni stanza.
Da aprile a giugno ho l'invasione delle
ali di farfalla del Mirage. Strass di
qualunque sfumatura dal lavanda al
glicine al viola, dappertutto: anche
nella scatola dei cereali.
Da luglio a settembre piovono le
paillette nere e oro della parodia sexy
di Cats. Da ottobre a Capodanno lavoro per il corpo di ballo di Cher, una
magnificenza.
Piume di struzzo, lamé luccicante,
borchie e fibbie incrostano tutti i costumi di scena, ricchissimi… Li appoggio sullo stenditoio per evitare che
Prince, il mio soriano, ci si
faccia le unghie. Certe volte
mi incanto ammirandoli delle mezz’ore.
Ago e filo non sono solo
un cucchiaio, per me. Ci
mangio, certo, ma il punto è
che…
È così bello avere tutti
questi costumi per casa.
Mi dà l'impressione di fare qualcosa di artistico, non
so se mi spiego.
Con gli uomini non sono
mai stata fortunata.
Con Bruno, credevo che
la sorte cominciasse a sorridermi.
All'inizio ci studiavamo a ogni passo.
Del resto, non avevo mai convissuto. Lui non era tipo da raccontarsi
molto.
Sembrava che ogni cosa lo mettesse
in impaccio, sembrava perennemente
a disagio per tutto.
Questo faceva stare sulle spine anche me.
Sempre col dubbio di dirgli (o di fare) qualcosa di sbagliato.
Continuava a lavorare come buttafuori al Quattro Assi. Prendeva la
macchina, andava in città. Tornava a
notte fonda. Si sdraiava accanto a me,
cercando di non svegliarmi. Facevo
finta di dormire, però. Non riuscivo a
chiudere occhio, finché non rincasava.
La mattina si svegliava comunque
per primo, facendomi trovare la colazione pronta.
La prima volta che prese la paga dopo che era venuto a stare da me, gettò
tutto il rotolo di banconote sul tavolo.
Disse, con un certo imbarazzato fastidio:
— Puoi tenerli tu? Non ci ho mai
capito niente, con questi.
E io, stupita: va bene. Li misi in
una scatola con un piccolo lucchetto,
la chiusi.
— Son soldi tuoi, tieni — dissi, porgendogli la chiave.
— La perderei subito. Occupatene
tu per favore, vuoi? Se mi serve qualcosa te li chiederò.
Mai incontrato uno così. Si fidava.
Non aveva mai alzato le mani, anzi, mi
rispettava.
Di più: mi proteggeva, si prendeva
cura di me. Mi stava addirittura mantenendo. Sempre gentile.
In cambio chiedeva solo di essere
amato. In un certo senso, un essere
proveniente da un altro pianeta.
Scherzi a parte, Bruno era strano.
Quel rapporto così bizzarro con le cose
materiali, per esempio. Come se non
desse loro alcuna importanza.
Nell'armadio del suo miniappartamento, in quel residence sulla Strip,
c'erano parecchi vestiti di buon taglio,
e belle scarpe. Ci teneva a presentarsi
bene, sul lavoro.
Beh, prima di andarsene di lì, era
entrato in bagno. Aveva preso solo lo
spazzolino da denti.
— Ma Bruno, e tutte le tue cose?
— Voglio ricominciare da capo. —
aveva detto lui, con una specie di ostinata tenerezza — Lascio tutto qui.
E l'aveva fatto davvero.
Una sera, mentre guardavamo la
televisione, Bruno disse: perché non ci
sposiamo?
Risposi: già, perché no?
23
Buffo, Las Vegas a due passi e nessuno dei due c'aveva ancora pensato.
Così ci sposammo. Cucii un vestito
corto, di un rosa chiarissimo, molto
raffinato.
Avevo uno splendido bouquet, scelto da lui. Jill mi aveva pettinato i capelli raccolti. Sembravo un angelo.
Bruno era andato a cercare uno smoking in un bel negozio del centro.
Disse che non voleva affittarlo, lo
avrebbe comprato e conservato come
ricordo.
La cerimonia fu semplice, ma toccante. Lasciò decidere tutto a me. Io
volli quella canzone intitolata "The
man with the child in his eyes": mi faceva pensare a lui.
Jill però brontolò, perché avevamo
rotto la tradizione. Sarei dovuta andare a dormire da lei, diceva, per non vedere lo sposo la mattina delle nozze.
Quante baggianate, pensai.
Un mese dopo il nostro matrimonio,
una volante si fermò davanti casa.
Uscii in veranda. Non era necessario tirare a indovinare: bastava guardare le facce dei due agenti.
Facce di circostanza.
Sparatorie ce ne sono ogni tanto,
giù in centro.
Nonostante tutto, amo ancora la
città. Amo Las Vegas quando sfavilla
di luci, e la amo addormentata nel sole accecante della Strip, alle due del
pomeriggio.
Non voglio più metterci piede, però.
L'occorrente per i costumi me lo
portano a casa i ragazzi della sicurezza dei Casinò.
Lo fanno come un favore personale.
Alcuni erano amici di Bruno.
Mentre cucio, ogni tanto sollevo lo
sguardo, lasciandolo vagare fuori dalla
finestra aperta.
Dalla mia camera con vista sul deserto, ogni miraggio, nel tremolante
calore di un'incolmabile distanza, mi
sembra sia Bruno. Socchiudo gli occhi, trattengo l'illusione di vederlo, ancora una volta, che risale a passi lenti
verso casa.
E torna da me.
dal Catalogo de Il foglio letterario - www.foglioletterario.it
24
La grande opera evoliana sullo spiritualismo moderno Maschera e
volto dello spiritualismo contemporaneo, (1932), più volte ristampata,
costituisce una vera e propria Guida al mondo maledetto
dell’Esoterismo occidentale, in ogni suo aspetto più o meno tradizionale, allo scopo di fornire un mezzo di ricerca illuminante, simile a una
torcia che rischiari gli oscuri tunnel della sapienza occulta, giunta fino a
noi.
Il saggio di Maurizio Maggioni analizza la Guida critica di Julius
Evola, evidenziandone la funzione di sicurezza e di terapeutica, quale
monito sul pericolo rappresentato dalle sette esoteriche e dall’impiego
di tecniche ermetiche senza la dovuta preparazione.
In particolare, l’autore commenta la dottrina della Tradizione Solare
Primordiale (la solarità nordica sorta dall’Ultima Thule) di René Guénon, riformulata da Julius Evola, in opposizione alle moderne deviazioni dell’Occultismo e dell’Esoterismo.
Nel saggio filosofico-esoterico di Maurizio Maggioni vediamo, quindi, la stringente critica evoliana (per la difesa della personalità umana) appuntarsi sulle Correnti dello Spiritismo, della
Teosofia e dell’Antroposofia (al Capitolo 3), con uno studio critico sul Nazismo magico (Capitolo
4) e un’analisi interessante del Cattolicesimo esoterico (Capitolo 5). Di Satanismo e Stregoneria
nonché del Culto di Thelema si parla poi nei Capitoli 6 e 7, mentre una ricerca approfondita
dell’Alta Magia Cerimoniale (Capitolo 8) va a chiudere il saggio con le Note conclusive critiche
Fiera del Fumetto
Bologna 2010
Cataldo Balducci
U
n paio di fine settimana l'anno,
abitualmente ad aprile e ottobre, a Bologna vengono organizzate delle mostre-mercato dedicate
ai fumetti. Il che non stupisce: Bologna
è una città profondamente legata alle
arti in genere e, tra queste, ai fumetti:
ha dato i natali a Roberto Raviola in
arte Magnus, straordinario disegnatore
di personaggi quali Alan Ford, Satanik,
Kriminal, Lo Sconosciuto, per citarne
solo alcuni; vi ha vissuto gli anni artisticamente più significativi della sua
breve vita il marchigiano Andrea
Pazienza; vi viene annualmente organizzato il Bol Bol Bul, manifestazione
che si fregia del titolo di “festival internazionale del fumetto”, e nel cui ambit o
v i e n e
allestita
una
m o s t r a
dedicata
a
uno
o
più
disegnatori
(memorabile quella dedicata per
l'appunto
a
Magnus tenutasi
nel
2006-2007
presso la Pinacoteca Nazionale).
Il 16 e 17 ottobre scorso ha avuto luogo l'edizione autunnale
della
mostramercato dei fu-
Cronaca di una
mostra
mostra--mercato per
appassionati di fumetti
metti, come di consueto al Palanord
(mi raccontava un amico bolognese
che un tempo la fiera dei fumetti si teneva in centro città, a Palazzo Re Enzo
in piazza del Nettuno, che peraltro tuttora ospita manifestazioni e rassegne
legate anche ai fumetti), una tensostruttura ubicata nell'ampio spiazzo
del Parco Nord in Via Stalingrado, a
(chi l'avrebbe mai detto) nord della città felsinea.
Avendo in programma di recarmici
sabato con tre amici (due dei quali
giunti dalla Puglia per l'occasione), il
venerdì sera precedente ho messo sotto carica la batteria della fida Oly, con
cui scattare qualche foto per immortalare l'evento, e ho recuperato dal por-
25
tafoglio i piccoli volantini
pubblicitari da me razziati nel corso dell'edizione dell'aprile precedente
(danti diritto a un euro
di sconto – non cumulabile – sul prezzo del biglietto d'ingresso).
Alle dieci e un quarto
d'una mattina dal clima
sorprendentemente clemente (era attesa pioggia
per tutto il giorno), dopo
una brevissima coda alla
biglietteria (il grosso dei
visitatori mi aveva evidentemente preceduto),
sono entrato alla fiera.
Puntuale come sempre, la vista dell'imponente distesa di tavoli e
scaffali carichi di fumetti
e pubblicazioni varie – in
gran parte d'epoca – ha
posto il mio animo di ultra-quarantenne in uno
stato che era un misto di
nostalgia e rammarico.
Già, perché nel rivedere i giornaletti (sì, perché
negli anni settanta io i
fumetti li chiamavo così,
o
al
massimo
“giornalini”: già una terminologia tipo “albi a fumetti” ai tempi mi sarebbe sembrata vagamente
pretenziosa, figuriamoci
l'anglosassone “graphic
novel” ora in voga) che
leggevo
da
ragazzo
(intendendo con “da ragazzo” l'età che va dai sei
ai quindici anni) vengo
puntualmente colto da
una pungente malinconia per l'ormai lontana
adolescenza che una così
massiccia dose di déjà
vu non manca mai di
procurarmi.
26
Rammarico perché, al
di là di venali considerazioni sul valore economico che tali oggetti avrebbero
guadagnato
nel
tempo se non fossero andati smarriti in uno dei
miei
tanti
traslochi
(quando, lo confesso,
non me ne sbarazzai intenzionalmente), nel rivederli sulle bancarelle delle fiere, accuratamente
incellofanati nelle apposite buste trasparenti, mi
rendo conto che mi piacerebbe possederli ancora; per poterli, di quando
in quando, riprendere in
mano e leggiucchiare distrattamente.
Superato questo primo
momento emotivamente
complesso, la mia attenzione torna presto a concentrarsi su quanto è
esposto negli stand: in
primo luogo, naturalmente, fumetti, sia d'epoca che contemporanei,
sia occidentali (comprese
edizioni originali di num e r o s e p u b b l i c az i o n i
nordamericane) che
manga giapponesi, e poi
accessori (quali, come ho
già accennato, le buste
di plastica per la corretta
conservazione degli albi),
action figures e gadgets
dei più vari personaggi
(in gran parte comunque
tratti da manga e anime,
ma anche, ad esempio,
d a l l a s e ri e di G ue r r e
Stellari), vecchie riviste
(soprattutto di genere
“osé”), dvd di cartoni animati (in gran parte giapponesi) e non, vecchi giocattoli e videogiochi
(anche di alcuni anni fa,
e sia software che
hardware: una console
Dreamcast con tanto cd
di Sega Rally faceva capolino da uno scatolone),
e poi vecchi libri.
Qui debbo aprire una
non
breve
parentesi:
molti dei libri in vendita
alla fiera sono numeri di
collane di fantascienza
pubblicate in Italia a
partire dagli anni 50: in
primo luogo la mondadoriana Urania, naturalmente, ma anche le serie
Cosmo (Oro e Argento)
della Editrice Nord, o
Galassia, edita negli anni
'60 e '70 dalla casa editrice piacentina La Tribuna, oggi passata alle
pubblicazioni giuridiche
– e, visto il tenore delle
norme attualmente vigenti nel nostro ordinamento, non mi sentirei di
affermare con assoluta
certezza che si tratti d'un
cambio di genere –, ed
altre ancora. In questi
anni ne ho approfittato
essenzialmente per acquistare alcuni vecchi
romanzi del mio autore
di fantascienza preferito
(per la cronaca: Lyon
Sprague de Camp; rimpiangerò tutta la vita di
non aver comprato la
vecchia edizione d'un
suo romanzo giudicandone esagerato il prezzo richiestomi – 25 euro –,
giustificato, a detta del
venditore, dalla circostanza che si trattava del
primo
numero
d'una
pubblicazione: qualsiasi
cosa abbia mai scritto de
Camp, fosse pure una lista per la spesa, vale
ampiamente quella somma).
Da segnalare (e qui
chiudo con la fantascienza) la presenza in fiera
d'uno stand della casa editrice bolognese Elara,
erede diretta delle storiche case Libra e Perseo,
la quale esponeva il proprio catalogo composto
da pregevoli edizioni di
classici
internazionali
della fantascienza e da
nuove uscite di talentuosi autori italiani. Naturalmente era presente allo stand anche Ugo Malaguti (autore, anima
storica delle summenzionate case editrici e
tutt'ora direttore della
prestigiosa rivista Nova
Sf*).
Tornando ai fumetti,
molti dei visitatori della
fiera però non sono sem-
27
28
plici curiosi un po' nostalgici come il sottoscritto, ma collezionisti
i n
ce rc a
dei
(generalmente pochi) numeri che gli mancano per
completare le proprie
raccolte.
Li si riconosce facilmente: si aggirano tra gli
stand scrutando con un
occhio le scritte sui dorsi
degli albi stipati in lunghi scaffali e con l'altro i
fogli di carta (talvolta di
taccuino e scritti a mano) che tengono tra le dita con sopra elencati i
numeri delle varie collane di cui sono alla ricerca.
Capita che li trovino
da più d'un espositore, e
allora
contrattano
il
prezzo chiedendo sconti
a seconda dello stato di
conservazione degli albi
o della quantità dei numeri che intendano acquistare.
Vi sono poi gli appassionati delle tavole originali dei fumetti, il cui
prezzo varia dai pochi
euro alle centinaia (o anche alle migliaia) di euro
in base a vari parametri:
le quotazioni raggiunte
dal loro autore, la loro
rarità (magari vengono
dall'unico albo d'un certo
personaggio realizzato da
quel disegnatore), il loro
soggetto (in generale, se
su una tavola è ritratto il
personaggio
protagonista, questa vale di più,
così come se sia addirittura l'originale d'una copertina) e, aggiungerei,
da ultimo anche il suo
valore artistico (un bel
disegno, magari piuttosto dettagliato, vale più
di uno non particolarmente complesso). Agli
stand dei commercianti
di tavole presenti alla fiera questi collezionisti
passano parecchio tempo sfogliando i raccoglitori di tavole (immagino
abbiano un nome più
specifico, che però ignoro: sembrano grandi album per fotografie). Lo
faccio anch'io: anche se
poi non compro nulla, è
sempre
affascinante
guardare una tavola originale.
E, ove si acquisti (si
tratta d'una passione
piuttosto onerosa, come
si sarà compreso, anche
se, sapendosi muovere,
può essere senz'altro
considerata una forma
d'investimento alquanto
redditizia), anche per le
tavole è ovviamente prassi trattare col venditore
sul prezzo o chiedere
sconti quantità. Quello
dei collezionisti di tavole
è un circolo piuttosto ristretto, e in genere questi ultimi sono clienti abituali dei commercianti
del settore (a loro volta
appassionati di fumetti),
coi quale dunque spesso
vi è un rapporto quasi amicale.
Erano presenti in fiera
quella mattina anche alcuni disegnatori che, in
genere previo acquisto di
una loro opera, realizzavano un disegno su una
delle pagine bianche disponibili nella stessa.
Tra costoro menziono
l'unico che io conosca
personalmente, il milanese Beniamino del Vecchio.
A fine mattinata, dopo
aver dato un'ultima ravanata nel cestone delle
occasioni dei fumetti
(con un po' di fortuna
per pochi euro si possono talvolta portare a casa veri e propri capolavori, come “V per Vendetta”
di Moore e Lloyd, o riedizioni degli anni novanta
dei primissimi numeri di
Kriminal o Satanik) e in
quello dei dvd, stavolta
però senza trovare nulla
d'interessante, a parte,
tra i dvd, alcuni numeri
della raccolta della prima
serie (che molti, tra cui il
sottoscritto, considerano
la migliore di sempre:
basti dire che molti degli
episodi che la compongono furono diretti da Hayao Miyazaki) dei cartoni
di Lupin III (serie meglio
conosciuta come quella
della “giacca verde”, appunto dal colore della
giacca del protagonista,
che diventerà definitivamente rossa dalla serie
successiva), che però avevo appena acquistato
nella versione in cofanetto, mi sono ricongiunto
agli amici con i quali ero
arrivato. Soddisfatti dei
rispettivi acquisti e colti
dai morsi della fame, abbiamo lasciato la fiera diretti a una pizzeria su
Via Emilia Levante che,
oltre a fare un'apprezzabile pizza alla napoletana
(ossia alta e soffice) ha il
pregio di restare aperta
fino a pomeriggio inoltrato.
Frank
I miei fumetti
Frugolino, Miciolino, Bingo, Puffi, Polentina, Zenone, Massimiliano….
Edizione Speciale per collezionisti – a cura di Luca Boschi
Pag. 240 – Euro 15,00
Anafi - http://www.amicidelfumetto.it/
Franco Privitera, in arte Frank, è un
grande maestro del fumetto comico italiano, che bene ha fatto l’Associazione Nazionale Amici del Fumetto a riscoprire in un
testo curato egregiamente da Luca Boschi. I
miei fumetti è dedicato a tutti i lettori che come l’autore - mantengono vivo il bambino che è in loro e farà emozionare chi è nato nel periodo compreso dal 1950 al 1960
perché ritroverà gli eroi della sua infanzia.
Erano tempi d’oro per i fumetti, le edicole
straripavano di albi multicolori e i bambini
avrebbero fatto qualsiasi cosa pur di possederne in grande quantità. Francesco Privitera è uno dei disegnatori più prolifici del periodo storico, che produce senza sosta una
galleria sterminata di personaggi pubblicati
su albi di poche pagine da editori effimeri e
s p e s s o
i m p r o v v i s a t i .
Bingo, Nonno Bistecca, Miciolino, Polentina, Massimiliano, Pouffi, Zenone il coccodrillo… non sono che pochi nomi di un vasto Pantheon che trae ispirazione dalla genialità di Walt Disney, ma che resta ottimo
artigianato a uso e consumo dei bambini
italiani. Privitera ha un grande successo,
viene tradotto in Francia, Olanda, Spagna e
molti altri paesi europei, persino in Germania dove inventa personaggi nuovi e collabora a fumetti ideati da autori locali.
Il volume presentato dall’Anafi in tiratura limitata a 400 esemplari propone anche alcune storie create per il mercato estero e mai pubblicate in Italia, ricolorate per l’occasione da Frank. Gli
originali, infatti, erano contenuti in giornaletti tascabili che prevedevano quattro vignette per
tavola, alternando il colore a pagine in bianco e nero, per risparmiare sui costi tipografici.
I fumetti di Frank profumano di cose d’una volta, sembrano adatti a un pubblico di nostalgici
e di bambini del primo ciclo della scuola elementare. Sono lavori ingenui, ma al tempo stesso
genuini e pionieristici, ai limiti dell’underground, fanno venire alla memoria un’Italia che non
esiste più, un mondo di bambini che giocavano a calcio, leggevano fumetti e libri di Salgari come sole forme di svago. Sono soprattutto fumetti da riscoprire e da leggere a voce alta - come
ho fatto stasera per scrivere questa recensione - ai figli più piccoli, per rendersi conto che si divertono proprio come noi quarant’anni fa. I bambini non sono poi così cambiati…
Gordiano Lupi
www.infol.it/lupi
29
Sotto falso
nome
Patrizia Birtolo
i racconti
di
BraviAutori
Un racconto nero
sulla guerra fra
clan in Campania
SINOSSI PER PRIMA PUNTATA:
La prima cosa che l’uomo notò della
ragazza furono caviglie sottili ...
Bruno, studioso di antichità romane,
si sta recando a Capri per fotografare
alcuni pezzi della collezione Axel
Munthe. Sul traghetto conosce la bella
e misteriosa Lina. Affascinato dalla
giovane, spera di rivederla sull'isola.
Lei gli dà appuntamento nel pomeriggio, prima la aspetta un incontro importante: Lina è giunta a Capri per vendicarsi di un uomo. Ma chi è nel mirino di
Lina, e perché?
30
Bruno uscì dalla villa alleggerito,
ringiovanito, un ragazzino al primo
appuntamento.
Delusioni, fatiche, le pastoie in cui
si era aggrovigliato negli ultimi anni…
lontane, dimenticate. Da quando
aveva deciso di finire il suo studio
sulla collezione Munthe tutto andava per il giusto verso, doveva
ammetterlo. Prima l’incarico per
quella pubblicazione, e ora questa
ragazza.
Gli sembrava di volare, dopo
essersi trascinato fiaccamente
tanto a lungo.
Certe volte si rimproverava ancora tutto il tempo sprecato a preoccuparsi per cose senza importanza. C’erano stati periodi in cui
si era lasciato assorbire totalmente dal lavoro, prosciugare ogni riserva di energie da giornate dense
"Si ringrazia il Maestro del
fumetto italiano Vittorio Giardino
per aver concesso le splendide
immagini tratte da Sotto falso
nome (1987)"..
Sec
on
da
par
te
di spostamenti frenetici, e poi convegni, incontri, corsi e conferenze, rassegne, esami, lezioni, esami, lezioni…
Tutto pur di non fermarsi e chiedersi
una buona volta cosa voleva fare veramente. Non c’era tempo di fermarsi, di
chiedersi niente. La sua agenda era
costruita scientificamente, ché non
restasse tempo per nient’altro a parte
qualche ora di sonno. Il fine settimana, quello lo trascorreva sempre chiuso in casa, bivaccando tra il letto e il
divano, leggendo, studiando, a volte
scrivendo. Dei pochi amici con cui
manteneva i contatti, pochissimi provavano a stanarlo con qualche invito.
Nessuno era ammesso a capitargli
tra capo e collo senza bisogno di scuse.
Adesso però basta pensare al passato, si disse Bruno, voltiamo pagina.
Era così contento che prima di uscire
dalla Villa si era voluto concedere un
piccolo capriccio scaramantico: andare a sfiorare la Sfinge che dominava
vigile su tutta Anacapri. Una volta
fuori, girato l’angolo di Via San Michele, accanto alla parete della scalinata
qualcuno stava aspettando.
Gli spacchi dell’abito nero lasciavano scoperte a intervalli spalle e strisce
di schiena dorata, ricurva in un arco
perfetto. Lina sembrava una ballerina
stanca alla fine di una dura giornata
di prove; le braccia abbandonate lungo il corpo, le mani che si tenevano le
punte dei sandali. Avvicinandosi,
mentre sedeva al suo fianco sui gradini sbrecciati, le carezzò dolcemente la
nuca. La ragazza alzò il viso verso di
lui. Aveva gli occhi gonfi di pianto e il
volto arrossato. Le guance erano ancora umide e il naso colava in maniera
ridicola.
- Lina… Bambina
mia… ma che è successo?
Lei si nascose fra le
sue braccia, e riprese a
singhiozzare forte. Era
scossa da singulti terribili, sembrava stesse
buttando
fuori
da
qualche recesso in fondo all’anima un dolore
soffocato per anni. Doveva
essere
stato
quell’incontro.
Sono
venuta a salutare una
persona, per l’ultima
volta… Così aveva detto. Di certo era venuta
sull’isola per incontrare un uomo.
Aveva appena troncato una storia
lunga e tormentata? Quella con un
essere dispotico e geloso? Qualcuno
che magari la costringeva a portare
una fede che non significava nulla, solo per impedirle di essere felice? Di essere amata come meritava?
Forse si trattava di un uomo sposato, forse l’aveva messa nei guai e alla
fine lei aveva rotto con quel rapporto
opprimente. Per un attimo gli sembrò
di giganteggiare sul tragico quadro
che aveva dipinto. Che Lina avesse
trovato la forza per fuggire da quel legame impossibile proprio nel loro incontro…? La strinse più forte.
- Chi è quel mostro che vi sta facendo soffrire così? Ditemi Lina. Vi voglio
aiutare.
- È stato così brutto. Non avrei mai
immaginato che…
- Povera bambina, povera piccola…
ci sono qua io. Ssscchhhh… calmatevi. Chiunque faccia soffrire così una
ragazza come voi… meriterebbe di essere ammazzato senza pensarci due
volte.
Lei si scostò di scatto e lo guardò
impietrita per un breve istante. Le pupille nere e fonde si erano allargate di
colpo su di lui. Era ammutolita; poi,
con un gemito più
acuto e prolungato
degli altri, si era
tuffata di nuovo fra
le sue braccia, singhiozzando ancora
più forte. Bruno
stringeva al cuore
una donna disperata, che stava piangendo a dirotto, e
non
sapeva
cos’altro dire o fare
per calmarla. La
tenne stretta a sé
per un tempo che
gli sembrò interminabile e brevissimo.
Poté baciarla carezzarla e cullarla come un padre amo-
31
revole, finché lei non si arrese, cedette
alla stanchezza del pianto e alla tensione accumulata. Si abbandonò fra le
sue braccia placata, sfinita. Sul viso
però rimaneva ancora l’ombra lunga
che si scorge in un’ adolescente dopo
infernali, estenuanti litigate in famiglia.
- Si è fatto quasi buio – gli disse.
- Già.
- Abbiamo perso l’ultimo traghetto.
Dovete venire con me. Andiamo a dormire a casa mia. È tutto in ordine,
staremo bene là. Sono appena passata
qualche giorno fa a sistemare le cose.
Venite.
- Lina… siete sicura che…
- Andiamo .
32
Bruno crollò, chiudendo per un attimo gli occhi. Il luccichio tenue
dell’acqua, la luna velata di vapori
perlacei scomparvero. Sprofondato
nella poltrona di vimini godeva
dell’immobilità del momento, del fresco serale, del canto lontano del mare.
Si sentiva esausto. Prima la scarpinata fatta per tenere dietro al passo veloce di Lina, poi la cena. Lungo la strada avevano scelto un locale piccolo,
caratteristico, non troppo affollato.
Avevano mangiato e bevuto e parlato e
riso e scherzato e di nuovo riso e bevuto. Lina gli era sembrata serena, come sollevata. Aveva gli occhi belli, adesso, lavati dal pianto e lucidi per il
vino, le guance accese, i capelli un po’
in disordine. Avevano fatto tardi. Non
se l’immaginava che dovevano percorrere ancora mezza isola - così gli era
sembrato - su e giù per vicoli e vicoletti, strade e stradine, fino a casa della
ragazza.
Una porta di legno, verniciata di
rosso. Un’altra rampa di scalini di cemento. Arrivati.
Appena messo piede in casa si era
subito accorto che Lina aveva buttato
la borsa con gesto distratto in un angolo. Abbandonata così, senza darsi
pensiero. Lui, la sua, l’aveva appoggiata cautamente sul letto, dopo che Lina
gli aveva indicato la sua stanza.
- Mi vado a dare una rinfrescata.
C’è un altro bagno laggiù, in fondo al
corridoio.
Bruno vi si rifugiò, si tolse i vestiti e
aprì il getto della doccia. Nel bagno
c’era tutto. Flaconi di bagnoschiuma,
shampoo, morbide spugne. La doccia
calda gli sciolse la stanchezza, gli
snebbiò le idee. Si asciugò e rivestì
con calma. Aveva un pullover nella
borsa, lo indossò al posto della polo
che indossava da quella mattina.
Tornò in terrazza. Mentre aspettava,
accoccolato nella poltrona, Bruno cercò di assaporare quel momento, di imprimerselo nella memoria. Dalla terrazza della casa di Lina si poteva gettare lo sguardo fino alla punta nord orientale dell’isola. Era in uno dei posti più belli al mondo. Ospite di una
ragazza bellissima, che, nell’altra
stanza, si stava preparando per passare la serata con lui. Niente avrebbe
dovuto preoccuparlo, chiunque avrebbe voluto essere al posto suo.
Che cosa lo tormentava dunque?
Che quell’incanto sfumasse in un
istante.
Bruno si conosceva, abbastanza bene ormai. Sapeva benissimo di non
essere tagliato per le storie clandestine, era stufo di rovistare nel cestone
degli scarti. Non era fatto nemmeno
per i rapporti mordi e fuggi; voleva costruire qualcosa con qualcuno. Non gli
interessavano le relazioni a distanza;
soffriva la malinconia. E poi ci voleva
una buona dose di pazienza e fiducia.
Lui aveva scorte minime tanto
dell’una come dell’altra.
Il bisogno di sapere e di capire era
disperato, invece. Per prima cosa,
avrebbe voluto impegnarsi con quella
Lina, ma con la certezza che fosse libera. Non si accontentava della risposta sentita sul traghetto, qualcosa non
tornava, qualcosa stonava. Mentre Lina si faceva la doccia nell’altra stanza
aveva cominciato a macchinare. La
borsa era abbandonata sul divano. Lei
era lontana, in un’altra stanza. Lo
scroscio dell’acqua avrebbe coperto il
rumore dei passi. Si sarebbe alzato,
avvicinato al divano, avrebbe tirato il
cordoncino che stringeva l’apertura
del secchiello di pelle.
Lentamente.
Poi avrebbe cercato il portafoglio.
Dal portafoglio avrebbe estratto la carta d’identità. Lentamente. Avrebbe letto il documento, non poi così lentamente. Avrebbe rimesso con cautela il
documento proprio nello stesso taschino da dove l’aveva estratto, per lo
stesso verso.
Avrebbe ributtato il portafoglio dentro il secchiello, che non voleva nemmeno spostare dal divano.
Si alzò.
Ora incomincerò ad avvicinarmi al
divano. Niente dice che me ne debba
stare qui per forza seduto, ad aspettare. Posso sempre sgranchirmi le gambe, fare un giretto. Sono libero di passare anche vicino al divano. Non ha
mica detto: stai lontano dalla mia borsa, giusto? E se mi ci becca con le mani dentro riciclerò quella meravigliosa
menzogna che ho detto sul traghetto.
Le dirò che mi son sentito un po’ nervoso mentre aspettavo, e che anche se
mi sembrava orribile è stato più forte
di me e ho cercato una sigaretta dentro la borsa.
Sì. No. Sì. Adesso o mai più. No, no,
no. Se se ne accorgesse? Sì invece. No.
Se mi vede rovinerò tutto. Ma come
farebbe a vedermi? Non l’ho mai fatto.
Non ho mai messo le mani nella borsa
a nessuno. Però è sempre meglio sapere. Sì. Ora!
Bruno corse dentro casa come se
stesse facendo a gara con qualcuno a
chi arriva primo al divano. Tirò forte i
laccetti del secchiello … Alla fine mise
le mani nella sacca di pelle, tutte e
due. Tastò alla cieca, incontrò subito
il rettangolo rigonfio del portafoglio, lo
aprì.
Ed ebbe tutte le risposte, anche
quelle che non stava cercando.
Angela rivedeva l’intera scena.
Quella civetteria femminile, volersi lavare e cambiare d’abito, se l’era poi
rimproverata mille volte. Ma si sentiva
sporca e schifosa. Sperava con l’acqua
della doccia di lavar via ogni peccato,
o almeno trovare un momentaneo refrigerio. L’aveva lasciato solo, su una
poltrona di vimini, là sulla terrazza
della sala grande a guardare la marina. Tornando a casa era così stanca
che alla borsa non aveva proprio più
pensato. Buttata là, in un angolo del
divano.
L’ingenuità della principiante.
Una debolezza imperdonabile. A se
stessa come a lui.
Bruno. Affaccendato su quella borsa. Riflesso impietosamente nella
specchiera della sala di nonna.
Quante volte aveva fatto quel gioco?
Nell’ombra del corridoio spiare i
suoi famigliari, origliando quanto si
dicevano la mattina credendola ancora a letto… O la sera, dopo cena, già
coricata…
33
Lo aveva trovato
a frugare là dentro,
a sbirciare i suoi
documenti. Quando
stava rimettendo a
posto il portafoglio
eccolo lì, bloccarsi
fulminato:
aveva
scoperto il peso
della pistola in fondo al secchiello di
pelle nera.
Si era raddrizzato, morso da una
bestia scoperta per
caso sotto un sasso
che non doveva
spostare.
La mano passata
d’istinto a ravviarsi inutilmente i capelli grigi, cortissimi.
Lei era tornata sui suoi passi. Si era
attardata in bagno altri dieci minuti.
Poi lo sentì avvicinarsi, cauto.
- Lina…
Era uscita dal bagno già vestita, in
un morbido scamiciato bianco. Gli si
parò davanti.
Quel punto del corridoio era tanto
buio che non si potevano neanche vedere bene in viso.
Non le restava molta scelta, ora.
Doveva evitare a qualsiasi costo il
tentativo chiarificatore che sentiva urgergli dentro.
Doveva fare finta di niente, finché
non le fosse venuta l’idea giusta sul
come e sul quando.
Nel frattempo doveva farlo pensare
ad altro.
Dargli quello per cui era venuto fin
lì, quello che aveva cercato fin dal primo momento.
34
Gli cadde fra le braccia a corpo
morto e cominciarono a baciarsi rabbiosamente. Si amarono con foga disperata per tutta la notte. Lei temendo
che a ogni sospiro, a ogni ansito, Bruno se ne saltasse fuori con la faccenda
della maledetta borsa. Lo baciava con
insistenza caparbia, meno tempo gli
lasciava per pensare meglio sarebbe
stato per entrambi. Lui, travolto, cercava di capire in quel letto, stando con
lei, ciò che la ragazza non gli aveva lasciato capire fino allora. Forse stava
facendo l’amore con un’assassina, forse lei aveva eliminato l’uomo che la
tormentava e la minacciava. L’uomo
da cui non era riuscita a staccarsi fino
a quel giorno.
Anche se fosse, pensò Bruno, accecato dal desiderio, non me ne frega
proprio niente. Però mi ha mentito.
Perché gira sotto falso nome…? Angela, Lina, IDA! Si sentiva risucchiato da
un caleidoscopio di figure femminili.
Chi era veramente la donna che teneva fra le braccia?
Lei ancora dormiva. Di soppiatto si
era avvicinato allo stipite della porta
per spiarla nel sonno. Bella bella bella. Sentiva di averla amata da sempre,
dal primissimo istante che l’aveva tenuta fra le braccia. Ma di più, adesso,
dopo quello che era successo. La
guardava con orgoglio, con avidità
compiaciuta, certo che poteva guardarla quanto voleva, era sua, tutta
sua.
Bella e buona, quella ragazza, un
piccolo angelo, il tesoro suo...
