Emozioni sul mare

Transcript

Emozioni sul mare
!"#$%#&%'()*'"+,!"#$%#&%'()*'"+,-'6',+..#&/%'-'0#-(%-
8*'"+,-'0,#/+1#&%(/+'+'39:4;'*<+"=%-&/-'-'%*'0+-(+11%#'.#(/%-,#>
%'*)#1?%'-'*-'/,+2%$%#&%'"+,%&+,-(.?->
*-'0,#@-((%#&%'"+,%&->'*+'=+,.+'-'*<+,/-'2-*'&+A%1+,->
"+'+&.?-'(-"0*%.%'-"#$%#&%'A%(()/-'()**+',%A+'#'(#//#'*<#"=,-**#&)&'0+,/%.#*+,->')&',%.#,2#>')&'2-//+1*%#'.+//),+/#
2),+&/-'*-'A+.+&$->'*-'%"0,-((%#&%'2%')&'A%+11%#'%&'&+A-B
C#&#'(#*#'+*.)&-'2-**-'-(0-,%-&$-'.?-'%*'"+,-'D'%&'1,+2#
2%'#@@,%,-'-'.?-'#1&)&#>'0)E'/,+")/+,-'%&'0+,#*-BBB
,+..#&/%'-'0#-(%-
*-'"%1*%#,%'#0-,2-*'34'.#&.#,(#'*-//-,+,%#
#,1+&%$$+/#''2+**5+0%/+&-,%-'2%'0#,/#'6'7)+,2%+'5#(/%-,+
Emozioni sul mare
racconti e poesie
le migliori opere
del 3° concorso letterario
organizzato dalle
Capitanerie di porto - Guardia Costiera
Prefazione
A volte mi chiedo perché il mare sia da sempre fonte d’ispirazione del
pensiero umano nel quale suscita emozioni spesso tramutate, con modi e
forme diverse, in arte. Forse il fascino di questa enorme massa d’acqua, creatrice di vita e in perpetuo movimento, sta nell’armonia di colori che come
in un caleidoscopio cambiano al variare della luce e della profondità dei fondali. O forse è dovuto a quello che le sue acque racchiudono, custodi di segreti, tragedie e tesori che solo di rado vengono svelati agli occhi degli
uomini ma fanno sognare infinite storie. Potrebbe anche essere quella sottile
paura che il mare provoca in chi vi si avvicina per la prima volta a scatenare
nell’animo una voglia creatrice, quasi a esorcizzare uno stato di disagio dovuto alla mancanza di conoscenza. Ma la risposta più ovvia, e forse quella
giusta, è che il mare ha una bellezza intrinseca incomparabile con qualsiasi
altra espressione della natura: un mondo nel mondo, da conoscere, rispettare
e amare e anche da raccontare. In queste pagine abbiamo voluto raccogliere
alcune delle tante opere inviate da chi, come noi della Guardia costiera, vive
il mare con occhi diversi, cogliendone aspetti nascosti. Questo è anche il fine
di “Emozioni sul mare”, concorso letterario giunto alla sua terza edizione al
quale hanno aderito centinaia di autori che ringrazio sinceramente per aver
contribuito, in modo diverso ma non per questo meno efficace, a diffondere
la conoscenza del “grande blu”.
Amm. Isp.Capo
Pierluigi Cacioppo
Comandante Generale
delle Capitanerie di porto – Guardia Costiera
-5-
Racconti selezionati
Tu stendi il cielo come una tenda,
costruisci sulle acque la tua dimora.
Salmo 103
E videro montagne
e nei mari un arcobaleno…
Bisbiglia il verso della canzone della vita
e il brivido della morte.
All’ombra delle navi
il canto è perdono.
A loro, a quei Nomi.
Perché c’erano tutti i nomi in quella vasta acqua della terra,
che si fusero in canto.
Francesca Lo Bue
I primi dieci racconti
Shalmàt
Giulia Parri
Nadir aveva sete. Tutti avevano sete. Ma l’acqua ormai era finita. Manca
poco aveva detto l’uomo del timone, ma l’aveva detto già da tanto tempo.
Era una notte senza fine, una notte senza luna, sul mare nero, su quella barca
di sudore e di lamenti. E Nadir aveva paura del buio, perché nel buio si muove
lo spirito di Kalfat, il gigante che vive al centro della Terra e anche lo spirito
di Mohadin, la strega che divora lucertole.
«Mamma ho sete.»
Ma lo sapeva, non sarebbe servito a niente. E intorno era sempre tutto
buio. Solo rumori. La prua della barca che schiaffeggiava l’onda, i cigolii del
legno decrepito, una canzone, che Nadir non aveva mai sentito, e che veniva
dal fondo della barca, da una voce di ragazza. Si strinse al corpo di sua madre.
L’aria della notte era fredda e Nadir non l’aveva mai conosciuto il freddo.
«Mamma perché è tanto freddo?»
«Dormi Nadir, dormi, ti sveglio io appena arriviamo.»
Ma non ce la faceva a dormire. Aveva sonno, ma non ce la faceva. Poi
qualcuno cominciò a gridare. Ora il buio era ricamato da luci gialle, lontane.
Le onde sollevavano la barca e quasi la rovesciavano. Ora tutti gridavano.
Nadir pensò a Shalmàt, lo spirito bianco che aiuta i bambini coraggiosi. Doveva essere coraggioso. Se non fosse stato coraggioso Shalmàt non lo avrebbe
aiutato. Vide l’uomo del timone che veniva verso di loro. Camminava oscillando e mentre si avvicinava afferrava tutti quelli che incontrava e li spingeva
in mare. Pensò a sua madre che non sapeva nuotare. La vide con gli occhi
sbarrati di terrore.
I«n acqua, tutti in acqua. Se restate sopra finirete contro la scogliera.»
Gridava l’uomo del timone e mentre gridava scaraventava in acqua le
donne, gli uomini, i bambini. E ormai era arrivato davanti a loro. Nadir lo
vide mentre afferrava il vestito di sua madre.
«In acqua!»
«Non so nuotare!»
«In acqua!»
- 10 -
Lui non aspettò le mani dell’uomo del timone. Doveva essere coraggioso.
Doveva essere degno dell’aiuto di Shalmàt. E poi lui sapeva nuotare.
L’acqua era gelida. Gelida e nera.
«Nadir!»
Era la voce di sua madre. Vide la schiuma bianca che sollevava con le
braccia. Appariva e scompariva da tutto quel nero.
«Mamma!»
Ce la fece Nadir. Sentì le braccia gelate di sua madre e il suo respiro affannoso. Ma in quello stesso momento seppe che non ce l’avrebbe fatta. Era
troppo piccolo, troppo debole, troppo impaurito per riuscirci. Non ce
l’avrebbe fatta a tenere sua madre a galla. E infatti passarono solo pochi attimi. Le gambe di Nadir si erano fatte pesanti. Il freddo dell’acqua ormai le
teneva quasi immobili. Sua madre non gridava più. Si lasciava risucchiare da
buio.
Oh Shalmàt, Shalmàt, perché non ci aiuti? Forse che io non sono stato
abbastanza coraggioso?
Una luce come Nadir non aveva mai visto, mai nemmeno immaginato,
illuminò le onde. Illuminò il mare, le mani disperate che battevano l’acqua,
la fiancata celeste della barca, il volto gelido di sua madre e lui stesso. Nadir
si voltò. Si voltò e lo vide. Bianco, luminoso, dritto sul mare. Shalmàt! Lo
aveva sempre immaginato così. Bianco e circondato di luce. Allora ce l’aveva
fatta. Era stato abbastanza coraggioso. Era stato come voleva Shalmàt.
Poi vide la figura bianca piegarsi verso di lui. Sentì la forza di due mani
che lo afferravano, lo sollevavano da tutto quel freddo. Vide, o credette di
vedere, altri Shalmàt, tutti bianchi e luminosi, che sollevavano dall’acqua
altri bambini come lui e sua madre e altre madri. Poi chiuse gli occhi e lasciò
che la stanchezza lo trascinasse nel sonno.
Quando si svegliò sua madre era vicino a lui. Non sentiva più freddo. Era
avvolto in una coperta calda e si sentiva asciutto.
«Ho sete mamma.»
Questa volta l’acqua c’era. Uno Shalmàt con gli occhi azzurri gli offrì
una piccola bottiglia. Dal rumore e dal movimento capì di essere ancora su
una barca. Una barca molto più grande, che non cigolava e che aveva l’acqua
per bere.