Appena alzata le avrebbe mostrato
la pagina de Il Mattino, era stata tanto
brava. Tutto pulito, “sverto e ppreciso”
…ne erano usciti in bellezza. Quel favore a Lui non lo potevano mica negare, era un’antica promessa.
Non immaginava che dopo tanti anni sarebbe venuto il momento, e che
per quel momento non sarebbe stato
pronto…
Per fortuna c’era sua figlia.
A Lui, quando era andato in carcere
per avvisarlo del cambiamento di piani, all’inizio l’idea non era sembrata
piacere molto.
- Chi mi assicura che verrà una cosa ben fatta?
- È figlia mia! - Proruppe l’uomo alzando il tono, accalorandosi. Dimenticando, per un istante, di chi si trovava
di fronte. Lui gli fece uno dei suoi sorrisetti ironici, e con un gesto appena
accennato della mano, ssccchhh… Lo
invitò ad abbassare la voce.
- È figlia mia - ripeté l’uomo a se
stesso, tamburellando le dita sul tavolo, mentre abbassava lo sguardo e il
tono, dominato dalla presenza che si
trovava di fronte.
- Angela è in gamba, è capace. È
stata lei a chiedermi di poterlo fare. Sa
che toccherebbe a me, e che io non
sono più quello di qualche anno appresso. Antonio sta a Poggioreale, con
quello che ha fatto vi pare che me lo
fanno andare in libera uscita? Chi mi
resta? Ci sarebbe Domenico, ma è ‘nu
guaglioncello, tiene solo tredici anni.
Non me lo vedo pronto per n’impresa
‘e ‘sta fatta. Angela ci va, ci vuole andare. Si sente in debito… certo che ‘o
ssà che ha studiato con i soldi del
clan, mica è fessa! Lo sa che è grazie
alla generosità vostra se oggi è
n’avvucato. Lo fa per me e lo fa per
Voi. Anzi, lo fa soprattutto per Donna
Rinetta. Adora vostra sorella come fosse la Maronna ‘u Carmine, quando
andavo a trovarla se c’avevo fretta che
non mi potevo portare appresso la
creatura, ne faceva ‘na malattia. Voglio i biscotti della zia Rinetta… La zia
Rinetta mi ha detto di andare, che mi
vuole imparare a ricamare… L’ultima
cosa che mi ha detto, prima di uscire
che venissi qua, mi fa:
- Papà, a Lui diteci che… per vendicare ‘na femmena la cosa migliore è se
si muove n’atra femmena.
Lui aveva sorriso. Ora che si era intenerito, Don Pasquale sentiva uno
slancio, una voglia di superare se
stesso. Sorridendo anche lui, parlando
col cuore in mano, disse:
- E vi chiede, se permettete, pure
un favore personale. Vorrebbe essere
lei stessa in persona ad avere l’onore
di tornare al paese ad avvertire vostra
sorella che la faccenda è stata riparata.
- Pasqua’…che vvaggià a dì? Ormai
vi decidete tutto voi da soli, che ci
stanno a fare quelli come me, voi altri
fuori ve la cantate e ve la suonate…
L’uomo scoppiò in una risata divertita e affettuosa, resa più dolce dal
sollievo enorme di quella condiscendenza ottenuta senza sforzo apparente. Ma conosceva troppo bene i meccanismi del loro mondo per ignorare che
se Lui diceva “va bene” era perché la
sorella aveva già detto “va bene”.
Perché questo era affare di Donna
Rinetta.
Ora, a parer suo in quel momento
l’organizzazione aveva problemi più
grossi che andare a sfasciare le corna
a un poveretto che teneva l’unico torto
di essersi filato la sorella del boss dei
boss quando erano ancora due
‘scugnizzi entrambi…. e averla poi
piantata in asso senza né un a né un
ba, andandosene per quarant’anni a
vivere dall’altra parte dell’oceano. Però
non è che si poteva pretendere da uno
come Lui che facesse finta di niente
su una cosa così.
Se poi anche Rinetta era d’accordo,
tutto sarebbe filato liscio.
E difatti tutto liscio era filato. Brava
Angela di papà. L’uomo tornò a osservare pieno d’amore la ragazza che
sembrava lottare con le lenzuola, il viso affondato nel cuscino.
35
Angela rivedeva l’intera scena, la
riviveva ancora una volta. Il mattino
era giunto di soprassalto. Si erano appena addormentati, o almeno così le
sembrava. Usciti dal letto lo prese per
mano e lo condusse fuori. Erano già
vestiti, ma tutto era confuso, la prima
luce dell’alba incerta e tremula. Si voltò a sorridergli. Lui ricambiò il sorriso.
Si incamminarono per le salite strette
e tortuose, e senza stanchezza giunsero in cima alla scogliera. Ti faccio vedere il salto di Tiberio…
Lei non voleva fargli alcun male, ma
poi ricordò perché l’aveva portato fin
lì, e si disse: quello che va fatto va fatto. Non sapeva da dove le fosse venuta
la forza per spingerlo di sotto. Semplicemente, dolcemente, sorridendo, lo
urtò.
Lui vide
il suo gesto
e
sempre
sorridendo
lo accolse,
come fosse
stata
la
movenza
che
dava
inizio a un
ballo fatto di passi ignoti a chiunque
altro, eccetto loro soli.
Lo vide precipitare nel vuoto, continuava a sorridere inebetito e la invitava a seguirlo, aggrappandosi al suo
braccio per attirarla giù con lui,
nell’abisso, avvinghiati come poco prima, insieme fra le lenzuola, e ora, ora
non capiva più se stesse precipitando
lui solo, o la stesse trascinando con
sé, giù e giù giù giù. Poi d’improvviso,
sussultando, si svegliò.
E ricordò con chiarezza ogni cosa.
dal Catalogo de Il foglio letterario - www.foglioletterario.it
Lou è una ragazza dolce e naïf, curiosa e determinata a non lasciarsi
deprimere dalle nere prospettive che il XXI secolo le propone. Come la
maggior parte degli adolescenti, è piena di interrogativi sul futuro e su
quale sarà il ruolo che ricoprirà nella società. Tutte domande che rivolge speranzosa al suo fidanzato Leo, chiedendogli di illuminarla sui passi da percorrere. Leo è un ventenne arrabbiato. Con il sistema, con il
governo, con i politici, con la sua generazione, con la generazione passata, con il futuro. Cinico e disilluso, non pensa a cercare una soluzione
a questa sua insofferenza generalizzata, dato che probabilmente si trova
davvero bene nella sua condizione di ragazzo cupo e depresso. E poi ha
Lou, la prova vivente che tutte le sue paure hanno una conferma, ma
anche l’unica donna alla quale poi riesce ad addormentarsi accanto. Leo
& Lou: una coppia logorroica di giovani frustrati che nei momenti di
più completa intimità si lascia andare alle proprie nevrosi. L’un l’altra
si interrogano, psicanalizzano, incoraggiano e distruggono, volontariamente o involontariamente, ma senza comunque riuscire a cavare un ragno dal buco.
36
De André, la
leggenda di Natale
Tania Maffei
La favola di una
bimba ingannata da
un freddo Babbo Natale
Leggenda di Natale
Parlavi alla luna giocavi coi fiori
avevi l'età che non porta dolori
e il vento era un mago, la rugiada una dea,
nel bosco incantato di ogni tua idea
nel bosco incantato di ogni tua idea.
Fra le tende di una fragile ballata, si
consuma la favola di una bimba violata, ingannata da un Babbo Natale
che parlava d'amore ma i cui occhi
freddi non erano buoni. Un raggelante presagio di pedofilia.
Q
uando nel 1968 vide la luce,
"Tutti morimmo a stento" fu
una assoluta novità nel panorama musicale italiano. Pochi anni
prima il cantautore genovese si era
già fatto apprezzare per canzoni di
protesta come "La Guerra di Piero" o
per ballate struggenti quali "La
canzone di Marinella".
Profondamente influenzato da
cantautori come Bob Dylan e
Leonard Cohen, ma ancor più dagli
chansonnier francesi primo fra tutti
Georges Brassens, era stato tra i
primi ad abbandonare le canzonette
italiane per dedicarsi alle sue ballate cupe, affollate di anime perse,
E venne l'inverno che uccide il colore
e un babbo Natale che parlava d'amore
e d'oro e d'argento splendevano i doni
ma gli occhi eran freddi e non erano buoni
ma gli occhi eran freddi e non erano buoni.
Coprì le tue spalle d'argento e di lana
di pelle e smeraldi intrecciò una collana
e mentre incantata lo stavi a guardare
dai piedi ai capelli ti volle baciare
dai piedi ai capelli ti volle baciare.
E adesso che gli altri ti chiamano dea
l'incanto è svanito da ogni tua idea
ma ancora alla luna vorresti narrare
la storia d'un fiore appassito a Natale
la storia d'un fiore appassito a Natale.
Canzone di Fabrizio di André, ispirata
a "Le Père Noel Et La Petite Fille" di
Georges Brassens datata 1958, tratta
dall'album Tutti Morimmo A Stento,
sottotitolo “Cantata in si minore per coro
e orchestra” del 1968.
37
emarginati e derelitti d'ogni angolo della terra. Le
sue storie, pur ispirate
spesso a fatti di cronaca,
si tingono sempre dei colori della fiaba, perdendo
ogni connotazione temporale; e i suoi personaggi sembrano quasi schizzare fuori dai versi, con
la loro dirompente carica
di umanità, inquietudine, disperazione.
La poliedrica cultura
di De André si ritrova in
tutti i suoi testi. Non
mancano i riferimenti
colti ad un Proust,
Baudelaire, Maupassant,
Villon, Flaubert, Balzac
ma anche i richiami alle
ballate medievali o a
quelle tradizionali provenzali. Profondo poi lo
studio sull’Antologia di
Spoon River", o sui canti
dei pastori sardi, come
pure lo studio sui Vangeli apocrifi.
Alla fine degli anni
Sessanta (1968) nasce
questo piccolo capolavoro "Tutti Morimmo A
Stento" dal sottotitolo di
"Cantata in si minore per
solo, coro e orchestra" Il
senso del tragico qui arriva alla sua apoteosi in
un girone dantesco della
desolazione umana, tra
drogati, condannati a
morte,
fanciulle
traviate, orchi e
bambini sconvolti.
Un viaggio ossessionato e ossessionante che vede
protagonista
la
morte, attraverso
le storie dei personaggi che man
mano vanno delineandosi e che diventa
morte
I BRANI DELL'ALBUM
dell'umanità
inte1. Cantico dei drogati, 2. Primo
ra, condanna inintermezzo, 3. Leggenda di Natale,
flitta dalla natura
4. Secondo intermezzo, 5.Ballata
all'uomo.
degli impiccati, 6. Inverno, 7. Girotondo, 8. Terzo intermezzo, 9. Recitativo e Corale (leggenda del re
infelice)
BraviAutori presenta
LA PAURA FA 90
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prima edizione
Sono ammessi racconti, poesie e
immagini di qualsiasi genere, purché il tema sia la Paura. Il concorso scade quando la redazione selezionerà 90 opere idonee alla pubblicazione. Concorso gratuito.
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BraviAutori
38
La mia
Avana
Gordiano Lupi
www.infol.it/lupi
cambiata tanto la mia Avana negli ultimi anni e adesso che non
posso rivederla, come un piccolissimo Cabrera Infante, immagino che lo
sia ancor di più. Ricordo la mia Avana
percorsa da biciclette cinesi e mulatte
ancheggianti, da autobus affollati nelle
ore di punta, da uomini e donne dagli
odori penetranti che camminano sotto
il sole bruciante. Ricordo la mia Avana
senza tempo scandire ore di pomeriggi
sonnolenti mentre si lascia sfiancare
dal calore tropicale. Ricordo la mia
Avana dimenticata dalla storia, percorsa da tristi mendicanti e da bambini
che giocano a baseball agli angoli di
strada, da jineteras d’alto bordo e ragazzine in cerca d’avventure, da maricones sfrontati e turisti arroganti.
Ricordo la mia Avana che non c’è più,
se non nella memoria, nei giorni d’un
passato che non ritorna, distrutta da
un capitalismo selvaggio che conquista
strade e pensieri. All’Avana squillano
telefonini, proprio come da noi, fioriscono internet point, girano auto straniere di grossa cilindrata, aprono grandi magazzini in valuta pregiata dove
chi possiede chavitos può comprare di
tutto. Povera la mia Avana deturpata
dal presente, piena di gente che sorride per nascondere pensieri, dove vaga
il fantasma di Humberto Solás,
Fernando Pérez gira film stupendi e gli
scrittori finiscono suicidi se non ritornano. Povera la mia Avana che Cabrera Infante ha descritto per tutta la vita
Speciale Cuba
È
Avana, dimenticata
dalla storia, nei ricordi
di un figlio lontano
senza poterla rived e r e ,
pensando
a
una città
perduta
n e l l a
nebbia di
Londra.
La
mia
Avana è
cambiata,
ma
sar e b b e
meglio
Guillermo Cabrera Infante
dire che
siamo cambiati insieme, anch’io non
conservo lo stupore del primo incontro,
invecchio nel ricordo senza distinguere
il confine tra realtà e sogno. Consola la
monotonia dei miei giorni una piccola
Miriam Gómez che sostiene con forza
la nostalgia, ogni tanto fa shopping
pure se non percorre le strade di Londra, vorrebbe coinvolgermi ma resisto,
refrattario come Cabrera Infante a vetrine e negozi che offrono prodotti a
prezzi scontati. Non posso essere fedele a un ideale perduto, ma resto fedele
a una città perduta.
Non so fare di meglio.
39
Moriremo tutti,
anche se non siamo Cabrera Infante
Alejandro Torreguitart Ruiz
Traduzione di Gordiano Lupi
www.infol.it/lupi
Speciale Cuba
U
40
n giorno come un altro
all’Avana senza un cazzo da
f a r e ,
l e g g e n d o
Cabrera Infante per capire quanto poco sono vicino all’idea di scrittore e per
contrasto quanto lui fosse immenso
con i giochi di parole di Tre tristi tigri,
le descrizioni intense, i sogni a occhi
aperti sull’Almendares, piccolo Gange
dell’Oceano Occidentale, tra il doppio
orizzonte del muro del Malecón e la linea azzurra piegata, profonda cicatrice
che divide le acque. Cabrera Infante
sapeva pure scrivere come chi non amava, imitando lo stile poteva stendere
infinite versioni della Morte di Trotzki,
come l’avrebbe raccontata Martí, passando per Piñera, omaggiando persino
l’odiato Carpentier. Personaggi come
Bustrófedon che giocano con le parole
per pagine e pagine me li sogno la notte, ché soltanto lui poteva avere
l’umorismo, l’ironia, la genialità
d’inventare scioglilingua e nonsense
tirando avanti un capitolo senza una
trama, una storia, grazie a una serie di
virtuosismi lessicali. Porca eva, se penso che uno scrittore come questo mi
tocca leggerlo di nascosto, ché se il poliziotto all’angolo se ne rende conto mi
sbatte al fresco, pure se è difficile, per
lui Cabrera Infante o un piccolo poppante sono la stessa cosa, credo che
nella campagna da dove proviene tanto
l’avranno obbligato a leggere Carpentier, Guillén e Martí senza capirci un
cazzo. Questi caproni orientali adde-
Riflessioni a
voce alta, leggendo
Cabrera Infante
strati per rendere la vita difficile non
distinguono Miguel Barnet da Reinaldo
Arenas, credono che Fidel Castro sia
l’erede di José Martí e l’unica cosa che
puoi fare è tenerli alla larga, magari
allungando una bottiglia di rum e
qualche sigaro, di tanto in tanto, così
bevono, fumano e ti lasciano in pace.
Tanto prima o poi muoiono tutti, come
scriveva il buon Cabrera Infante, siano
felici, amareggiati, intelligenti, ritardati, chiusi, aperti, allegri, tristi, belli,
brutti, barbuti, alti, bassi, loschi, sinceri, forti, deboli, potenti, infelici, persino i poliziotti muoiono, persino gli
scrittori che possono fare con due parole o quattro lettere un inno, uno
scherzo, una canzone. Persino Cabrera
Infante è morto, cazzo. Persino lui.
E allora leggendo Tre tristi tigri con
la copertina camuffata dal Granma,
ché a quello serve, come fodera per nascondere è perfetta, mi rendo conto
che mio padre ne sta facendo un altro
uso, pare che lo legga davvero quel
giornalaccio e commenta pure…
“Chávez ha criticato la consegna del
Premio Nobel per la Pace al dissidente
Liu Xiaobo. È finita come con Barack
Obama, nessuno dei due meritava di
vincere”, dice con aria grave.
Io me ne stavo lì tranquillo con il mio
Cabrera Infante, ero arrivato al punto
dove il protagonista guarda il porto e
scopre una relazione tra il mare e il ricordo, non soltanto perché è vasto,
profondo ed eterno, ma anche perché
non comprendevano perché non si dovesse esprimere un pensiero critico.
Inutile. Lui legge solo il
Granma e ascolta Randy
il pelato. Buon pro gli
faccia, allora.
Torno a Cabrera Infante. Premio Cervantes
grazie a Vargas Llosa,
spagnolo d’adozione, che
amò Tre tristi tigri e lo
volle incoronare tra i libri
più importanti scritti in
lingua spagnola. Porca
eva, io non seguo la corrente perché il misterioso
ci vuole governare. No
davvero. Penso che moriranno tutti prima o poi,
pure il nostro grande alleato, il Presidente della
Repubblica Popolare di
Cina, Hu Jintao, pure
Meo Porcello che sbraita
da Caracas e le ultime
elezioni mica gli sono andate così bene, pure
Fidel Castro che è tornato a parlare e la cosa più
strana non è quella, ma
che nel mondo ci sia an-
cora un sacco di gente
che l’ascolta, pure Raúl
che c’ha in testa un modello cinese, ma mica s’è
capito quale, forse nepp u r e
l u i
s i
raccapezza molto, a me
sembra il modello marabù, vista l’erbaccia che
c’è da estirpare. I sogni
della ragione generano
mostri, ma i sogni di chi
non ragiona non possono
generare niente, purtroppo. Moriremo tutti, prima o poi, Come diceva
Cabrera Infante, dissidenti e lacchè, servi del
potere e d’uno Stato arrogante, divulgatori di
menzogne e uomini coraggiosi. Mario Vargas
Llosa prima di morire
vorrebbe passeggiare di
nuovo per le strade
dell’Avana,
incontrare
vecchi amici, vedere Cuba finalmente libera.
Aveva detto la stessa cosa Cabrera Infante e se
l’è portato via una setticemia del cazzo in un o-
Speciale Cuba
viene in ondate successive, identiche e incessanti. Certo che è dura dopo
aver assaporato una frase simile contestare le
cazzate di Meo Porcello,
perdere tempo con un
ciccione in camicia rossa
che grugnisce contro i
lacchè degli imperialisti,
irretiti da un dissidente e
dalla libertà di pensiero.
“Babbo, mica crederai a
quel che dice Chávez?”
“Il Granma parla di
solidarietà verso il popolo cinese. Sono loro che
ci danno una mano, insomma, non ci possiamo
mettere a sostenere gli
americani, mica fanno
niente per noi…”
Povero papà, si vede
che leggi solo il Granma
e guardi Cubavision con
quel fesso di Randy
Alonso, presidente del
circolo dei giornalisti che
organizza tavole rotonde
tra gente che sgrana lo
stesso rosario. E allora
cosa ti devo dire? Tanto
lo so come va a finire…
“Hai letto cosa scrive il
Granma su Vargas Llosa? Pure lui non era degno del Nobel per la letteratura…”
“Non so niente di letteratura ma in televisione
dicono che García Marquez è il solo vero Nobel
sudamericano.
Vargas
Llosa è un venduto, un
traditore, un servo degli
imperialisti”.
Inutile dire a mio padre che Vargas Llosa si è
dissociato dalla rivoluzione dopo il caso Padilla, quando furono in
molti a mollare Fidel, ché
ALEJANDRO TORREGUITART RUIZ
Alejandro Torreguitart Ruiz (L’Avana, 1979) esordisce in
Italia con Machi di carta - confessioni di un omosessuale
(Stampa Alternativa, 2003), definito un delicato e intenso romanzo di formazione da Mario Fortunato su L’Espresso. Seguono La Marina del mio passato (Nonsoloparole, 2004), Vita
da jinetera (Il Foglio, 2005), Cuba particular - Sesso
all’Avana (Stanpa Alternativa, 2007) e Adiós Fidel All’Avana senza un cazzo da fare (Racconti 2003 - 2008) (Il
Foglio, 2008). Tra gli inediti citiamo il romanzo fantapolitico
Mr. Hyde all’Avana e la biografia romanzata Un uomo chiamato Che Guevara. Alcuni racconti di impronta politicoesistenziale sono stati pubblicati da quotidiani e riviste. Tra
questi: Il Tirreno, Il Messaggero, La Comune, Container, Progetto Babele, L’Ostile e Happy Boys.
Gordiano Lupi è il traduttore e il titolare per lo sfruttamento
dei diritti sulle sue opere in Italia e per l’Europa.
41
Guillermo Cabrera Infante (Gibara, 22 aprile
1929 – Londra, 21 febbraio 2005) è stato uno
scrittore cubano, vincitore del Premio Miguel
de Cervantes nel 1997.
Opere
• Così in pace come in guerra (Asì en la paz
como en la guerra) (1960) A. Mondadori,
1963
• Tre tristi tigri (Tres tristes tigres) (1967) Il
saggiatore, 1976
• Vista del amanecer en el trópico (1974)
• O(1975)
• Exorcismos de esti(l)o (1976)
• L'Avana per un infante defunto (La Habana
para un infante difunto) (1979) Garzanti,
1993
• Puro humo (1985)
• Mea Cuba (1992) Il saggiatore, 1997
• Delito por bailar el chachachá (1995)
42
•
Mi música extremada (1996)
Ella cantaba boleros (1996)
Vidas para leerlas (1998)
Il libro delle città (El libro de las ciudades)
(1999
Todo está hecho con espejos (1999)
La ninfa inconstante (2008)
•
Cuerpos divinos (postumo)
•
•
•
•
•
Recensioni cinematografiche
• Un oficio del siglo XX (1963)
• Arcadia todas las noches (1978)
• Cine o sardina (1997)
Sceneggiature cinematografiche
• Wonderwall, regia di Joe Massot (1968)
• Punto zero (Vanishing Point), regia di Richard C. Sarafian (1971)
• The Lost City, regia di Andy Garcia (2005)
Fonte: Wikipedia, l'enciclopedia libera. www.wikipedia.it
spedale di Londra. Siamo ottimisti, al- vissuta per tutta la vita come un fantasma del passato. Una città bastarda e
lora. Non ci pensiamo.
Mia madre in cucina fa bollire corrotta, distrutta e malandata, affal’acqua per cuocere riso e fagioli, forse scinante e puttana, una città che moha rimediato pure bistecca di soia, rirà anche lei, come moriremo tutti,
l’ultimo ritrovato della libreta contro la ma che per il momento è diventata
fame. Lascio perdere mio padre e rico- davvero L’Avana per un Infante defunto. Per sempre.
mincio a leggere.
Il Malecón scorreva sotto la
macchina diventato un piano
d’asfalto, con ai lati le case rodal Catalogo de Il foglio letterario - www.foglioletterario.it
sicchiate dall’acqua salata e il
muro interminabile e in alto i
Per conoscere Yoani Sanchez
cieli nuvolosi o parzialmente
Gordiano Lupi
Il Foglio Letterario
nuvolosi e il sole che declinava
irresistibilmente, come Icaro,
L'UTOPIA IMPOSTA
verso il mare…
Una setticemia del cazzo,
Abito un’utopia che non è la mia. Per lei
un genio simile se l’è portai miei nonni si sacrificarono e i miei geto via una setticemia del
nitori dettero i loro migliori anni. Io la
cazzo per una frattura
porto sulle spalle senza potermela scrolall’omero dopo una caduta
lare di dosso.
in casa. Tu pensa morire a
Alcuni che non la vivono tentano di convincermi - da lontaLondra di setticemia, mica
no - che devo conservarla. Senza dubbio, risulta alienante
ad Alamar o a Guanabacoa.
vivere un’illusione estranea, accollarsi il peso dei sogni alMorire senza vedere The
trui.
Lost City, senza salutare
A coloro che mi imposero - senza consultarmi - questo miAndy García, senza calperaggio, voglio dire con chiarezza che non penso di lasciarlo
stare le strade d’una città
in eredità ai miei figli.
Speciale Cuba
GUILLERMO CABRERA INFANTE
Josè
Saramago
Un ricordo di uno
dei grandi della
letteratura del ‘900
Tania Maffei
insidie e alle trappole della famigerata
Pide, la polizia politica del regime.
Negli anni sessanta Saramago diventa
uno dei critici più seguiti del Paese
nella nuova edizione della rivista
"Seara Nova" e nel '66 pubblica la sua
prima raccolta di poesie I poemi possibili. Diventa quindi direttore letterario
e di produzione per dodici anni di una
casa editrice e dal 1972 al '73 curatore
del supplemento culturale ed editoriale
del quotidiano Diario de Lisboa.
Sino allo scoppio della Rivoluzione dei
Garofani, nel '74, Saramago vive un
periodo di formazione e pubblica poesie 'Probabilmente allegria' (1970), cronache 'Di questo e d'altro mondo' (1971), 'Il bagaglio del viaggiatore' (1973) testi teatrali, novelle e romanzi. Il secondo Saramago, vice di-
Il giorno 18 giugno 2010 nella sua
residenza a Lanzarote, nella località di
Tías, sulle Isole Canarie si è spento uno
dei uno dei grandi della letteratura del
900, JOSÈ SARAMAGO
BIOGRAFIA
José de Sousa Saramago nasce ad
Azinhaga, in Portogallo il 16 novembre
1922. Il suo primo romanzo, 'Terra del
peccato' (1947) non riceve un grande
successo nel Portogallo oscurantista di
Salazar. Nel 1959 si iscrive al Partito
Comunista Portoghese che opera nella
clandestinità sfuggendo sempre alle
Aforismi
«Il viaggio non finisce mai, solo i viaggiatori
finiscono.»
«I viaggiatori possono prolungarsi in memoria, in ricordo, in narrazione. Quando il viaggiatore si è seduto sulla sabbia della spiaggia
e ha detto: "Non c'è altro da vedere", sapeva
che non era vero.»
«Bisogna vedere quel che non si è visto, vedere
di nuovo quel che si è già visto, vedere in primavera quel che si è visto in estate, vedere di
giorno quel che si è visto di notte, con il sole
dove la prima volta pioveva, la pietra che ha
cambiato posto.»
43
rettore del quotidiano
Diario de Noticias, nel
'75 e scrittore a tempo
pieno, libera la narrativa portoghese dai complessi precedenti e dà
l'avvio a una generazione post-rivoluzionaria.
Nel 1977 lo scrittore
pubblica il lungo e importante
romanzo
'Manuale di pittura e
calligrafia', seguito nel
1980 da 'Una terra chiamata Alentejo',
incentrato sulla rivolta della popolazione della regione più a Est del Portogallo. Ma è con 'Memoriale del convento' (1982) che ottiene finalmente il successo tanto atteso.
Recensione di
Siamo in un posto e un tempo indefiniti quando scoppia improvvisamente una
strana epidemia che rende tutti ciechi, nessuno escluso. Il governo, non sapendo come curare chi si ammala, reclude in modo forzato tutte le persone in un
ex manicomio trasformato in una specie di "lager" dove chi entra non può più
uscire se non rischiando la vita. Poco cibo, nessuna assistenza, totale mancanza di igiene, una situazione paradossale dove ognuno cerca solo la propria sopravvivenza. I ciechi, divenuti tutti uguali, hanno perso la loro identità, si
chiamano per nome e fingono una solidarietà che li porterà a odiarsi sempre di
più. Una di loro, una donna misteriosamente, non ha perso la vista e, pur di
restare accanto al marito medico, finge di essere cieca, I suoi occhi saranno lo
specchio di tutto quello che accade e di fronte al quale non si può che inorridire. I ciechi divenuti tutti uguali, con la malattia hanno perso la loro identità, si
chiamano per nome e tendono a prendere il sopravvento l'uno sull'altro in modo meschino, falso, non tentando, in alcun modo di aiutarsi gli uni con gli altri
convinti come sono che la sopravvivenza di uno non possa che comportare la
morte di un altro.
Il titolo originale del libro è "Ensaio sobre a Cegueira" (Saggio sulla cecità),
Cecità
uno studio minuzioso sui comportamenti degli esseri umani che, in situazioni
di estrema difficoltà e paura, arrivano ad un degrado umano totale, un percorJosè Saramago
so angoscioso che conduce agli inferi, dove il senso più puro e semplice della
Feltrinelli
vita viene perso, in cui la dignità, l'etica, il rispetto sono calpestati da ogni sor(2010)
ta di violenze e soprusi. Saramago dice: "Volevo raccontare le difficoltà che
abbiamo a comportarci come esseri razionali, collocando un gruppo umano in
una situazione di crisi assoluta. La privazione della vista è, in un certo senso, la privazione della
ragione” [...] "È una vecchia abitudine dell'umanità, passare accanto ai morti e non vederli […]
Non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo […] ciechi che, pur vedendo, non vedono […].
Il mondo è pieno di ciechi vivi". Può sembrare, (ed è di certo), una metafora fin troppo banale e
scontata ma "sta succedendo in qualunque parte del mondo in questo momento.”
Interessante notare come la punteggiatura quasi non esista e lo scorrere del tempo sia scandito
dagli eventi che si susseguno in modo frenetico uno dietro l'altro. Romanzo particolarissimo ai
limiti della fantascienza. Sotto certi aspetti un vero e proprio incubo che non può lasciare indifferenti, per il suo crudo realismo e la profondità del messaggio inviato.
Tania Maffei
44
In sei anni pubblica due
opere di grande impatto
'L'anno della morte di
Riccardo Reis' (1984) e
'La zattera di
pietra' (1986) ottenendo
numerosi riconoscimenti.
Gli anni Novanta lo consacrano sulla scena internazionale
con
'L'assedio
di
Lisbona' (1989), 'Il Vangelo
secondo Gesù' (1991), e quindi con
'Cecità' (1995).
Ma il Saramago autodidatta e comunista senza voce nella terra del salazarismo non si è mai fatto avvincere dalle
lusinghe della notorietà conservando
una schiettezza che spesso può tradursi in distacco. Meno riuscito è il
Saramago saggista, editorialista e viaggiatore, probabilmente frutto di necessità contingenti, non ultima quella di
tenere vivo il suo nome sulla scena letteraria contemporanea.
É del 1998, sollevando un vespaio di
polemiche soprattutto da parte del Vaticano, il conferimento del Nobel per la
letteratura.
I romanzi di Saramago hanno le loro
radici in quella cultura che mostra di
aver sempre giocato su un confine labile tra storia e sogno, tra realtà e fantasia che può portare ad approfondimenti del vero così come appare e sino
a una vera e propria visionarietà dalle
volute barocche.
José Saramago muore il giorno 18
giugno 2010 nella sua residenza a
Lanzarote, nella località di Tías, sulle
Isole Canarie.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
DEI ROMANZI:
1977 - Manuale di pittura e calligrafia (Manual de pintura e caligrafia)
•1982
- Memoriale del convento
(Memorial do convento)
•1984
- L'anno della morte di
Ricardo Reis (O ano da morte de Ricardo Reis)
•1986 - La zattera di pietra (A jangada de pedra)
•1989 - Storia dell'assedio di Lisbona
(História do cerco de Lisboa)
•1991
- Il Vangelo secondo Gesù
Cristo (O Evangelho segundo Jesus
Cristo)
•1995 - Cecità (Ensaio sobre a cegueira)
•1997 - Tutti i nomi (Todos os nomes)
•2004 - Saggio sulla lucidità (Ensaio
sobre a lucidez)
•2008 - Il viaggio dell'elefante (A viagem do elefante)
•2009 - Caino (Caim)
•
SARAMAGO POETA
Pochi sanno in Italia che quest'artista era anche un grande poeta.
POESIA A BOCCA CHIUSA
Non dirò:
che il silenzio mi soffoca e imbavaglia.
Zitto io sto e zitto me ne resto:
la lingua che io parlo è di altra razza.
Si ammucchiano parole logorate,
ristagnano, cisterna d'acque morte,
amare pene in limo trasformate,
melma fangosa con radici torte.
Non dirò:
che proprio non son degne neppure
d'essere dette,
parole inette a dire quanto so
qui nel rifugio in cui non mi conosco.
Non solo limo o melma si trascinano,
non solo bestie, morti, ansie galleggiano,
turgidi frutti in grappoli s'intrecciano
nel nero pozzo dove dita affiorano.
Dirò solo,
arcignamente solitario e muto,
che chi ha taciuto quando io ho taciuto
non può morire senza dire tutto.
CORPO - MONDO
Che strade del tuo corpo non conosco,
all'ombra di che valli io non dormo,
che monti io non scalo, che distanze
non abbraccio negli occhi dilatati,
che torrenti non guado, che fiumi fondi
la nudità del mio corpo non varca,
che spiagge profumate non percorro
che selve, che giardini, che pianure?
45
La figura e l’opera
di Lev Tolstoj
Luisa Catapano
I
l 7 novembre si celebra il centenario della morte di Lev Nicolaievicht
Tolstoj, scrittore sulla cui grandezza è inutile spendere parole. Volendo
ricordarlo, avevo inizialmente pensato
di rievocare solo la sua morte che, per
le modalità in cui avvenne, è stata definita l’ ultimo romanzo di Tolstoj, ma
successivamente ho ritenuto opportuno iniziare questa conversazione rievocando le principali tappe della sua vita, ed anche le sue opere principali, affinchè l’ omaggio allo scrittore sia completo.
Il conte Lev Tolstoj nacque nella tenuta di famiglia a Jasnaia Poliana il
1828, e lì trascorse i primi anni di vita.
L’ avvenimento che turbò la sua infanzia fu la morte prematura della madre,
da lui ampiamente ricordata nei suoi
scritti, ma questi primi anni vissuti in
campagna furono importanti anche
perché egli ebbe così modo di osservare la vita dei contadini russi, che nella
sua mente ben presto assursero a valore di mito, e che sono sempre presenti nelle sue opere.
Dopo i primi studi, frequentò l’ Università, ma senza profitto, e perciò si
ritirò a Jasnaia Poliana dove incominciò a scrivere. Così ben presto fu pubblicata la trilogia “Infanzia, Adolescenza, Giovinezza” , piena di nostalgia per
gli anni trascorsi ,che lo fece emergere
subito tra gli scrittori russi più famosi
dell’ epoca.
46
Dai grandi romanzi
alla discussa
conversione morale
Intanto, oltre a
scrivere, Tolstoj
leggeva libri di filosofia e rifletteva
sullo scopo che
la vita di ognuno
dovrebbe avere.
Si formò così in
lui una concezione etica secondo la quale ognuno dovrebbe vivere mirando al proprio perfezionamento morale, per poter così
combattere il male e la menzogna che
si insinuano ovunque.
Tolstoj rimase sempre fedele alla
sua legge morale, e cominciò a metterla in atto fondando nel 1862 a Jasnaia
Poliana una scuola per i figli dei contadini le cui condizioni miserevoli dipendevano, secondo lui, soprattutto dall’
ignoranza.
Nello stesso anno sposò Sonja Andreevna Bers. Il legame tra i due, che
ebbero 13 figli, durò fino alla morte,
anche se spesso fu burrascoso, a causa della forte personalità di entrambi.
Ma ecco che Tolstoj pubblica il suo
primo romanzo “Guerra e pace”, i cui
numerosi protagonisti agiscono sullo
sfondo della guerra tra la Russia e la
Francia, tra lo Zar Alessandro e Napoleone.
É estremamente difficile riassumere
la trama di questo romanzo, ma volendo semplificare possiamo dire che si
tratta di una storia intrecciata di due
famiglie: i Rostov e i Bolkonski.
É però di importanza
fondamentale anche la
figura del conte Pierre
Bezuchov, nel quale Tostoj afferma di avere trasposto una parte di se
stesso, e che spesso ha
una funzione risolutiva
nelle varie vicende.
Tornando alla famiglia
Rostov vediamo subito
emergere la figura della
giovanissima
Natascia,
non bellissima, ma piena
di spontaneità, di gioia di
vivere, di desiderio di amare e di essere amata,
e questi sentimenti che
le si potevano leggere negli splendidi occhi neri la
rendevano affascinante
come nessun’altra fanciulla.
Natascia ad un ballo
imperiale conosce il Principe Andrej Bolkonski
che, rimasto vedovo di
recente, poiché la moglie
è morta dando alla luce
il piccolo Nikoluska, travolto dalla disgrazia, crede che ormai la vita non
abbia più significato per
lui, e partecipa al ballo
solo perché non può farne a meno, ma è completamente
disinteressato
alle numerose fanciulle
presenti nel salone.
La vista di Natascia,
però, è per lui decisiva.
Egli si innamora di lei e
la chiede in moglie.
Prima di sposarsi, però, poiché Napoleone incombe come una nube
minacciosa sulla Russia,
egli ritiene suo dovere
andare a combattere, e
Natascia promette di aspettarlo.
Ma Natascia è tanto
giovane e tanto bella, e
durante l’assenza del
principe Andrej si sente
tanto sola, e perciò cede
al disonesto corteggiamento e alle insidie di
Anatol Kuragin, giovane
bellissimo e dissoluto il
quale, desiderando possederla, stabilisce, con il
consenso di Natascia, di
rapirla.
Il rapimento non avviene grazie al tempestivo intervento di Pierre,
grande amico del Principe Andrej che lo aveva
pregato di vigilare sulla
sua
fidanzata,
nell’assenza di lui.
Pierre agisce tempestivamente, e cerca di soffocare lo scandalo, ma
Natascia, avendo compreso la colpa di cui si è
macchiata nei confronti
del Principe Andrej, desidera solo ottenere il suo
perdono.
Nella battaglia di Austerlitz il principe Andrej
viene gravemente ferito e
quindi
ricondotto
a
Mosca nella sua carrozza
privata e con l’assistenza
del medico personale.
Intanto Mosca è ormai
quasi deserta, perché
tutti quelli che possono
cercano di fuggire, per
paura dei Francesi che si
dice stiano per arrivare.
Anche i Rostov fuggono, stipati in un carro in
cui ripongono i loro oggetti più pregiati, e accade che il carro che trasporta la famiglia Rostov
e la carrozza che conduce il principe Andrej fac-
ciano tappa nello stesso
luogo.
Natascia, che lo viene
a sapere, nottetempo si
reca dal Principe Andrej,
per chiedergli di perdonarla, e fra i due si riaccende l’antico amore. Natascia dimostra di essere
un’abilissima infermiera
per
il
Principe
Andrej, che però, dopo
una breve fase di miglioramento, all’improvviso
peggiora: egli diventa
paurosamente indifferente a tutto, e dà chiari segni di non potere, o non
volere più vivere, perché
l’anima sua non lotta più
contro la morte, ma contro il corpo da cui vuole
liberarsi.
Ed infatti egli muore
quietamente e serenamente, lasciando nella
disperazione Natascia.
Ma, dopo qualche tempo, il cuore di Natascia,
inaridito dal dolore, sembra ricoprirsi di un nuovo terriccio vitale: ella ritorna alla vita grazie
all’amore che Pierre da
tanto tempo nutre per
lei, e che non aveva mai
osato dichiararle.
A “Guerra e pace” seguì “Anna Karenina”, romanzo
completamente
diverso per contesto e
per intreccio. Infatti il
contesto storico, non
particolarmente
accentuato, è decisamente più recente di
quello nel quale si muovono i personaggi di
“Guerra e pace”, e la trama riguarda un amore
illecito, un amore colpevole che sorge, sponta-
47
48
neo e irresistibile, tra
Anna, moglie di Aleksey
Karenin, alto funzionario
statale, e l’affascinante
scapolo
principe
Wronski.
Questo amore coglie i
due a prima vista, quando casualmente si incontrano alla stazione di
Mosca, ma purtroppo
nasce accompagnato da
un fosco presagio.
Infatti, proprio mentre
Anna e Vronski fanno
conoscenza, un ferroviere muore travolto da un
treno in arrivo, avendo
messo il piede in fallo ed
essendo caduto fra i binari.
Superato il turbamento dovuto a questa
disgrazia, con il susseguirsi
degli
incontri
l’amore tra Anna e Vronski diventa sempre più
forte, ma è un amore
tutt’altro che tranquillo,
perché Anna è tormentata dalla gelosia, e spesso
è turbata da un sogno ricorrente che la angoscia
molto, al quale non riesce a trovare spiegazione.
E una sera lei confida
questo suo sogno a
Wronski: dice di sognare
un contadino che lavora
ad un paio di scarpe in
un angolo buio, ed intanto biascica fra sé alcune parole in francese,
e lei, Anna, non sa neanche perché ne abbia tanta paura.
Intanto, con il passar
del tempo, Anna diventa
sempre più triste e sola:
lei ormai ha rinunciato a
tutto: alla sua posizione
sociale, ed anche al figlioletto tanto amato per
stare con Wronski, ma
comprende bene che tutti i sacrifici gravano su di
lei, che ha una posizione
irregolare che non le permette di frequentare la
società, mentre Wronski,
che non intende rinunciare alla sua libertà, si
dedica
volentieri
agli
sports e alle riunioni politiche, ossia a tutto
quello che gli permette di
uscire da casa e stare
lontano da Anna, la cui
gelosia è ormai diventata
per lui asfissiante e fonte
di numerosi litigi.
Per
questo,
dopo
l’ennesima partenza di
Wronski che va a trovare
la madre, ma che ad Anna sembra motivata solo
dal desiderio di allontanarsi da lei, anch’ella si
reca alla stazione per
raggiungerlo.
Ma
all’improvviso nella sua
mente si accende un
lampo: ecco il modo per
punire l’amante che lei
ritiene infedele. Il ricordo
della disgrazia ferroviaria
che segnò il loro incontro, e l’immagine paurosa e ricorrente del ciabattino fanno il resto, e
lei si lascia cadere sui binari di un treno in arrivo.
Dopo Anna Karenina,
che
è
un
romanzo
d’amore, di tutt’altro genere sono le riflessioni
che impegnarono Tolstoj
nel 1880. É questo
l’anno, infatti, che egli
chiama l’anno della sua
conversione morale, del
suo ritorno al Vangelo
nella maniera più autentica, tanto che Tolstoj divenne inviso alla Corte
Imperiale e fu scomunicato dal Sinodo russo come eretico e ateo.
Questa sua crisi spirituale
e,
insieme,
l’atteggiamento
critico
che egli aveva assunto
verso le autorità del suo
Paese sono ben presenti i
n “Resurrezione”, romanzo pubblicato nel 1899, i
cui proventi, secondo
Tolstoj, dovevano essere
destinati ad aiutare un
gruppo
di
evangelici
russi dissidenti a fuggire
dalla Russia per emigrare in Canada.
La cosa poi non avvenne, ma in tutto il romanzo è evidente la critica alle leggi costituite, perché
esse colpiscono i più
umili e i più poveri.
Il
protagonista
di
“Resurrezione” è il principe Nechliudov, il quale,
non ancora completamente guasto dalla vita
indolente e comoda che
da tempo conduce, viene
casualmente a sapere
che una fanciulla di nome Katiuscia, una graziosa cameriera da lui
conosciuta in giovinezza,
dapprima amata di un
amore rispettoso e puro,
ma poi sedotta e abbandonata a se stessa, è diventata prostituta e, ingiustamente accusata di
omicidio, è condannata
ai lavori forzati in Siberia.
Nechliudov ritiene che
la causa della triste situazione di Katiuscia sia
sua, e decide di redimer-
la, anche a costo di sposarla. Egli inizia a frequentare il carcere per
porgere aiuto a Katiuscia, che intende accompagnare in Siberia, ma
così conosce anche altri
detenuti i quali gli rivelano le violenze di cui sono
fatti oggetto, pur essendo
spesso
completamente
innocenti.
Nechliudov cerca di
aiutarli come può, ma
intanto si prepara a seguire Katiuscia in Siberia, dove dovrebbe giungere la grazia dello Zar,
di cui lui ha incaricato
un avvocato.
Egli, però, è ormai
tanto stanco nel fisico
ma
soprattutto
nell’anima a causa di
tutte le brutture e le violenze vedute.
Finalmente, però, in
un capoluogo siberiano
giunge la notizia che lo
Zar ha concesso la grazia
a Katiuscia, e lui si reca
a comunicarle la notizia,
e a rinnovare la richiesta
di sposarla.
Ma, con sua grande
sorpresa, Katiuscia, pur
ringraziandolo, rifiuta di
sposarlo, perché dice di
avere accettato un’altra
proposta di matrimonio,
quella del detenuto politico Simonson, persona
eccellente e onesta oltre
ogni dire.
Ma a Nechliudov basta
uno sguardo per comprendere che Katiuscia,
pur amandolo (e forse
pur avendolo sempre amato) sposa un altro per
ridargli la libertà.
E così Nechliudov è di
nuovo libero e solo, e dinanzi a lui si prospetta
una
nuova
missione
umanitaria: quella di
aiutare i carcerati.
Ecco, questi sono i temi di carattere umanitario che, ad un certo punto, infiammarono i rapporti tra Tolstoj e Sofia
Andreevna.
Si può comunque affermare che la coppia,
nonostante l’amore reciproco, non aveva mai
vissuto una vita tranquilla, perché, come si
rileva dai diari di entrambi, fin dall’inizio della vita coniugale frequenti erano stati i contrasti,
sempre poi superati perché in realtà l’uno non
poteva fare a meno
dell’altra.
E allora, ci si può domandare, di quale dei
due la colpa definitiva
consumatasi con la fuga
di Tolstoj da Jasnaia Poliana?
Se si leggono i diari di
Sofia Andreevna, la colpa
sembra ricadere su di
lui, che viene descritto
come un individuo egoista, che sfruttava la moglie la quale era curatrice
dei suoi scritti (dovette
riscrivere Guerra e Pace
per ben sei volte) ed a
cui erano lasciate completamente le cure della
famiglia e dei numerosi
figli, perché lui, il Genio,
non aveva tempo di occuparsi di queste cose.
Ma dal diario di lui
emerge un’altra verità: la
figura di un padre amoroso, di un marito che
non tradì mai la moglie,
e che ne sopportava con
pazienza le crisi isteriche
e l’assillante gelosia.
Ma quando Tolstoj attuò la sua conversione
morale, cambiando completamente stile di vita,
abbracciando la dieta vegetariana per compassione verso gli animali,
dichiarando di non desiderare lusso alcuno e di
non volere possedere alcunché, il conflitto con la
moglie si esacerbò.
Egli aveva scritto in
un testamento di voler
lasciare alla moglie i suoi
diritti d’autore di tutti gli
scritti
antecedenti
il
1880, ma poi, cambiando idea, espresse la
volontà di lasciare tutto
al popolo russo.
Ciò suscitò un contrasto ancora più forte dei
precedenti, perché Sofja
Andreevna temeva seriamente che in questo modo la famiglia sarebbe
caduta in povertà.
Il contrasto tra i due si
acuì sempre più. Lei divenne sospettosa al punto di frugare di nascosto
tra gli scritti di lui che,
proprio per non farglieli
leggere, li nascondeva
negli stivali.
Ma
la
salute
dell’ottantaduenne
Tolstoj, nell’ultimo scorcio dell’ottobre 1910,
non era affatto buona.
Sappiamo, comunque,
che la mattina del 27
ottobre egli fece una passeggiata a cavallo in
compagnia del suo medico e amico, e che poi tra49
scorse
una
giornata
tranquilla.
Però, la notte tra il 27
e il 28 ottobre, egli si accorse che la moglie era
entrata nel suo studio e
stava frugando fra le sue
carte.
Da ciò la decisione di
Tolstoj di fuggire da casa, ma prima di andarsene, sempre in compagnia
del medico amico, lasciò
alla moglie un biglietto in
cui era scritto:
“La mia partenza ti addolorerà, ma ti prego di capire e
credere che non posso fare
altrimenti.
La mia condizione in questa casa è diventata intollerabile.”
Tolstoj iniziò così la
sua fuga verso il Sud, e
precisamente verso la
Crimea. O verso la
morte?
Nessuno potrà mai rispondere a questa domanda. Faceva freddo
nel treno, e il medico
provvedeva a riscaldare
per lui un po’ di the.
Egli intanto guardava l
paesaggio dal finestrino e
annotava:
“La luce del giorno era grigia, ma coloriva lontane betulle e olmi, dove volavano
i corvi.”
Ma nevicava, e lo
scompartimento era freddo. Tolstoj venne preso
da forti brividi di febbre,
e l’ amico medico constatò che una brutta polmonite si era impadronita
dello scrittore, per cui
era necessario scendere
alla prima stazione.
La stazione in cui Tolstoj ammalato scese fu
quella di Astapovo, e il
capostazione mise subito
la sua abitazione a disposizione
dell’illustre
malato, al capezzale del
quale corsero subito medici, figli e amici.
Anche la moglie, disperata, accorse ad Astapovo, ma i medici non
l’ammisero alla presenza
di lui perché – dissero –
temevano che egli ne sarebbe stato turbato.
Intanto Tolstoj accettava con ubbidienza tutto quello che i medici ritenevano opportuno dargli, e sopportava serenamente le sofferenze provocate dalla malattia.
Intanto, ad Astapovo,
si erano radunati i maggiori corrispondenti dei
giornali russi, fotografi e
perfino cineoperatori, per
cui si può ben dire che la
morte di Tolstoj è stata
la prima morte avvenuta
in diretta, grazie ai nuovi
mezzi di comunicazione.
Tutti costoro sostavano, in attesa di notizie,
nei pressi della casa del
capostazione.
E la notizia giunse all’
alba del sette novembre.
Era un’ alba grigia e nebbiosa.
Qualcuno uscì dalla
casa del capostazione e
annunciò:
“Tolstoj è morto.”
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50
ORB,
“musica liquida”
Stefano Napolitano
ORB, la musica
elettronica di
Alex Patterson
A
Londra, alla fine degli anni
80, il tastierista Alex Paterson inventa la sigla ORB con
la quale firma le proprie composizioni
elettroniche basate su campionamenti
ed effetti sonori creati in studio.
Si tratta di un collage dove sopra un
ritmo technodance si alternano voci,
rumori e melodie di ogni genere, non
dissimili dalle sonorità dei Massive Attack, che attraverso l'elettronica, si ispirano al Soul Reggae e all’ambient.
Gli ORB - la parola intende piccole
sfere somiglianti a globi di luce che si
possono vedere nell'obiettivo di una
macchina fotografia - nella loro prima
fase, furono inspirati a uno spacerock
di grande creatività, qualche critico arrivò a supporre che Paterson avrebbe
potuto ereditare il titolo di “Pink Floyd
del nuovo millennio”.
I primi esperimenti in fatto di composizione, porteranno gli ORB a sondare quella che verrà definita “musica liquida”, pezzi che dimostreranno l'ambizione di compiere un grande
"viaggio", fin dentro le pieghe dell'anima.
Purtroppo, un eccessivo appiattimento tecnologico produsse uno sterile
sinth-pop di scarso valore artistico.
Oggi il cerchio si chiude: ascoltate
questi Merlino dell'elettronica combinare il loro spazio poetico con la chitarra di David Gilmour, dove nell'album intitolato appunto, "Metallic
spheres" fanno gridare, se non al mira-
colo, almeno alla nascita di una collaborazione molto ispirata che potrà dare ancora nuove emozioni lunari e ipnotiche.
Ascoltando i migliori ORB, e soprattutto i primi due album, si ha la sensazione di una grande fuga dalla sterile quotidianità che ci opprime.
Le interlinee melodiche e la ritmica
narrativa finiscono per trasportare chi
ascolta in una terra di mezzo, fuori
dalla coscienza, e la sensazione è quella di guardare un musical attraverso
un
vetro:
niente
è
come
sembra.
La loro musica sovverte i ritmi commerciali e come un puzzle ambiguo disegna nella nostra mente una mappa
del suono capace di mutare continuamente.
Il loro doppio album di debutto “The
orb's adventures beyond the
ultraworld” ha permesso agli ORB di
conquistare le classifiche discografiche
del 1991, risultando un prodotto di
51
grande
profondità
e
spessore, capace di sfiorare le corde inquiete
dell’animo umano. Il lavoro propone un'unica
suite in dieci movimenti.
Si segnalano la solare
“Little fluffy clouds” e
l'ultima parte di “Into
fourth dimension” con
frammenti di musica vivaldiana e litanie liturgiche in un concerto denso
e imprevedibile che ne
costituisce l'apice narrat
i
v
o
.
Il secondo episodio musicale di indubbio valore è
“u.f.or”.
In questo disco sono
presenti universi sonori
più astratti e legati alla
52
poetica ambient, attraverso lamenti astrali che
danno l'idea di un blues
spettrale con atmosfere
urbane scure e deprimenti.
Il
terzo
album
“O.O.B.E.” (acronimo di
out of body experience) è
una miscellanea di sonorità aliene, provenienti
da una lontana base orbitale. Il pezzo Blue
Room (17 minuti ma la
versione su singolo arriva a 40) si impreziosisce
della collaborazione di
Steve Hillage, ed è una
tela sonora di una suggestiva malinconia.
Seguiranno altre collaborazioni come quella
prestigiosa con Robert
Fripp; non tutte, a dire il
vero, saranno testimonianze di altrettanti successi.
Gli ORB, in ogni caso,
dimostreranno anche di
essere in grado di riprendere i discorsi interrotti,
e il loro sound è sempre
capace di servire uno
scacco matto, come in
una sorta di rivelazione
che è il ritratto del loro
ultimo viaggio.
Poeta,
dove vai?
Luciano Somma
P
er chi come me, fin dai primi anni dell’infanzia, si è cibato di versi scrivendo ininterrottamente
fino ad oggi, trovarsi impaludato in migliaia di siti internet e leggendo ciò che
scrive la maggior parte in poesia, sia
come contenuti sia soprattutto come
stile, è restare a pensare se poi ne è
veramente valsa la pena pubblicare
chilometri di parole per costatare che
alla fine nasce un interrogativo di delusione: Poeta, dove vai?
Gira e rigira ci si ritrova sempre con
gli stessi contenuti, valori familiari,
amore, natura, sentimenti, ansie, condite con varie salse ma tutti dallo stesso sapore in forme che con la poesia,
quell’intesa Vera e che resta nella
mente del fruitore, hanno ben poco da
spartire.
Buona parte di chi fa poesia è convinto che basti scrivere un pensiero,
come un articolo e mettendo una frase
sull’altra, è avere scritto una lirica,
prosodia, metrica e stilistica sono termini che poco importano avere studiato o averne immagazzinato almeno
un’infarinatura, a loro basta il complimento, spesso suggerito dall’affettività,
del parente più vicino, a spingerlo non
dico prima a pubblicare, come si faceva tanti anni fa su un periodico cartaceo ed ora, con l’avvento d’internet, on
line, ma addirittura a mettersi alla ricerca spasmodica dell’editore di turno:
Questi, nella maggior parte dei casi, se
si tratta d’uno importante non lo pren-
I vani sogni di
gloria di tanti
poeti improvvisati
derà nemmeno
in
considerazione, se è
Premio
uno stamdi
patore
gli
Poesia
chiederà una cifra tot
per un certo
numero di
1° Classificato
copie
e
l’autore
penserà di
aver toccato
il cielo con un dito e di aver raggiunto
l’agognato traguardo di entrare far parte, di diritto per giunta, nella schiera
dei maggiori poeti contemporanei.
Ho sempre sorriso quando ho appreso che un insegnante, tanto per fare
uno dei numerosissimi esempi, andando in pensione si è svegliato una mattina col desiderio di diventare poeta,
magari a 65/70 anni, senza avere in
tutta la sua vita mai scritto un verso, e
usando le sue reminiscenze scolastiche inizia a scrivere, magari contando
sulla punta delle dita sul naso le varie
battute decasillabe o endecasillabe, la
sua prima poesia su un genitore defunto e si ritrova a sentirsi poeta, sarebbe il meno se mettesse il frutto del
suo pensiero in un cassetto, e ci crede
a tal punto da inviare subito
l’elaborato ad uno dei tantissimi concorsi (se ne contano più d’uno al giorno) con la speranza di arrivare tra i
53
i miei
Versi
54
primi. Basterà avere un
diploma di merito (un
rettangolo di carta non si
nega a nessuno…) e dunque si sentirà non solo
appagato, ma ne scriverà
ancora tanti di titoli per
potere poi gareggiare per
tentare di vedersi riconosciuta l’aureola del grande vate agli occhi dei parenti e degli amici.
É bene sottolineare
che la partecipazione a
questi concorsi è condizionata al pagamento
d’una certa cifra per la
partecipazione, seguiranno poi, in caso di segnalazione dell’elaborato inviato, le spese di viaggio,
vitto ed alloggio per raggiungere la località della
manifestazione
(la
presenza
in
molti
concorsi è indispensabile
pena il non conseguimento del premio in caso
d i
a s s e n z a ) .
Ma si, spendiamoli pure
questi 300 o 400 euro, in
totale, si dirà, gonfio come un pavone per quello
che ritiene il raggiungimento chissà di quale
traguardo senza capire
che quel diploma, con
targa, coppa o medaglia,
che andrà a ritirare, sarà
stata dato a decine di altri concorrenti che come
lui credono sia quella la
strada che porta al successo letterario.
Senza ombra di dubbio la strada dei concorsi
è importantissima da
percorrere ma non certamente per gente che si è
improvvisata scrittore o
poeta, dalla sera alla
mattina ed ad una certa
età, bensì per i giovani i
quali mettono su carta i
loro pensieri che però, a
pari passo con gli studi,
sanno fare gavetta per
uscire dall’anonimato e
spesso con grandi sacrifici, e qui la loro poetica
sarà sicuramente testimonianza filologica di chi
esaminerà i loro lavori,
bussare alle porte editoriali serie, quelle che
contano, per immettersi
sulla non facile strada
della poesia.
Sono queste le considerazioni che mi fanno
riflettere su un cammino
percorso dall’età di 13
anni e che ancora oggi,
anche se spesso nella veste di giurato, mi vede
presente in qualche concorso anche se da un
paio di lustri la mia attività è prevalentemente
quella di autore di testi
canzoni, appunto perché
quella poetica, nei secoli,
tranne qualche doverosa
eccezione, non ha dato
mai pane a nessuno, che
mi fanno gridare (a me
stesso) poeta, dove vai?
SE TELEFONANDO
via Val di Fassa, 58
00141 Roma
Tel. 06 8174549
Una vita
nel mistero
Gordiano Lupi
www.infol.it/lupi
S
tefano Simone debutta con un lungometraggio incoraggiante dopo le buone
prove registrate in alcuni
corti horror - thriller come Kenneth (2008) e
Cappuccetto
Rosso
(2009).
Una vita nel mistero è
un film difficile che parla
di fede, speranza, amore
c o n i u g a l e
e d
eventi
miracolosi,
ascrivibile
al
genere
drammatico, sostanzialmente religioso, ma ricco
di effetti speciali e di rimandi alla cinematografia di genere italiana.
“Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non
conosce”, è la citazione
filosofica presa in prestito da Blaise Pascal per
introdurre lo spettatore
in un’atmosfera misteriosa.
Simone
dirige
con
semplicità e sicurezza
una storia sceneggiata in
maniera lineare da Emanuele Mattana, senza
omissioni e imperfezioni,
che ha il solo limite di
alcuni dialoghi troppo
impostati.
La
storia
racconta
l’amore di una coppia
borghese che travalica la
vita terrena, i piccoli gesti di tenerezza del marito, la grande fede che
unisce
entrambi,
gli
eventi miracolosi che
portano prima a una
guarigione inspiegabile e
quindi alla morte della
donna. La pellicola racconta per immagini, tra
dissolvenze e visioni suggestive, per una precisa
scelta del regista che ricorre al dialogo solo
quando non ne può fare
a meno.
La colonna sonora di
Luca Auriemma è fondamentale
nell’economia
del film, a tratti pare
ispirarsi alla musica sacra e riproduce un crescendo di tensione nei
momenti decisivi della
storia. Simone è bravo
anche nel montaggio,
perché il film gode di
buona tensione - pur
non essendo un thriller e lo spettatore segue con
trasporto
la
vicenda.
La fotografia è un ulte-
Il primo
lungometraggio di
Stefano Simone
riore punto di forza che
induce ad apprezzare i
paesaggi marini di Manfredonia e suggestive
ambientazioni campestri.
La fotografia e la musica
sono un mix interessante, studiato nei minimi
particolari, una vera e
propria fusione di sonorità e immagini priva di
sbavature.
Lo stile di regia è sobrio ed essenziale, Simone guida gli attori con
sicurezza e i due protagonisti (Tonino Pesante e
Dina Valente) recitano
con bravura, pure se risentono di una impostazione squisitamente teatrale.
Stefano Simone mette
in pratica tutta la sua
conoscenza del cinema
fantastico, dimostrando
di aver appreso la lezione
di Michele Soavi e del
suo San Francesco televisivo. Simone è consapevole che non esiste tematica più fantastica che
raccontare i miracoli di
un santo, per questo guida la macchina da presa
alla scoperta di pendole
che si fermano, asciuga-
55
gale con elementi visionari, onirici
e fantastici.
Non era un
compito facile.
Sembra
che il giovane
regista
pugliese abbia studiato
a fondo il cinema di Ingmar
Bergman,
soprattutto
Scene da un
matrimonio
(1973),
ma
anche altre
pellicole del
grande svedese intrise
di elementi
fantastici.
L’incontro
del vecchio
sulla panchina del parco
che si ripeterà in un vicolo oscuro
della
città
rappresenta
un
importante
momento
di
tensione
e
lascia indecisi sulla sua
natura
so-
56
mani che assumono forme surreali, nubi che disegnano lotte tra bene e
male, fotografie impressionate da eventi anomali e volti di Padre Pio ricavati da molliche di pane. I tempi del film non
sono dilatati, se esclu-
diamo qualche passeggiata di troppo e un paio
di sequenze inserite per
raggiungere i tempi canonici di un lungometraggio. Simone riesce a
fondere una forte tematica minimalista come
quella dell’amore coniu-
prannaturale. La finestra
che si apre, la candela
che si spenge, la rivista
che si sfoglia da sola sono una serie di episodi
che servono a far capire
l’evento miracoloso. Vediamo l’immagine di un
cuore ricavata da una
goccia di caffè, il fazzoletto piegato che sembra
un angelo, il telefono che
squilla a vuoto. Il fantastico è fuso con un tenero amore coniugale, ricco
di fede (sarà lui a darci
la forza, non ci abbandonerà), preghiera e devozione a Padre Pio. Simone è consapevole di girare cinema religioso, ma
non lo rende stucchevole
e pietistico, la sua è una
religiosità
pasoliniana
fatta di piccoli gesti quotidiani e di grande amore
per la vita. Il santo vive
insieme alla coppia e lotta al loro fianco contro il
male, salva la donna dalla morte per tumore, ma
in seguito non può evitare che venga fatta la volontà divina. Nella parte
finale apprezziamo alcune scene di puro cinema
horror che Simone inserisce con bravura. In un
negozio di scarpe appare
e scompare un frate fantasma, personificazione
della morte, che successivamente torna a sconvolgere i sogni di moglie
e marito. La parte onirica
che porta alla morte della donna è ben fatta,
possiamo dire che si
tratta di ottimo cinema
fantastico ricco di suggestioni orrorifiche. Vediamo il male che lotta contro il bene, ma questa
volta Padre Pio non può
sconfiggere la morte perché l’ora della separazione terrena è giunta.
Gli effetti speciali sono
ottimi, la scena madre
colpisce a dovere e lascia
in sospeso lo spettatore
sui motivi del decesso.
Rivediamo il marito al
cimitero mentre compie i
gesti d’un tempo e compra rose rosse per la moglie scomparsa. Ritorna
il frate, rappresentazione
della
morte,
segue
l’uomo nel parco, scompare e infine si allontana
nel sole. “Dio è ovunque”:
una
religiosità
francescana
mo stra
l’immagine di Padre Pio
anche nel pane quotidiano. La solitudine del protagonista è totale, anche
se resta il ricordo della
moglie, unito al grande
amore per la fotografia e
a una fede potente. Una
vita nel mistero è un
buon lavoro di esordio
che fa ben sperare per le
future prove di Stefano
Simone, regista caratterizzato da una marcata
vena horror - fantastica.
Il giovane regista pugliese ci consegna un’opera
che va oltre le classificazioni di genere, utilizza
momenti onirici e visionari, ma riesce anche a
far pensare.
Una vita nel mistero
SCHEDA DEL FILM
Origine: Italia.
Anno di produzione: 2010.
Durata 86’.
Genere: Drammatico.
Formato: 16:9 widescreen (1.77:1).
Audio: Stereo PCM.
Regia: Stefano Simone.
Soggetto e Sceneggiatura: Emanuele Mattana.
Musiche: Luca Auriemma.
Fotografia e Montaggio: Stefano Simone.
Costumista: Dora De Salvia.
Produzione: Jaws Entertainment.
Interpreti: Tonino Pesante, Dina Valente, Francesco
Granatiero, Don Antonio D’Amico, Cosimo S. Del
Nobile, Lello Castriotta, Amilcare Renato, Grazia Orlando, Sabrina Caterino.
57
Prima
di...
Nancy Cultrera e
Roberta Pappalardo
Si è appena concluso il primo concorso
BraviAlunni, indetto da BraviAutori con
la partecipazione della Professoressa
Angela di Salvo.
I concorrenti in gara, tutti iscritti al
liceo classico, si sono misurati sul tema
“Il destino”.
Vi proponiamo il racconto vincitore del
concorso.
L
a pioggia sbatte sui vetri.
È ottobre ma sembra di essere a
dicembre inoltrato. Fuori gli alberi si muovono convulsi, le strade sono fiumi di acqua e fango. Vedo qualche macchina ferma davanti ai grandi
cancelli delle ville irlandesi. Queste
case così composte e perfette, con i
giardini sempre curati e verdi, sembrano tutte uguali. Il buio e la pioggia
le rendono inquietanti, ne deformano i
contorni. La pioggia scende dai tetti
rossi, pare quasi di essere in un videogioco. Tutto si amalgama con il resto.
Dentro ogni casa tante persone vivono
esistenze diverse, eppure in questa
notte buia e piovosa siamo tutti uguali. Sono sola. La casa è buia, nessun
rumore, solo il vento impetuoso e i vetri che sembrano infrangersi sotto il
peso della grandine e dell'acqua.
Guardo fuori, osservo le cose nei dettagli. Non è una cosa che ho sempre
fatto, anzi, di solito si guarda distrattamente in giro, non si osservano accuratamente le cose semplici che ci
58
BraviAlunni
Il racconto vincitore
del concorso
BraviAlunni 2010
circondano quotidianamente. Tanto si
ha una vita intera per farlo.
Ma io una vita intera non ce l'ho.
Per questo ho imparato ad amare
anche le cose più piccole e insignificanti, così "dopo" ricorderò tutto, mi
sarò goduta ogni singola virgola di
questo mondo. Eppure mi mancano
delle esperienze, delle cose che desidererei ma che non posso fare. Non perché io non voglia, ma perché non posso materialmente. Non ne ho la forza.
Perciò in questo giorno di pioggia così
triste e uggioso, che si addice appieno
alla mia vita, decido di buttare qualche chiazza di colore qua e là nella
speranza di lasciare un’ impronta di
me come di una ragazza felice e spensierata e non come la piccola malata
che fra qualche mese non potrà più
muoversi. Accendo la radio, la metto
al massimo volume e canto. Ricordo
che una volta mio padre, mentre cantavo a squarciagola, mi gridò dal piano di sotto: «Catherine, se vuoi fare la
cantante, stai messa male !». E io pensavo che non volevo fare la cantante,
no, io volevo fare la scrittrice! Perché
avrei lasciato qualcosa di me, avrei
messo nero su bianco i miei pensieri e
le mie paure, e nessuno li avrebbe potuto più cancellare. Non c’è migliore
eredità di noi che quella di affidare i
nostri pensieri alla scrittura. Credo di
avere un po' il complesso del voler lasciare qualcosa di me agli altri. Ma
penso sia normale per una ragazza
malata di cancro che ha solo forse 5-6
mesi di vita. Mentre la musica pompa
sulle note dei Nicklblack, ripenso a
qualche settimana fa, quando tutto è
incominciato, quando la mia vita è
cambiata. Non ho praticamente ricordi
prima dell'ospedale. So con assoluta
certezza che ero a scuola, ridevo,
scherzavo e parlavo con le mie compagne di classe e poi ..il nulla. Ho circa
tre ore e mezza di vuoto in cui tutto è
sprofondato nell’oscurità . Con il senno di poi, ho capito che in quelle ore
non ho sognato né pensato a nulla.
Era come se fossi entrata in uno stato
di catalessi completa. Dopo tre ore, mi
sono svegliata ed mi ritrovata stesa su
un letto d'ospedale abbagliata dalla
luce giallognola dei neon. Dalle finestre non passava nemmeno un filo di
sole. Non c’era nessuno accanto a me.
Mi sono ricordata che i miei erano
fuori in viaggio e che probabilmente
non avevano fatto in tempo a tornare
prima che mi riprendessi.
Dopo qualche ora, un giovane medico con apparente freddezza , mi ha
detto che a scuola ero svenuta e che
avevo avuto delle convulsioni. Nella
confusione generale tutti erano entrati
nel panico e non mi avevano soccorsa
subito. Il mio cuore si era fermato per
circa due minuti e mezzo fino a quando non era arrivato il medico della
scuola con un defibrillatore e mi aveva
salvata. Devo ricordarmi di ringraziarlo un giorno. Ho chiesto al dottore per
quale motivo ero svenuta così improvvisamente.
«Avrei preferito parlare prima con i
tuoi genitori» dichiarò esitante.
«Non ci sono adesso, sono in Italia.
Ma parli pure con me. Voglio sapere…
e non ho paura di sapere.»
Non scorderò mai i suoi occhi. La
contrazione delle sopracciglia e il movimento nervoso delle sue mani.