- 11 -
«Dove siamo mamma? Sulla barca di Shalmàt?»
«Dicono che si chiama Guardia costiera e quelle luci laggiù sono l’Italia.
Siamo arrivati Nadir. Siamo arrivati e siamo vivi.»
«È stato come una favola mamma.»
«Solo un po’ Nadir, solo un po’, perché la nostra vera favola comincia
adesso. »
«Com’è intitolata mamma la nostra favola?»
«Si chiama libertà.»
E lo strinse forte.
- 12 -
Erina che non sapeva nuotare
Daniela Gregorini
Era carina Erina, era giovane. Aveva vent’anni e abitava in un paese
ch’era un pugno di case sparse in una lingua di terra lungo il mare. C’erano
rimasti solo le donne e i padri più avanti con gli anni e i figli piccoli. I giovani
no: erano andati a far la guerra. Una guerra lontana, lassù, fra i monti, perché
il Re voleva vincere un nemico austriaco.
Era furba Erina, era simpatica. Erano poveri in quel paese, ma non si poteva dire che campassero male: avevano il pesce d’estate e nelle bonacce d’inverno; i frutti dei campi nei mesi buoni. E lei, Erina, sapeva inventare, fra
gli alambicchi fumanti della fuligginosa cucina di casa, companatici dal nulla,
un “nulla” che comunemente si sarebbe detto inopportuno al palato. Amava
andare fra i prati al baluginare e tornava al casolare domestico con un mazzo
di erbe buone. Non c’erano più né olio, né grasso animale, e il trito aromatico
era il miglior condimento per il suo pesce. E tutti eran contenti del suo desinare, preparato con sentimento. Ma prima di usarlo nei cibi , ne spezzava
un po’ per sé di quel minuscolo fastello odoroso, e se lo strofinava addosso,
nel collo, nei polsi:
-…perché voglio saper di qualcosa!–rispondeva a chi, fagocitato dal suo
effluvio, gliene chiedeva stoltamente la cagione.
Quando la bora d’inverno faceva stizzire il mare e arrabbiare i pescatori,
nel caldano bollivano solo acqua e polenta, se quest’ultima non era finita,
come la lisca di aringa salata spiluccata dalle mosche a penzoloni dalla trave
con cui la si strofinava per darle sapore. Allora lei andava sulla battigia e, con
un cencio di rete fra le mani spaccate dal vento gelido, restava immobile,
china, dove vanno ad appollaiarsi i “crocai” , i gabbiani. Ne sceglieva uno, né
vecchio né giovane e poi, di colpo, svelta come una lucciola, l’acchiappava
con la rete, l’avviluppava fra le trame dell’ inganno, repentina come un’ onda
che si frange su un crinale di scogli.Dopo correva a casa, la spennava, la faceva
bollire per ore, la bestiola, nel caldano vaporoso di spezie, che dava un aspetto
sinistro alla cupa cucina. Come sinistri erano le querule ramanzine della
madre, della nonna, che profetizzavano sventurato spreco di fatica e di sale:
- 13 -
sua nonna la sgridava:
-Con quella rete stanotte, si poteva acchiappare qualcuno di quei passeri
arrivati a svernare, ridosso del vento e non ‘sto gabbiano duro come un ciocco
per il fuoco! Ma quando a tavola anche il pane di ghianda diventava buono
intinto nel sugo della carne del rustico pennuto, di gran lunga più polputo
dei poveri passeri scheletriti e divenuto burro a furia di gorgogliare nel suo
brodo, allora il tacere sovrastava la tavola dei conviviali compiaciuti.
Era intelligente Erina, era ambiziosa. Non si truccava, perché la madre
non voleva, però si pettinava come la Regina dell’Italia e aveva fatto un ombrellino come il suo, con un dipanatoio mezzo rotto che le aveva dato, in
cambio di un tozzo di pane, Pimpinella, il robivecchi soprannominato così
proprio a ragione del pane condito con l’olio e l’acetella (acqua e aceto) che
gli davano tutti al posto dei soldi. Lei vi aveva cucito intorno tante frappe e
merletti che rassomigliava proprio a quello della Regina e poi ci andava dappertutto, non lo lasciava mai. Amava ornarsi con le conchiglie. Se ne faceva
monili per lei e le amiche, soprattutto quelle più piccole, che la stimavano e
la emulavano. Forse era loro zia, cugina, cognata… non era possibile districarlo dagli intrecci di parentela, ma l’amavano e l’ammiravano in tutto quello
che faceva. La chiamavano “la Capitana”. Se le metteva anche fra i capelli,
quelle conchiglie; fra i suoi capelli castani che d’estate si pittavano di riflessi
ramati, che profumavano si salmastro e di vento. A lei, però, non bastava
quello che aveva attorno. Le sarebbe piaciuto andare a vedere cosa c’era al
di là del mare, ma le prendeva un gran spavento. Non sapeva nuotare. Sapeva
vogare, sapeva pescare, gettare le reti e tirarle; conosceva i venti, i tempi di
ogni varietà di pesce, ma non sapeva nuotare. Era convinta, dentro di lei, che
da quel mare, presto, le sarebbe arrivato qualcosa che le avrebbe cambiato
la vita di colpo.
Era generosa Erina, era coraggiosa. Quel giorno non era ancora spuntato,
quando i rumori dell’aria svelsero molti dal sonno non ancora finito per farli
correre sull’arenile. Una voce nuova accompagnava il vento vigoroso che
sgualciva da alcune ore il gracile paese, imbrattandone di sabbia polverosa i
muri umidi, infilandosi in ogni ingenuo pertugio. Era il vento di un fortunale
spietato che ordinava alle barche e agli usci delle case di rimanere fermi ad
attendere il termine della sua gelida scorribanda; ma quella che si udiva non
era solo la sua voce: era un urlo nuovo, una sirena gemente, un tuono di
- 14 -
guerra, che faceva rabbrividire più di quel fortunale, più del mare in burrasca
che muggiva forte.
Appena il sole levò il paltò nero dal mondo, si incominciò a vedere da
lontano una cosa nera in mezzo al mare. Chi diceva fosse una nave del Re,
chi diceva dell’Austria, chi diceva un sommergibile. L’unica cosa sicura era
che era rimasta arenata dove l’acqua era poco profonda. Ma lei, la Capitana,
non aveva indugiato oltre: fatto un cenno alle sue dieci amiche, era scappata
insieme a loro ad arraffare tutto quello che poteva rimediare senza parsimonia: pane, vino, frutti di ogni sorta e, avvolto tutto in un fagotto, salì con le
sue amiche sulla Gigetta, la “batana”-sciabica- più affidabile e pesante, e aveva
iniziato a vogare. E le madri di quelle undici ragazze, poverette, iniziarono
ad urlare, picchiate dalle sberle in bocca del vento:
-Cosa fate? State ferme, zingare! Rientrate a casa, altrimenti ve le diamo!
Ma il capestro, a quelle figliole, non riuscirono a rimetterlo. Una madre,
in ginocchio fra la rena, pregava e piangeva: la figlia non sapeva nuotare.
Era un’eroina Erina, era innamorata. Cagliava, insieme alle dieci compagne, contro la bora. Ma pian pianino arrivarono proprio sotto quella nave
nera: “Faà di Bruno” si leggeva appena…era di casa, era italiana! E si capì subito, dalle grida dei marinai i quali, contenti come le Pasque, allargarono le
braccia a quelle donne che li avevano salvati da una morte sicura, tra le onde
di quel mare cattivo. Lei, la Capitana, s’era incantata a guardare gli occhi
verdi di un marinaio che la stringeva forte fra le braccia, che a lei sembrava
di conoscere già, un marinaio che sapeva nuotare.
Poi, presa la cima strappata della nave, era ripartita insieme alle altre.
Stavolta, con la bora a favore, erano tornate a riva senza fatica, per legare
quel cavo attorno ad una casa e dare un po’ di pace a quel monitore che così
rimaneva fermo, non affondava più, sbattuto di là e di qua dalle onde di quel
mare burrascoso. E la Capitana… lei aveva preso una bella cotta per quel
marinaio che aveva salvato.
Era contenta Erina, era trionfante. Avevano conferito la medaglia al valore a quelle ragazze e alla loro Capitana la quale, da quel giorno non aveva
più abbandonato quell’uomo che le aveva portato il mare. Con lui, finita la
guerra, era partita per andare a vivere in una terra lontana, l’Argentina, attraversando tutto il mare, anche se non sapeva nuotare.