Mordendosi con palese imbarazzo il
labbro, mi ha informata che avevo un
cancro. Forse c’erano stati dei sintomi
che avevo sottovalutato perché si presentano spesso in coloro che hanno la
mia d'età. Mal di testa, dolore ai muscoli, vomito, ecc.
Non ho pianto e non mi sono dimostrata disperata, come chiunque in
quella situazione avrebbe fatto. Ero in
paralisi momentanea del cervello. Avevo intuito che stavo per morire, ma
non avevo ancora realizzato per bene
questa "eventualità".
Abbassò gli occhi il medico, e si dileguò con la solita frase «Mi dispiace
davvero, ma faremo tutto il possibile.
Intanto aspettiamo i tuoi genitori e poi
cominciamo la cura al più presto».
Nei giorni seguenti a casa incominciai
ad analizzare tutta la situazione e a
capire che chi è più fragile si dimostra
più forte per dare conforto agli altri.
Ecco perché ho cominciato a prefissarmi degli obiettivi e delle cose che
voglio fare nella vita che mi resta.
Quindi, in questo giorno piovoso mi
sono seduta sul letto e ho scritto le
uniche due cose che voglio davvero
provare, che voglio fare prima di morire. Voglio provare a essere come tutti
gli altri, per qualche volta.
Lista:
1) Bagno a mare in pieno inverno…
2) Guidare la porche di papà
(possibilmente senza che lui lo
sappia)
Finisco di scrivere e guardo la lista.
Sono abbastanza soddisfatta. Suona il
campanello e vado ad aprire.
È Marco. Marco è il mio migliore amico. Siamo cresciuti insieme, si è trasferito dall'Italia quando io ero molto
piccola e i nostri genitori sono subito
diventati amici. Dal momento in cui ci
siamo incontrati, siamo diventati inseparabili.
Saliamo nella mia stanza e ci sediamo
sul tappeto morbido. Marco è stato il
primo a sapere della mia malattia.
Penso debba anche essere il primo a
sapere della mia lista. Gli passo il foglietto scritto a mano, senza dire niente. Lo guardo e basta.
Marco legge attento. Poi alza gli occhi
e mi dice: «Sai bene che ti aiuterò, non
mi tiro indietro».
59
60
Sulla sua totale disponibilità non avevo dubbi. Marco è stato il primo con
cui ho fatto le esperienze che mi hanno segnata di più.
«Grazie, lo apprezzo», e gli regalo un
sorriso. Uno di quelli che non potrà
rivedere più.
«Beh, credo sia il caso di mettere in
atto il primo punto. Andiamo al mare,
preparati», mi dice alzandosi dal tappeto.
«Ma come! Così? All'istante?»- ribattei
sorpresa.
Io sono sempre stata un po' paurosa.
Lui invece è coraggioso.
«Si, adesso, e quando sennò? Dai che
ha anche smesso di piovere. Usciamo,
andiamo con la mia macchina.»
Mi preparo e dopo 10 minuti salgo
sull’auto di Marco. Guida fino alla
scogliera, dove ci fermiamo e io scendo. Marco posteggia mentre io lo
aspetto. Guardo l'orizzonte. Avrò davvero il coraggio di tuffarmi in pieno
oceano a ottobre?
Marco mi viene incontro, mi prende
la mano e camminiamo sulla sabbia.
Mi fermo davanti al bagnasciuga, mi
tolgo le scarpe, la felpa e i jeans. Rimango in costume. E cammino verso
l'oceano. L'acqua mi bagna i piedi e
per un attimo penso: “Ma sono pazza?
Sono malata di cancro e mi sto tuffando a mare!” Però continuo, proseguo e
mi immergo del
tutto. Non sento le
braccia, le gambe e
il busto, ma rido,
rido, rido. Credo di
non essermi mai
sentita così viva.
Esco
dall'acqua
completamente gelata e Marco mi avvolge in un asciugamano. Non mi
dice niente. Non ci
diciamo nulla, rimaniamo così, abbracciati. Tra di noi
è sempre stato così, poche parole e
tanti gesti d’affetto.
La sera rientro distrutta a casa e,
dopo una doccia calda, mi metto subito a letto. Ripenso alla giornata di oggi, e mi rendo conto che mi rimane
davvero poco tempo.
Le stagioni si susseguono, mi ritrovo seduta al solito posto accanto la
finestra. Credo di avere una concezione del tempo molto più veloce rispetto
a quella degli altri. Passano i mesi ma
a me sembrano settimane. Fino a 5
mesi fa la pioggia inondava le strade,
la neve si depositava dolcemente sui
marciapiedi. Adesso si intravedono i
primi raggi di sole, le foglie autunnali
sono sparse sulle strade. Se si prova a
osservarle, si può notare come i loro
colori acquistino una diversa gradazione ogni giorno che passa.
Ecco, adesso che fisso tutti i particolari di questa strada, dei tetti tutti
rossi e dei giardini verdi e perfetti, ancora una volta mi rendo conto che ho
poco tempo. Incomincio ad avere un
po' di paura. Non per la morte in sé,
ma per quello che lascio, per quello
che avrei voluto provare e che invece
non proverò mai. Però mi manca ancora una cosa da fare. E penso che
adesso, ora che i dolori si sentono acutissimi e che i medici mi imbottiscono di morfina, ora che la mia pelle è
quasi trasparente, ora che ho perso
tutte le forme, penso sia giusto per me
esaudire l'ultimo desiderio prima che
fra qualche settimana io non sia più
in grado di farlo.
Prendo il telefono e di getto chiamo
Marco, ho bisogno di lui. Non risponde. Il telefono squilla a vuoto. Così
scendo in garage, mentre a casa ancora tutti dormono e accendo il motore
della porche di mio papà. L'adrenalina
aumenta mentre ingrano la marcia e
parto, destinazione: casa di Marco.
Appena mi vede arrivare, lo vedo impallidire, si mostra sorpreso e preoccupato, di certo non capita tutti i giorni che una malata terminale di cancro
guidi una porche! Sale subito in macchina con un espressione disperata e
eccitata insieme. Guida lui, NON SI
FIDA! In Irlanda esistono delle piste
dove i piloti principianti corrono con le
macchine. Marco si dirige li. Non vuole rischiare la vita e sa che la velocità
è una sensazione che voglio provare,
non potrebbe mai riuscire a impedirmelo. Arriviamo al circuito, comincia
la corsa!! Marco ingrana la prima, la
seconda… la velocità aumenta, l'adrenalina sale. Sono schiacciata sul sedile accanto al guidatore. Non ho la forza di ridere ma godo nella mente. È
una sensazione mai provata. Guardo
fuori dal finestrino e, mentre la macchina sfreccia come un bolide, il paesaggio è diventato solo un miscuglio di
colori, il verde l'arancione, il rosso, il
giallo, tutti amalgamati. E
penso che, se dovessi morire
adesso, mi rimarrebbe tutto
questo, la percezione di questi colori smaglianti che si
fondono fra di loro e con tutto. Dopo questo pensiero… il
buio.
Mi risveglio dopo tante ore
sul solito letto d'ospedale.
“Sempre qua sono”, mi dico.
Apro gli occhi e c'è Marco
accanto a me. Non dice niente, come al solito.
Mi stringe la mano e basta. Uno dei suoi tanti gesti
di insostituibile e caro amico. E il suo
silenzio strano mi fa capire tutto.
Il silenzio vale più di mille parole,
così dicono. Chi l'ha detto, ci ha azzeccato. Mi hanno raccontato che il
mio cuore questa volta non si è fermato, ma che sono svenuta per l'ennesima volta. Marco ha corso verso l'ospedale mentre ero in preda alle convulsioni.
Grazie, porche di papà. La velocità
qualche volta forse aiuta. Mi hanno
salvata in tempo, ma il mio sangue è
infetto. È come se circolasse veleno
nelle mie vene. Nelle ore successive,
mi imbottiscono di morfina, per non
sentire i dolori. Arrivano parenti mai
visti, persone conosciute a salutarmi,
sorridono, parlano ed è come se mi
dicessero addio. Che cosa strana vedere chi prima non ti considera neppure, che poi alla fine vuole venire a
salutarti un’ultima volta anche se non
te lo dice.
Ma le persone più importanti per
me sono sempre state vicino a me.
Marco, mia madre, mio padre non si
sono mossi un solo istante. Sono ancora accanto a me mentre la mia vista
si annebbia e non sento più nessun
muscolo. Regalo un ultimo sorriso a
loro e poi chiudo gli occhi. Non so che
mi aspetta…. ma so che ho lasciato
un segno di me.
Adesso posso anche andare.
61
I maestri
del fuoco
Luigi Cristiano
62
“Sono un servitore del fuoco segreto e reggo
la fiamma di Anor!”
pronuncia in tono concitato ed imperativo il mago Gandalf il Grigio, personaggio ben noto del Signore degli
Anelli, confrontandosi con il demone di
fuoco Balrog negli oscuri recessi delle
miniere di Moria, richiamando così
all'attenzione numerose tematiche a
sfondo alchemico di cui la non meno
importante quella riferita al posto
centrale ed elitario occupato nell'Alchimia dal fuoco, in particolare dal Fuoco
Segreto.
Fin dai popoli primitivi e nostri avi
primigeni, secondo la corrente interpretazione della comparsa dell'uomo
sul pianeta Terra, il fuoco ha
esercitato un'attrazione ed un
misticismo particolare.
A cominciare dalla scoperta
del fuoco per passare al suo utilizzo per manipolare i metalli
fino al suo uso per il riscaldamento e per l'illuminazione. Per
parlare solo del fuoco fisico,
perché in vero esistono numerose altre forme ed espressioni
del fuoco, a partire da quello
fisico per passare a fuochi più
sottili e metafisici.
Secondo Pitagora e le antiche
tradizioni tutto è regolato dal
f u o c o
c h e
batte il ritmo del sette: i sette
colori dell’arcobaleno, le sette
note, le sette porte dell’anima, i
I servitori del fuoco
segreto ed i maestri
dell'arte del fuoco
sette giorni della creazione, i sette pianeti, i sette cieli, i sette Chakra o energie vitali, e così via. Anche Ippocrate
ricorda come il numero sette, per le
sue virtù occulte, tende a realizzare
tutte le cose; è il dispensatore di vita e
fa parte di tutti i cambiamenti, come la
luna che cambia ogni sette giorni.
L'Alchimia è per prima cosa l'Arte in
grado di manipolare con saggezza ed
umiltà il fuoco in tutte le sue forme,
tanto è vero che molti maestri alchemici sono noti per aver ricevuto l'altisonante e pregevole titolo di
“Philosophus per Ignem”, ovvero di Filosofo per mezzo del fuoco, in quanto
nel fuoco, in particolare nel suo dosag-
foto 1 - Segreto del Fuoco
gio, è centrato molto
del segreto alchemico, come citato spesso da numerosi autori nella frase ermetica descrittiva dei lavori
alchemici:
l’Alchimia è come il
cucinare delle donne
ed il giocare dei bambini!
Se prendiamo un
qualunque dizionario, la parola fuoco è
comunemente riferita
alla combinazione di
un bagliore brillante
coordinato ad una
grande quantità di
calore emessa durante un rapido processo
autoalimentato
di
ossidazione esotermica, ergo il fuoco produce luce ed energia
sotto forma di calore
ed è proprio questa
m a s s i v a
liberazione
che
l'alchimista
deve
sapientemente controllare, dentro e fuori
dal forno, così come dentro e fuori di sé stesso.
Desidero ricordare come l’energia che rende
possibile il lavoro alchemico è un’energia radiante, un agente celeste, un flusso cosmico
denominato Fuoco Segreto, l'agente trasmutatorio principe di ogni trasformazione in ogni piano di esistenza. “Fuoco
Segreto” come terminologia è facilmente interscambiabile con la frase
“Segreto del Fuoco” ed
ogni piano di esistenza
possiede il suo Segreto
del Fuoco (foto 1).
foto 2 - Via Secca
Nel piano fisico, ovvero
nella materia, abbiamo
naturalmente la manifestazione
del
classico
Fuoco fisico, come tutti
ne abbiamo consapevolezza. Esso è il fuoco elementare che arde nel forno, su un becco bunsen,
come anche la più banale fiamma di una candela, usato con particolare
vigore e sapienza nella
cosiddetta “Via Secca”
alchemica, a contrapporsi alla “Via Umida”.
La Via Secca si opera
ai fornelli con crogioli di
porcellana, grafite o in
terracotta refrattaria e
vengono utilizzate alte
temperature per la fusione dei metalli (anche fino
a 1200-1500 °C) (foto 2)
Ma la reale accezione di
Fuoco fisico non è solo
questa. Esistono altre
due forme di Fuoco fisico
ed esse sono: il Fuoco
Astrale,
ovvero
l’irraggiamento
celeste
proveniente dal Sole (ma
anche dalla Luna e dalle
lontane Stelle), che non
veicola
solo
l’energia
infrarossa dello spettro
elettromagnetico
delle
onde fisiche (che ci permette di esperire la percezione del calore), ma
anche il principio vitale
conosciuto in maniera
63
64
eccellente dalle filosofie e
religioni mistiche orientali come Prana, Ki, Chi,
C’hi
ed
ereditato
dall’Occidente
come
energia orgonica, bioplasma o energia vitale.
La terza forma di fuoco fisico, ma non meno
importante, è quella che
potrebbe essere chiamata Fuoco Segreto elementare, che si può evincere
in modo squisito durante
una qualunque reazione
esotermica da laboratorio, come quella che si
ottiene
sciogliendo
l’idrossido di sodio in acqua distillata, che pur
non producendo fiamma
evidente,
produce
energia sottoforma di calore.
Nel piano emozionale
troviamo essenzialmente
due manifestazioni strettamente correlate del
fuoco come Fuoco emozionale: il Fuoco Segreto
emozionale
esoterico
(cioè invisibile agli occhi)
che si può
percepire
molto bene
quando
si
provano forti
emozioni come l’amore o
la rabbia. Le
emozioni, soprattutto
quelle intense, sono in
grado di veicolare
una
g r a n d e
quantità di
energia
e
‘bruciare’ come un fuoco
l’animo
u-
mano, sia come fuoco
generativo, nel caso della
gioia e dell’amore, che
come fuoco distruttivo,
nel caso della rabbia e
dell’ira. Di seguito esiste
il Fuoco emozionale essoterico (cioè visibile) che
deriva dal precedente e
s
i
evince perché manifestato dalla pelle come
rossore e calore, soprattutto al petto e al volto,
quindi è essenzialmente
Fuoco Segreto emozionale esoterico liberato verso
l’esterno del Sè. Qualunque persona innamorata,
per fare un esempio, è in
grado di provare questo
fuoco dentro di se, che
parte dal cuore e si irradia dal volto quando è
insieme alla persona amata. Lo stesso dicasi
per una grande gioia.
Avere un buon equilibrio dei chakra del
corpo, in particolare una
buona
apertura
del
chakra del cuore, o
Anahata Chakra, permette di riconoscere,
comprendere e dirigere il
Fuoco Segreto emozionale esoterico come una
pura onda e sensazione
di calore e amore nel petto, unita ad una sensazione di gioia e pace. La
pratica costante e disinteressata da speculazioni
economiche del Reiki così come di altre tecniche
affini, permette di stimolare la presa di consapevolezza sul chakra del
cuore (foto 3).
Nel piano mentale vi è
un unica forma di fuoco,
quello che potrebbe essere definito Fuoco Segreto
mentale, il fuoco delle
idee
che
guidano
l’individuo verso un obiettivo specifico oppure
il fuoco dei più alti principi morali ed intellettuali. È un fuoco legato alla
volontà umana e al
potere
intrinseco
dell’intuizione
e
dell’intenzione. Si pensi
foto 3 - chakra del cuore
ai più grandi rivoluzionari
mistico-intellettuali
della storia, a cominciare
da Gesù Cristo, per passare a Giovanna d’Arco
f i no
al
v en era b il e
Mahatma Ghandi, che
con le loro azioni oltre a
dare un esempio importante di alchimia sociale
hanno segnato profondamente l’inconscio collettivo e la mentalità del genere umano, fornendo
esempi di forza di Fuoco
Segreto mentale da cui
trarre insegnamento ed
ispirazione.
Nel piano spirituale il
Fuoco Segreto spirituale
si manifesta come puro
stato di estasi, condizione di particolare trance
mistica esperita da molti
Santi e mistici di tutto il
mondo, nonchè simboleggiata
in
Alchimia
dall’ardente Fenice (foto
4).
Alcune tecniche particolari di meditazione e
situazioni
di
intenso
coinvolgimento
psicosensoriale, come pure
una frequente e disinteressata opera di Servizio
senza aspettative, ne
possono di certo stimolare l’esperienza personale.
Una tiepida percezione di
questo fuoco la si ha
quando
ci
sentiamo
collegati con tutto ciò
che ci circonda, con la
magia
dell’intera
Creazione, dove cadono
le barriere psichiche e
percettive fra il Sè ed il
resto del mondo. Usare
correttamente
questo
fuoco permetterebbe di
raggiungere
particolari
consapevolezze e stati
vibrazionali
elevati
dell’essere,
aprendo
all’uomo le porte della
Conoscenza Segreta, via
diretta per la vera Illuminazione e per destinazioni
leggendarie
come
l’Eden,
Shamballa,
Shangri-la ed il Nirvana,
per
non
parlare
dell’Ascensione.
Raggiungere la consapevolezza
per
usare
correttamente
tutti
i
fuochi dell’essere è la
meta finale del percorso
alchemico e sotto questa
luce appare chiaro come
raggiungere il Donum dei
voglia dire diventare veri
e propri Maestri del
Fuoco Segreto e ciò
contraddistingue
chi
serve il fuoco come i
soffiatori, oppure chi si
serve del fuoco, come i
veri Artisti.
E per concludere, la
verità è che nessuna religione, filosofia,
libro, sistema
politico o casta elitaria o
setta mistica
possiede
di
per se tutte le
chiavi, le tecniche e le conoscenze per
i s t r u i r e
l’aspirante
fuochista
a
raggiungere la
meta
ultima
del
percorso
Alchemico.
L’unico modo per diventare novizi e
poi Maestri del
Fuoco è di
porre
attenzione
ed
osservare la Natura e
soprattutto sè stessi. Il
forno è l’essere umano
stesso e la materia prima
non è altro che l’anima.
Impariamo tutti a guardarci dentro, a trovare
dentro di noi la vera
Luce e donarla al mondo.
Sta a noi non cascare
nella maya, nell’illusione
della
divisione,
della
separazione e ripercorrendo la via del Fuoco a
ritroso sapremo riunire,
ritrovare l’armonia e finalmente
tornare
all’Uno. Solo così potrà
compiersi l’ultima grande rivoluzione umana,
quella dell’anima, tanto
attesa nei prossimi anni,
che porterà il mondo
medievale
attuale
dall’oscurità alla vera luce.
foto 4 - l’ardente Fenice
65
L’uovo del
Diavolo
Alessandro Cal
i racconti
di
BraviAutori
Il racconto vincitore
della GARA 17 del
forum Bravi Autori
S
ono seduto in terrazza, e mentre
un'ape si coccola sotto un sole
incredibilmente caldo per essere
ai primi di Novembre, penso a quanto
sia strana la vita. Così, all'improvviso,
mi è venuta voglia di mangiare un
paio di uova, ma non di quelle comprate al supermercato, grosse come
pomodori, ma che come i pomodori
sanno di acqua e sono pallide come
lune; il problema è che, quando mi
viene voglia di mangiare un paio di
uova degne di questo nome, ancora
calde di covata, col tuorlo rosso e piccole e dolci come albicocche, mi viene
sempre in mente mia nonna. E il suo
pollaio.
Una volta che ero piccolo (mi ricordo che eravamo in estate perché si
stava raccogliendo il fieno e la sera
stessa mi era venuta una febbre allergica mica da ridere), la nonna mi aveva ordinato, o mi aveva chiesto, di andare a prenderle le uova.
«Mé racomàndi: fa' no cascàr gnànca òna, ve'!» e poi, come sempre, s'era
fatta il segno della croce. Io, che ero
bambino e molte cose le capivo ma altre no, ero convinto che quella raccomandazione me la facesse perché le
vendeva al mercato il sabato pomeriggio e non voleva perdere neanche il
duecento lire di un uovo caduto per
sbaglio. Il segno della croce era una
delle cose che non mi tornavano, ma
immaginavo che i vecchi se lo facessero anche quando dovevano accendere
66
il televisore o durante le giornate di
pioggia, non so se per farla durare o
smettere. Entrambe le cose, pensavo.
Fatto sta che avevo messo giù la
forca ed ero corso in direzione del bosco, con nonna che urlava: «No per di
là, no per di là, che s'è pièn di spìn!»,
riferendosi ai rovi e alle robinie che
per me rappresentavano solo avventure e mostri, e principesse legate da lasciar lì a soffrire. Non sono mai stato
un gran cavaliere, neanche da bambino. E poi, dal bosco ci mettevo pure
meno tempo che a passare per la strada.
Il pollaio era piccolo, non certo uno
di quegli allevamenti enormi in cui i
polli stanno immobilizzati in una gabbia e vivono solo per mangiare, covare,
dormire, mangiare, covare, morire.
Ne avevamo una quindicina, di galline, e ancora oggi non so quanto darei per sentire di nuovo quel buon
odore di guano ed erbe secche e terra
fresca che allora mi proteggeva, silenzioso e sicuro come un padre, dal
mondo di fuori.
Quando la porticina in legno cigolava per farmi entrare, oltre ai meravigliosi profumi che ho già menzionato,
mi accoglieva un chiacchiericcio soffuso che sembrava di entrare in una
stanza piena di mamme che cullavano
i loro bimbi. I volatili prendevano a fissarmi, curiosi e un po' impauriti: non
si ricordavano mai che ero io, né avevano idea di cosa fossi andato a fare
da loro. Rispondevano a un solo richiamo: il barattolo pieno di granaglie
che agitavo per chiamarli verso di me,
e guai se non gliene concedevo una
manciata quando erano tutti ai miei
piedi a guardare in su. Insomma, una
volta che li avevo richiamati dai loro
giacigli con il solito giochetto, potevo
impossessarmi delle uova di cui ormai
si erano scordati. Mentre si accanivano sul terreno coi loro becchi, agguantavo il cestino di vimini e mi davo da
fare pure io: c'erano giorni che riuscivo a riempirlo quasi tutto fino all'orlo.
E quello era uno di quei giorni: l'ultimo uovo proprio non si decideva a
starsene in equilibrio dove lo mettevo.
Ora che ci penso, sarebbe stato più
saggio metterselo in tasca della tuta o,
ancor meglio, tenerlo nella mano libera. Ma non ci avevo pensato, semplicemente. O, semplicemente, era una
delle solite sfide infantili che intraprendevo con me stesso. Il punto è
che, a un certo punto, mi era sfuggita
la presa e l'uovo si era schiantato nella polvere, spargendo il proprio contenuto vischioso in ogni direzione come
fosse stato un fantasmino pesto.
Qualcuno dietro di me aveva gridato.
«Oh Maria Vergine, oh Maria Vergine! Ma cosa hai fato tì, ma cosa!».
Mi ero spaventato tanto che per poco non avevo fatto cadere tutto il cestino. Mia nonna era lì, affacciata
all'ingresso del pollaio, a disperarsi
con le mani sulla fronte, poi con le
mani sugli occhi, poi con le mani nei
capelli. «Maria Vergine, oh Maria…»
sussurrava senza sosta, e giù segni
della croce a ogni sillaba.
Io avevo provato a rassicurarla,
spiegandole che l'uovo gliel'avrei pagato, che le duecento lire le trovavo senza problemi, ma lei non si calmava e
anzi i suoi lamenti diventavano sempre più confusi. Alle "Vergine Maria" si
era presto aggiunto un nome un po'
più cupo che suonava come "il Diavolo, il Diavolo" e ancora segni della croce, e "Diavolo, Diavolo". Alla fine, in
mezzo a tutti quei piagnistei, credo di
aver capito che, secondo lei, il Diavolo
potesse intrufolarsi nelle uova per poter poi entrare in casa alla gente e
che, se l'uovo ti cascava in terra per
sbaglio, il demonio veniva fuori e ti si
attaccava addosso. Io credevo ai mostri, agli spettri, ai morti che parlano,
ma al Diavolo no: ci credevano troppi
adulti, al Diavolo.
Da quel giorno, comunque, nonna
non mi ha più permesso anche solo di
guardare da lontano i suoi pennuti o
di parlarle prima di avermi bagnato
con una certa acqua contenuta in una
madonnina cava. L'avevo presa per
matta.
Poco dopo, siamo stati costretti a
comprare un appartamento lontano
dalla casa in cui ho passato l'infanzia,
per dei motivi che non sto qui a raccontare. So solo che, quando sto sul
terrazzo, come ora, e come ora guardo
le strade sotto di me serpeggianti di
veicoli, e vedo la gente che corre per
non pensare alla propria solitudine o
sento il puzzo di quella che è diventata la mia vita, basta che un'ape si appoggi su una delle mie piantine perché
mi tornino in mente mia nonna, il suo
pollaio e quell'odore meraviglioso di
cose vive e frementi, incorniciate dal
sussurro dei campi che parlano col
vento. E il Diavolo, certo, lui non me
lo scorderò davvero più. Quello non mi
si è mai staccato di dosso. Ho iniziato
a credere da molto tempo che esista
davvero, il Diavolo.
67
Jane
Austen
Ylenia Zanghi
N
ell'episodio precedente abbiamo parlato dello scrittore
che ha introdotto il sesso nella fantascienza. Quindi, cari maschietti,
niente storie: ora si parla della zia
Jane.
Non si conoscono
tutti i particolari della
vita di Jane Austen (la
sorella Cassandra distrusse quasi tutte le
sue lettere non appena
la fama, sebbene postuma, cominciò ad
arrivare: del resto, non
si può non pensare
che la zia non sarebbe
stata affatto contenta
che degli estranei leggessero la sua corrispondenza privata).
Tuttavia, possiamo conoscerla nel modo migliore, attraverso le sue opere:
“Jane Austen pervade di sé ogni parola
che ha scritto, proprio come fa Shakespeare”, dice Virginia Woolf e chi siamo noi per contraddirla? Di certo la
Austen fu capace di trarre da una vita
non particolarmente avventurosa, fatta
di passeggiate in campagna, balli e visite ai vicini (è sempre la Woolf a ricordarci che “era impossibile per una
donna andarsene in giro da sola”) il
materiale per dei romanzi che hanno
fatto la storia della letteratura, dipingendo l'ambiente in cui viveva e i personaggi che lo abitavano con un'incon68
Ritratti di donne
realizzati con ironia
da una grande autrice
fondibile e impareggiabile ironia. Lo
scrittore inglese Ford Madox Ford
scrisse che la Austen lo faceva sentire
come se stesse “davvero seduto su una
poltrona a Mansfield Park […] in compagnia dei personaggi”.
Rispetto alla sterminata produzione
di Farmer, la musica
è decisamente cambiata: della Asten abbiamo solo sei romanzi canonici. Ma
questi sei romanzi
sono bastati a renderla la scrittrice più
amata della letteratura inglese. Parliamoci chiaro: per le
vere
appassionate
Orgoglio e Pregiudizio non è un romanzo, è IL romanzo.
ORGOGLIO E
PREGIUDIZIO
Confessione: ho letto
Orgoglio e Pregiudizio almeno duecento
volte. Un lessico da
perdere la testa: parole come “laddove”,
“iattura”, “tripudio”.
Patisco le pene
dell'inferno: Elizabeth e il Signor
Darcy vivranno insieme?
Leggilo, ti piacerà.
[C'è post@ per te]
Chi non ha mai sentito parlare di questo classico inglese? Le sue rivisitazioni, sia letterarie
che
cinematografiche,
sono numerosissime e
ancor di più sono le citazioni di questa romanticissima storia (come non
citare il Mr Darcy di Bridjet Jones?). Curiosando
tra le recensioni anobiane (il mio vizietto) ho trovato una frase a effetto
che non potevo non riportare: “la storia perfetta dell'incontro tra due
anime imperfette”. Non
commettiamo però l'errore di pensare che si tratti
di un romanzo rosa. Al
contrario, affronta tutti i
temi tipici della Austen:
il rapporto tra i sessi, il
ruolo
della
donna,
l'influenza che fattori
economici e sociali potevano avere nel determinare la scelta del matrimonio. Non voglio certo
risparmiarvi
le
pene
dell'inferno raccontandovi come andrà a finire
ma non posso non parlare della crescita interiore
e della maturazione dei
due protagonisti nel corso del romanzo: l'orgoglio
di lui e il pregiudizio di
lei (ma anche il contrario) verranno duramente
colpiti, entrambi cominceranno a capire meglio
sé stessi e gli altri, impareranno dai loro errori
anche dolorosamente, a
volte. Il contesto sociale
non sarà dei più favore-
JANE AUSTEN
Jane Asten nacque il 16 Dicembre 1775 a Steventon,
nell'Hampshire, settima degli otto figli del reverendo George
Austen e di Cassandra Leigh. Fu per lo più
istruita in casa, anche se lei e sua sorella Cassandra furono
mandate per breve tempo in collegio (e non lo gradirono molto). Gli Austen erano amanti della letteratura (il reverendo
possedeva una biblioteca di ben 500 volumi) e Jane era una
lettrice vorace: incoraggiata dal padre, cominciò a scrivere
ancora giovanissima. Pare che fosse molto legata ai suoi fratelli e in particolar modo a Cassandra, soprattutto dopo la
morte del fidanzato di questa, Tom, nel 1798. All'età di ventisei anni si trasferì a Bath coi genitori e la sorella, in seguito al
pensionamento del padre. Alla morte di questi, nel 1805, le tre
donne dovettero lasciare la città a causa di difficoltà finanziarie; da allora cambiarono più volte residenza: Southampton,
Chawton, Winchester. Nel 1815 la scrittrice cominciò a manifestare i sintomi del morbo di Addison, che l’avrebbe uccisa
(la malattia all'epoca non era conosciuta, per cui non poteva
essere diagnosticata e curata). Nell’aprile del 1817 fece testamento lasciando tutto alla sorella Cassandra e il 18 Luglio
1817 morì. Fu seppellita nella cattedrale di Winchester.
voli (la media e l'alta borghesia verranno tratteggiate più che efficacemente dalla Austen che
affianca
alla
storia
d'amore una “commedia
di costume”: le sorelle
Bingley, Lady Catherine,
Mr
e
Mrs
Bennet,
Mr Collins ci inseriscono
subito
nell'ambiente,
mostrandoci una società
basata sulla nascita, sulle parentele e sulle rendite), questo però non ci
impedirà di sorridere cogliendo la già citata ironia nelle parole della zia
Jane (“Le visite a Mrs.
Phillips erano fonte ora
di informazioni estremamente interessanti. Ogni
giorno aggiungeva qualcosa alla loro conoscenza
dei nomi e delle amicizie
degli ufficiali”, “si era
trasferito con la famiglia
in una casa a circa un
miglio da Meryton [...]
dove poteva riflettere piacevolmente sulla sua importanza”).
Leggetelo, vi piacerà!
RAGIONE E
SENTIMENTO
Ho ricevuto una lettera da
una mia amica che vive a
Parigi. Ha letto un libro
bellissimo appena uscito. È
intitolato Raison and Sensibilité. [..]La mia amica dice
c
h
e
chiunque sia la donna che
ha scritto quel libro, ne sa
più dell'amore di chiunque
altra al mondo.
[Miss Austen's Regrets]
Ragione e sentimento
è considerato il romanzo
“meno perfetto” di Jane
Austen (gli altri subirono
molte più revisioni). La
storia dei due caratteri
69
in contrasto, qui rappresentati dalle due sorelle
Elinor (la più assennata)
e Marianne (la più passionale) è presente anche
in altri romanzi della Austen ma qui diventa il
fulcro del romanzo.
Da che parte sta la
Austen? Da una posizione di equidistanza che le
permette di prendere sottilmente in giro tutti i
suoi personaggi e forse
anche noi, che sceglieremo la nostra “sorella preferita” in base al nostro
carattere e alle nostre esperienze (col risultato
che, rileggendolo, potremmo accorgerci di
preferire invece l'altra).
Sullo sfondo delle storie
d'amore delle due sorelle
riemerge però prepotentemente il ritratto della
condizione civile ed economica della donna che
in questo caso assume
anche connotati biografici (la povertà della madre
e delle sorelle dopo la
morte del padre a causa
della legge che vincola
l'eredità all'erede maschio, la tragedia rappresentata dalla mancanza
di una dote cospicua).
EMMA
La tesi di Jane Austen è che
nessuna di queste cose è reale. Emma agisce sulla base
delle sue fantasie.
[Il club di Jane Austen]
Secondo la critica Beatrice
Battaglia, Emma è “un orgoglio e pregiudizio scritto
vent'anni dopo”. Invece di
farci identificare con la pro70
tagonista, la Austen qui crea un'eroina “antipatica”,
che è il primo bersaglio
della sua comicità. Emma è
vanitosa, capricciosa, viziata, presuntuosa. È un personaggio complesso,
amato e odiato dai lettori,
capace di reggere un intero
romanzo sulle sue graziose
spalle. Se volete esprimere
il vostro giudizio su questa
controversa protagonista,
non dovete fare altro che
leggere il suo romanzo.
MANSFIELD PARK
Ok, sentite: io adoro
Fanny! Lavora sul serio e
mette sempre la famiglia
prima di sé stessa e non
smette mai di amare Edmund, mai!
[Il club di Jane Austen]
A proposito di eroine
controverse: Fanny Price
è l'anti-elizabeth (o l'antiemma, se preferite). È
modesta, virtuosa, lontanissima dalla vivacità intellettuale della signorina
Bennett. I fan della Austen si spaccano: Fanny
è una fanciulla dolcemente ingenua o una pedante ragazzina noiosa?
Se appartenete alla seconda schiera, forse potrà consolarvi l'idea che
la critica più recente ha
proposto un'interpretazione rovesciata di Mansfield Park, secondo cui
il romanzo non sarebbe
altro che una parodia dei
conduct books dell'epoca
e la voce narrante del romanzo in realtà sposa la
prospettiva moralista e
patriarcale per farci ve-
dere quanto restrittiva e
“immorale” essa sia.
L'ABBAZIA DI
NORTHANGER
Qui la Austen, giovane
scrittrice, mette in discussione sé stessa. Che cos'è
un'eroina? Qual è un buon
soggetto? I romanzi sono
una perdita di tempo? Devo
mettermi a scrivere? E che
devo scrivere?
[Il club di Jane Asten]
L'abbazia di Northanger è il primo romanzo di
Jane Austen, pubblicato
postumo nel 1818. Qui
la parodia è evidente e
sfacciata e a esser presi
di mira sono i generi più
in voga: il romanzo sentimentale e quello gotico,
in particolare I misteri di
Udolpho, di Ann Radcliffe, esplicitamente citato
dai personaggi ma anche
certi aspetti più cupi di
Jane Eyre.
La protagonista, bruttina, sciocca, priva di carisma, ci viene presentata, già dall'incipit, in modo
quasi
sarcastico
“Nessuno che avesse conosciuto Catherine Morland nella sua prima infanzia avrebbe mai supposto che il suo destino
sarebbe stato quello di
essere un'eroina. Tutto
era contro di lei: la posizione sociale, il carattere
del padre e della madre,
il suo aspetto fisico e
perfino le sue inclinazioni.” e per tutta la durata
del romanzo, la voce narrante continuerà a lamentarsi della sua mancanza di eroicità.
L'autrice si profonde
inoltre in un'appassionata difesa del romanzo
(“Sebbene le nostre produzioni abbiano fornito
piacere assai più vasto e
costante di quanto non
abbia fatto qualsivoglia
altro genere letterario al
mondo,
nessun'altra
composizione è stata mai
altrettanto
denigrata”).
Un romanzo che parla di
romanzi e del romanzo,
come opera prima, non è
cosa da poco (anche se è
stato rivisto in seguito
dall'autrice) e L'abbazia
di Northanger, anche se
non sarà il libro più famoso della Austen, resta
sicuramente il più divertente.
PERSUASIONE
- È bellissimo.
- Ah, sì?
- Sì. È un libro sull'attesa,
con due persone che si incontrano e si innamorano
ma al momento sbagliato e
si devono separare. Ad anni
di distanza si rivedono e
hanno un'altra occasione,
solo che non sanno se è
passato troppo tempo... La
lunga attesa, sai, può aver
cambiato le cose...
- Perché ti piace?
- Non lo so!
- Non mi fraintendere, è
bellissimo, è solo... è terribile!
- Sì, lo è! È una tragedia!
[La casa sul lago del tempo]
Persuasione è l'ultimo
romanzo di Jane Austen
(e l'unico il cui titolo non
è stato scelto dall'autrice, che era morta prima
della pubblicazione). Oltre alla consueta critica
sociale (spietato il ritratto dell'aristocrazia che la
Austen realizza con gli
Elliot), questo romanzo
presenta delle novità e
delle peculiarità che lo
distinguono da tutti gli
altri. È, se vogliamo, il
più romantico. La voce
narrante sposa in pieno
il punto di vista della
protagonista e sembra
condividerne pensieri e
opinioni. Il tono del romanzo è modellato sulle
caratteristiche dell'eroina, Anne, la più “umana”
delle protagoniste austeniane, che nel libro affronta un percorso di
crescita che la porterà finalmente a non dipender e
p i ù
d a l l a
“persuasione” altrui ma
a fidarsi del proprio giudizio (“era stata costretta
a essere prudente da giovane, ma crescendo aveva imparato a essere romantica: naturale conseguenza di un inizio innaturale”). Alla fine della
sua esistenza, la Austen
scrive un romanzo sulle
seconde occasioni, che
lei non aveva avuto e che
invece Anne e Frederick
otterranno e sapranno
sfruttare. È il romanzo
più incentrato sulle sensazioni ed emozioni della
protagonista (una parola
detta da lui occupa molto più spazio che intere
conversazioni con altri,
nella mente di Anne così
come nelle pagine del libro), il più attento alla
fisicità (Anne non cambia solo psicologicamen-
te nel libro, anche il suo
corpo si risveglia). Anche
se Annie è molto più timida e obbediente di Elizabeth, alla fine sarà
proprio lei a prendere in
mano il suo destino, a
rendersi
responsabile
delle proprie scelte, a fare “il primo passo” (e il
secondo e il terzo), perché anche Anne è, in
fondo, un'eroina femminista e l'opinione della
Austen sul ruolo che la
donna dovrebbe avere
non è certo cambiata (i
coniugi Croft ne sono la
prova: per la prima volta
la zia si passa lo sfizio di
raccontarci una coppia
in cui è lei a tenere le redini del calessino, una
donna capace di discutere di contratti come un
uomo, anzi, meglio di
molti uomini!).
Infine, chi non si è
sciolta leggendo la lettera
in cui il Capitano rivela
finalmente i suoi sentimenti?
Per concludere: chi ha
già letto la Austen non ha
certo bisogno che sia io a
consigliargli di rileggerla,
tutti gli altri, invece, farebbero meglio a darsi una mossa, ché ne vale
davvero la pena (sì, anche gli uomini! Basta
pensare che la Austen ha
scritto romanzi rosa!).
Io vi saluto e vi do appuntamento al prossimo
Ringrazio
il
Jane
Austen Bookworm Club
per il supporto che mi
hanno dato gli iscritti.
71
Roberta
Guardascione
BraviAutori
N
ero inchiostro, il nero profondo
del cielo notturno, del mare
nell’oscurità tagliato a tratti da
fugaci bagliori di luce, in cui si muovono corpi nudi e sedotti dal buio.
Le opere di Roberta Guardascione
nascono da un contesto letterario e
decadente.
Da sempre affascinata dal mondo
della celluloide ne riprende i ritmi ed il
linguaggio, cristallizzandolo in illustrazioni cupe ed affascinanti, dai tagli cinematografici.
É costantemente alla ricerca di un
modo di raccontare il proprio mondo
interiore, quel luogo fatto di ricordi e
sogni, talvolta incubi, e cerca di trasportarli sopra fogli immacolati, sulle
tele, sui muri, creando una dimensione parallela in cui far muovere i propri
personaggi, plasmati da luce e ombra.
Un artista dagli slanci moderni ma
che mantiene una solida struttura
classica, capace di affondare le sue radici nelle antiche illustrazioni di vecchie fiabe, di libri dimenticati in polverose soffitte, consumati dall’umidità e
dal tempo.
Fiabe cupe ricche di metafore sulla
condizione umana, sospesa tra la ricerca dell’amore e la consapevolezza
della morte.
Un contrasto evocato dai chiaroscuri
delle sue opere, nelle quali la ricerca
della luce non fa altro che rendere i
neri ancora più profondi.
72
Artista dagli slanci
moderni con una solida
struttura classica
È un incontro fatale, amore e morte
trasformati in immagini, in equilibrio
perfetto, come gli acrobati del circo che
volteggiano leggeri sui loro trapezi,
consapevoli del baratro che si apre sotto di loro, dal quale possono essere risucchiati al minimo errore.
Le immagini del circo sono una
costante fin dalle opere giovanili,
quelle scolastiche di quando era
ancora una studentessa dell’Accademia di belle arti.
L’influenza dei film di Wim Wenders
e delle opere del periodo blu di Picasso
è molto forte.
Il circo racconta la condizione
dell’uomo, l’equilibrio tra il mondo
interiore e la realtà che fa da pallido
sfondo.
Nell’illustrazione “La donna cannone” la leggerezza si fa beffa della mole
della protagonista che si china al suolo
con una grazia degna di un esile ballerina, il suo peso appartiene ad una
La donna cannone
realtà che gli è del tutto
indifferente, il suo spirito
è leggero.
Lo studio della grafica
pubblicitaria e della fotografia al liceo e poi della
pittura
all’accademia
hanno reso la sua formazione completa, da una
parte
il
rigore
nell’equilibrio compositivo e dall’altra schemi visivi aperti a nuove prospettive, rifacendosi a
concetti che appartengono alla filosofia surrealista.
L’incontro tra la grafica e la pittura ha generato il suo amore per
l’illustrazione che si nutre di entrambe le discipline, ma che abbraccia
anche il mondo letterario.
Le fiabe dell’infanzia
sono l’impalcatura su cui
si costruiscono le sue
opere, ma le venature, le
sfumature si sporcano di
fumo nero, quello che
esce dai tombini delle
città di notte. I suoi personaggi fremono al suono di chitarre distorte di
musicisti sofferenti.
Nell’opera
“Guitar
man” l’inquadratura taglia in due il soggetto e
l’immagine appare spezzata, come una foto scattata per sbaglio, in questo caso i piedi del personaggio sono ben saldi al
suolo, il contatto con la
realtà è solido, ma il resto della figura è assente, è interrotta da un
frammento di chitarra
che compare in un guizzo metallico. L’essenza
del musicista, e quindi
Guitar Man
dell’artista, che si concentra nelle sue mani e
nella sua testa, è nascosta, risiedono in un’altra
dimensione, quella del
sogno.
La sua chitarra è in
primo piano mentre lui
sembra che venga inghiottito lentamente dal
buio, in un progressivo
abbandono di quella realtà,
offrendo
all’osservatore
il
suo
strumento, il mezzo con
cui comunica, con cui la
sua anima si esprime.
L’uso di materiali propriamente
tradizionali
come chine, acquarelli,
acrilici e matite caratterizzano le prime opere,
mantenendo un rigore
legato al passato, rispolverando anche vecchi
sistemi di stampa, come
l’acqua forte e l’acqua
tinta, grazie al suo interesse per un’artista che
sul piano compositivo
l’ha influenzata profondamente, Gustav Dorè, a
cui ha dedicato la sua tesi di laurea.
Un punto di partenza
che sembra abbia attraversato tutte le epoche
fino ad approdare a quella contemporanea grazie
all’incontro con la digital
art.
La fusione di tecniche
manuali a quelle digitali
è la ricerca attuale del
suo lavoro, fortemente
incuriosita dai nuovi linguaggi delle arti visive.
Nell’illustrazione
“Attraverso lo specchio”
la mescolanza di tecniche manuali e digitali ha
dato luogo ad un immagine surreale e di grande
effetto visivo, ricca di una forte struttura letteraria, a cominciare dal
titolo, lampante riferimento all’opera di Lewis
Carroll, che fa seguito al
celeberrimo “Alice nel
paese delle meraviglie”,
opera fantastica e “non
sense” di fine ottocento
dalle delicate atmosfere
surreali, che ha sempre
affascinato l’artista fin
dall’infanzia.
L’opera di Roberta, però, rivoluziona in qualche modo l’iconografia
classica che vede Alice
una bambina dalle gote
rosee e il vestitino da
bambola, che diventa
un’eroina
trasgressiva
che ammalia l’osservatore con il suo sguardo
magnetico, in un immagine
che
si
riflette
all’infinito negli occhi di
chi guarda, come un desiderio ossessivo, una
vanità artificiale e seduttiva che trascina con
prepotenza nel buio di una stanza dai parati antichi, arrivando in luoghi
oscuri della mente e
dell’anima.
73
Attraverso lo specchio
74
L’interesse al digitale e
quindi l’incontro con
nuove soluzioni stilistiche, ha cominciato a
concretizzarsi maggiormente sulla scia di un
progetto a cui tiene molto e che fermenta da anni tra i suoi schizzi,
l’idea di creare una grafic
novel, fondendo l’amore
per l’immagine e della
parola stampata, che nasce dal bisogno di raccontare una storia che
parli di se stessa e del
suo rapporto con il mondo.
Il progetto “Robin in
the dark”, al quale si dedica tra una commissione e l’altra, nasce da una
folgorazione improvvisa,
una
sensazione
che
l’investì una sera d’estate
in un bar affollato di volti estranei.
Tra i mormorii confusi
e la musica assordante
immaginò la sua Robin,
un personaggio alter ego
che vive nel mondo parallelo dei suoi disegni,
chiusa in una stanza
vuota dalla quale non
può uscire.
Gli unici contatti con
il mondo sono l’orologio
appeso al muro (chiaro
riferimento al tempo come simbolo concreto dell a
f u g a c i t à
dell’esistenza), che assieme al letto costituisce il
solo elemento d’arredo
della stanza, e la finestra
dalla quale scruta la
grande città che troneggia maestosa davanti ai
suoi occhi. Numerosi
flashback corredano la
storia, che si confondono
Alla finestra, robin in the dark
al presente fino a generare un vorticoso intreccio tra il reale e il ricordo, nel viaggio di una
mente distorta e sofferente.
Il mondo del fumetto
offre molte possibilità ad
un’artista visivo che concepisce immagini prevalentemente
narrative,
raccontano storie ma anche riflessioni fugaci, come fotografie. Il linguaggio dell’illustrazione e del
fumetto soddisfano entrambe le esigenze, da una parte la condensazione in una sola immagine
di un’intera storia, come
accade nella fotografia, e
dall’altra la scorrevolezza
di uno story board, come
la pellicola di un film, il
fumettista prima che disegnatore deve essere un
buon regista.
L o
s t u d i o
dell’anatomia del corpo
umano è fondamentale
per la sua ricerca, la
struttura realistica che
serve
a
plasmare
l’illusione di una realtà
tangibile, ma che si tinge
di tinte surreali, capovolgendo le leggi della fisica.
Un mondo onirico in
cui volti corrucciati si
defilano alla ricerca della
luce, metafora della scintilla interiore, della vita
fugace, della leggerezza
infantile, ma che è sempre rincorsa dall’ombra
perenne e dalla sua pesantezza.
Attualmente vive e lavora in una piccola cittadina a nord di Napoli,
luogo dalle radici storiche molto antiche, il paesaggio che la circonda è
costellato di rovine romane che hanno alimentato profondamente il
suo mondo immaginifico,
fatto di luoghi fantasiosi
e allo stesso tempo spaventosi, la tradizione popolare è pregna ancora
della mitologia pagana
che ha generato leggende
superstiziose e affascinanti che raccontano di
streghe e fantasmi.
Il monte di Cuma che
scorge dalla sua finestra,
è un posto legato a molti
tabù.
Nessuno oserebbe mai
andarci durante la notte,
troppe storie strane circondano la collina ed il
suo bosco, minaccioso
come il monte Fato di
Tolkien.
Lei stessa sembra far
parte di una di queste
storie, abita in una deliziosa casetta in mezzo al
bosco che alla luce del
giorno appare eterea e
rassicurante, in mezzo
ad una natura rigogliosa
e fiabesca, ma al calare
75
76
delle tenebre lo scenario
cambia radicalmente: le
ombre cominciano ad allungarsi, il canto allegro
dei passeri ammutolisce
al grido sinistro e stridulo della civetta, gli alberi
diventano macchie scure, ovunque è tenebra e
solo una lucina è accesa,
quella della lampada del
suo tavolo da disegno sul
quale lavora incessantemente, come una strega
che prepara pozioni magiche, tra le cose che ama, mentre i gatti si accoccolano sulle ginocchia.
L’ambiente in cui è
cresciuta ha influito profondamente sul suo periodo paesaggistico, corredato di immagini fiabesche, di boschi nebbiosi
con alberi dai rami spettrali.
Le illustrazioni di Alan
Lee e Brian Froud sono
state un’ispirazione costante, assieme alla letture fantasy, spaziando
tra autori come Lovecraft, Edgar Allan Poe e
Michael Ende.
I neri vellutati delle
matite e i bagliori velati
degli acquerelli creano
immagini delicate ma allo stesso tempo pregne di
una profonda inquietudine.
L’opera ”Le rovine” è
un chiaro esempio di
questa fase, la nebbia
rende il bosco impalpabile, è quasi un sogno, nel
quale mura antiche parlano di un passato che
langue in un eterno oblio
che
si
liberano
dell’impronta umana la-
Le rovine
sciandosi assorbire dalla
natura, in un abbraccio
materno fatto di arti incorporei, nebbiosi ed evanescenti.
L’eterno contrasto tra
natura e cultura, rispolverando ideologie romantiche che creano un interessante discorso poetico, caratterizzando interamente la sua produzione artistica, antico e avveniristico mescolati fino
a creare un linguaggio
intimistico e ricco di significato.
Un’artista dai ricchi e
interessanti
contenuti,
capace di esprime le inquietudini del nostro
tempo attraverso uno stile tradizionale ma con
schemi aperti a nuove
prospettive.
Mare di Libri
Festival dei Ragazzi che leggono
Tania Maffei
Mare di Libri
Festival dei Ragazzi che leggono
17-18-19 giugno 2011 Rimini - IV Edizione
Intervista a Gianluca Guidomei, Vice
Direttore Artistico da parte di Tania
Maffei per la rivista Il Foglio Letterario
Che cos’è Mare di Libri?
“Mare di libri – Festival dei Ragazzi
che leggono” che si svolge ogni anno
nel mese di giugno a Rimini, con il patrocinio ed il contributo del Comune di
Rimini, il patrocinio della Provincia e
della Regione Emilia Romagna nonché
A Rimini tanti
eventi letterari
rivolti ai ragazzi
dell’Università di Bologna è il primo ed
unico evento sul territorio nazionale
specificamente rivolto al pubblico degli
adolescenti che si concretizza in un
fine settimana di tre giorni di incontri
con autori e altri eventi legati alla letteratura, come tavole rotonde, spettacoli teatrali e una grande caccia al
tesoro.
L’edizione del 2010 ha avuto un
grande successo: il centro storico di
Rimini ha visto la presenza di oltre
4000 persone, 1800 biglietti venduti,
80 ragazzi volontari fra i 13 e i 18 anni
77
che hanno
collaborato
alla realizzazione
dell’evento,
12 rappresentanti di
case editrici . Quasi
cento le uscite su testate
fra
q u o ti di a n i
settimanali e televisioni
varie. E soprattutto i ragazzi hanno potuto incontrare autori e personalità del calibro di Margherita Hack, John Boyne,
Anne
Laure
Bondoux, Celia Rees,
Fabrizio Gatti, Silvano
Agosti,
Mino
Milani,
Silvia Avallone, Todd
Strasser, Cristiano Cavina e tanti altri.
78
Da quanto tempo si
svolge e da cosa è nata
l’idea di creare una
manifestazione del
genere?
Énata nel 2008 dalla
volontà di tre libraie di
Rimini, Alice, Elena e Serena che, sentendo la
mancanza di un evento
dedicato al target degli
adolescenti, hanno pensato di “allargare” il club
dei lettori che frequentavano la libreria Viale dei
Ciliegi 17 a tutti i ragazzi
italiani.
Per quale motivo scegliere una città come Rimini?
La città innanzi tutto
costituisce storicamente
un nome di richiamo per
il turismo noto anche tra
i giovani e la presenza
del
mare
aumenta
l’attrattiva di un festival
collocato nel periodo estivo.
La
dimensione
del
centro storico cittadino
ben si presta poi ad un
festival che prevede spostamenti a piedi tra un
luogo e l’altro. A queste
caratteristiche si abbina
la forte ed efficiente
struttura di accoglienza
alberghiera, di ristorazione e servizi offrendo così
un soggiorno costruttivo,
divertente e tranquillo.
Che senso ha oggi presentare un festival culturale legato solo all'editoria per ragazzi?
Esistono in Italia numerosi festival molti dei
quali dedicano eventi a
target misti di bambini,
ragazzi e adulti.
Tuttavia, a parte il caso del festival di Mantova, capostipite e modello
per tutte queste manifestazioni, hanno dimostrato particolare successo quei festival che si
sono concentrati su contenuti e/o target più specializzati
consentendo
così di attrarre un pub-
blico specifico ma a livello nazionale.
“Mare di Libri” ha
quindi funzionato proprio perché ha individuato come target specifico
quello degli adolescenti,
presentandosi così come
evento unico e consolidato nel panorama nazionale.
Il festival si rivolge ai
preadolescenti e agli adolescenti, ragazzi che
frequentano le scuole
medie inferiori e superiori, forti e fortissimi lettori, ma anche ai numerosi
lettori medi e deboli avvicinati alla lettura dai
grandi fenomeni editoriali rivolti alla loro età.
Basti pensare a fenomeni
come Harry Potter o a
Tre metri sopra il cielo o
Twilight.
Un target secondario
sono gli adulti, insegnanti, genitori, addetti
ai lavori e tutti coloro
che si interessano alla
letteratura per adolescenti e, più in generale,
ai fenomeni culturali e
s o c i a li
l eg a t i
all’adolescenza per i quali sano previste specifiche iniziative dedicate.
Come si svolge la manifestazione?
La maggior parte degli
eventi è costituita da incontri con uno o più
autori ma sono previsti
anche laboratori, tavole
rotonde e spettacoli teatrali, proiezioni cinematografiche.
Il programma degli incontri con gli autori prevede come ospiti i migliori autori per ragazzi italiani e stranieri, alcuni
dei quali fanno in genere
al festival la loro unica
presentazione
italiana.
Negli anni hanno presentato qui le loro opere
Niccolò Ammaniti, Helga
Schneider, Valerio Massimo Manfredi, Shlomo
Venezia, Licia Troisi,
Aidan Chambers, Paolo
Giordano, Silvana De
Mari,
Randa
Ghazy,
Federico Moccia oltre a
quelli sopracitati dell'edizione del 2010.
Il programma è costruito tenendo conto
delle migliori uscite editoriali dell'anno, ma anche e soprattutto creando eventi che vanno oltre
la semplice presentazione di un libro e mettendo
a confronto più ospiti su
temi sociali, politici anche di rilievo internazionale come razzismo, migrazioni, mafie, ecologia.
Dalla prossima edizione, in collaborazione con
alcuni dei più importanti
editori per ragazzi sarà
lanciato un concorso di
booktrailer ovvero video
recensioni realizzate dai
ragazzi su libri letti in
anteprima e sarà istituita una collaborazione
con un importante festival del cinema per ragazzi per la scelta e la presentazione del film che
chiuderà l'evento.
Ovviamente stiamo già
pensando agli ospiti del
2011 che saranno come
al solito importanti ed
accattivanti per i ragazzi
di oggi, così curiosi, vogliosi di ascoltare voci
capaci di leggere il mondo con umanità ed intelligenza e soprattutto in
grado di regalare loro
un'idea di futuro.
Anche quest'anno è
importante sottolineare
l'importanza del lavoro e
dell'impegno dei volontari dello staff organizzativo che ha reso possibile
la buona riuscita del Festival. É con orgoglio che
vantiamo 80 adolescenti
come effettivi gestori della manifestazione. Nei tre
giorni di eventi sono loro
a preparare le sale degli
incontri, ad accogliere gli
ospiti in stazione o aeroporto, ad accompagnarli
in albergo e ristorante, a
fungere da angeli custodi
agli autori stessi, dei
quali spesso diventano
amici; ad introdurre gli
incontri, a vendere i libri,
a gestire il Punto Informazioni, a staccare i biglietti d’ingresso, ad aiutare i loro coetanei venuti da altre città ad orientarsi nel centro storico di
Rimini, altro grande protagonista di Mare di Libri, con i luoghi degli incontri, come il Museo
della Città; il Palazzo del
Podestà e il Palazzo
dell’Arengo, entrambi affacciati su Piazza Cavour; la Cineteca ed il
Cortile della Biblioteca
Gambalunga; il Teatro
degli Atti.
A Mare di Libri i ragazzi sono i veri protagonisti.
I ragazzi partecipano
entusiasti.
Lavorano.
Si divertono.
Imparano.
Ascoltano.
Fanno domande.
79
Una introduzione
all’Archeoastronomia
Roberto Guarnieri
D
a sempre l’uomo guarda alle stelle.
Ne lla
nostra
socie tà
contemporanea fatta di città perennemente illuminate abbiamo ormai
perso l’abitudine a fissare il cielo
notturno e le costellazioni, salvo
che in rare occasioni. Eppure meno
di un secolo fa l’umanità, anche
nella progredita Europa, conosceva
a menadito le stelle, i loro nomi, il
periodo di apparizione delle costellazioni e via dicendo.
Questo perché la volta celeste,
con i suoi ritmi precisi e cadenzati
distribuiti nell’arco di un anno o di
un periodo determinato di anni,
hanno per millenni rappresentato
un validissimo calendario, utile per
conoscere il periodo della semina,
del raccolto e lo scorrere delle stagioni. Le singole stelle o costellazioni venivano inoltre associate o
addirittura identificate con le divinità dei relativi pantheon.
In particolar modo le civiltà sorte
nella Mezzaluna Fertile, nel Centro
America e lungo le rive del Nilo,
vuoi anche per condizioni
climatiche ideali, avevano sviluppato una vera e propria ossessione
nell’osservazione del cielo.
Gli antichi Egizi diedero il nome a
tutte le stelle visibili, lo Zodiaco
80
Le piramidi come
specchio delle
posizioni astrali
come lo conosciamo noi oggi è una
invenzione sumero-babilonese, i
Maya avevano sviluppato un
calendario stellare che arrivava a
prevedere le eclissi lunari con mille
anni di anticipo.
Per non parlare degli osservatori
astronomici di Stonehenge, dei
complessi megalitici francesi di
Karnac o degli annali di osservatori
cinesi dei secoli avanti Cristo.
Pur essendo a conoscenza di tale
interesse, soprattutto di matrice
religiosa, per l’osservazione delle
stelle noi smaliziati uomini del
ventunesimo secolo non avevamo
mai, appieno, compreso quanto
forte e potente essa potesse essere
stata per i popoli antichi.
Nell’inverno del 1988 l'ingegner
Robert Bauval era accampato,
assieme ad alcune guide locali, nel
deserto in prossimità della Piana di
Giza. Assieme al giornalista
Graham Hancock stava scrivendo
un libro sui misteri delle antiche
civiltà e sulla possibilità che esse
fossero ben più antiche di quanto la
storiografia ufficiale sostenesse.
Durante una cena all’aperto uno
degli arabi, fissando la Costellazione di Orione, esclamò “Vedi le stelle
della sua Cintura? Due sono di
ugual grandezza e allineate, l’altra è
più piccola e spostata
in giù, e il gran fiume
della via Lattea gli
scorre di fronte.”
Da questa frase nacque , a detta dello stesso Bauval, l’intuizione
che portò alla scoperta
di una nuova chiave di
lettura per comprendere la genesi e l’età dei
monumenti di tutto il
mondo.
Gli egiziani consideravano sacra la costellazione di Orione, che è
una delle più grandi e
individuabili, tanto da
porla come base per
tutte le loro raffigurazioni di uomini e re.
Per intenderci il classico omino con le spalle
larghe, la vita stretta e
l’ampia veste larga, che
campeggia in tutti i siti
e in tutti i bassorilievi
altro non è che la sua
stilizzazione.
In particolar modo
la Cintura di Orione,
ovvero le tre stelle collocate al centro della
costellazione,
erano
ritenute origine della
vita e simbolo di fecondità,
probabilmente
perché
posizionate
all’altezza degli organi
genitali della figura
disegnata dalle stelle.
Secondo la mitologia
egiziana il Faraone,
figlio delle Stelle e del
Sole, proveniva dalla
Cintura e al termine
della sua vita terrena
tornava ad essa con un
lungo
viaggio
nell’Aldilà.
I tre astri hanno tuttora i loro nomi arabi:
Altitak,
Anlilak
e
Mintaka.
Due più grandi e luminose, poste in asse
tra loro, e una più piccola, leggermente spo-
stata rispetto all’asse
principale.
Bauval, Hancock e il
loro collega John West
compresero immediatamente che le tre piramidi di Giza riproducevano lo stesso schema.
Nessuna teoria era stata
sino
ad
allora
abbastanza valida da
spiegare perché le piramidi di Cheope e
Chefren fossero della
stessa grandezza e posizionate sullo stesso
asse diagonale e quella
di Micerino più piccola
e spostata rispetto alle
altre due. La tesi ufficiale è che Micerino
non disponesse dei
mezzi dei suoi illustri
antenati e avesse quindi realizzato una tomba più piccola, per di
più sbagliando la sua
posizione sul terreno!
Inoltre queste presunte
tombe dei faraoni non
hanno, al loro interno,
nessuna mummia e
nessuna iscrizione funebre. Anzi, esclusa
quella
di
Cheope,
nemmeno nessun sarcofago.
I tre colleghi, con una cartina dell’Egitto
sottomano, individuarono, oltre alle Piramidi di Giza, altre piramidi in rovina o iniziate e
mai terminate che, tutte assieme, riproducevano in terra la costellazione di Orione, con
81
82
il fiume Nilo a rappresentare la Via Lattea.
La notizia, studiando
bene i testi sacri egiziani, era addirittura
scontata.
Uno dei motti più
noti dell’antichissimo
corpus religioso, infatti, recita proprio “Come
Sopra così Sotto.” una
nozione ripresa poi dagli alchimisti medioevali e, in una forma più
velata, dal Cristianesimo nel suo “Come in
Cielo così in Terra”.
Scope rta
que sta
chiave di lettura non fu
difficile applicarla a
altri complessi archeologici famosi nel mondo,
per
ottenere
risultati sorprendenti. I
templi del complesso di
Angkor
Wat
in
Cambogia riproducono
esattamente la costellazione del Drago. Le
p i r a m i d i
d i
Teotihuacan la costellazione delle Pleiadi, e
via dicendo per moltissimi altri siti.
Il Faraone, una volta
defunto, era deposto
nella Camera del Re
all’interno della Piramide di Cheope a Giza,
corrispondente ad una
stella della Cintura e
“spedito” con un rito
funebre nel suo luogo
di origine.
Già fin qui la scoperta, seppur logica considerando il rapporto degli Antichi con le stelle,
era sensazionale. Ma
quello che Bauval e
Hancock scoprirono in
seguito lo era ancor di
più.
La volta celeste non
appare sempre uguale
nei secoli. Per un fenomeno chiamato Precessione degli Equinozi
l’inclinazione rispetto
all’orizzonte delle costellazioni varia nei secoli. Per capirsi meglio
se oggi vediamo il
Grande Carro sorgere e
arrivare a una altezza
massima nel cielo, mille anni fa la costellazione giungeva ad un
punto diverso e si presentava con un’altra
angolazione.
Considerando che gli
Egizi avevano rappresentato al suolo, con le
piramidi e il grande
fiume, il cielo che stavano osservando, Hancock, con un software
apposito, riprodusse la
volta celeste come si
doveva presentare nel
2300 avanti Cristo,
anno della presunta
realizzazione delle piramidi stesse secondo la
storiografia ufficiale.
Ma la posizione delle
stelle e della via Lattea
rispetto alle piramidi e
al Nilo non combaciava
affatto!
Per ottenere la giusta configurazione bisognava andare indietro sino al 10.500 avanti Cristo.
La Piana di Giza è
dunque una rappresentazione del cielo come appariva dodici
millenni prima della
nostra era, e novemila
anni prima della presunta comparsa della
civiltà egizia secondo le
teorie ufficiali.
Non a caso la data
del 10.500 a.c. corrisponde al periodo che
gli egizi chiamavano
“Zep Tepi” o Primo
Tempo. Quello della loro origine e nascita e
che dava inizio al loro
calendario.
Ma c’è molto di più.
Come noto esiste
una feroce
disputa
sulla reale età della
Sfinge. La teoria ufficiale la ritiene contemporanea alle piramidi
ma ci sono molti punti
oscuri e molti indizi
che contraddicono tale
tesi e che fanno ritenere che essa sia molto
più antica. Uno su
tutti è che la scarpata
del bacino che la contiene, fatta di tufo, è
consumata con una
morfologia che solo
l’acqua di grandi piogge torrenziali, per interi secoli, può aver provocato. E le ultime
piogge torrenziali su
Giza si sono avute nel
9.000-8.000
avanti
Cristo, prima che la zona divenisse desertica.
La Sfinge, in origine
scolpita
con
una testa di leone, è
perfettamente
rivolta
ad Est, nel punto preciso
in
cui,
all’equinozio di primavera, sorge la Costellazione che di fatto da’ il
nome all’Era in cui ci
troviamo. Attualmente
vediamo sorgere la Costellazione dei Pesci e
siamo, infatti, in tale
Era,
dalla
quale
usciremo
per
entrare
in
quella
dell’Acquario. Non è un
caso che i pesci siano
stati, all’inizio del Cristianesimo, un simbolo
sacro e protagonisti di
arte sacra.
Ora nel 2.300 a.C.,
epoca della presunta
costruzione
della
Sfinge, essa vedeva
sorgere a primavera la
costellazione del Toro.
Per logica dovrebbe aver avuto la testa o la
forma di questo
animale, considerato che in
quel periodo storico tutta l’arte
sacra celebrava
appunto i tori
(vedi arte minoica di Creta.).
Nel 10.500 a.C.,
al contrario, la
S f i n g e
all’equinozio vedeva sorgere la
costellazione del
Leone, ovvero la
sua stessa immagine,
come in uno specchio!
In sostanza tutto
sembra tornare. Gli architetti egizi o, a
questo punto, quelli di
un popolo antecedente
di cui ignoriamo tutto,
hanno raffigurato nella
Piana di Giza una
riproduzione in terra
della volta celeste del
10.500, scolpendo la
S f i n g e
c o m e
l’indicatore temporale
di conferma.
Con lo stesso metro
si è constatato che anche altri siti latinoamericani o orientali
sono sfasati di millenni
rispetto alla presunta
epoca di costruzione.
Un esempio su tutti:
l’allineamento del tempio di Tihuanaco in
Bolivia, risalente secondo la teoria ufficiale
ai primi secoli della nostra era cristiana, è
spostato di quattro
gradi rispetto al nord
attuale. Si è sempre
detto per incuria e imperizia dei progettisti e
costruttori.
Peccato
che nel 11.000 a. C.
quell’allineamento sarebbe stato perfetto
con uno scarto di pochi secondi.
Questa data così ricorrente non è casuale
e ha una rilevante importanza scientifica e
geologica, come potremo vedere in un prossimo articolo.
83
Breve introduzione
al Connettivismo
Sandro “zoon” Battisti
U
n Movimento di avanguardia
nato in seno alla fantascienza
italiana con l’intento di far
tesoro delle avanguardie del secolo
passato, così di acuire la sensibilità
verso il postumanismo e le tecnologie
moderne, così da ricercare le radici del
futuro nelle dimensioni fisiche che attualmente sono solo teorizzate
Il Connettivismo è un Movimento
artistico memore di alcune avanguardie del ‘900; nasce dai pensieri del
Cubofuturismo russo, dagli ermetici,
dai crepuscolari, dai surrealisti, dai
futuristi e dal cyberpunk, l’ultima vera
punta di diamante che ha sconvolto
l’avanguardia per eccellenza, la Fantascienza.
Il Movimento è nato il 22 dicembre
2004, e si è fatto annunciare da un
Manifesto, rivisto e aggiustato
nell’estate del 2006; il gruppo, inizialmente composto da soli tre elementi, si
è rapidamente espanso, con l’intento
dichiarato di rifondare il genere fantascientifico e fantastico, usando le nozioni tecnologiche, le avvisaglie di un
mondo ipertecnologico che porteranno,
si spera inevitabilmente, all’avvento del
postumanismo.
Campi di attività per i membri del
Movimento sono qualsiasi cosa possa
evocare arte, elucubrazioni, empatia e
senso di cosmico. Siamo – naturalmente – scrittori, quindi poeti, quindi
sceneggiatori, di fumetti e di cortometraggi; siamo autori di programmi
84
Un Movimento di
avanguardia della
Fantascienza italiana
radio in cui attualità e reading di
liriche connettiviste si mischiano a
musica elettroscura, acida e noize.
Siamo persone che declamano di fronte a una platea e siamo tecnologici,
perché amiamo l’escalation tecnologica, perché sappiamo che tramite la
scienza e la matematica possiamo
giungere fino al kernel della nostra
anima, decodificandola seguendo le
indicazioni degli antichi sciamani che
non erano religiosi, ma mistici.