Era grande Erina, era forte, come il suo mare.
- 15 -
Mafalda
Sabrina Sezzani
Devo scappare.
Dalla mia vita, che non sento più mia, da mia moglie, la persona che
credevo la mia pace, da mia madre che mi vorrebbe ancora dipendente; dai
loro litigi per accaparrarsi la maggior parte di me.
Scappo: faccio l’emigrante.
Parto per una destinazione che ho trovato sull’atlante, per un luogo che
mi immagino diverso e colorato, per una terra nuova, per la mia terra di
pace.
Mi nascondo dentro una folla che cerca salvezza da miseria e venti di
guerra su questa nave che un tempo era destinata a portare per il mondo la
bella gente e che, stanca e malmessa, è stata riciclata per fare da traghetto
tra la nostra patria e il nuovo mondo.
I miei compagni di viaggio li sento diversi da me: sento e vedo la loro
disperazione e la loro miseria, i quattro stracci raccolti in valige di cartone
assieme a pezzi di pane, formaggio e lacrime. Anche qui mi sento fuori posto,
con le mie camice stirate, i pantaloni con la piega e i soldi cuciti nell’elastico
delle mutande,
Passo il mio tempo seduto a prora e invidio il personale di bordo, che
con fatica, sudore e unto fa si che questo bestione del mare possa muoversi.
Ieri ci sono stati dei problemi e il comandante ha fermato le macchine in
mezzo al mare; da allora stiamo procedendo, ma la nave ha una strana inclinazione, non tutti se ne sono accorti, ma stamani la tazzina del caffè non
stava ferma sul tavolo della cambusa. Ho sentito alcuni marinai parlare tra
loro e ho capito che il comandante aveva chiesto all’armatore di non far ripartire la nave dopo l’ultima sosta.
Stamattina il mare è calmo come un olio. In lontananza, dentro la luce
del sole, ho visto delle pinne di pescecane che giravano in cerchio, c’è una
calma eccezionale e non tira un alito di vento. Questa calma si sta trasferendo
anche dentro di me ed ero quasi sereno quando ho carpito alcuni brani di
conversazione tra i marinai: la situazione della nave nella nottata è peggiorata
- 16 -
ed ora sono molto preoccupati. Nelle sale da ballo tra i passeggeri di “lusso”
non ci si accorge dell’inclinazione che ha la nave, e sento arrivare l’eco della
musica suonata per alleviare il tedio della navigazione.
Uno squarcio: un rumore folle, assurdo, di metallo rotto contorto sfregato divelto. Non sai dire da dove venga il rumore, sembra che il cuore ti si
strappi dal petto ti squarci la pancia ti scoppi in gola. Nello stesso istante
vedo dal parapetto da cui sono affacciato, una barra enorme di metallo staccarsi dalla parte bassa della nave e affondare immediatamente con un gran
fragore di flutti.
Il silenzio che segue è totale per alcuni brevissimi istanti; poi lo scoppio
del panico, mentre la nave si inclina sulla sinistra in modo repentino e innaturale.
Il personale della nave lancia subito l’ordine di indossare i giubbotti di
salvataggio, la paura e la confusione fanno da regia alle urla e alle intemperanze di tutti i passeggeri, senza nessuna differenza di classe, ora. Le operazioni per calare in mare le scialuppe di salvataggio hanno l’avvio subito e
qualcuno, insensato, cerca di mettere in salvo i propri averi prima che i propri
cari.
Sono paralizzato dalla paura e dallo sconcerto, non riesco a muovermi,
ho assistito inerme a tutto ciò che è accaduto. Mi aspettavo un nuovo mondo,
una nuova pace; mi aspetta invece una lotta aspra per sopravvivere. Vedo
madri con figli piccoli in braccio, marinai con corde e attrezzi, signori ben
vestiti con borse e borselli: io non mi muovo, continuo ad essere paralizzato,
paura e sconcerto mi inebetiscono. Mi accorgo che un marinaio di forse
vent’anni mi sta parlando, non capisco cosa dice, mi fa dei cenni, lo guardo
ma non reagisco. Il marinaio si volta, sembra rinunciare e andarsene quando
da pochi passi mi lancia una cima, mi urla qualcosa e la cima mi colpisce su
di un braccio. Sento dolore, un dolore salvifico, capisco che il marinaio chiede
la mia collaborazione e in un attimo sono sveglio. Mi rendo conto che c’è
bisogno di braccia, di lavoro, di disciplina; lego la cima facendo attenzione a
fare come mi suggerisce il marinaio e poi gridando, gli chiedo cos’altro posso
fare. Mi urla di mettermi a disposizione del comandante, mi dice anche di
non preoccuparmi, che la nave reggerà il tanto necessario ad imbarcare tutti
sulle scialuppe.
- 17 -
Non so quante ore sono passate, ho perso il conto, non mi sono fermato
un attimo e assieme ai marinai ed altri uomini abbiamo cercato di imbarcare
donne e bambini sulle scialuppe disponibili prima di arrenderci e verificare
che alcune di esse erano inservibili. Abbiamo cercato di convincere alcuni
“paganti di prima” a lasciare i bagagli più pesanti; ho assistito a scene raccapriccianti di signori ben vestiti che hanno preteso il posto per i loro bauli
buttandoli dentro le scialuppe direttamente dai parapetti della nave, stroncandone il leggero e precario fondo.
Il comandante ha spento le caldaie per evitare incendi, siamo senza corrente, la radio non funziona e in lontananza non si vedono arrivare aiuti. La
nave è inclinata a morte, imbarchiamo acqua: è questione di poco, la nave
affonderà. Devo trovare il modo di salire anche io su una scialuppa o non
vedrò mai la mia pace.
Mi chiamano, c’è ancora tanto da fare, non c’è tempo per pensare. E non
penso, decido di non pensare, di lavorare, impegnarmi, fare. Il corpo e la
mente sono una sola cosa e mi rendo conto che anche questa è pace: sono
un uomo a servizio di una causa, la principale, quella della vita.
Non tengo più il conto ma sono certo che le scialuppe integre sono già
tutte in acqua; ci guardiamo, siamo rimasti ancora in molti qui sull’unica
parte della nave che ancora non è sott’acqua.
Solo adesso, fermandomi un attimo e volgendo lo sguardo sulla fiancata
vedo la scritta con il nome della nave: “Mafalda” …lo stesso nome di mia
moglie…
“Il 25 ottobre 1927 alle ore17.00 circa la motonave italiana “Mafalda” naufragò
a circa 85 miglia a largo dalle coste del Brasile. Nel naufragio morirono 314 persone,
una di queste si chiamava Pompilio Francalanci: era un mio pro-zio.”
- 18 -
Memorie di mare
Romano Italia
Sono nato in una fredda sera alla fine di un inverno di parecchi anni fa,
in una delle povere case attorno a questo piccolo porto. Fuori infuriava un
temporale ed il mare in tempesta che mugghiava e si frangeva sulla riva sembrava condividere gli spasmi dolorosi della mia povera madre. E’ qui che ho
mosso i primi passi ed era questo stesso mare che,oggi come allora, carezzevole li lambiva. Se tendo un po’ l’orecchio sento ancora la voce di mia
madre che mi richiama a casa dopo una giornata trascorsa a giocare quando
sulla spiaggia fervevano i preparativi per tornare alla pesca.
Di fronte alla spiaggia abitava Maria, bella ed altera,i neri riccioli ribelli
che sempre sfuggivano alla costrizione della crocchia con cui tentava di tenerli in ordine. Era la più bella tra le ragazze del Porto,la prima di una nidiata
di fratelli,snella e ben proporzionata,occhi e capelli nerissimi ed una chiostra
di denti più bianchi del latte. Sorrideva Maria,molto spesso a me,e forse
ancor di più ai suoi misteriosi sogni di fanciulla appena uscita dall’adolescenza. Era sempre di corsa, come quella mattina che insieme a me scese
sulla spiaggia a prendere il pesce appena pescato. La notte era stata fruttuosa
per cui Maria prese la sua cassetta e caricandosela sulla testa mi scompigliò
i capelli, ricci come i suoi, e mi salutò: “Ciao Totò, non far troppe monellerie..” E se ne andò, scalino dopo scalino, il passo leggero ed armonioso, a
vendere quel pesce profumato di mare. Non ero tuttavia l’unico a seguire
con interesse la salita di Maria: in piedi, sulla barca c’era zio Saverio che
aveva lo sguardo puntato nella stessa direzione.
Trent’anni ben portati, bruno, con una massa di capelli neri e ricciuti.
Fisico possente, ben piantato sulle gambe, era fra gli scapoli del Porto il più
ambito. “Cosa guardi con tanto interesse?” mi chiese con un’ammiccante sorriso: arrossii e non risposi. Saverio con un agile balzo scese a terra, mi prese
fra le sue braccia forti facendomi roteare a mezz’aria “Sei un piccolo monello..” disse, e come faceva quando mi prendeva in braccio, strofinò la guancia irsuta contro la pelle delicata della mia gota. “Ma ti voglio bene”, Saverio
era il fratello di mio padre. Da quando il suo era morto era lui ad occuparsi
- 19 -
di madre e sorelle ancora in casa, e forse per questo non aveva avuto il tempo
di costruire una famiglia sua: ma dal modo come guardava Maria, e da come
lei ricambiava lo sguardo, c’era da credere che quel momento non fosse così
lontano. Era l’estate del 1934 quella che stemperava la sua calura nell’inizio
di settembre. La mattina del 2, domenica, tirava un forte vento di libeccio.
Il mare si era ingrossato sotto la spinta del vento ma i ragazzi più grandi non
rinunciarono a fare il bagno.
Erano tutti fra le onde, a giocare come bambini, anche se tali non erano
più da un pezzo. Benché affascinato dallo spettacolo rimasi lontano: le onde
lunghe si rincorrevano sulla spiaggia ed io ne ero intimorito. Cercai Saverio
ma non lo vidi. D’un tratto mi si materializzò davanti; da un po’ lo scenario
era mutato:il mare aumentava la sua forza ed i giovani ora non si divertivano
più. Stavano infatti cercando di rientrare cavalcando un’ onda che, anche se
rovinosamente, li avrebbe spinti sulla spiaggia. Saverio aveva lo sguardo severo. I suoi occhi verdi, sempre sornioni e sorridenti, adesso erano stretti
come fessure: tra i tanti ragazzi aveva scorto anche suo fratello.“Tu stai qui e
non muoverti” mi ordinò e, sfilandosi con un unico gesto la camicia me la
consegnò. Si tuffò e con rapide bracciate raggiunse i ragazzi. Cominciò dal
più affaticato e lo spinse sull’onda che lo travolse scaraventandolo sulla
riva,poi uno dopo l’altro li tirò fuori tutti.
Ero felicissimo. Saverio, il mio zietto affettuoso, l’esperto nuotatore, ora
anche un eroe.Tutti spaventati tossivano e sputavano l’acqua appena ingerita,
solo lui, alto e possente sulla battigia, grondante di acqua e con le alghe fra
i capelli e sulle spalle forti, sembrava ai miei occhi di bambino l’incarnazione
stessa del dio del mare. Stavo per corrergli incontro per abbracciarlo, quando
inspiegabilmente il prudente, il saggio Saverio si rituffò nell’onda. Rimasi
impietrito. Quando dopo un’eternità riemerse non muoveva più il braccio
destro. Nuotava solo con l’altro e faceva cenni come a chiedere aiuto. La
gente cominciò a radunarsi:i pescatori erano tutti sulla spiaggia, poi arrivarono donne e bambini.
La campana della chiesa cominciò a suonare a martello e quel suono lugubre mi lacerò l’anima. Nessuno osava sfidare la furia di quel mare possente,
era solo lui, Saverio, impotente a lottare contro l’irreparabile. La folla radunata cominciò a lanciargli grossi sugheri, perfino travi di legno nella vana
- 20 -
speranza che egli potesse aggrapparsi. Ma le forze lo stavano abbandonando.
Ormai piangevo senza ritegno, singhiozzavo disperato stringendomi al cuore
la sua camicia come un talismano. Scene di disperazione e di strazio si succedevano fra quelle persone impotenti di fronte alla tragedia. Saverio il lottatore combatté ancora a lungo contro la furia di quel mare che aveva tanto
amato, fino a quando un’onda gigantesca, una propaggine mostruosa degli
stessi abissi, non lo sommerse ancora una volta. L’ultima.
Non riemerse più. Il suo cuore generoso aveva smesso di pulsare, di lottare, di amare. Quando scesero le prime ombre della sera quel mare, forse
pago di aver avuto la sua vittima, calmò la sua violenza. Non avevo più lacrime, solo un buco al posto del cuore. Uno dopo l’altro, muti e stravolti,
tutti rientrarono alle loro case. Ero rimasto solo. Fu a quel punto che la vidi
ferma su uno scoglio, impietrita dal dolore: Maria. Non avrebbe più potuto
ridere , chiacchierare, amare Saverio. Anche lei, come me, sgomenta, disperata, senza lacrime. Stringevo ancora al petto la camicia mentre misi la mia
mano nella sua. Era di ghiaccio come il suo cuore. Le dissi piano: “Vieni
Maria, ti accompagno io a casa”.
- 21 -
Dietro la tendina
Bruno Bianco
Liberamente ispirato alla canzone “Il pescatore” di Pierangelo Bertoli
La macchina di grossa cilindrata accostò al lato della strada; Mario scese
dall'auto, pensò alla descrizione che gli aveva fatto suo padre e riconobbe subito la casa. Già, suo padre e quelle ultime parole: “È ormai venuto il momento che tu conosca tua madre”. Pensare che durante tutta la vita gli aveva
sempre ripetuto: “Tu non devi cercare tua madre, non devi nemmeno mai
pensare a lei”. E Mario aveva obbedito; non aveva mai cercato di scoprire chi
fosse sua madre e soprattutto perché 43 anni prima il padre avesse abbandonato la moglie, il lavoro di pescatore, il suo paese in riva al mare e si fosse
portato via il figlio così piccolo. Per tutti questi anni aveva solo provato odio
per sua madre, odio verso una donna che sicuramente doveva essersi macchiata di una colpa gravissima; perché solo una colpa gravissima poteva giustificare la reazione di quel sant’uomo di suo padre, poteva spiegare perché
lei non si fosse più fatta viva. Ma adesso Mario avrebbe potuto conoscere
esattamente ciò che allora era successo.
Varcò un cancelletto di legno e suonò ad un anonimo campanello. Il volto
di un' anziana signora dai bianchi capelli apparve dietro la tendina di una finestra; poi la donna lasciò cadere la tendina, un rumore di passi lenti e la
porta si aprì.
- Buongiorno. Desidera?
- Buongiorno signora. Scusi il disturbo, ma avrei bisogno di parlare con
lei. Io sono Mario, suo figlio.
La donna sembrò capire immediatamente quello che lui voleva in quel
momento.
- Prego Mario. Si accomodi.
- Voglio essere chiaro con lei. Da anni ho smesso di considerarla come
madre; vedere quanto ha sofferto mio padre mi autorizza a ripudiarla. Mio
padre, colui che fu suo marito, è morto tre giorni fa; io però non sono venuto
fin qui per comunicarle informazioni che non la riguardano. Il solo motivo
per cui sono venuto qua è conoscere nei dettagli quanto è successo; il mio è
- 22 -
un semplice desiderio di sapere e qualunque sarà la sua versione dei fatti, io
non muterò la mia opinione ed i miei sentimenti nei suoi confronti.
- Mi pare giusto. Ma prego, si sieda. Partirò dall’inizio.
L’anziana donna gli voltò le spalle e prese posto su una delle due sedie
che circondavano il tavolo; Mario si sedette di fronte.
-Tutto iniziò una mattina presto; non erano nemmeno le quattro ed era
ancora buio. Suo padre stava partendo con il peschereccio e io l’avevo accompagnato fin sulla spiaggia; a quel tempo lei, Mario, era soltanto un bambino di due anni e io e suo padre due giovani sposi che si amavano alla follia.
Da un cassetto estrasse una vecchia fotografia; lui alto, robusto e abbronzato, lei splendida, di fianco, con un bambino in braccio.
- Mentre osservavo quella barca che si allontanava, pregavo; io pregavo
il mio Dio che vigilasse su di lui, su di me, sulla nostra famiglia. Poi due
giorni dopo arriva in paese un forestiero; nessuno sapeva chi fosse, perché si
trovasse lì, dove fosse diretto.