La nostra attività principale è in
Rete, ma abbiamo un bollettino cartaceo che esce (più o meno) a ogni solstizio ed equinozio (NeXT è il suo nome)
in cui mischiamo editoriali e rubriche
d’indagine tecnico/sociologica nonché scientifica - a brani di breve
prosa per poi giungere a sillogi ispirate, condendo il tutto con le immagini
grafiche dei migliori artisti, orientati
verso le nostre idee, che la Rete ci suggerisce. Due premi Urania (del 2006 e
del 2008) sono stati vinti da due
esponenti del Connettivismo: Giovanni
“X” De Matteo e Francesco “Xabaras”
Verso
Molto attivo, per noi, è il settore
dell’editoria: a fronte di due case
editrici dirette da due connettivisti
(EDS e Kipple/Avatar, rispettivamente
dirette da Marco “pykmil” Milani e
Lukha Kremo Barincinij, quest’ultima
con l’aiuto di Francesco Verso e me
medesimo) abbiamo pubblicato ben tre
raccolte a tema connettivista
(SuperNova
Express,
Frammenti di una rosa
quantica, A.F.O. Avanguardie Futuro Oscuro)
più un’altra che è una
silloge, Concetti spaziali,
oltre. L’attività editoriale
ferve
quindi
molto
attorno a queste due
realtà che producono
anche
materiale
non
prettamente connettivista, come dimostrano
titoli tipo Vorrei che il
cielo fosse imparziale di
Vito Introna (EDS) e Ultima pelle, di Alberto Cola
(Avatar)
Ma come è iniziato il
tutto? Connettivismo è,
ormai, una parte non
trascurabile di storia
italiana del fandom della
fantascienza,
vissuta
soprattutto su Internet,
relativamente ai primi
anni di questo nuovo
millennio.
Precedentemente, esistevano soltanto frammenti disaggregati d’idee
in formazione, embrioni
e vaghe sensibilità che,
spesso,
non
avevano
possibilità di svilupparsi
poiché tutto era affidato
alla fantasia di uno o
pochi altri sviluppatori (il
termine informatico usato non è un caso, parlando di Connettivismo non
è difficile cadere nel
mondo tecnologico e digitale dello sviluppo software). Questi artigiani
vagavano, nella Rete come nella realtà usuale,
alla strenua ricerca di
una finestra sul mondo
per affermare il proprio
grido, la propria sensibilità verso il futuro che
doveva essere intriso non
più soltanto di tecnologia
e software e backup, ma
anche di misticismo, di
un
senso
d’oscurità
profonda che affondava
le proprie radici nelle
ghost stories di inizio
‘900 e anche fine ‘800,
pregne di un senso
misterico che affondava,
a sua volta, nell’antico
mondo classico e più
indietro ancora.
All’inizio del nuovo
millennio quindi, in moltitudine anonima ed eterogenea, ci si cominciò a
ritrovare alla corte di
Massimo Ferrara e del
suo Club G.Ho.S.T., uno
dei principali luoghi di
confluenza del fandom
internettiano di allora.
Inconsapevoli del nostro
comune cammino cominciammo
a
tracciare
prima rapporti di amicizia ramificati e poi,
sempre più frequentemente,
filamenti
di
feeling creativo comune
ma, stavolta, dedicati;
così, nel mentre che progetti creativi prendevano
rapidamente vita e si
sfasciavano con la stessa
velocità, si cominciarono
a discriminare i contatti,
alla ricerca della scintilla
definitiva. Verso la fine
del 2002 strinsi i legami
con Marco Milani e
nacquero
così,
su
85
86
Internet, il sito amatoriale - gestito da Marco
stesso - Domn-mistic-on
(evolutosi poi nel più solido ‘Domist.net Letteratura e Pace’) e, quasi
contemporaneamente e
con funzione orbitante
proprio attorno a Domnmistic-on, il mio sito ufficiale – ufficiale, nel senso che conteneva e contiene tutto il materiale
finito di mia produzione.
Come collante a queste
due realtà più o meno
statiche e con funzione
stavolta dinamica, sperimentale e propedeutica
al futuro, nasceva poco
dopo il blog Cybergoth,
gestito perlopiù da me.
Ecco, l’impianto funzionale del Connettivismo era nato.
Si era nella primavera
del 2003 quando Giovanni De Matteo irruppe nel
Club G.Ho.S.T. col suo
Notturno n° 23; subito fu
aggregato
nell’organico
del blog perché le sue
sensibilità riconducibili
al buon Sterling della
Matrice spezzata, oltre
che al retroterra emozionale e percettivo descritto all’inizio di questa
postfazione, erano irresistibili e chiare.
Da allora, il nome del
blog Cybergoth e dei suoi
redattori cominciò a cor-
rere in Rete; in quanto
luogo di sperimentazione
presto maturò l’esigenza
di guardare oltre. Io e De
Matteo cominciammo a
confrontarci sugli obiettivi da raggiungere, sul
concepire la nuova frontiera che doveva definirsi
per mantenere alto il
livello sperimentale del
blog e della nostra poetica. Era l’autunno del
2003 e, improvvisamente, prese forma per
iniziativa di De Matteo il
Manifesto del Connettivismo, in una forma non
troppo embrionale rispetto a quella definitiva;
ma era presto, non si era
pronti alla diffusione e,
soprattutto, non eravamo pronti all’adesione
nemmeno noi. Fu deciso
di tenere il Manifesto in
stand-by ma, al contempo, De Matteo fondò il
blog Junction (ora diventato Lo strano Attrattore,
sulla
piattaforma
di
Fantascienza.com) con lo
scopo preciso di farlo
funzionare come ulteriore
attrattore
caotico
verso il germe connettivista; si attendeva, così,
che le sperimentazioni di
scrittura si evolvessero
verso un punto qualsiasi, come se un fiore
dovesse prima o poi
sbocciare, senza che se
ne avesse nemmeno la
sicurezza.
Il momento venne un
anno dopo, quasi casualmente. Rilessi per caso il
Manifesto ed ebbi la folgorazione dell’esattezza
delle
visioni
di
De
Matteo; era necessario
andare oltre il cybergoth
per definire non solo la
parte
tenebrosa
del
nuovo mondo, ma anche
tutto il resto. Eravamo
diventati coscienti, nel
frattempo, di avere ereditato empaticamente germi del Cubofuturismo
russo; ma si era eredi,
anche, dei Crepuscolari e
dell’Ermetismo. Pure il
Surrealismo era diventato il padre del Connettivismo e ultima - ma non
ultima - la paternità del
Futurismo si agitava su
di noi: forse perché era
qualcosa
di
italiano,
prima di tutto, come il
Connettivismo nella sua
genesi e nel suo tentativo
di organizzare la sfilacciata scena della Fantascienza (italiana), e forse
perché
era
davvero
l’unica branca artistica
in grado di incarnare in
quel momento il concetto
d’avanguardia.
Futurismo anche per la smania
di esplorare il mondo del
futuro, fatto di parametri
quali la modernità contro
l’antico (anche se, per
quanto ci riguarda, parzialmente contro), la velocità contro la stasi, in
un’esaltazione della modernità che passa anche
tramite la ridefinizione
dei canoni estetici, prescindendo dai deliri bellici e politici che il Futurismo si è poi fatalmente
portato appresso durante il ventennio fascista.
Il tutto si mescolava,
come in un magico
crogiuolo, col cyberpunk
che aveva scosso e destato le coscienze degli
anni ’80, che aveva dato
le coordinate verso cui il
mondo si sarebbe mosso,
con ogni probabilità, nei
venti anni successivi; il
Connettivismo si distanziava però subito da esso
con una proporzione che
suonava
come
“Connettivismo che sta
al cyberpunk così come
il
Romanticismo
sta
all’Illuminismo”:
era
come aprire gli occhi non
più sul mondo bensì
sull’anima. A noi connettivisti premeva, così - improvvisamente e fortemente, come se fossimo
stati
folgorati
dalla
nostra stessa visione –
dare i punti nodali di un
Movimento,
spesso
definito rozzamente e
con una punta di mancata conoscenza come il
Movimento “del postcyberpunk”: si cominciava, così, a parlare di un
mondo in cui le sensibilità si stavano connettendo in un modo inedito
grazie alla Rete e alla
tendenza al postumani-
smo – forse l’unico vero
legame che il Connettivismo ha col cyberpunk –
e anche attraverso le
sensibilità espresse nel
passato
della
storia
umana, tramite le ultime
discipline matematiche
(su tutte, quella del
caos), della fisica quantistica,
nonché
delle
scienze umanistiche che
hanno imperversato durante tutto l’arco storico
conosciuto.
Da allora è successo
quasi di tutto e la comunità
connettivista
si
allarga come un'infezione
(i membri, al momento,
sono circa una trentina o
più, non riusciamo più a
contarci analiticamente):
a naso e istintivamente
dico, dimenticando sicuramente qualcuno, Gianluca Kremo Baroncini
(che si è aggiunto praticamente da subito - la
sua Nazione Oscura, di
cui molti di noi sono
membri, è casualmente
nata la stessa notte del
Connettivismo), Francesco “Xabaras” Verso,
Marco Antares666 Moretti, Salvatore Proietti,
Domenico 7di9 Mastra-
pasqua, Umberto Ubi
Bertani, Umberto 2x0
Pace, Mario “Black M”
Gazzola, Fernando BlackHoleSun
Fazzari,
Michele DottoreInNiente
Nigro, Alex Logos Tonelli,
Simone AbateDegliStolti
Conti,
Mauro
Dixit
Cancian, Roberto ro Furlani, Filippo “Leo Bulero”
Carignani
Battaglia,
Maurizio
"Scarweld"
Landini,
Christian
"Ulver" Ferranti, Paolo
"Evertrip"
Ferrante,
Marco "Alazif" Marino,
Francesca
"Nimiel"
Fuochi, Simone “Abate
degli Stolti” Conti, Daniele Cascone, Francesco
D’Isa e tanti altri che
sono lì, a sbirciare e
assorbire le vibrazioni
che salgono anche dal
portale del Movimento –
www.next.station.org.
Da ammirare e interiorizzare come un bellissimo e indicativo fossile
anche il Manifesto, presente sul link http://
www.next-station.org/
nxt-ex-1.shtml
dal Catalogo Narrativa
Il Foglio www.ilfoglioletterario.it
"Radio Notte è un susseguirsi
di percezioni, fallimenti, polvere
da sparo, sabbia e morte.
Radio Notte racconta le macerie del cuore, soppesa un futuro
incerto, partorito da un passato
devastante" - Will.
87
Alla riscoperta
dei B-Movie
Matteo Mancini
I
88
l regista protagonista di questa sec o n d a u sc i t a d e l l a r iv i s ta
“Braviautori – Il Foglio Letterario” è
un professionista che ha all’attivo più
di 200 film di vario genere e che si
contraddistingue per un’anarchia che
lo porta a distaccarsi dai canoni tradizionali. Artista (anche se lui odierebbe
questo termine) spesso costretto a girare con budget inconsistenti e con
tempi di produzione ristrettissimi, aspetti che ne hanno penalizzato la resa, perseguitato costantemente dalla
censura e, negli anni ’70, dal Vaticano.
Sto parlando di Jesus Franco Manera
meglio conosciuto come Jess Franco.
Per l’occasione ho contattato uno dei
più affezionati ammiratori del regista
spagnolo, nonché un grande conoscitore del cinema bis (e non solo), cioè il
regista/montatore Pierpaolo Dainelli.
Peraltro, proprio grazie a Pierpaolo e
alla sua idea “I B-Movie di TVR” ho conosciuto capolavori della filmografia
italiana di genere che altrimenti difficilmente sarei riuscito a scoprire. Sono
quindi in debito con l’amico Pierpaolo
e l’indimenticabile rassegna che conduceva ogni domenica sera in prima
serata sulla rete televisiva sopra menzionata. Per tali ragioni, è per me un
enorme piacere poterlo avere qui con
noi in questa nostra “chiacchierata” telematica.
In questo articolo/intervista, dopo
alcune domande che riguarderanno
Pierpaolo e il suo amore per i b-movie,
Le interviste
di
BraviAutori
Il regista Jess Franco
raccontato da
Pierpaolo Dainelli
ripercorreremo
la
carriera del regista
spagnolo
limitatamente ai suoi film di
punta con particolare attenzione per le
pellicole dalle atmosfere horror.
Pierpaolo, se gli amanti di b-movie
toscani ti conosceranno di sicuro per
le epiche presentaJess Franco
zioni dei film che
lanciavi in prima serata su TVR, non
so se lo stesso si possa dire per gli
amici delle altre regioni. Per questo,
mi piacerebbe tu potessi parlare della splendida “rassegna” che conducevi su TVR e di come e dove recuperavi i film che poi lanciavi in prima serata. È vero che hai salvato
pellicole sul punto di essere definitivamente distrutte, perché abbandonate in magazzini fatiscenti?
Nella vita ho avuto due amori veri,
assoluti: il cinema e la televisione. Nel
mio caso questi due media si accomunano, perché fu grazie alle primissime
tv private e alla loro programmazione
selvaggia che mi innamorai dei film più
oscuri della settima arte. Il motivo di
questi titoli bizzarri inseriti in palinsesto me lo avrebbe svelato Paolo Salvi,
presidente di TVR, molti anni dopo:
“Dai cataloghi dei distributori sceglievo
solo film vietati e che costavano poco”. Vietati
perché sicuramente la
Rai non li avrebbe mai
mandati in onda e quindi
di sicuro appeal per il
pubblico. Il fatto che dovevano costare poco non
ha bisogno di spiegazion
i
.
Nei primi anni novanta
iniziai a lavorare come
montatore e operatore tv
ed ebbi modo di collaborare con le maggiori emittenti televisive toscane. Internet, come lo conosciamo oggi, all'epoca
era fantascienza: i film
più curiosi se volevi vederli dovevi trovarli.
E io all'epoca mi davo
molto da fare.... Così tra
un lavoro e l'altro mi infilavo in una stanza in
cui Paolo Salvi teneva
vecchie registrazioni delle prime emissioni di
TVR, nella speranza di
recuperare qualche film
raro. Questo mio curiosare non sfuggì agli occhi
attenti di Paolo e di
Elisangelica
Ceccarelli
che mi chiesero delucidazioni. Spiegai che le
notti selvagge in cui TVR
mandava in onda film ininterrottamente erano
state tra i momenti più
felici della mia esistenza
e che mi avevano insegnato ad apprezzare film
prodotti con pochi soldi,
ma con molte idee. Paolo
e Elisa rimasero così colpiti dalla mia passione
che mi proposero di andare in video a presentare “I B-movie di TVR”.
Dove “B” sta per BIS co-
me dicono i francesi: l'altro cinema, quello vero..
Con mia grande sorpresa divenne un programma seguitissimo e
sia io che Elisangelica
spulciavamo
continuamente i cataloghi dei distributori televisivi alla
ricerca di titoli sempre
più rari e interessanti. E
di rarità ne sono venute
fuori molte, moltissime.
Un grande numero delle
tracce italiane che oggi
impreziosiscono
tanti
dvd di film rarissimi provengono proprio da “I Bmovie di TVR” e ne sono
molto felice. Nel continuo
cercare film da mandare
in onda non posso non
citare la mitica “signora
Fra nca ”
d ella
“Programmi
Tv”
di
Milano che costringevo
ad andare a cercare i
suoi titoli più rari negli
angoli più remoti del suo
magazzino e lei si faceva
una bella risata e mi accontentava sempre. Grazie alla “signora Franca”
sono saltati fuori titoli
come la versione italiana
di “Succubus” di Jess
Franco.
Un altro personaggio
particolarissimo e un
gran signore è Paolo
Nalotto della “Tele Cine
Nord” di Padova. Paolo è
perennemente in giro per
tutta l'Italia con la sua
automobile stracolma di
nastri da consegnare o
ritirati
dalle
varie
emittenti. Era lui che negli anni ‘70 riforniva di
film
incredibili
una
“Telemontecarlo” appena
agli inizi. Il catalogo di
Paolo è sterminato e grazie a lui ho recuperato
film come “Paroxismus” e
“De sade 2000” di Jess
Franco. Mi ricordo ancora quando andai a trovarlo a Padova ed entrai
in uno dei suoi magazzini colpiti dal maltempo;
con la morte nel cuore
aprivo i box contenenti i
nastri dei film e li ritrovavo tutti pieni d'acqua.
Ma non mi sono mai dato per vinto, spesso
quando i nastri non funzionavano, perché pieni
di muffa, mi mettevo
all'opera con pazienza
certosina e li ripulivo
sbobinandoli a mano.
Ricordo che le tue innumerevoli
presentazioni erano ricche di aneddoti e che, da buon
appassionato
del
“dietro le quinte”, ti
guardavo, tanto per
sentire le curiosità, anche quando il film che
stavi per lanciare (per
il genere) pensavo non
potesse
interessarmi.
Hai mai pensato di raccogliere tutto questo
materiale in una sorta
di antologia video, un
po’ come ha fatto
Bruschini per il cinema
western italiano?
Non è per falsa modestia che lo dico, ma in video non mi sono mai
piaciuto. Le mie presentazioni erano spesso fatte al volo tra un montaggio e l'altro. Inoltre non
riesco mai a essere pienamente soddisfatto di
niente e quindi non ho
mai dato peso alle mie
89
presentazioni e non ne
ho conservate nemmeno
una; forse, visto l'affetto
che ancora le persone mi
dimostrano, ho sbagliato.
Voglio poi ricordare
che Pierpaolo ha anche
una grande passione
per la regia e ha girato
cortometraggi e spot
pubblicitari.
Progetti
per il futuro?
Ho iniziato a occuparmi di montaggio a diciotto anni e ancora oggi,
che ho superato la quarantina, sono sempre lì.
Ho realizzato di tutto,
dai video sperimentali
d'arte alle televendite.
L'amore che da bambino
avevo per cinema e tv mi
ha dato molto: un lavoro
e una grande passione. Il
progetto che più amo e
che ormai seguo da oltre
dieci anni è Firenze
Festival, una rassegna
per il cinema fatto dai
ragazzi che ha ottenuto
riconoscimenti dall'ONU
e dall'UNICEF. Ogni anno per il Firenze Festival
ho l'enorme privilegio di
realizzare, insieme agli
alunni delle scuole, una
decina di cortometraggi.
Si tratta di un'esperienza
di grande soddisfazione
che si conclude al Teatro
della Pergola di Firenze
alla presenza di oltre
mille ragazzi. Quest'anno
siamo giunti all'undicesima edizione.
90
Prima di passare al personaggio per cui ti ho
contattato, pensi che i
“b-movie” possano ri-
tornare
in
prima
serata, come un tempo,
oppure ci sono dei problemi?
Nessun problema. È
solo che non si trovano
più film adatti da mandare in onda. “I B-Movie
di TVR” avevano un senso nella proposta di film
difficilmente reperibili e
purtroppo quello che
potevamo trovare l'abbiamo trovato e proposto.
Per un po' abbiamo continuato con i nostri
cavalli di battaglia, ma
poi mi sono reso conto
che forse era meglio tentare
nuove
strade.
Io credo moltissimo nel
web e così ho creato una
web-tv che in pratica ripropone “I b-movie di
TVR” 24 ore su 24 ed è
visibile in ogni parte del
globo
all'indirizzo
www.fantastikatv.tk
Mi è sembrata un'esperienza nuova e l'ho
abbracciata con entusiasmo. Inoltre le nuove
web-tv permettono agli
utenti di interagire e discutere durante la visione di un film.
Si tratta di una possibilità nuova che la vecchia Tv non può offrire.
Le web-tv mi ricordano
anche il pionierismo e la
sperimentazione
delle
primissime tv private e
quindi pur andando avanti è un po’ come tornare indietro nel tempo.
Veniamo adesso al personaggio per cui ti ho
contattato.
Come
e
quando nasce il tuo
amore(cinematografi-
co, si intende) per Jess
Franco? Se non sbaglio
hai anche scritto degli
articoli
sulle
sue
“vampire lesbiche” e
organizzato serate a tema dove hai fatto
proiettare in piccole
sale
pellicole
semisconosciute (tra gli altri) di Franco, vero?
All'epoca ero un bambino, ma ricordo un film,
che poi non ho più ritrovato nella sua edizione
italiana, in cui una magnifica e misteriosa donna avvolta da veli neri,
seguita da altre misteriose compagne, saliva su
una nave e partiva verso
mete ignote, mentre una
musica dolcissima sottolineava il tutto. Era una
sequenza che mi faceva
impazzire e solo molti
anni dopo ho scoperto
che si trattava di un film
di
Jess
Franco:
“Sumuru, regina di foemina”. Poi iniziò a incuriosirmi il fatto che durante le mie notti folli il
nome “Jess Franco” ricorreva spesso alla regia
delle più svariate pellicole. E la faccenda iniziò a
incuriosirmi...
"I maghi del black
horror" strillavano i titoli
di testa di “Dracula contro Frankenstein”, "regia
di Jess Franco"; “Il conte
Dracula”, "regia di Jess
Franco" e così via. Inoltre
questi film mi sembravano avere un tocco diverso rispetto a tutti gli altri, una visione a volte
poetica, a volte torbida.
Fu così che nel lontano
1986, all'età di diciotto
anni, a chiunque mi
chiedesse quale era il
mio regista preferito, rispondevo
convinto:
”JESS FRANCO”, col risultato di lasciare nello
sconforto totale chi me lo
aveva chiesto.
Il mio articolo sulle
"Vampire Lesbiche" comparso
sulla
rivista
"Amarcord" fu un'idea
del mio editore, Igor
Molino Padovan. Quando
me lo propose l'idea non
mi entusiasmò però mi
misi al lavoro e per diverse settimane mi calai in
questo strano universo.
Devo dire che, a distanza
di oltre un ventennio, ci
sono persone che quando mi conoscono rammentano quel pezzo. Igor
ci aveva visto giusto...
Le rassegne in sala
nacquero come un prolungamento reale dei virtuali "b-movie" televisivi
e fu molto interessante
conoscere dal vivo i miei
telespettatori. L'idea fu
della direzione del Cinecittà Cineclub di Firenze
che oltre a darmi la possibilità di vedermi molti
dei miei film preferiti in
pellicola mi fece anche
grande piacere.
So che, tra i tanti personaggi che hai incontrato e intervistato, hai
anche avuto modo di
parlare con Jess Franco. In che occasione lo
hai incontrato e che tipo è? Mi confermi
l’impressione che sia
una persona molto alla
mano, ma anche un po’
sopra le righe e bizzarra?
Come tutti coloro che
sono davvero grandi, è
una persona di un'umiltà disarmante. Quando
lo incontrai per la prima
volta era seduto al tavolo
di un ristorante e allora
io per poter parlare con
lui mi misi in ginocchio.
Era molto divertito da
questa mia posa referenziale e da quel momento
parlammo ininterrottamente per due giorni...
Gli chiesi di tutto e lui
mi raccontò una montagna di aneddoti, feci solo
una stupidaggine, non
registrai la conversazione.
Ogni tanto se ne veniva fuori con delle affermazioni sul cinema in
generale assolutamente
non allineate, ma spesso
condivisibili.
Trovavo
meno nelle mie corde il
suo distacco verso i suoi
primi film anche se, conoscendo il suo percorso, posso capirne il motivo. Lo rincontrai in occasione del Joe D'Amato
Horror Festival, a Livorno, del quale era ospite
d'onore. Lui fu molto carino e mi dimostrò tutta
la sua simpatia. Ebbi
modo di conoscere anche
Lina Romay, una persona splendida che mi fece
un po’ effetto quando tirò
fuori dalla borsa un enorme borsellino per pagare un panino. Anche
uno dei miei più grandi
miti di celluloide aveva
una vita normale...
Da grande appassionato
del cinema bis (come
piace definirlo a noi), ti
chiedo un profilo artistico di Jess Franco.
Cosa diresti se tu dovessi presentarlo a chi
non ha mai visto un
suo film?
Su un sito ho letto che
il mio modo di presentare i “b-movie” era in
“pompa magna” (non ho
ancora capito perché)
quindi tenterò di usare lo
stesso metodo.
Nessuno, nella storia
della settima Arte, ha
mai saputo illuminare di
così tanta luce le tenebre
più perverse dell'animo
umano e l'inevitabile
oscurità profonda che si
nasconde tra un fotogramma e l'altro, nello
scorrere della pellicola
cinematografica. Ed è la
verità. Nei film del regista spagnolo il sesso e
tutte quelli che sono i
nostri desideri più reconditi sono esplorati; i nostri lati più oscuri sono
messi in luce, talvolta in
modo brutale, talvolta
con immagini connotate
da un gusto estetico decisamente fuori dal comune.
Jess Franco ha sfidato
con violenza iconoclasta
tabù morali ed estetici in
un cinema spesso decorativo,
gratuito
fino
all'assurdo ma sempre
con uno sguardo distaccato grazie alla sua sottile ironia. I temi centrali
del suo cinema sono il
sadismo, la perversione e
un erotismo dagli aspetti
torbidi ma allo stesso
91
tempo poetici. Non per
niente è stato spesso definito poeta dell'infimo.
Incontrare il suo cinema
si trasforma spesso in
un guardare allo specchio ciò che di noi ci fa
più paura e che teniamo
nascosto.
92
A differenza di molti
registi dell’epoca, a oggi, Franco non è stato
rivalutato
come
dovrebbe – a mio avviso
anche a causa dei troppi film effettuati, molti
dei quali girati con poca cura per esigenze di
tempo – eppure ha nel
suo curriculum collaborazioni con maestri del
calibro di Orson Wells e
vanta gusti cinematografici assai raffinati.
Come ti spieghi questo
atteggiamento di snob
nei suoi confronti da
parte anche di molti
amanti dei film di genere?
Jess Franco vive per il
cinema e con il cinema.
Il cinema gli ha dato tutto: un motivo di vita e un
modo per vivere. Quando
vivi del tuo lavoro hai bisogno di lavorare e guadagnare. E quella del cinema non è certo una
professione
delle
più
semplici. Ecco che molte
delle scelte “artistiche” di
Jess Franco sono state
dettate anche da motivi
alimentari. E in questo
non c'è niente di male. È
anche impossibile tenere
livelli qualitativi elevati
quando si girano undici
film in un anno, come
accadde nel 1973.
Per quanto riguarda
gli amanti del cinema di
genere ci sono degli
atteggiamenti che non mi
spiego. Non ho mai amato o odiato un autore in
toto. Amo il cinema in
assoluto e non distinguo
tra film di taluno o talaltro ma solo tra film che
mi piacciono e che non
mi piacciono. Odiare il
lavoro di chicchessia in
ogni suo aspetto non mi
sembra sensato. Però
Franco o lo si ama o lo si
odia, spesso non sono
possibili posizioni intermedie. Il suo è un cinema che vive su una lunghezza d'onda molto particolare… o si riesce a
coglierla oppure non c'è
niente da fare.
Passando ai film del
“nostro”, il primo che
mi viene in mente, in
ordine di tempo, è “Il
Diabolico dottor Satana”. Si tratta di un film
senza dubbio importante, per varie ragioni.
Prima di tutto vede
protagonista uno degli
attori di riferimento di
Jess
Franco,
cioè
Howard Vernon (credo
abbia fatto più di trenta film con lui); in seconda battuta, fu il biglietto da visita che
permise a Franco di
aprirsi la strada in
quello che sarà uno dei
suoi generi prediletti:
l’horror, anche se ancora legato a un certo
classicismo.
Mi risulta che il film uscì in Italia in versione
tagliata.
Che
puoi
dirci?
Il film uscì in Italia distribuito dalla Filmar,
una casa specializzata in
b-movie che aveva nel
proprio reparto edizioni
un dipendente dal nome
che poi sarebbe diventato familiare per gli amanti del bis: Bruno Mattei.
“Il diabolico dottor Satana” pur essendo un
film
apparentemente
classico in realtà mostrava la voglia del regista di
rompere col passato, in
quanto si tratta di un
melange piuttosto eterogeneo in cui i “soliti” ingredienti sono miscelati
in modo anticonvenzionale ed esplosivo. Basti
pensare ai seni nudi e alle incisioni dal bisturi
prontamente
tagliati
nell'edizione italiana.
Il film rappresenta il
debutto nel cinema fantastico
dello
svizzero
Howard
Vernon
che
spesso, pur di lavorare
con Jess Franco, accettava di venire assoldato
come fotografo di scena
perché altrimenti il suo
compenso sarebbe stato
troppo alto e la produzione non avrebbe potuto
p e rm e tt er s el o.
J e ss
Franco ha sempre considerato Vernon il suo attore preferito.
Dopo il “Dottor Satana”, tra il 1961 e il
1967, Franco dirige
una serie di film (tra
cui “Miss Muerte” e
“Necronomicon”.) che
non sono ricordati tra i
suoi masterpiece, tut-
tavia sono importanti
perché lasciano affiorare elementi che caratterizzeranno la cinematografia futura del regista: in particolare la
“poetica” dell’erotismo
e il ricorso allo zoom
che, nei film successivi, diventerà una sorta
di vera e propria ossessione (anche se Franco
la motiverà per ragioni
tecniche piuttosto che
stilistiche).
“Necronomicon”, uscito
in
Italia
come
“Delirium”, è un film importantissimo nella filmografia del regista e un
capolavoro del cinema
fantastico in generale.
Lorna vive una realtà in
cui irrompe con violenza
la sua dimensione onirica, per giungere a un finale originale in cui i sogni prendono il sopravvento in modo poetico su
una realtà sempre meno
interessante.
Questo film è anche al
centro di un giallo curioso, in quanto proprio nel
nostro paese fu distribuito in una versione che
non trova corrispettivi su
altri mercati. Intere sequenze sono completamente diverse anche se
non sembrano avulse dal
resto della pellicola e
specialmente il finale si
scontra concettualmente
in modo violento con
quello conosciuto. Franco a tal proposito riconosce la piena paternità
della versione internazionale, ma alcuni studiosi
dell'opera di questo regista (compreso me) ipotiz-
zano che la versione italiana sia la director's cut.
Tale teoria è suffragata
dal fatto che le riprese in
questione non sembrano
fatte in un secondo momento e rispecchiano soluzioni
visive
tipiche
dell'opera del regista.
L'utilizzo
eccessivo
dello zoom deve essere
contestualizzato per poter essere compreso. Il
pancinor (poi detto zoom)
era stato per decenni un
miraggio dei cineasti in
quanto costosissimo, così quando divenne alla
portata di tutti ci fu una
voglia smisurata di sperimentarne le possibilità
espressive.
Negli anni settanta
venne percepito come
qualcosa di nuovo nel
linguaggio cinematografico e quindi se ne fece un
uso intenso. Dietro a
quel semplice gesto di
premere il pulsante dello
zoom c'era molto di più
di quanto ci possa sembrare ai giorni nostri.
Inoltre era un espediente
che permetteva di ridurre i costi sia per il fatto
che volendo si poteva fare a meno di cambiare le
ottiche davanti alla macchina da presa, sia perché in un piano sequenza era possibile cambiare
focale senza interruzioni.
Con
il
1968
e
l’incontro con il produttore
Harry
Alan
Towers inizia, a mio avviso, il periodo d’oro di
Franco. In questi anni
gira film potendo contare su assi come il
pazzo Klaus Kinski,
Christopher Lee, Herbert Lom e i risultati
da un punto di vista
tecnico non si lasciano
attendere con film, come “The Blood of Fu
Manchu”, “Il conte Dracula” (i cui interni sono
stati girati dietro casa
mia, per la cronaca),
“Justine ovvero le disavventure della virtù”
dove recita una giovanissima Romina Power
(di cui Franco continua
a dire peste e corna). Si
tratta, a mio avviso,
dei film più curati di
Franco, ma nonostante
questo le pellicole non
ebbero il successo atteso e portarono alla rottura del regista con il
produttore. Cosa non
funzionava secondo te
in questi film, sempre
che tu possa vederci
qualche vizio?
“Il conte Dracula” è la
versione più affascinante
che sia mai stata tratta
dal romanzo di Stoker. È
un film, assai sentito sia
dal
regista
che
da
Christopher Lee, che
portava sullo schermo i
dialoghi così come erano
stati scritti da Stoker. In
questo senso la sequenza
in cui Dracula ricorda
come in passato il castello fosse un potente
baluardo contro i Turchi
mi emoziona ogni volta
che la vedo (menzione
d'onore al livornese Emilio Cigoli che doppia Lee
in modo formidabile).
Il film fu un grande
successo in Germania,
ma andò male negli USA
93
94
e per questo motivo la
sua uscita nel nostro
paese fu cancellata. Solo
nel 1974 quando la
FILMAR, la società che lo
aveva prodotto, fallì la
INDIEF ne acquisì i diritti e finalmente lo fece uscire.
Inoltre sia in questo
film che in “Justine” le
musiche sono di Bruno
Nicolai che firma delle
colonne sonore memorabili che sottolineano in
modo potentissimo le sequenze più belle.
Al riguardo di questo
secondo film, come non
ricordarne l'inizio, con
De Sade (Kinski, e chi
sennò!?) tormentato nella cella dai fantasmi delle sue creature letterarie,
un momento, a mio avviso, tra i più alti di tutta
la produzione di Franco.
“Justine” ebbe ovunque problemi con la censura e non poteva essere
altrimenti.
Harry Alan Towers era
un produttore inglese assai astuto che con capitali americani riusciva a
organizzare film a medio
budget per noi europei,
ma assolutamente low
budget per i canoni
dell'industria americana.
Towers vide in Franco un
regista velocissimo che
ben si sposava con i suoi
stessi tempi. La leggenda
vuole che Towers scrivesse le sue sceneggiature per i suoi film durante
i trasferimenti in aereo
tra Londra e Los Angeles.
In realtà il loro rapporto fu proficuo solo che, a
un certo punto, fu Fran-
co a stancarsi di questa
collaborazione in esclusiva. Probabilmente questi
film, essendo produzioni
più impegnative, non gli
garantivano quella libertà assoluta in cui era
abituato a lavorare.
Franco e Towers inoltre avevano due forti personalità e questo può
portare facilmente a immaginare che tra i due
fossero frequenti grossi
scontri.
Nel cast tecnico de “Il
conte Dracula”, essendo una co-produzione
che coinvolgeva anche
l’Italia,
c’era
anche
Bruno Mattei. Ne approfitto per aprire una
parentesi su questo
artigiano nostrano che
so che conoscevi per averlo incontrato di persona. Che aneddoti ci
puoi regalare su Mattei? Ricordo che parlavi sempre delle sue invenzioni quanto montava i film provenienti
dalla Cina senza sapere
chi fossero gli attori.
Altra persona di
un'umiltà
disarmante
nonostante fosse dotato
di un grande intuito cinematografico e di doti
come montatore non comuni. Bruno era una
persona abituata a combattere, ad arrangiarsi e
nonostante tutto riusciva
a imprimere la sua
personalità in ciò che faceva.
Posso dirti che è stato
sfruttato fino in fondo.
Quando ebbe l'idea di adattare per il grande
schermo i telefilm della
serie UFO in film che incassarono miliardi, a lui
non dettero nemmeno i
soldi per le sigarette.
Ha curato l'edizione italiana di un numero
sterminato di film, tra
cui “La vendetta del
vampiro” di Corona Blake e “Paroxismus” dello
stesso Franco di cui tagliò il finale perché non
gli piaceva.
Per i film di Kung-Fu
non gli mandavano mai
le traduzioni in inglese
dei nomi degli attori e allora lui se li inventava.
Per questo in Italia è un
vero problema individuare le versioni originali di
molti film di questo genere provenienti da Hong
Kong.
Dopo il periodo Towers,
Franco è costretto a girare con pochi soldi,
ma è in questo periodo
che irrompe il suo talento onirico e bizzarro, peraltro si trova per
le mani un’attrice di
una bellezza e una sensualità rara: Soledad
Miranda (che aveva lanciato ne “Il conte Dracula”). So che sei un
grande fan di questa attrice (ti confido che
siamo in due, detto tra
noi), se non sbaglio la
ricordavi sempre quando parlavi delle dive
horror.
Soledad Miranda era
una donna di rara bellezza e femminilità. Gran
parte del fascino de “Il
conte Dracula” risiede
proprio nell'eterea bellez-
za del suo personaggio
che, sotto sonno ipnotico
indotto dal principe delle
tenebre, vaga in una notte resa fantasmatica dalle musiche di Bruno Nicolai.
Anche
quando
Lucy (il personaggio interpretato da Soledad
Miranda) cade preda del
Conte vampiro la sua espressione di piacere mista a repulsione riempie
lo schermo di picchi di
sensualità indescrivibili.
Sono assai interessanti
le
immagini
di
“Cuadecuc Vampir” di
Pere Portabella che mostrano l'arrivo dell'attrice
sul set del film. La Miranda sembra una creatura eterea e immaginaria, soprattutto nelle riprese del trucco prima
del ciak che ce la mostrano quasi in uno stato
di trance. Purtroppo, da
lì a poco, l'attrice avrebbe perso la vita in un
tragico incidente automobilistico.
Con la Miranda, Franco
gira tre dei film horror
con elementi erotici
più “poetici” della sua
filmografia, insieme al
successivo “Un caldo
corpo
di
donna” (conosciuto anche
come “Erotikiller” o
“La contessa nera”) che vedrà invece protagonista la moglie Lina
Romay, la quale raccoglierà
il
testimone
abbandonato dalla sfortunata
Miranda.
Mi
riferisco al suo capolavoro
“Vampyros
Lesbos”, ma anche al
thriller “She killed in
ecstasy” e a “De Sade
2000” (che io non sono
riuscito a recuperare,
ma di cui ti ho sempre
sentito
parlare
con
grande
entusiasmo).
Penso di poter dire che
con queste pellicole si
assiste a un’evoluzione
delle regia di Franco,
con una improvvisazione sul set che raggiunge livelli prima mai
toccati, con effetti psichedelici che assumono la veste di una vera
e propria firma del regista. Che ci dici su questo lotto di film?
Sono sicuramente le
cuspidi nella filmografia
del
regista
spagnolo.
Queste bellissime donne
incarnano creature fantastiche condannate dalla loro diversità alla solitudine eterna. Franco le
immortala sullo schermo
con soluzioni visive fuori
dall'ordinario e con accostamenti di montaggio originali.
In “Erotikiller”, uno
dei film che amo di più,
Franco crea il personaggio di una vampira che
vaga in foreste desolate.
Questa solitudine è sottolineata dal suo essere
muta e da un bisogno
d'amore che la rende
una delle creature più
tristi di tutto il cinema
fantastico. Un film che,
nelle sequenze in cui
dalle nebbie fluttuanti si
materializzano strane e
misteriosi voci, raggiunge assoluti vertici di poesia.
“De Sade 2000” è
un’opera condotta con
estrema libertà. Esplora
le
zone
più
oscure
dell'animo umano, alla
ricerca del piacere e della
perdizione assoluta. Un
film assai controverso,
ma dove il nostro lato
oscuro riesce a mostrare
tutto il suo ambiguo e
ammaliante fascino. Tra
l'altro in questa pellicola
Soledad Miranda sfodera
un magnetismo e un fascino difficili da dimenticare. Un plauso anche a
Paul Muller che tratteggia uno dei personaggi
più riusciti di tutta la
sua carriera.
L'improvvisazione per
Franco è essenziale. Lui
è anche un musicista
jazz e come tale conosce
il potere creativo dell'improvvisazione.
Anch'io,
nel mio piccolo, ho sperimentato che quando si
ha il coraggio di lasciarsi
andare sul set si raggiungono risultati assai
più originali che non pianificando tutto a tavolino. È che il cinema è
un'arte difficile da gestire
senza un'adeguata pianificazione perché ha costi
altissimi anche nelle produzioni più piccole e permettersi di improvvisare
o peggio ancora di sbagliare, perdere tempo e
di conseguenza soldi, è
un lusso che non ci si
può permettere. Eppure
l'improvvisazione
paga
moltissimo in termini
creativi,
anche
Hitchcock, che era uno
che arrivava sul set con
delle sceneggiature di
95
ferro e storyboard precisissimi, riconobbe che
l'improvvisazione
che
aveva adottato in alcune
riprese de “Gli uccelli”
aveva portato a eccellenti
risultati. In questo senso
Franco è unico, molte testimonianze
riportano
che questo regista mentre girava un film aveva
già in testa il successivo
o addirittura iniziava già
a girarne alcune scene
fino ad arrivare a realizzarne due contemporaneamente, con il secondo
film prodotto all'insaputa
di troupe e produzione.
96
Con la morte della Miranda, a parte qualche
eccezione, il cinema di
Franco entra in una parabola discendente. Nel
1976 ritorna a collaborare con Klaus Kinski
dirigendo un film con
un budget superiore ai
suoi
ultimi
lavori:
“Jack The Ripper” (in
Italia presentato con
l’orribile
titolo
di
“Erotico Profondo”). Si
tratta di un’opera dove
il
genio
ribelle
di
Franco, seppur ancora
riconoscibile, torna a
incanalarsi in schemi
prefissati.
Personalmente ricordo due o tre
sequenze degne di nota
(tra cui il primo omicidio e quello perpetrato
all’interno della foresta), poi una regia piatta e una sceneggiatura
che mette in scena
Jack lo squartatore per
poi stravolgere i fatti
storici e il modus operandi dell’assassino. Un
film confuso anche sulla piega da seguire, sospeso tra il thriller e il
poliziesco… Sono sicuro che mi contraddirai.
Il cinema di Franco ha
conosciuto molte fasi e
trasformazioni. In linea
di massima Franco è uno
che il cinema lo conosce
molto bene ed è in grado
di realizzare qualsiasi cosa. Non c'è quindi da
stupirsi del taglio classico
con
inquadrature
stranamente bilanciate
di “Erotico profondo”.
Trovo che in questo film
la trasgressione sia nel
rappresentare con un taglio visivo da horror del
decennio precedente situazioni che sconfinano
nello splatter e quindi rese ancora più scioccanti
dal contrasto che se ne
ricava. Eppure l'ironia
graffiante del regista è
presente in più di una
sequenza. Basti pensare
a come si diverte a canzonare la sua musa Lina
Romay, quando sale sul
palco e inizia a cantare
con una voce al limite
dello sgradevole e dal
pubblico si levano grida
che dicono: ”Mostra il
culo che è la cosa che sai
fare meglio!”. Una sequenza impagabile.
ferimento) e alla serie
Ilsa, di cui sei, se la
memoria non mi inganna, grande estimatore.
La serie Ilsa era in
realtà l'incarnazione cinematografica di una
cattiva super maggiorata
che oltre ad avere delle
curiose
connotazioni
fumettistiche è anche
l'incarnazione della mistress per eccellenza. La
donna prosperosa in grado di dominare l'uomo:
un sogno che da sempre
rincorre gli amanti più
spinti e trasgressivi del
cinema bis. Però c'è da
fare un distinguo, mentre nella serie Ilsa tutto il
contesto storico è poco
più che un pretesto, nel
film di Franco la denuncia alla dittatura e ai
suoi metodi per esercitare il potere è sentita e
sincera. In fondo lo stesso Franco è stato messo
all'indice per anni nel
suo paese e il Vaticano
sembra che lo avesse
schedato come un regista pericoloso. Infatti
proprio in questo film lo
sguardo spesso compiaciuto che il regista spagnolo ha nei confronti di
torture e sevizie, diventa
ancora più cinico, più disincantato.
Un altro film che ricorderai con piacere, e che
io non ho visto, è
“Greta, la donna bestia” del 1976. Se non
sbaglio è riconducibile
al genere women in prison (che in Italia vedrà
Bruno
Mattei
come
principale regista di ri-
Dopo il 1976 inizia
quello che io ritengo il
periodo buio di Jess
Franco.
Come
farà
qualche anno dopo Joe
D’Amato, il “nostro”
scivola via via nel
porno, proponendo, di
tanto in tanto, horror
di bassa lega di imita-
zione tra i quali i cannibalici “La donna cannibale” (con la bella Sabrina Siani e Al Cliver,
al secolo Pierluigi Conti, attore feticcio di Lucio Fulci) e “Il cacciatore di uomini”, ma anche zombie movie come “Il lago dei morti
viventi” e “Oasis of the
zombies”. Non so se ci
sia qualcosa da salvare,
perché non ho visto
tutti i film del periodo.
Tu, consigli di recuperare qualcosa?
Più che il periodo buio
per Jess Franco inizia il
periodo buio per tutta la
cinematografia cosiddetta “media”. L’uscita di
film come “Guerre stellari” dette il via a film portati sullo schermo con
milioni
di
dollari,
mettendo in scena storie
che fino a qualche anno
prima sarebbero state realizzate con scotch e fil
di ferro, segnando di fatto la crisi dei film artigianali.
Ecco che fiorisce lo
splatter, un genere che
comunque anche con
bassi budget permette di
colpire e impressionare
lo spettatore. Sono film
fatti per motivi alimentari e anche le sue sempre
più frequenti incursioni
nell'hard la dicono lunga
sul bisogno di lavorare.
Sinceramente non è il
periodo di Franco che
preferisco, ma l'inizio de
“La dea cannibale” con la
bambina rapita dagli indigeni e il carillon che
suona mi ha sempre colpito. Inoltre Franco si ri-
taglia in questa pellicola
una delle sue tante apparizioni da attore che
spesso, di film in film,
sembrano lanciare messaggi autobiografici. In
"La dea cannibale", Franco interpreta una specie
di contrabbandiere che,
a
un
certo
punto,
esclama: ”Non è colpa
mia se mi fanno fare certe cose… devo pur lavorare!”. Lo stesso Franco
mi confermò questa mia
impressione.
18) Nel 1988 si registra
il canto del cigno di
Jess Franco, con un
film criticato da molti
ma che io considero un
cult, cioè “I violentatori della notte”. Il film
ha uno dei più grandi
cast che Franco abbia
mai avuto a disposizione
(Helmut
Berger,
Caroline Munro, Telly
Savalas,
Brigitte
Lahaie,
Howard
Vernon, Lina Romay).
La sceneggiatura non è
originale, cita un film
degli anni ’60, ma riesce a intrattenere a dovere e offre momenti
gore molto interessanti
(alcuni citano Fulci).
Peraltro, c’è una scena
che Stivaletti riproporrà pari pari per il suo “I
tre volti del terrore”.
Come
presenteresti
questo film se tu lo dovessi lanciare ai “B
movie di TVR”?
In realtà ho avuto
l'onore di programmarlo
e presentarlo su TVR e
chiaramente fu una di
quelle presentazioni in
cui avrei voluto dire mille
cose e alla fine, forse,
non riuscii a dire niente.
Comunque lo lanciai come “il canto del cigno
dell'horror classico del
vecchio continente”. Il tema della bellezza perduta, cardine del cinema
fantastico europeo, viene
qui attualizzato e portato
alle estreme conseguenze. Il tipico mad-doctor è
qui un chirurgo estetico
che tenta di rendere la
bellezza alla sorella dal
volto sfigurato dall'acido.
I due sono oltretutto legati da un rapporto incestuoso nella migliore tradizione franchiana. In
questo film trovano posto
tutti gli elementi che
hanno accompagnato la
lunga carriera del regista
spagnolo: il dottor Orloff,
la sua musa Lina Romay
e la trama stessa che è
in pratica un remake del
suo primo film fantastico. “Les predateurs de la
nuit” nasce per volontà
del potentissimo distributore e produttore francese Renè Chateau che,
desideroso di lanciare
sul piano internazionale
Brigitte Lahaie, mette insieme un cast davvero
sorprendente che va da
Telly Savalas a Chris
Mitchum, da Caroline
Munro
a
Stephane
Audran,
da
Brigitte
Lahaie a Helmut Berger.
Per
non
parlare
di
Howard Vernon che ricopre il ruolo che già aveva
interpretato ne “Il diabolico dottor Satana” e Lina
Romay che il professor
Orloff presenta come il
97
suo capolavoro. Il gioco
dei rimandi si fa quindi
davvero interessante.
Si tratta di un film dal
punto di vista tecnico
ineccepibile tanto per
sottolineare per chi non
lo avesse ancora capito
che quando Franco è
tecnicamente sciatto lo
fa o per cifra stilistica o
perché non gli importa
niente di quello che sta
facendo. “Les predateurs
de la nuit” è un film ancora più cinico e disincantato di tutti gli altri
realizzati dal regista spagnolo e si chiude con un
finale che lascia pochi
dubbi: i cattivi sono destinati a vincere, il male
trionfa. Alla fine c'è un
minimo segnale positivo,
ma che il bene vinca è
davvero molto incerto.
Questo è Jess Franco.
98
Negli anni ’90 si scivola
pian piano nell’ultima
fase del regista, dove
irrompe la sua cospicua
produzione digitale, a
me del tutto ignota.
Hai visto qualcosa di
questa ultima fase, c’è
del buono?
Sono riuscito a vedere
alcuni di questi titoli e
devo dire che "Incubus"
del 2002 e più che altro
"Snakewoman" del 2005
sono un bel tuffo nel cinema di Jess Franco.
Altri titoli sono un delirio
puro che sembrano realizzati più per accondiscendere i motivi della
sua fama presso le nuove generazioni che altro.
Io conservo nel cuore altri film..
Venendo agli attori
“secondari” che hanno
lavorato con Jess Franco, non posso non ricordare Horst Tapper,
meglio conosciuto per
aver
interpretato
l’ispettore Derrick. Ce
ne erano però altri che
ricordi con simpatia?
Sono molti i caratteristi che hanno lavorato
con Jess Franco, primo
tra tutti lo svizzero
Howard Vernon, il suo
attore preferito, indimenticabile nel ruolo dello
zio Howard ne “Una vergine nella terra dei morti
viventi” (1971) che in
realtà è un morto vivente
che abita le fredde acque
dello stagno prospiciente
il castello in cui si svolge
tutta la vicenda. Altro attore svizzero che spesso
collabora con Franco è
Paul Muller, famoso in
Italia per le sue partecipazioni alla saga di
Fantozzi. Attore dalla
lunghissima carriera ha
però ricoperto il ruolo da
protagonista solo in “De
Sade 2000” di Jess Franco. Paul Muller è sicuramente un attore che andrebbe rivalutato specie
per i suoi ruoli da raffinato villain nel nostro
peplum e horror gotico.
Altri due attori ricorrenti
nella filmografia di Franco sono Fred Williams e
Jack Taylor. Il primo dopo un importante incursione nel cinema di Federico Fellini si dedicò
alla moda aprendo una
serie di negozi a Berlino,
il secondo ha continuato
a lavorare come attore e
lo si ricorda piacevolmente ne "La nona porta" di Roman Polanski.
Una caratteristica di
Franco, ma anche di
molti altri registi importanti (tra i quali
Hitchcock e Fulci) era
quella
di
ritagliarsi
sempre dei piccoli cammei. Come valuti il
Jess Franco attore?
Ne
parlavo
prima.
Quando Jess Franco
partecipa ai suoi film si
ritaglia sempre ruoli di
personaggi ai margini.
Spesso sono maniaci e
malati di mente. In uno
dei suoi film più controversi, “Le viziose” (1975),
riveste
addirittura
il
ruolo di un spretato
coinvolto in messe nere.
Ma il suo cammeo più
divertente lo si può vedere nel rimontaggio di due
film di Jess Franco operato da Joe D'Amato
(Aristide
Massaccesi):
“Justine” (1979). In questo film Franco interpreta il ruolo di un cliente di
una
prostituta
che
essendo impotente cerca
di eccitarsi con la copertina di una rivista di
cinema che mostra Lorna, la protagonista di
“Delirium”, uno dei suoi
film più belli.
È esilarante quando in
"Una vergine tra i morti
viventi" tenta di dare
fuoco alla casa con una
scatola di fiammiferi...
Chiudo con una domanda sul cinema contemporaneo di genere, sia
italiano che americano.
Cosa ne pensa un
amante di cinema bis
come te dei film di ultima
generazione
e
pensi che in Italia poss
a
rinascere il cinema di
genere?
So che rischio di passare per snob e fanatico,
ma siccome non lo sono
esprimo tranquillamente
il mio giudizio: non c'è
rimasto più niente. Il cinema di oggi è solo un
guazzabuglio senza senso montato con ritmi frenetici e ossessivi nella
remota speranza di interessare in qualche modo
lo spettatore. Abbiamo
perso completamente i
tempi e il gusto della
narrazione cinematografica e i film mi ricordano
di più una partita giocata al Nintendo o alla
Playstation fatta con i
miei figli. Ma niente cinema, quello è un'altra
cosa!
Certo è vero che poi
dalla Francia arrivano
perle come “Calvaire” di
Fabrice Du Welz oppure
“Them” di Moreau e
Palud. Ma sono sprazzi,
il resto è desolante
niente.
Un caloroso ringraziamento, da parte di tutta la redazione, a un vero amico del cinema di genere come Pierpaolo Dainelli, a cui vanno anche
i miei ringraziamenti personali per avermi fatto scoprire
film come “Femina Ridens”,
“La corta notte delle bambole
di vetro”, “Le orme”, “Gli
occhi al cielo” e moltissimi
altri… Grazie di cuore.
I violentatori
della notte
Matteo Mancini
“Faceless”, l’ultimo
grande film diretto
da Jess Franco
P
rodotto da René
Chateau
nel
1988
con
un
budget insolito per le
pellicole di Jess Franco, “I violentatori della
notte” - meglio noto con
il
più
appropriato
“Faceless” o con il titolo originale di “Les predateurs de la nuit” - è
l’ultimo grande film del
regista spagnolo che
dopo questa opera si
dedicherà a film minori
fino alle ultime fatiche
girate in digitale.
Il soggetto del duo
Chateau-Franco richiama alla memoria due
celebri film del passato:
il primo è l’horror transalpino “Occhi senza
volto” del 1960, da cui
viene ripresa l’idea dello scienziato pazzo che
cerca di porre rimedio
agli sfregi che deturpano il volto di una persona a lui cara, eseguendo esperimenti su
cavie umane; il secondo è “Il diabolico dottor
Satana” del 1963, diretto dallo stesso Franco e anch’esso fortemente
debitore
di
“Occhi senza volto”.
Nonostante il film
non possa esser considerato originale, tuttavia costituisce un ottimo esempio di cinema
di genere anche perché
sintetizza in novanta
minuti tutta la filmografia del prolifico regista. Più nel dettaglio
potremmo definire “I
violentatori della notte”
un cocktail assai esplosivo e affascinante frutto di una commistione
tra noir (detective privato che indaga su una
serie di omicidi), drammatico (l’inadeguatezza
per non sapere accettare il proprio corpo), nazi-movie
(abbiamo
l’elemento dello scienziato pazzo e degli e-
99
100
sperimenti chirurgici su
cavie umane vive), horror
(splatter a go go), thriller
(un paio di assassinii in
stile spaghetti thriller) ed
erotismo
perverso
(necrofilia, scena di amore saffico, voyeurismo,
prostituzione).
La
sceneggiatura
(sempre del duo Chateau
-Franco) e la
confezione
della pellicola
sono abbondantemente
sopra la media
rispetto
alla produzione standard
dell’autore.
Tuttavia proprio
questa
maggiore cura
dei particolari
e
l’investimento
di importanti
capitali determinano una
ricaduta evidente
sulla
regia di Franco che finisce
per
essere
“meno folle” e
più
convenzionale,
ma
non per questo meno
qualitativa. Non vi è infatti traccia di inquadrature sperimentali o improvvisate, né un utilizzo
smodato dello zoom o di
altre trovate registiche
finalizzate a fare di ogni
necessità una virtù.
Franco, su pressione
del produttore, cerca di
dirigere in modo tale da
rendere la pellicola adatta a un numero maggiore
di spettatori, ma non si
può certo sopprimere
l’estro di un artista forte
come Franco e così, alla
fine, ne esce fuori una
pellicola in cui la crudeltà e il gusto per la perversione finiranno per
configurarla come un
prodotto di nicchia.
Lo script, pur soffren-
do di alcune "distorsioni
temporali" (evidente soprattutto
nell’epilogo),
non viene penalizzato da
dei difetti che si sarebbero potuti evitare, quali
alcuni
comportamenti
forzati dei personaggi
che, talvolta, tengono
condotte
incompatibili
rispetto alla meticolosità
con cui pianificano le azioni delittuose.
Non mancano le scene
disturbanti, e parlo di
disturbanti con la "d"
maisucola,
tra
cui
un’intera sequenza - riproposta anche da Stivaletti in "I tre volti del terrore" - in cui viene staccata la pelle dal volto di
una ragazza per esser
trapiantata su un altro
volto. In ogni
caso, la scena
più fastidiosa è
quella
nella
quale si assiste
a un assassinio perpetrato
conficcando
l’ago di una sir i n g a
nell’occhio della vittima, il
tutto sotto lo
sguardo attendo di una mdp
che riprende in
primissimo piano l’iride trafitta. Ci sono
anche omaggi
impliciti a Lucio Fulci e al
suo “Paura nella città dei morti
viventi” (scena del
trapano).
Magistrale il make up
artigianale di Jacques
Gastineau (non aggiungo
altro per non rovinarvi la
visione).
Come anticipato non
mancano le scene di erotismo perverso tipiche
del regista tuttavia, per i
motivi già detti, è palese
il freno imposto dal produttore e si ha la chiara
e netta sensazione di un
Franco imbrigliato, co-
I violentatori della notte
SCHEDA DEL FILM
Produzione: Spa-Fra, 1998
Regia: Jesus Franco
Interpreti principali: Helmut Berger, Brigitte Lahaie, Telly Savalas, Christopher Mitchum,
Caroline Munro, Howard Vernon.
Genere: Horror
Durata: 98
Trama
Chirurgo plastico (Berger) studia la maniera di ricostruire il volto della sorella. La donna,
infatti, ha perduto la bellezza a causa del gettito di acido spruzzatole in faccia. Il dottor decide
così di praticare delle operazioni, utilizzando delle cavie umane che le vengono procacciate da
una seducente assistente (Lahaie) e quindi anestetizzate e sequestrate. Così, tra le tante giovani
rapite, riesce a imprigionare persone dello spettacolo come Florence Guerin (che interpreta se
stessa) e fotomodelle varie, tra cui la figlia (Munro) di un pericoloso boss americano (Savalas)
che incarica un detective privato di mettersi a lavoro sul caso.
Intanto il chirurgo plastico, insoddisfatto dei propri risultati, decide di contattare un celebre
medico tedesco (Vernon) famoso per i suoi esperimenti nei lager nazisti…
stretto ad abbozzare laddove il suo estro avrebbe
voluto e potuto osare.
Notevole il cast artistico, a mio avviso il più
importante che Franco si
sia trovato a gestire anche se non si registrano
performance particolarmente ispirate.
Nei panni del protagonista troviamo un luciferino
Helmut
Berger
(indimenticabile nel poliziottesco "La Belva col
mitra"), nell’occasione un
po’ spento, affiancato da
volti popolarissimi come
Telly Savalas e la bella
Caroline Munroe (gli amanti di b-movie la ricorderanno in "Maniac"
di William Lustig o in
"Star Crash" di Luigi
Cozzi).
Se la cavano bene anche i restanti attori, tra
cui sono degni di menzione la sexy ex pornostar
Brigitte
Lahaie
(all’epoca fidanzata di
Chateau che sembra
confezionò il film proprio
per cercare di lanciarla
nel mondo del vero cinema), Howard Vernon
(richiamato a interpretare lo stesso ruolo che più
di venti anni prima lo aveva lanciato con “Il diabolico dottor Satana”) e i
simpatici cammei di Florence Guerin e Stephane
Audran all’epoca compa-
gna del celebre regista
francese Claude Chabrol.
Patinata la fotografia
di Maurice Fellous, mentre la colonna sonora di
Romano Mosumarra si
rivela modaiola.
Visione
consigliata,
ma non agli amanti di
cuore. Nonostante non
sia amatissimo dai fan
del regista e non sia una
delle sue opere più rappresentative, il sottoscritto considera “I violentatori della notte” uno
dei B-Movie più curati di
Franco. Consigliata la
visione.
101
Lo stile
del Campione
Vincenzo Bonicelli della Vite
R
itaglio personale del presente
che inizia, l'incipit narrativo è un
neonato dall’identità precisa ed
ambigua, dotato di sentimento interno e
venuto al mondo per volontà esterna:
l’opera nasce come un parto di natura
particolare. La parola va oltre la natura
stessa e la sua apparenza. Il suo Autore
è insieme padre e madre della narrazione. Il suo pregiudizio si riflette in una
stortura delle cose nell’incipit narrativo,
una distanza netta dal buon senso corrente.
Mi ritrovai per una selva oscura, che la diritta
via era smarrita.
Senza che avesse fatto alcunché di male una
mattina venne arrestato.
102
L'assenza di colpe di Joseph K è una
chiara stortura rispetto al fatto che venga imprigionato, e il «qualcuno doveva
aver calunniato» non spiega, ma lascia
al tempo vitale della narrazione la risoluzione di ogni ambiguità... l’evolversi
della stortura iniziale in nuovo buon
senso non più anonimo, ma personale.
Umore e ambientazione della storia si
definiscono come identità in fieri: neonato che vuole vivere per propria volontà. Nell’incipit narrativo compare il pregiudizio volontario dovuto all’Autore, la
stortura che la narrazione porterà ad
una soluzione originale. Il neonato ha
un padre e una madre riuniti in
un’unica persona che ne curano lo svi-
L’incipit, è un
neonato dall’identità
precisa e ambigua
Sec
on
da
par
luppo, ne interpretano il silenzio e
te
le parole, ne guidano i primi passi ed il
percorso successivo fino allo sviluppo
adulto ed autonomo.
Ma intanto l’incipit è un flash sul caos strillato che accompagna la nascita,
la presenza di un apparato esterno che
riprende il rumore di un nuovo e prepotente sentimento. L’inizio della vita è segnato dal sentimento del bambino e dalla volontà esterna di babbo e mamma.
Tre protagonisti che diventano due nella
narrazione, ma ambiguamente: come
nella vita, è il bambino l’unico vero protagonista. L’ambiguità è nella coesistenza di sentimento del protagonista e volontà dell'Autore, che sono all'origine
dell'incipit.
Pirandello, nel suo saggio Arte e
scienza, mette in rilievo che non v'è
arte se sentimento e volontà soggettivi
non intervengono direttamente, ben prima di ogni conoscenza intuitiva ed astratta. Se la narrazione è in prima persona, è evidente la coincidenza in una
unica persona di ambedue i caratteri.
Escludendo il sentimento e la volontà, cioè gli elementi soggettivi dello spirito, e fondando l'arte solamente sulla conoscenza intuitiva, dicendo cioè che
l'arte è conoscenza, il Croce non riesce a
vedere il lato veramente caratteristico di
essa, per cui essa si distingue dal meccanismo. Il modo dell'essere e la qualità
sono dati dalla volontà e dai sentimenti:
prima, abbiamo l'oggetto senza un mo-
do d'essere determinato e
senza valore.
L’inizio della vita è segnato dal sentimento del
bambino e dalla volontà
esterna di babbo e mamma. Tre protagonisti che
diventano due nella narrazione, ma ambiguamente, come nella vita, è
il bambino l’unico vero
protagonista. La coesistenza ambigua di volontà dell'Autore e sentimento del protagonista dà origine alla vita dell’opera.
Ma sentimento interno e
v o l o n t à
esterna, come nella vita
individuale, hanno una
bisogno dell’altra, coincidono in una precisa scelta di sopravvivenza. Cioè
in una necessità di armonia.
Così, sentimento e volontà partecipano insieme
nel dare determinazione e
valore all’oggetto letterario. La disarmonia della
realtà s’incarna nel neonato letterario.
Le conferme vengono
all'inizio di importanti opere letterarie, non solo
nella Divina Commedia o
nel Processo.
In
Anna
Karenina
«tutte le famiglie felici si
assomigliano fra loro,
ogni famiglia infelice è infelice a modo suo»: il pregiudizio sulla famiglia
«infelice» é ambiguo in
quel «a modo suo». È prec i so
nel
de fi ni r ne
l’opposto
felice
delle
f a m i g l i e
c h e
«s’assomigliano
tutte»,
quelle unite dal buon
senso.
Ne I tre Moschettieri,
nella Prefazione, «si stabilisce che, nonostante i
nomi in- is e in – os , gli
eroi della storia che
avremo l'onore di raccontare ai nostri lettori non
hanno
niente
di
mitologico».
Il pregiudizio sta nella
realtà degli eroi Aramis,
Athos e Porthos, realtà
ambigua in quel «niente
di mitologico», che segna
la distanza temporale
dell’autore dalle immagini
del passato, per cui Dumas dice «non ebbi pace
finché non riuscii a trovare
nelle
opere
contemporanee una qualunque traccia di quei nomi
straordinari».
Anche qui vediamo la distanza dal buon senso e
dall’ordine normale, la
nascita di un presente. La
precisione nei suoni finali
dei nomi in «is» e in «os»,
p r e c e d u t a
d a
«nonostante» diventa un
motivo iniziale di non
anonimato, di personalizzazione fuori dal mito eppure straordinaria, che
ha rilevanza per la storia
da raccontare e per il sapore dato alle immagini
dell'incontro con D'Artagnan.
Esplicito l’incipit dell'Odissea. «Tu di queste avventure da un punto
qualsiasi movendo, racconta, o figlia di Zeus, anche a me qualcosa. Tutti
gli altri in quel tempo,
quanti la morte scansarono, erano a casa salvi tornati dalla guerra e dal
m a r e :
l u i
solo».
Incipit preciso in quel
«lui solo»: il destino di Ulisse
è
unico,
ben
diverso da quello degli altri reduci della guerra di
Troia, stortura nella vita
dell’eroe protagonista. Disarmonia iniziale. Ma «da
u n
p u n t o
qualsiasi movendo… racconta anche a me qualcosa» è ambiguo: è la
volontà della figlia di
Zeus,
non
quella
dell’autore, che ordina gli
eventi di questa esperienza unica e singolare, dando senso alla neonata
narrazione straordinaria.
La volontà dell’incipit è
quella del neonato: di per
sé senza parole, ha bisogno dell’aiuto divino. Il
racconto soccomberebbe
al sentimento e alla disarmonia narrativa, senza
l’intervento della volontà
superiore di un qualche
Dio.
È chiaro il pregiudizio
nell'Iliade: «Cantami, o
Diva, del Pelide Achille
l'ira funesta che infinita
addusse
lutti
agli
Achei.»: l'ira di Achille è
precisa in quanto funesta, ma ambigua e fuori
dal
buon
senso
in
quanto portatrice d'infiniti lutti sospesi nel tempo
divino, versione eccezionale
de ll 'ir a
d e g li
umani.
Degno di esame molto
attento è l’inizio del Don
Chisciotte. «Può capitare
che un padre abbia un
figlio brutto e senza
nessuna qualità, e l'amore che gli porta gli metta
una benda sugli occhi per
non vederne i difetti... Ma
103
La Terra non
è abbastanza
Roberto Paura
“La Terra è la culla dell’umanità, ma non si
può vivere in una culla tutta la vita”,
lo diceva nel 1911 Constantin
Ciolkovskij, padre dell’astronautica e
teorico della colonizzazione umana dello spazio. A un secolo da quella rivoluzionaria dichiarazione, la culla
dell’umanità si è fatta sempre più
stretta, scomoda e sovraffollata: volente o nolente, presto saremo costretti
davvero a lasciarla. Anche se le spaventose stime sulla sovrappopolazione
diffuse fino ai primi anni ’90 sono ormai state riviste al ribasso, tanto da
ipotizzare che entro cinquant’anni la
popolazione umana raggiungerà il suo
picco e inizierà a declinare, il problema
è un altro: le risorse.
Secondo il Wwf, nel 2030 l’umanità
avrà bisogno non di una, ma di due
Terre dato il tasso di sfruttamento delle risorse naturali.
E allora? La soluzione più equa e
auspicabile è un cambiamento nei
ritmi di vita della popolazione occidentale; ma se le cose dovessero andar
male, perché non pensare fin da subito
all’ipotesi di spalmare un po’ dei nostri
futuri figli e nipoti al di fuori del pianeta? Un documentario cinematografico
degli anni ’50 esordiva con rassicuranti parole: “É probabile che una parte
dei nipoti di coloro che oggi siedono in
questo cinema non nascerà sulla Terra”. Previsione azzardata, ma rispetto a
104
La ricerca di nuovo
“spazio vitale”
fuori dal nostro pianeta
sessant’anni fa abbiamo forse meno
visionarietà, ma più mezzi.
Per le nostre ipotesi di colonizzazione spaziale, non c’è del resto bisogno
di scomodare Alpha Centauri, la stella
più vicina al Sole (che dista pur sempre quattro anni luce, e la velocità della luce – si ricordi – è di 300.000 km al
secondo, mentre l’oggetto più veloce
costruito finora dall’Uomo, la sonda
Ulysses, non supera i 40 km/s); né
tantomeno Gliese 581G, il pianeta forse abitabile più vicino a noi che siamo
stati capaci di scovare a oggi (20 anni
luce di distanza). A dir la verità non c’è
bisogno nemmeno di uscire dall’orbita
terrestre: i luoghi migliori fuori dalla
Terra dove potremmo costruire delle
colonie abitali sono i punti lagrangiani
L4 e L5. Un punto lagrangiano (il cui
nome deriva dal matematico Lagrange
che per primo li teorizzò) è un punto
dello spazio dove l’attrazione gravitazionale tra due corpi si annulla reciprocamente, permettendo a un terzo
corpo assai più piccolo di mantenere la
posizione senza dispendio di energie.
Nel nostro caso, la Terra e la Luna creano due interessanti punti lagrangiani
allorquando le loro reciproche influenze gravitazionali si annullano, proprio
nei punti detti L4 e L5.
Il primo a sostenere la possibilità di
costruire in quei punti delle grandi
stazioni
spaziali
dove
ospitare in permanenza esseri umani
fu il fisico americano Gerald O’Neill, in
un
articolo
pubblicato
n
e
l
settembre
1974
sulla
r i v i s t a
“Phisics
Today” e intitolato,
per
non lasciar
spazio a equivoci, The
Colonization
of Space.
La NASA
s e
n e
interessò per un po’ prima di lasciar perdere a
causa della mancanza di
f
o
n
d
i
.
I problemi in realtà non
sono solo i fondi. Anche
se nei punti L4 e L5 si
possono costruire tranquillamente due grandi
città orbitanti, senza il
dispendio di energia necessario per mantenerne
la posizione, resta il
rischio
dell’esposizione
alla radiazione cosmica,
il cui effetto letale per gli
esseri umani (i raggi
cosmici ionizzano gli atomi e distruggono quindi
il Dna) viene annullato
sulla Terra dall’azione
dell’atmosfera, ma è ben
presente nello spazio
extra-atmosferico.