Mentre parlava, la donna accennò un timido sorriso.
- Era bello, era quasi bello come suo padre, signor Mario. Quando mi
vide per la prima volta, io capii subito che il seguito della storia era già
scritto; ci vedevamo qui, in questa casa, con lui che arrivava di notte e andava
via prima che sorgesse il sole. E io avevo anche smesso di pregare; giungevano
notizie di mare in burrasca e di barche che affondavano, ma io non ero più
preoccupata.
La donna respirò profondamente, mentre Mario la guardava impassibile.
- Poi una mattina, così come era arrivato, il forestiero partì. Allora mi
ritrovai sulla spiaggia, a scrutare l’orizzonte, a pregare di nuovo il mio Dio.
Lui ascoltò quelle preghiere; il peschereccio era danneggiato, suo padre era
irriconoscibile, provato dalle fatiche, ma era vivo e questo bastava a me e a
lui. Ma nel paese le voci giravano; voci che crescevano come onde, che diventavano burrasca. Quando i dubbi superarono anche la smisurata fiducia
che mio marito aveva in me, capii che non potevo più negare. Mi ascoltò in
silenzio fino all’ultimo, seduto lì, proprio dove si trova lei adesso; poi senza
pronunciare una parola salì in camera e tornò con una borsa. Lei, Mario,
stava dormendo nella culla e suo padre la prese in braccio senza nemmeno
svegliarla; uscì da quella porta e da allora io non lo vidi più.
- 23 -
Indicò la porta e Mario si voltò; gli sembrò quasi di vedere la figura di
quell’uomo che di spalle si allontanava, con una borsa sulla destra e un bimbo
in braccio sulla sinistra.
- Io avrei finito. Da adesso ha tutti gli elementi per giudicare.
- Come le ho detto signora, non sono venuto qua per modificare convinzioni che da anni ormai ho maturato. La ringrazio comunque per avermi
raccontato l’intera storia.
Mario si era alzato e la donna lo accompagnò verso la porta. Quando furono sulla soglia, il desiderio di abbracciare la madre gli sembrò irrefrenabile;
si avvicinò a lei fino al punto di poter distintamente riconoscere il colore dei
suoi occhi, poi allungò la mano e la donna gliela strinse.
-Grazie ancora e addio.
Mentre camminava sul sentiero, la porta che si era chiusa alle sue spalle
lo fece sobbalzare come un onda che all’improvviso rompe la calma piatta
del mare; si arrestò un attimo e poi riprese il suo passo. Alla finestra il volto
della donna apparve dietro la tendina; rimase a fissare l’uomo che si allontanava lungo il sentiero, poi lasciò cadere la tendina, le onde del mare si placarono e tutto ritornò come prima.
- 24 -
Il maestro di Bisso
Patrizia Di Marco
«Ponente, levante, maestro e grecale prendete la mia anima e buttatela
nel fondale»
Chiara guardava ogni mattino sua nonna ripetere quell’invocazione ritta
come una regina nella sua lunga veste bianca di lino prima di tuffarsi nel mare
rosa dell’alba.
«Che sia la mia vita per essere, pregare e tessere per ogni gente che da
me va e da me viene senza tempo, senza nome, senza colore, senza confini,
senza denaro in nome del Leone dell’Anima mia e dello Spirito Eterno così
sarà» continuava quella donna magica e Chiara si faceva prendere da quell’incantesimo che ogni giorno, alla stessa ora, si ripeteva come il miracolo
del sole che si alzava all’orizzonte. Poi la nonna improvvisamente spariva tra
le onde, all’inizio la bambina riusciva a intravedere la tunica candida tra la
spuma bianca delle onde che si rinfrangevano sulla fiancata della barchetta,
la nonna sembrava ora essere diventata una sirena, nuotava come un delfino
giù giù dove il mare diventa un mistero. La bambina rimaneva con il fiato
sospeso, contava gli attimi uno dopo l’altro fino a quando con un sospiro di
sollievo non vedeva risalire la veste e finalmente il viso che tanto amava.”
Ecco, Chiara!” esclamava esultante la donna “Ecco i capelli delle sirene!”
Anche quel giorno la nonna aveva raccolto il bisso, quella strana barba
che rapiva alla pinna nobilis che abitava le distese di poseidonia davanti a
Sant’Antioco: nell’acqua sembrava una barba grezza e incolta, ma portata
dal buio alla luce si trasformava in un vello d’oro soffice e biondo.
Il viaggio di ritorno era la scuola di Chiara: ascoltava e imparava le litanie
nel linguaggio del popolo di Nur che 2500 anni fa abitava i nuraghi, i canti
in aramaico che la nonna le insegnava, accettava volentieri di mettersi alla
prova nei mille stratagemmi che la donna trovava per mettere alla prova la
sua concentrazione, l’abilità delle sue piccole mani, la determinazione del
suo carattere.
“Il bisso non si puo’ vendere né comprare, si può solo ricevere o regalare…” le ripeteva quando la lasciava sull’uscio di casa ad attendere che il
- 25 -
miracolo si compisse e che nella mani di quella fata i capelli delle sirene si
trasformassero in un filo d’oro da tessere. Aveva pazienza, Chiara… aspettava. Sapeva che un giorno il segreto della nonna sarebbe diventato il suo segreto. Intanto imparava a tessere, le sue piccole mani sull’enorme telaio
fenicio che aveva visto generazioni e generazioni di donne della sua famiglia
intrecciare il bisso d’oro al lino per trasformarlo in tessuti luminosi dove nascevano arabeschi, leoni, figure magiche: doni splendidi per le vesti di re e
sacerdoti.
La porta della casa era sempre aperta, ma tutti vi si accostavano con rispetto: sapevano di trovare un sorriso e un tozzo di pane… sua nonna non
li negava mai, a nessuno..come non sapeva negare ascolto alle tante ragazze
che andavano da lei e si fermavano a raccontarsi nella sua stanza di lavoro
dove si respirava la sua maestria, ma tutti sapevano quanto fosse inutile offrirle denaro per le sue stoffe di bisso poiché la risposta era sempre la
stessa:un altero diniego.
Imparava, Chiara, imparava..che ci sono cose che non si possono vendere, né comprare…che ci sono cose che abbiamo ricevuto in dono e perciò
possono essere solo donate…il bisso era una di queste. Imparava, Chiara,
imparava… e intanto diventava donna.
Scopriva il suo cuore battere forte allo sguardo degli occhi scuri di Mario
allo stesso modo in cui batteva quando scorgeva l’enorme conchiglia con i
capelli delle sirene nelle profondità del mare dove ormai seguiva, veloce
anche lei come un delfino, la veste bianca della nonna. Sopportava la fatica
per le centinaia d’immersioni necessarie con lo stesso sorriso che le appariva
sul volto quando sulla banchina del porticciolo trovava ad attenderla quel ragazzo serio e taciturno. Ascoltava il mare e imparava a rispettarlo come ascoltava e imparava a rispettare l’uomo che aveva scelto.
Venne il giorno. Era maggio e la luna nuova era arrivata: era la vigilia del
matrimonio di Chiara. La nonna anche quella mattina la portò sul mare rosa
dell’alba, quando giunsero là dove solo il mare poteva ascoltarle, le consegnò
l’anello d’oro da cui non si separava mai:era il sigillo del maestro del bisso.
Le parole antiche del giuramento vennero pronunciate dalla nonna sommessamente, sembravano il mormorio delle onde che rendevano quel tempo e
quel luogo lontano da ogni luogo e da ogni tempo. Chiara le ripetè, una alla
- 26 -
volta, lentamente, la sua giovane voce unita a quella antica,assaporandole ad
una ad una come salsedine sulle labbra, perché avevano il segreto del mare.
Chiara promise di servire l’acqua per tutta la sua esistenza e la sua amata
fata del mare le donò la formula segreta della trasformazione, per il lungo
processo che rende elastici e filabili i capelli delle sirene che se non sono
nelle mani di un maestro sono inutilizzabili.
E ancora oggi Chiara è la fata del bisso, in quella piccola isola di Sant’Antioco, e dona i suoi tesori.
Il racconto è liberamente ispirato alla figura di Chiara Vigo, Maestro di Bisso
http://www.chiaravigo.com/wordpress/ ed è stato elaborato in collaborazione con i
bambini della classe 2°A – Scuola Primaria Gianni Rodari – 2° Circolo Formia,come
attività di scrittura creativa a partire da una vicenda reale, nell’anno scolastico
2011/12.
- 27 -
Due secondi per decidere
Carlo Parri
Quando Bettina scendeva i vicoli verso il porto le donne, che respiravano
un po’ di vento davanti alle porte, abbassavano la voce e avvicinavano le teste.
Dedè Palumbo ce l’aveva messa tutta per fare di quella figliola un maschio. Le aveva fatto tagliare i capelli corti come un militare, la vestiva solo
di pantaloni e da quando aveva otto anni, l’estate, la portava in barca con
lui. Dedè Palumbo era un pescatore. Un pescatore libero si diceva una volta.
Uno che usciva con una barca sua e vendeva il pescato a chi voleva. Ce l’aveva
messa tutta per trasformare nel maschio desiderato quell’inconveniente di
femmina, ma alla fine aveva costruito un ibrido che era più maschio di tutti
i maschi e più femmina di tutte le femmine. Perché Bettina era un maschio
di modi e di capelli, ma una femmina di tutto il resto. E non una femmina
qualunque. Quando entrava al bar dei pescatori per bere un rum, gli uomini
restavano muti. Due erano le cose che strozzavano le voci. Nessuna femmina
era mai entrata da sola in quel posto per bere rum e nessuna femmina era
fuoco come Bettina.
A diciott’anni se ne andò a studiare a lontano. Con la felicità delle ragazze
e la malinconia dei maschi. Ci volle un po’ di tempo per abituarsi alla sua assenza. Poi, i giorni di sole e le notti di tempesta aiutarono a dimenticarsi di
quel corpo di muscoli levigati, di quegli occhi di predatrice e di quella bocca
che pareva nascondere ogni segreto e ogni sogno.
Per cinque anni Dedè Palumbo rispose alle curiosità dei vicoli sempre
con la stessa frase. Bettina fa l’università. Lontano. Ma poi torna. Bettina
torna.
E alla fine, un mezzogiorno di luglio, di un luglio infuocato, Bettina
tornò. Spinse la porta del caffè dei Pescatori con il solito gesto sicuro di sempre e si lasciò guardare da chi la riconosceva e da chi non l’aveva mai conosciuta. Fece i pochi passi fino al bancone e sorrise a Pinuccio che era rimasto
a fissarla con la faccia da ebete.
Ciao Pinuccio.
Ciao Bettina. Oh scusa, come devo chiamarti adesso?
- 28 -
Deficiente non ho mica cambiato nome. Ho solo cambiato abito.
E infatti, per la prima volta, Bettina Palumbo non aveva addosso i soliti
jeans e una delle solite camicie da uomo. Era vestita di bianco, di un bianco
immacolato che quasi bucava l’ombra del locale e teneva sotto il braccio il
cappello con il soggolo dorato e la coppia di fanali. Sulle spalle i gradi. Un
giro di bitta sopra un sottogrado grigio.
Fammi un caffè. Corretto.
Quando uscì nel sole del porto sapeva di essere a casa. Guardò oltre la
diga. Il mare era quello delle cartoline che i turisti comprano alla tabaccheria
di Cosimo. Blu. Quasi irreale. Il sole arrivava esatto, come una lancia di fuoco
che graffiava la pelle. Le famiglie in vacanza cercavano scampo nell’ombra
dei vicoli. Lei era abituata. Quel sole ce l’aveva addosso da quando era nata.
Da quando, a sei anni, aveva raccolto per la rima volta la cima della barca di
suo padre e l’aveva passata intorno alla bitta. Respirò il sale che un vento
leggero portava verso le case dei vicoli. Il suo sale, il suo odore di pesce, il
suo mare. Guardiamarina Palumbo Elisabetta. Capitaneria di Porto di
Otranto. Compamare Gallipoli. Tre giorni di licenza prima di prendere servizio. La vide in quel momento. Avanzava piano, dritta sulla diga. Una nave.
Una cargo che mai avrebbe potuto entrare in quel porto di pescatori. Eppure
era proprio quello che stava tentando di fare. Puntava l’imboccatura, un’imboccatura forse più stretta di lei. Sui moli i vecchi guardavano increduli.
Qualcuno gridava in dialetto. Bettina iniziò a correre. Correva verso l’inizio
della diga. Senza un perché, senza un’idea. Correva e basta. L’aveva fatta centinaia di volte quella corsa. Una gara contro il tempo, una corsa che finiva
sul ponte della Parmenide, quella barca bianca e celeste con cui suo padre
campava la famiglia. Qualche volta Dedè passava, ma quasi sempre lei arrivava
per prima e si lanciava dal parapetto. E prendeva gli applausi. Ma oggi non
c’erano ponti su cui saltare. Quella cosa di ferro e ruggine che avanzava sulla
lastra azzurra era dieci metri più alta della diga. Bettina si fermò al parapetto.
Il cuore era salito in gola e gli occhi lacrimavano. Quel sole e la corsa erano
fatica anche per lei. Agitò le braccia. Fermatevi. Fermatevi! Fermatevi! Un
attimo dopo la prua del cargo incontrò il cemento della diga. Il segnale d’ingresso rotolò in mare intanto che quel mostro rugginoso continuava ad avanzare. Bettina vide la cima che penzolava lungo il fianco. Calcolò il salto. Le
- 29 -
possibilità di riuscire a stringere le mani attorno a quella cima. Ci mise due
secondi per stabilire che non ce l’avrebbe fatta. Né come Bettina figlia di pescatore, né come guardiamarina Elisabetta Palumbo. Ci mise altri due secondi
a lanciarsi. Lo fece come la somma di tutte e due. Lo fece e basta. Ci vorrebbe
una scena al rallentatore per descrivere quel volo. Un gabbiano. Quella divisa
bianca e le braccia aperte, intanto che il cappello rotolava in mare. Trovò il
ferro della murata con la destra e la cima con la sinistra. Mentre saliva con i
piedi attorcigliati sentì gli applausi o li sognò. Dal ponte vide che i primi pescherecci erano già troppo vicini. Corse ancora. Verso la torre di comando.
Ormai non aveva più dubbi. Su quella nave non c’era nessuno.
Quando le appuntarono la medaglia si sentì stranamente imbarazzata.
Poi i saluti formali e le strette di mano più intime.
Ma come le è venuto in mente di fare quel salto. Lo sa che poteva uccidersi?
In quel momento non avevo tempo per pensarci. Sul fondo del molo
c’era la barca di mio padre. Non potevo mica fargliela affondare.
Lo sa che il Presidente la vuole conoscere?
Dovrò andare a Roma?
È naturale. Non vorrà che il Presidente scenda fino a Santa Teresa.
Perché crede che non gli piacerebbe? A Roma non ce l’ha mica questo
mare.
- 30 -
Il mare dentro
Pietro Gatta
Bello, quando sul mare si scontrano i venti
e la cupa vastità delle acque si turba,
guardare da terra il naufragio lontano:
non ti rallegra lo spettacolo dell’altrui rovina,
ma la distanza da una simile sorte.
Lucrezio, Della natura
Oggi, al crepuscolo della vita e dall’alto dei miei quasi novant’anni, molti
dei quali vissuti non sul mare ma dentro di esso, oggi quando cammino sulla
riva mi chiedo: ma cosa vedono realmente le persone quando osservano il
mare? a cosa pensano? cosa li colpisce del suo silenzio? Sembra calmo, pulito,
rassicurante. Ma io so che non è stato sempre così. Quel mare identico da
millenni, ha segreti che nessuno conosce fino in fondo; conserva testimonianze preziose, intere generazioni di uomini, prodotti del loro ingegno, e
tesori, relitti; conserva come un’immensa memoria la storia dell’uomo, i
suoi sbagli, le sue violenze. Quel mare identico a se stesso è un testimone
muto, nessuno può interrogarlo. Forse questo pensano gli uomini. Oppure,
come mi disse una volta un amico russo che aveva molto letto, “è una immensa distesa sulla quale non si può camminare”.
Chi se l’aspettava che un adolescente, com’ero io all’epoca, nato in un
piccolo e povero paese agricolo delle Puglie, dal nome vagamente bucolico,
Serracapriola, fosse mandato all’improvviso a fare la guerra, una cosa da grandi
avevo sempre pensato; io ragazzo tra i ragazzi, con nella testa l’odore della
polvere delle strade a rincorrere un pallone e negli occhi lo sguardo bruciante
di una ragazza che mi piaceva e della quale non ricordo più il nome. Un ragazzo di soli diciassette anni, con tanti fratelli e una sorella. Invece è proprio
- 31 -
così che andò a finire. La Patria chiamava e bisognava rispondere, così si diceva
allora.