Ne
sanno qualcosa gli astronauti, le cui tute rendono possibile le passeggiate spaziali e – all’epoca –
le esplorazioni lunari,
ma non proteggono il
corpo a lungo termine. È
un problema tra i più
importanti da risolvere
per il rilancio dell’attività
umana
nello
spazio
perché a oggi gli astro-
nauti non possono restare troppo a lungo fuori
dall’atmosfera senza rischiare la morte. Gli abitanti delle future colonie
lagrangiane non potranno quindi difendersi solo
con la struttura esterna
della colonia: l’ipotesi
finora più accreditata è
quella di costruire uno
scudo schermante le cui
pareti esterne e interne
siano divise da svariate
tonnellate d’acqua. Una
soluzione impraticabile
per le astronavi ma forse
realizzabile per le ben
più grandi colonie spaziali. Allora, resta un altro problema: come le
costruiamo?
Si tratta naturalmente
di costruire le colonie direttamente nello spazio,
impresa difficoltosa ma
non impossibile dato che
l’assemblaggio
della
Stazione Spaziale Internazionale (ISS) ci ha già
permesso di sperimentare tecniche di costruzione in orbita.
Il problema è quello
dei costi: lanciare nello
spazio i materiali neces-
sari
costa,
tanto più numerosi (e pesanti) sono i
materiali. Per
comparazione:
la costruzione
della ISS ha
reso necessari
40 lanci dello
Space Shuttle
e della Soyuz,
e considerando che ogni
lancio
costa
intorno ai 500
milioni di dollari, siamo
già a 20 miliardi spesi.
Una colonia lagrangiana
necessiterà
di
‘qualcosina’ in più… La
soluzione sarebbe quella
di costruirla utilizzando
materiali presenti sulla
Luna: la gravità sul nostro satellite è quasi dieci volte inferiore a quella
della Terra, per cui lo
sforzo per lanciare uno
shuttle verso il cantiere
della colonia sarebbe di
gran lunga minore. Poi
potremmo far girare la
colonia su se stessa, così
da produrre una forza
gravitazionale più o meno uguale a quella terrestre, e ricreare all’interno
le condizioni normali del
ciclo biologico, così da
far prosperare piante,
colture,
animali.
E l’acqua? Come nella
ISS e nelle astronavi, si
può
riciclarla
con
un’efficienza pari quasi
al
100%,
e
con
l’elettrolisi
si
scinde
l’ossigeno dall’acqua e lo
si immette nella colonia.
Naturalmente, l’elevato
fabbisogno necessiterà di
105
106
periodici
rifornimenti.
Ma la recente conferma
dell’esistenza di acqua
nei poli lunari può essere
la soluzione. Ancora meglio sarebbe collegare le
colonie lagrangiane con
la
Terra
attraverso
ascensori orbitali (ma ne
parleremo nella prossima
puntata).
Ipotizziamo che vada
tutto bene. Potremmo
cominciare a pensare di
fare le cose in grande: le
colonie lagrangiane sarebbero inizialmente solo
sperimentali, poi ci potrebbero prosperare numerosissime famiglie.
Ma potremmo deciderci a colonizzare qualcosa
di più grande: perché
non la Luna?
L’America e Cina ci sono già ufficialmente lanciate nell’impresa di costruire una stazione lunare entro i prossimi dieci o quindici anni, per
poterla poi utilizzare con
trampolino verso Marte.
Ma
naturalmente
l’interesse di una stazione lunare non si limita a
quest’obiettivo: lì sperimenteremo la vivibilità
del nostro satellite e, se
lo trovassimo confortevole, inizieremo a espanderci. Dopo tutto, sulla
Luna ci potrebbero essere minerali molto preziosi per la Terra, soprattutto per il nostro fabbisogno energetico (v. precedente puntata).
Tecnici e scienziati sarebbero raggiunti dalle
loro famiglie e presto la
Luna brulicherebbe di
umanità. Tutto sotto co-
perta, s’intende: la Luna
è inospitale, ma nelle
grandi colonie potremmo
ricreare le stesse condizioni della Terra, assai
più facilmente che nei
punti lagrangiani dato
che avremmo la terra
sotto i piedi. E, come abbiamo visto, non mancano scorte di acqua. Le
colonie lagrangiane potrebbero in futuro diventare i punti di snodo di
un fiorente commercio
Terra-Luna, nato sulla
base di interessi economici e sviluppatosi poi al
punto da fare del nostro
satellite una seconda,
comoda casa.
A quel punto saremo
pronti per il grande balzo, quello che sogniamo
da anni: Marte. Sì, perché ci sarebbe ben poca
differenza tra la vita nelle
colonie lagrangiane e
quella sulla Luna: si
tratta pur sempre di vivere all’interno di una
grossa scatola, senza
mai vedere direttamente
il sole e respirare l’aria
aperta. Su Marte le cose
potrebbero andare diversamente: potremmo decidere di terraformarlo.
Per
“terraformazione”
s’intende il processo artificiale tramite il quale si
ritiene possibile rendere
un pianeta simile alla
Terra nei suoi parametri
fondamentali di vivibilità. Marte ha già un vantaggio non da poco: un
periodo di rotazione su
se stesso quasi uguale al
nostro, lungo 24 ore e
trentanove minuti; in
questo modo non distin-
gueremo la differenza
con
la
Terra
nell’alternarsi del giorno
e della notte. L’anno solare sarà lungo il doppio,
il che vorrebbe dire un
raddoppio dei tempi delle
stagioni. Ma non è un
problema.
Il
problema
è
l’atmosfera:
estremamente rarefatta e irrespirabile in quanto composta per il 95% da letale
anidride carbonica.
E l’acqua. Su Marte ce
n’è in abbondanza, ma
ghiacciata.
La prima cosa da fare,
quindi,
è
estrarla.
Costruendo una serie di
impianti, potrebbe essere
possibile
pompare
nell’atmosfera marziana
gas serra, tali da trattenere il calore sulla superficie
e
aumentare
quindi la temperatura
(che oggi oscilla da una
minima
proibitiva
di
-140° a una gradevole
massima di 20 gradi nella stagione estiva). Con
l’aumento della temperatura, l’acqua tornerebbe
a scorrere allo stato liquido sulla superficie
marziana, com’era in
passato. Il clima comincerebbe a diventare favorevole allo sviluppo di
alcune piante (e di
microrganismi)
che
verrebbero
impiantate
dai coloni, permettendo
la fotosintesi e quindi
l ’ i m m i s s i o n e
nell’atmosfera di ossigeno. La superficie tornerebbe a diventare fertile,
l’aria respirabile, la vita
possibile.
È un sogno, ma sulla
carta è tutto assolutamente possibile. Certo, ci
vorranno soldi; e i tempi
saranno molto lunghi:
nel migliore dei casi, due
o tre secoli.
Ma il tempo c’è, se
l’umanità avrà pazienza.
Da qui a cinquecento anni, Marte diventerebbe
una nuova Terra, abitabile da un miliardo di
persone. Magari i marziani non potrebbero
parlare al telefono o in
videochat con i parenti
terrestri, per via dei 6
minuti di intervallo che
separano le comunicazioni tra i due pianeti,
ma nulla impedirebbe
uno scambio regolare di
e-mail e una chat con
qualche minuto appena
di ritardo nelle risposte.
I trasporti sarebbero
lunghi, ma con l’evolversi
dei sistemi propulsivi,
allo stato attuale delle
conoscenze, si può ipotizzare che un viaggio
Terra-Marte (o viceversa)
duri intorno alle quattro
settimane. In fin dei conti, la vita per un marziano tornerebbe a essere
per un po’ quella dei coloni del Far West. Ne
varrebbe sicuramente la
pena (oltre al fatto che,
per via della ridotta gravità, gli umani di origine
marziana sarebbero più
alti di noi, oltre due metri; ma avrebbero difficoltà a deambulare sulla
pesante, vecchia Terra).
Spingendoci
ancora
più in là, supereremmo
la fascia degli asteroidi
(preziosa fonte di materie
pianeta Marte
prime per le colonie spaziali) e ci ritroveremmo
dall’altra parte del sistema solare, dominata dai
giganti gassosi. Non c’è
alcun modo di vivere su
Giove, su Saturno, Urano o Nettuno, ma intorno
a questi enormi mondi
inospitali ci sono pur
sempre
delle
lune,
paradossalmente
assai
più vivibili della nostra.
Su Europa, luna di
Giove, ci sono oceani di
acqua allo stato liquido
appena sotto la superficie ghiacciata, e una
tenue atmosfera di ossigeno. Certo, le temperatura sono proibitive per
via della lontananza dal
Sole, ma future colonie
ben sigillate potrebbero
sopravvivere
senza
nessun bisogno di dipendere dall’esterno.
Anche Ganimede possiede acqua in gran
quantità sotto la superficie, oltre a ossigeno
nell’atmosfera, ed è ben
più di una luna: è infatti
più grande di Mercurio, e
possiede
persino
un
campo magnetico, cosa
che lo rende poco esposto al pericolo dei raggi
cosmici.
Spingendoci
oltre,
troveremo Titano, la più
grande luna di Saturno,
di poco più piccolo di
Ganimede. Titano possiede
una
densa
a t m o s f e r a
d i
metano, e il metano
scorre allo stato liquido
in oceani, fiumi e bacini,
tra i quali si stagliano
grandi continenti. Geograficamente, Titano è
quindi il corpo spaziale
più simile alla Terra. È
un mondo invivibile, ma
terribilmente simile alla
nostra Terra primitiva.
La terraformazione di
Titano non è al momento
ipotizzabile, a causa dei
problemi derivanti dalle
possibili reazioni chimiche. Ma tutto sommato
sarebbe un posticino interessante da visitare,
una volta cautelatisi dal
m e t a n o
e
dall’ammoniaca; e anche
un posto vivibile, perché
di acqua ce n’è sicuramente sotto la superficie.
Comunque, queste sono solo soluzioni di ripiego. Un giorno lontano
potremo decidere di metterci tutti in una grande
astronave e lanciarci negli abissi cosmici, verso
nuove Terre abitabili,
che scopriremo sicuramente nel corso dei prossimi vent’anni grazie agli
straordinari
successi
dell’esoplanetologia.
Da qui ad arrivarci è
un bel paio di maniche,
ma le cose vanno fatte
un passo alla volta.
107
108
io, che benché sembri padre, non sono in realtà
che patrigno di Don Chisciotte, non intendo seguire la corrente». Dopo
avere precisato situazione
e protagonista iniziali della storia, Cervantes ne
prende le distanze in modo netto, non intendendo
seguire la corrente del padre che non vede i difetti
del figlio. Cervantes ne è
solo il patrigno: termine
preciso
ed
ambiguo
insieme che denota la realtà letteraria precisa di
un autore che si serve del
suo personaggio, che non
lo ama per tendenza e
legge naturale. Il termine
“patrigno” è ambiguo comunque, però: coinvolgerà il lettore in termini affettivi impuri, subalterni
agli eventi stessi e al giudizio da darne successivamente in base a criteri
narrativi. Il figliastro si
meriterà commenti in
funzione del suo comportamento, a posteriori e
non secondo un a priori
affettivo. A priori è però
chiara la vanità che ispira
il protagonista: la stortura della impudente strada
imboccata
a
dispetto
dell’età avanzata. Don
Chisciotte che evade dalla
realtà prosaica delle campagne della Mancha è una vittima predestinata,
prigioniero del suo fantasticare su pulzelle minacciate, nemici cavalieri, giganti ed incantatori. La
definizione della narrazione inizia così, precisa ma
ambigua nella coincidenza di sentimento e volontà
dell’autore. Il leit motiv
del
romanzo
ha
origine qui, nella tendenza iniziale di un percorso
stilistico personale, che
s’evolverà per contrasto,
cioè per l'intervenire nel
racconto di tendenze contrarie al leit motiv stesso,
disegnando la fase dinamica della narrazione. Infatti è nel contrasto che
nasce l’accelerazione degli
eventi. Don Chisciotte si
scontra con la realtà prosaica delle campagne della Mancha, contadini e
contadine, viaggiatori, osti ed animali mentre la
sua fantasia crea immagini di pulzelle minacciate,
cavalieri
nemici,
giganti ed incantatori: il
contrasto accelera gli
eventi, tragico e comico
scaturiscono naturalmente dal racconto dei contrasti tra le letture sui cavalieri erranti e le realtà
contadine, tra il riscontro
dei fatti e le parole incomprensibili che il nostro
povero eroe declama nel
suo delirio in cui è vero
ciò che è falso, in cui le
immagini stesse soggiacciono al predominio delle
parole, come è naturale in
un mondo letterario... come è naturale che le parole esprimano la loro potenzialità ambigua, il sovvertimento dei fatti tramite il racconto, sovvertimento qui addirittura diventato tristemente umano nel Cavaliere dalla triste figura.
Letterarietà di immagini e parole: il potere di
queste su quelle produce
il ribaltamento del loro
rapporto, facendo prose-
guire il leit motiv del
mondo falso dei cavalieri
erranti che vuol essere
reale, proprio come i libri
letti su di loro, pur non
essendo presente, per cui
le letture ri-scrivono la
realtà degli eventi, ma poi
vengono sempre amaramente
sconfitte.
Ribaltamenti
e
ri-scritture della realtà di
immagini e parole portano la letterarietà all'apice
espressivo nel libro di
Cervantes. Viene continuamente
rivelata
la
superiorità della realtà
delle parole laddove la loro ambiguità esprime appieno le potenzialità della
letteratura, relegando le
immagini
all'univocità
singolare della rappresentazione diretta. Proprio
nell'ambiguità della parola risalta la letterarietà
della forma narrativa.
È il tempo della parola
che si estende al di là di
quello contingente delle
immagini.
Mentre l'immagine non
può mostrare il non immaginato, la parola dice
anche il non detto, racchiude anche il silenzio,
cioè il mondo ambiguo e
sentimentale nascosto tra
le pause della finzione
narrativa che il lettore
riempie a suo piacimento.
Nel caso del Don Chisciotte, l'immagine della
realtà effettiva, non cavalleresca, può solo evidenziare che l'invenzione letteraria del mondo fantastico porta sempre più
l'eroe alla follia dell'incomprensione delle cose,
ma anche che egli può
continuare
a
fingere
finché l'inverosimile è
funzionale alla strategia
narrativa. Finché l'emozione di fondo dell'Autore
non è stata espressa compiutamente e l'ambiguità
non ha più ragione di essere nel racconto. Quindi
il mondo fantastico creato
dai libri sui cavalieri erranti diventa visibile anche aldilà di quello che
Don Chisciotte vede realmente, perché ciò che vede la mente è predominante rispetto a ciò che
vedono gli occhi, le parole
arrivano direttamente alla
fantasia prima che le
immagini passino dallo
sguardo. Le parole del romanzo impongono la precisione ambigua che il
mondo cavalleresco ha
assunto per il protagonista. Almeno fino a che
qualcosa
d'imprevisto
succede, segnando una
svolta nel racconto e nella
strategia narrativa.
Ciò che ci preme a questo punto è sottolineare il
procedere della narrazione per contrasti accelerativi degli eventi raccontati.
È come se l'autista che
stava guidando a cinquanta chilometri l'ora
improvvisamente dovesse
aumentare la velocità al
doppio, per raggiungere
un traguardo diventato
improvvisamente
importante,
come
ad
esempio
raggiungere
l'ospedale dove il passeggero di fianco a lui possa
trovare assistenza. Allora
da autista si trasforma in
pilota,
la
strada
diventa più stretta e pericolosa, le sue capacità
vengono messe alla prova, coraggio e lucidità devono
soccorrerlo
necessariamente. Così ha
luogo la trasformazione
del protagonista in campione, o in eroe persino
(che sia positivo o negativo poco importa in termini letterari, anche se rilevante per la storia). Ma
perché ciò avvenga, è necessario che la realtà precedente al contrasto venga alterata in deformazione della stessa, cioè che
ci sia una perdita: perdita
delle caratteristiche e dei
caratteri della realtà precedente (al contrasto). Il
Cavaliere dalla Triste Figura è un campione prodotto
dall'accelerazione
della realtà che si verifica
quando il buon Quijote
abbandona il villaggio domestico e le sue strade
conosciute e limitate,
dando spazio così al
contrasto,
creato
con
quell'ambiente di riferimento dal mondo fantastico e letterario delle narrazioni cavalleresche. Deformazione e trasformazione, quindi: perché Don
Chisciotte diventi campione che sfida giganti, cavalieri ostili ed incantatori,
bisogna che la realtà perda le caratteristiche solite, paesane e contadine
della Mancha, che le locande si trasformino in
castelli e che le immagini
reali siano trasfigurate
dalle parole delle narrazioni cavalleresche, di cui
s'è cibata la mente del
Chisciotte. Così la parola
del Cervantes crea il
mondo magico, letterario
del
suo
maturo
«Campione dall'argentea
barba» come un susseguirsi fantastico ed amaro
di avventure in cui la letterarietà straordinaria è
proprio nella paradossale
sudditanza delle immagin
i
reali alle parole del racconto, il precipitare del
reale nelle invenzioni della strategia della narrazione, una strategia sdoppiata: da una parte quella
dell'Autore che domina
l'emozione di fondo del
racconto nella consapevol e z z a
d e l l a
falsità
dell'invenzione
narrativa; dall'altra la
strategia del Campione
Don Chisciotte, in cui la
passione che l'ha spinto
dentro una realtà deformata diventa travolgente,
tanto
più
quanto
mostri,
ossessioni,
incubi e demoni emergono
come
creature
spontanee in un percorso
sempre più rapido ed imprevedibile
verso
l'ignoto di nuove realtà,
che non possono corrispondere alle parole di
precedenti
narrazioni
(quelle cavalleresche). La
trasformazione reale è imprevedibile, ben aldilà del
lei motiv del mondo cavalleresco. Quindi deformazione e trasformazione
sono momenti necessari
della narrazione letteraria, forme dinamiche in
cui
è
possibile
l'identità tra vita ed arte,
anche ai livelli più fanta109
110
stici di realtà inventate
dalle parole.
Il Don Chisciotte è solo
l'esempio -forse il più alto
- di questa narrazione letteraria, ma in tutte le opere vere, racconti o romanzi, poemi o fiabe, la
parola procede lungo un
leit motiv, si sviluppa
dentro contrasti che accelerano gli eventi, e l'accelerazione porta a deformazione e trasformazione
delle realtà rappresentate
artisticamente. Prima di
portare altri esempi in tal
senso, vorrei chiarire gli
elementi della deformazione e della trasformazione di situazioni e
personaggi
della
narrazione.
La deformazione comporta principalmente la
perdita: la realtà precedente perde le sue caratteristiche nel presente,
assumendo
forme
e
contenuti diversi dal normale, proprio perché la
deformazione non le rende più riconoscibili come
parti del presente. La perdita della forma nota verificabile nel presente dà
luogo a mostri, ossessioni, paure ed incubi, demoni e fantasmi (vedi
«Cavaliere dalla Triste Figura»). Eventi, personaggi
e psicologie del racconto,
ivi
compresa
quella
dell'Autore, lasciano il
terreno delle certezze e la
direzione nota del leit
motiv. Il percorso nella
realtà è cambiato: il fondo
stradale non è più liscio e
piano, diritto e prevedibile. L'autista (i protagonisti, l'Autore stesso) deve
fare uno sforzo nella guida, è obbligato ad accelerare in condizioni di difficoltà
ed
ostacoli
crescenti.
Il contrasto ha provocato l'accelerazione degli
eventi, solo l'Autore può
prenderne le distanze.
I personaggi possono tutto al più andare in cerca
d'Autore, vivere gli eventi
senza uscire dal teatro
arduo della vita, in cui
perdita e scoperta, azione
e reazione sono figure necessarie dell'incontro tra
parole ed immagini, vita e
letterarietà. Solo l'Autore
possiede l'ironia e la volontà che lo rendono superiore al senso di perdita, ossessioni ed incubi
fanno parte della sua
consapevolezza. Solo lui
può guidare i personaggi
verso la loro trasformazione in presenze coraggiose
e lucidamente presenti
nel precipitare degli eventi narrati, farli divenire i
nostri campioni che sfidano l'ignoto esorcizzando
la nostra inesperienza
personale, inevitabile davanti alla vita intesa
come narrazione dai mille
risvolti possibili. Qui è
piena la nostra identificazione coi personaggi: non
possediamo né l'ironia né
la consapevolezza totale
dell'Autore delle nostre
vite, come i personaggi
della narrazione siamo
dentro un ciclo vorticoso
di cui ignoriamo la strategia. L’inizio e la fine. Come i personaggi della narrazione, siamo di fronte a
nascita e morte, a eventi
magnifici o terribili, di-
screti o dispettosi, che ci
spingono all'accettazione
e alla forza di reazione,
alla riflessione e alla passione, nel coraggio e nella
paura, nell'esagerazione e
nella
moderazione:
nell'impossibilità
di
conoscere
il
percorso
disegnato per noi da una
strategia superiore, logica
ma arbitraria, pertinente
a una realtà che solo in
rari momenti si svela,
quando, incrociando le
nostre
strade
di
poveri e gioiosi viandanti,
lascia alcune passeggere
tracce del senso della fine
di ciascuno di noi. Il racconto finirà con un qualche ricordo indelebile del
nostro inizio, l'ignoto della
fine avrà un'attinenza inconscia ed arbitraria colla
nostra nascita. Così è anche per la fine del racconto, o del romanzo: l'azione
cesserà, lasciando solo in
noi lettori la calma di emozioni che forse non immaginavamo
neanche.
Non conoscevamo così a
fondo certi particolari significativi del nostro esistere, prima di leggerli.
Come scrive Kundera ne
L’arte del romanzo : «Il
romanzo deve raccontare
solo ciò che il romanzo
può conoscere». E ciò che
può
conoscere
è
l’attinenza emotiva tra
fatti e persone che sembrano non averne alcuna
inizialmente, a partire
dall’urto dell’incipit.
Pater
Noster
Pia Barletta
Hai iniziato diversi anni fa con pubblicazioni rivolte alla scuola, tra cui
un volume che parla di sicurezza sul
lavoro. Questa esperienza ti ha in
qualche
modo
agevolato
nell’approccio con gli editori?
Quando lavori per un grande
editore, impari subito a mettere in discussione ciò che scrivi. La maggior
parte degli autori è convinta che il
risultato della propria arte sia perfetto
e immutabile: soddisfa loro e quindi
deve essere soddisfacente per tutti, in
senso assoluto. In questo equilibrio
universale, la modifica anche solo di
una virgola o di una parola è un
delitto. Imparare che le cose non
stanno affatto così è doloroso ma indispensabile per poter crescere come
scrittore. Qualche mese prima
dell’uscita di Pater Noster ero al telefono con un editor di Pearson, per cui
scrivo prettamente articoli di diritto.
Quando gli ho spiegato che avrei curato la raccolta mi ha detto “Allora farai
il mio lavoro”. E aveva ragione.
L’esperienza maturata negli anni mi ha
aiutato quando mi sono trovato
“dall’altra parte”, non solo autore ma
soprattutto curatore.
Oltre a scrivere, e naturalmente agli
impegni lavorativi, collabori con
riviste e giornali online, sei membro
della giuria di alcuni premi, organizzi presentazioni di autori emergenti.
Come riesci a conciliare il tutto?
Le interviste
di
BraviAutori
Intervista ad Andrea
Borla, curatore della
raccolta Pater Noster
Soprattutto negli ultimi tempi, cercare un equilibrio tra le mie attività sta
diventando problematico. Questo non
significa che mi dia per vinto, ma mi
ha costretto a rallentare i tempi delle
pubblicazioni. Ho diversi romanzi nel
cassetto a cui purtroppo non riesco a
dedicare il tempo necessario. Nei prossimi mesi dovrò assolutamente darmi
da fare, concentrandomi sulla promozione delle mie opere.
Parliamo di Pater Noster, la tua ultima fatica letteraria, in cui troviamo
altri talenti più o meno conosciuti,
come è iniziata, da dove è partita
l’idea? E perché il titolo di una
preghiera?
Sono convinto che le strofe del Padre
Nostro nascondano una forza incredibile. È una preghiera conosciuta da
tutti, atei e credenti, e forse per questo
spesso banalizzata. Eppure i suoi versi
sono una fonte inesauribile di meditazione e, di conseguenza, da essi può
nascere l’ispirazione per la scrittura.
La mia intenzione iniziale era di
scrivere tutti i racconti, ma mi sono
accorto che alcune strofe sembravano
perfette come titoli di opere di giovani
autori che apprezzavo. Così ho pensato
di coinvolgerli, riservandomi il ruolo di
curatore. Una volta fissata l’idea
principale, mi sono concentrato sulla
cornice che doveva racchiudere i
singoli racconti, costituita
dall’introduzione (Nel nome del Padre,
111
del Figlio e dello Spirito
Santo) e dal racconto
conclusivo (Amen).
Questa raccolta comprende racconti di generi più disparati. È
stata una tua scelta o
hai lasciato che gli
autori si esprimessero
come meglio ritenevano opportuno?
Il filone principale è
costituito da racconti
thriller e noir, a cui si
accompagnano
alcuni
testi di genere fantastico.
La raccolta è coerente
con le tematiche di molte
pubblicazioni
delle
Edizioni Il Foglio e, infatti, comprende opere di
autori scoperti da questa
Casa Editrice. Il filo conduttore è evidenziato dal
sottotitolo: dodici vittime
per cui pregare. La presenza della vittima, che
spesso finisce per confondersi e scambiarsi di
posto con il carnefice, è il
vero elemento comune.
Due soli racconti si discostano
dal
filone
principale
per
stile e meccanismi narrativi, due testi più intimisti e concentrati sugli aspetti psicologici dei personaggi. In uno di essi
(Venga il tuo regno di
Alessandro Del Gaudio)
la vittima è addirittura
presentata in senso metaforico: un musicista e
compositore un tempo
famoso costretto a fare i
conti con lo show business.
112
Come definiresti questa esperienza?
Il libro comincia con
una considerazione: il
miglior modo per farsi
dei nemici è curare una
raccolta di racconti. Ma,
scherzi
a
parte,
l’avventura
di
Pater
Noster mi ha dato notevoli soddisfazioni. La sfida era davvero complessa: realizzare una raccolta in cui l’ordine dei racconti non è modificabile
dal curatore, ma che deve seguire obbligatoriamente i versi
della
preghiera.
Questa
peculiarità
rende
indispensabile una buona dote di flessibilità da
parte degli autori, che
devono mettersi al servizio della raccolta stessa.
È stato spesso indispensabile che i racconti venissero modificati dai loro autori per adattarsi a
questo o quel verso. È
stato complicato, ma sono contento del risultato
finale.
Nell’introduzione e nel
racconto
conclusivo,
entrambi scritti da te,
compare Piero Scacchi.
È un personaggio che
ritorna sovente nelle
tue opere. C’è un motivo particolare per cui
sei così legato a lui?
Piero Scacchi è il protagonista del mio romanzo Odio e, in maniera indiretta, del successivo
Cerchi, nonché di altri
tre romanzi ancora chiusi nel mio hard disk.
Piero è un trentenne
condannato
per
un
omicidio, che sconta la
sua pena in carcere.
Sente il bisogno di comprendere se stesso e,
quindi, si trova di fronte
a due strade: parlare con
il cappellano o con lo
psicologo del carcere.
Visto che non è pentito
di quel che ha fatto e ritiene di non dover chiedere perdono a nessuno,
scarta la via religiosa.
Scacchi diviene così un
nuovo Zeno Cosini, che
scrive ricordi e racconti
per il suo psicologo. È un
uomo alla ricerca di se
stesso e in questo mi riconosco pienamente in
lui. In più, è in costante
oscillazione tra il bene e
il male, una condizione
che lo accomuna ai suoi
compagni di cella, un
maestro elementare condannato per omicidio e
pedofilia (il Professore), e
un trafficante di droga
(Carlos).
Don Lorenzo è un personaggio emblematico:
rappresenta la linea di
confine tra due sentimenti, in questo caso
fede e amore. Quanto,
secondo te, è sottile
questa linea?
La fede e l’amore hanno molto in comune, in
primo luogo l’abbandono
volontario di se stessi a
un sentimento che ci
spinge al di là della ragione. Quello che volevo
però evidenziare è il rapporto conflittuale che si
crea tra le restrizioni che
la fede porta con sé
se si scontrano con
l’amore per una donna o
un uomo. La linea sottile
diventa in quel momento
un muro, che ognuno di
noi può decidere di scavalcare o meno. Entrambe le scelte portano tuttavia a una rinuncia e a
un tradimento. È una
situazione di stallo in
cui, qualunque mossa si
scelga, non si può che
perdere.
Vuoi darci un cenno sugli altri autori?
Sono felice che autori
con cui ho un rapporto
stretto e di cui apprezzo
le opere abbiano accettato la sfida di confrontarsi
con Pater Noster. Oltre
ad Alessandro Del Gaud i o ,
t r o v i a m o
Emiliano
Maramonte
(Sia fatta la tua volontà)
che dimostra una grande
abilità letteraria quando,
con una manciata di parole, catapulta il lettore
in un mondo alternativo.
Gordiano Lupi si ispira a
Gloria Guida per un Non
ci indurre in tentazione
improntato sulla fantasia
e sul ricordo. Maurizio
Cometto (Come in cielo
così in terra) propone una figura di frate che
molto ricorda Padre Pio,
vista con gli occhi di un
bambino di campagna, e
che utilizza l’elemento
fantastico per sconvolgere le attese del lettore.
Conoscevi tutti gli autori della raccolta?
Recensione di
AA.VV., una sigla che a volte invoglia il lettore indeciso, fiducioso che tra
tanti autori di sicuro ce ne sarà qualcuno che ha scritto un bel racconto. Nel
Pia Barletta
nostro caso la scelta non delude. Pater Noster, una preghiera, forse la più conosciuta, altro non è che una serie di dodici versi e ognuno di essi diventa per
l’occasione il titolo di un racconto. Horror, thriller, fantastico e intimistico si
susseguono pronti a soddisfare i gusti di tutti. Nel nome del Padre, del Figlio e
dello Spirito Santo inizia con una domanda che è una premessa: cosa induce
un prete a recarsi in carcere per portare un santino a un detenuto?
E Piero Scacchi, il destinatario del santino, in che modo potrebbe aiutare il
prete? A Piero piacciono i racconti, è senz’altro la persona più indicata per
entrare nella psicologia dei personaggi, e così ci accompagna in un viaggio
che fa da corollario, iniziando in una clinica psichiatrica per poi continuare tra
suocere assassine.
“Attento a ciò che desideri” potrebbe essere il motto di un sito internet,
mentre delle semplici parole potrebbero trasformarsi in uno strumento atto a
decretare la fama e il successo altrui.
Una corsa affannosa per sfuggire a una condanna sommaria ci squasserà il
petto,
presagi che vengono dal cielo potrebbero confonderci e mettere in diPater Noster
scussione la nostra fede e, ancora, ciò che fino a un attimo prima rappresentaA.A V.V.
va il nostro ideale potrebbe rivelarsi una verità troppo banale per volerla
accettare.
Ci chiederemo se Sophie sia una vittima sacrificale o pioniera di una nuova
era. Percepiremo in maniera palpabile il senso di colpa di Renaud e
l’ossessione per un sex symbol, e soprattutto capiremo quando quella che agli altri sembra follia è
la consapevolezza del male che affonda le sue radici fino a toccare punti profondi.
Pregare per un innocente, è questo che vuole si faccia Don Michele. Tuttavia, dopo aver letto
l’intero libro, avremo molti dubbi in più: ci chiederemo se la vittima è sempre innocente in quanto
vittima o se talvolta è più colpevole del suo assassino. Piero Scacchi comprende, il motivo della
reticenza del “colpevole” è sotto i suoi occhi, innocenza e colpevolezza diventano due concetti
suscettibili di diverse interpretazioni, si intersecano, si intrecciano fino a confondersi.
Andrea Borla, il curatore, ha abilmente introdotto una sorta di preparazione all’epilogo, traccia
una rotta, e tutti gli autori assolvono egregiamente il loro compito, attenendosi rigorosamente al
tema del verso. Nessun racconto è l’inizio o il prosieguo di un altro, nessuna storia somiglia a
un’altra e questo fa sì che l’attenzione del lettore sia sempre desta. Noi percorriamo l’itinerario
costruito per noi con emozione, riflettiamo sui temi scottanti trattati e l’ultimo titolo, Amen, lo
lasciamo un attimo sospeso, lo pregustiamo e nello stesso tempo avvertiamo il doloroso senso del
distacco.
113
No,
anche
perché
un’opera letteraria basata soltanto sui rapporti
interpersonali ha ottime
probabilità di affossarsi
sul nascere. Grazia a Pater Noster ho potuto conoscere ottimi scrittori
come Fabio Lastrucci,
che avevo già apprezzato
nella raccolta Veleno
(Edizioni Il Foglio), che in
Come noi li rimettiamo ai
nostri debitori presenta
una storia di ambientazione medievale, o Laura
Fidaleo, l’unica scrittrice
che ha partecipato a Pater Noster, autrice di uno
dei racconti che ritengo
meglio riusciti. Il suo
Dacci oggi il nostro pane
quotidiano è incentrato
sulla disillusione di un
fan che si trova di fronte
al suo scrittore preferito,
idolatrato sino a renderlo
un dio, e scopre che si
tratta soltanto di un uomo come tanti. Alessio
Gradogna (Rimetti a noi i
nostri debiti) scandaglia
la personalità di un assassino convinto che le
sue azioni siano guidate
da un disegno superiore
e siano votate al bene.
114
Molti autori hanno rappresentato
situazioni
drammatiche consumate in famiglia.
La raccolta inizia con
tre racconti incentrati
proprio su questo tema.
In Padre Nostro Simone
Pazzaglia ci presenta un
uomo
che
ripercorre
inconsapevolmente le orme del padre e, inevitabilmente, commette i
suoi stessi errori, che po-
tremmo anche chiamare
“peccati”, nei confronti
della famiglia. Valerio
Biagi, in Che sei nei cieli,
descrive la contrapposizione tra genero e suocera scambiando la prospettiva tra vittima e carnefice. Sia Santificato il
tuo nome di Alessandro
Napolitano descrive il dolore per la perdita della
persona amata e costringe il protagonista a confrontarsi con il suo desiderio di rivederla a tutti i
costi. Il tema emerge anche nei racconti successivi, come in Ma liberaci
dal male di Matteo Gambaro, incentrato su un
episodio di violenza dom e s t i c a
c h e
pone un interrogativo inquietante: chi commette
un omicidio per punire
una persona che si è
macchiata
di
un
crimine ancor più grande, è in qualche modo
giustificabile?
Versatile e poliedrico ti
definisco io, tu Giovane
Aspirante
Scrittore
Famoso (G.A.S.F). È
una promessa?
Sto pensando seriamente di eliminare il
“Giovane” dall’acronimo,
perché gli anni passano.
Rimarrà solo “Aspirante”,
che non si capisce se riferito a “Scrittore” o a
“Famoso”. Ogni volta che
ci penso mi vengono in
mente le parole di mia
cugina Elisa: “Cosa te ne
frega di diventare famoso? Devi diventare ricco!”. A volte credo che
abbia ragione lei, oppure
che, alla fine, l’unica cosa che importi veramente
nella vita sia essere sempre aspiranti a qualcosa.
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