Mandato in guerra che era, per come la vedevo allora, un gioco come
un altro. Forse anche un’avventura migliore di altre, della quale raccontare
quando si tornava a casa in licenza, e tutti ti si affollavano intorno, ragazzo
diventato di colpo adulto, a chiedere, a voler conoscere, ad ascoltarti e anche,
un poco, ad invidiare quel tuo destino che ti portava per mare in giro per il
mondo. Ma che ne sapevano loro cosa mi frullava per la testa nelle lunghe
immersioni, nel boato delle azioni di guerra, nella solitudine chiassosa tra i
compagni. Che ne sapevano tutti di cos’ero diventato lontano da casa, sbattuto nel mare come carne da macello.
Taranto, dov’era la base navale militare del fascismo, la ricordo bene; le
navi da guerra ancorate e in attesa di salpare, e quei sommergibili fermi in
superficie come alligatori, che non avevo mai neppure immaginato. Piccole
e arrugginite grigie scatole di sardine, non come quelli di oggi lucidi, confortevoli, tecnologicamente avanzati. Allora erano angusti, essenziali, perfetti
per ammassare giovani e mandarli a morire in Africa, in India, nel Mediterraneo immenso. Scatole grigie nelle quali trascorrere mesi, anni.
Ragazzi sorridenti e impavidi del pericolo. Dei tanti sommergibili usciti
in battaglia solo pochissimi, come le dita delle mani, sono rientrati alla base,
dopo la guerra. E io ero su uno di quelli.
Guerra di mare, la mia, come sommergibilista radiotelegrafista. Guerra
nel mare, nel suo ventre profondo e freddo, ragazzo tra ragazzi, ad auscultare
segnali amici e messaggi nemici, rumori del mondo di sopra. Sommergibili,
i miei, dai nomi luminosi a dispetto della loro angustia, del puzzo, della sporcizia, dei topi che li attraversavano da poppa a prua di notte come di giorno,
del sudore e dell’umidità che ti si attaccava addosso come una seconda pelle.
Nomi bellissimi e ormai del tutto dimenticati: Giada, Topazio. Nomi come
pietre preziose da scagliare contro il nemico, un nemico senza volto, compatto, ragazzi come noi.
Oggi che lo guardo, questo mio mare, mi rendo conto quanto sia uguale
a quello e, nello stesso tempo, quanto sia diverso, cambiato. Non ribolle più,
come allora, di morti, di feriti, di bombe e di mine vaganti, in seguito da far
“brillare”, come si diceva. Una mina che brilla, infatti, non è una mina lumi-
- 32 -
nosa ma una mima che esplode. Ed io, insieme ad altri, uscivo in missione su
piccole barche a far brillare le mine inesplose. Oggi questo è un mare finalmente placato ma, se tendo meglio l’orecchio, ancora mi sembra di udire
quei rumori metallici di quando si stava sul fondo, in assoluto silenzio per
paura di essere intercettati dal nemico in superficie. Ancora mi sembra di risentire il boato assordante delle bombe di profondità che, vicinissime a noi,
squassavano quelle scatole di sardine; bombe lanciate per stanarci, per farci
risalire in superficie, per poi ucciderci.
Ma odo anche il sibilo sinistro dei nostri siluri, lanciati contro la pancia
delle navi nemiche, e le urla di gioia quando il bersaglio veniva colpito. Quel
mare avrebbe inghiottito altri corpi, altri ragazzi come noi.
Coi miei novant’anni, sulle spalle e negli occhi, sono uno dei pochissimi
sopravvissuti, forse davvero l’ultimo di quel mare, di quella guerra, il mare
dentro.
E oggi, soprattutto quando al crepuscolo cammino sulla riva, capisco
meglio quei versi di un poema scritto tanti secoli fa da un grande poeta latino
e che mia figlia, che ha studiato, ama ricordarmi. Anch’io come il poeta, da
questa riva ormai tranquilla, osservo, o mi sembra di osservare nel ricordo,
un antico e lontano naufragio. Ma non mi rallegra “l’altrui rovina”, come
scrive il poeta. Solo che oggi mi sento sicuro su questa riva e lontano da quel
naufragio, questo il senso di quei versi. Lontano e salvo da quella rovina che
inghiottì migliaia di ragazzi, di compagni, giovani e impavidi che, come me,
venivano da paesi piccoli o grandi, dalle campagne, e che, come me, avevano
lasciato a casa l’odore delle strade polverose, dei campi assolati, delle ragazze
e dei loro sguardi ardenti.
Il mare dentro, oggi, è calmo, finalmente placato.
Riprendo con fatica a camminare sulla riva e mi sembra di udire in lontananza, ma forse mi sbaglio, il saluto amico di un gabbiano.
- 33 -
Racconto breve sul mare
Franco Paolucci
Quando il Signore, stanco di osservare Se Stesso, decise di non essere
più solo, pensò ad una compagnia particolare; non Gli bastava un’altra
Grande Anima che pensasse insieme a Lui, bensì volle qualcosa che lo coinvolgesse costantemente, qualcosa di avviato e di indefinito che avesse per
sempre bisogno di perfezionamento; qualcosa di Divino, sì, ma, al contempo,
incompleto, che lo tenesse impegnato per tutta l’eternità.
Quest’idea lo affascinò e lo entusiasmò. Costituì una sfida con Se Stesso,
perché avrebbe dovuto, creando, scostarsi, di volta in volta, dalla sua natura
perfetta, decidendo un margine sensibile di imprecisione che non ne oscurasse troppo la Grandezza, ma che potesse stimolarne l’attenzione continua.
Il pensiero del Signore è, per sua natura, un comando.
Ebbe allora bisogno di una schiera di subordinati che gli obbedissero e,
che, a loro volta, trasferissero il suo comando ad altri esecutori. Decretò
mentalmente e li fece.
Memore però dei suoi intenti, sollecitò in alcuni di essi il dubbio.
Poi si disse che il bisogno di una continua mutazione fosse un elemento
essenziale per quanto aveva in animo. Con il Divenire e con la continuità
delle metamorfosi risolse il suo problema. Si fabbricò lo Spazio – Tempo; lo
popolò di Stelle che lo inondassero di Luce, le contornò di corpi opachi,
prefissandone astutamente il moto, dando loro un principio, un margine evolutivo e una fine, così che fossero in subordine alle sue schiere immateriali
di operatori Angelici.
Stabilì indefinibili i confini dello Spazio, oltre il quale pose altro Spazio,
ne confuse l’immensità con la indeterminabilità del microcosmo e scadenzò
il tempo così che il Tempo potesse misurarsi con il Moto, e il Moto generasse
l’Idea irriscontrabile dell’immobilità.
- 34 -
Fece sì che il microcosmo implodesse sconfinando nell’esplosione, che
tutto si attraesse allontanandosi, e tante altre cose che Gli piacquero.
Poi si disse che quanto aveva fin lì fatto era bene che fosse percepito in
tutta la sua grandezza. Creò la Vita inondandola del suo pensiero perché la
Vita arrivasse a produrre pensiero che tornasse per attrazione a Lui. E con
la Vita creò i Venti che con la loro inarrestabilità, testimoniassero per sempre
di Lui.
Fatto tutto ciò, lo contemplò e lo ammirò, felice di avere creato il perfettibile. Ora aveva compagnia. Ma nell’eliminare la solitudine si espose alla
potenza di una sua stessa innovazione; un sentimento che prima non aveva
mai provato. Il Signore si commosse e pianse una sola lacrima. E quanto vi
è di più nobile e divino al mondo: la lacrima, cadde nel Cosmo. Una Lacrima
di Dio scese sulla Terra, la pervase d’amore, e inondandone le cavità, formò
ovunque il Mare.
- 35 -
Nel mare e nel vento
Mario Angelo Carlo Dotti
Da quattro anni vivo sull’isola.
Non ho una casa mia.
Le case sono un po’ come prigioni, ma se dovessi averne una, anche se
non ci starei sempre, è qui che potrebbe essere.
Forse sotto il faro di capo Kerì, nascosto dai pini carichi di processionarie
e di sole impazzito, sopra alle Misitre, due bianchi faraglioni conficcati nel
golfo che si tingono di rosa di fronte al tramonto.
Da qui, alla mattina partirei per fare ciò che faccio tutti i giorni, portando
i turisti a conoscere il mare, con l'aiuto dei miei capitani.
Amo tutti i miei capitani, sono per me i migliori compagni di lavoro,
come lo sono i miei turisti.
Sono uomini a cui non manca lo spirito dell’avventura, dal grande coraggio, dalla grande forza e dal gran cuore.
Il gentile Stefanòs, il simpatico Iòrgos, l'indistruttibile Niko, col viso che
pare segnato dai secoli e l’insospettata agilità di una capra, le giovani figlie
che laboriose aiutano con affetto i padri sulla via del mare e tutti quanti gli
altri.
Ma il mio miglior amico è Gnogno, “ena pedì”, un ragazzino, malgrado
l’età.
Gnogno è una variante di Dionìssi, come anche Sàkis, Akkis e Tàkis, non
chiedetemi come ma, se così non fosse, molti degli abitanti di qui si chiamerebbero con lo stesso nome, che è quello del Santo patrono dell’isola, e qui
la gente è tanto devota.
Gnogno... un padre di famiglia su cui so di poter contare sempre anche
solo per giocare quando il mare fa la voce grossa e la forza delle onde lancia
al cielo la sua “Megalòhari”, l'imbarcazione più piccola della flotta, con cui
sa sfidare qualsiasi condizione fra le più avverse per portarmi a Shipwreck,
la spiaggia più bella di Zante, malgrado i divieti della capitaneria di porto e
le minacce della moglie, tanto bella quanto bellicosa.
Siamo solo due incoscienti?
- 36 -
Per me è essere entusiasti del solo fatto di esistere e poi “Megalòhari” significa onnipotente!
Nelle giornate di maltempo i marinai spesso imprecano e vorrebbero
stare a terra.
Non Gnono.
Lui non soffre certo né il mal di mare né il cattivo umore.
L’ho visto, mentre teneva saldo il timone della sua barca, sorridere, senza
neppure accorgersene, agli schizzi con cui le raffiche di vento gli spruzzavano
il viso e il mare a forza sette.
Ho assistito ai suoi pericolosi tuffi a testa in giù dall’alto della scogliera,
a volte per divertire la gente e a volte semplicemente per il gusto di farlo e
insieme abbiamo organizzato per i turisti e per noi le divertenti cordate in
acqua.
... e quando l'ho trovato che da solo, con i piedi puntati sul fondo e due
sole umane braccia, tratteneva e a fatica girava la sua Megalòhari di cui Nettuno in burrasca aveva strappato gli ormeggi, volgendo pericolosamente il
fianco dell’imbarcazione alle onde e al bagnasciuga, e nella sua espressione
poca paura e gioiosa e generosa accettazione del pericolo come regola necessaria di un gioco.
Sembra che certe persone istintivamente sappiano che nella vita ci sono
anche difficoltà ma che vale la pena di andare sempre fino alla fine.
Presto dovrò partire e insieme alle splendide scogliere mi rimarrà il ricordo di un biondo capitano, con il sorriso facile malgrado i denti consunti,
gli occhi chiari color del suo mare e il temperamento da ragazzo.
Mi chiedo solo se troverò qualcuno che gli porterà i miei saluti, e se qualcun altro accompagnerà la gente a vedere i pesci o il tramonto a Kerì Cape,
dove potrebbe stare la casa che non ho mai avuto, dove le stelle cadenti si
confondono rare col volo silenzioso del barbagianni bianco, dove stasera la
luna moltiplica la sua luce in innumerevoli frammenti di vetro che riempiono
un’acqua così viva, tracciando una strada immensa che dai miei piedi attraversa un pianeta e scompare dietro quella linea curva che descrive la terra.
Una via lastricata dalle ali sbattute all’impazzata da miliardi di argentee
farfalle fatte di fuoco fatuo, le cui scintille rendono il freddo baluginare delle
stelle simile alla fosforescenza tenue delle lucciole, deboli insetti che rischia-
- 37 -
rano la solitudine della notte, e negli angoli più bui dei flutti la moltitudine
dei punti luminosi del firmamento scende dietro all'orizzonte fino a gettarsi
nel mare.
La mia casa potrebbe essere là, dove lumini gialli nel nero perfetto non
sono il riflesso degli astri ma i lampioni sbiaditi di qualche nave che, lenta,
prosegue un viaggio, perduta nell’immensità fra cielo, mare e tempo, apparentemente ferma nell’eternità.
Qui potrebbe stare la mia casa, nel posto in cui la gente arriva alla sera
non si sa da dove e Greci, Inglesi, Albanesi, Italiani e uomini e donne delle
più improbabili nazionalità, come pure i nativi, a un tratto si trovano ad affollare un piazzale polveroso e secco.
Raggruppati qua e là, tutti sono lì per lo stesso motivo: aspettano il tramonto, cercano qualcosa...
La luce tenue, il rossore intenso della magnificenza inquietante dell'immane palla infuocata, le parole scambiate con gli amici, le frasi dei giovani
amanti nascoste dal vento, l’immagine dei colori degli abiti della gente disposta come in un presepe, la sera, l’attesa, il mare e le maree.
Dal momento in cui il sole tocca l'acqua all'attimo in cui sparisce, la discesa è perfettamente percepibile.
Si ha la certezza di essere al cospetto di qualcosa di grande, per gli antichi
il carro di Apollo, per i moderni le fonti della vita, acqua e fuoco, senza le
quali essa non sarebbe possibile sul pianeta Terra e... il colossale meccanismo
di un immane orologio sulle cui lancette siamo posti, che batte ogni giorno
i rintocchi dell'esistenza mettendoci di fronte l'eternità e la chiara consapevolezza di essere piccoli ma insieme, uniti da qualcosa di invisibile, alle persone presenti, a quelle lontane, a quelle che non ci sono più... al cuore del
mondo.
Sempre ed immancabilmente, nel momento in cui il sole termina il suo
ingresso nel mare, tutti applaudono...
E io domani devo partire, sospinto dal moto delle correnti, dal pulsare
della vita che scorre, oltre il volo dei gabbiani.
- 38 -
Gli altri racconti
Le meduse
Elisa Amadori
Si dice che un tempo, a popolare le spiagge del Sud, ci fossero sciami di
fantasmi. Si aggiravano sinuosi per chilometri e chilometri, avevano preso
possesso della zona costiera e vi aleggiavano indisturbati: nessuno, in effetti,
aveva mai osato addentrarsi in un luogo tanto sinistro. Solo un giovane pescatore, ogni mattina, compariva all’orizzonte. Trascinava composto la propria barca. Cappello in testa, pipa in bocca, pareva sfidare la landa desolata,
infischiandosene delle leggende inquietanti ormai diffuse nei paesi limitrofi.
In realtà si accorse ben presto di essere in balia degli spiriti: sentiva la
spiaggia animarsi di fruscii e non ne era disturbato. Si sentiva meno solo, dopotutto.
I fantasmi finirono con l’abituarsi a quell’incedere cadenzato, a quella
presenza umana tanto discreta e taciturna. Impararono ad accogliere il fischiettio del ragazzo durante la stesura delle reti, ad osservare con attenzione
il dispiegamento della vela, il vaglio degli ami e delle lenze, la revisione accurata delle canne...
Seguivano la meticolosa preparazione quasi fossero sacerdoti al cospetto
di un rituale.
Ogni volta scorgevano la barca allontanarsi e sparire tra la nebbia. Ogni
volta ne attendevano il rientro al tramonto. Ormai sapevano che al calar del
sole, puntuale, sarebbe comparso in lontananza il pescatore.
Una sera lo aspettarono invano, dall’orizzonte nessun segnale. Forse i
pirati, si mormorava in paese.
Del resto bastò una sola notte per saziare l’interesse dei più indiscreti.
Non fu così per i fantasmi: il giorno successivo la spiaggia pullulava di
frenetici movimenti: era l’inquieta ricerca di un qualche piano d’azione. L’affiorare improvviso di un non so che tra le onde fece sperare, invano; si trattava della barca, in rottami, trascinata verso riva.
Il mare ingordo aveva rubato il loro pescatore.
Penetrarono coralmente in fondo alle acque, setacciarono i fondali in
ogni dove, serpeggiando sulla sabbia muta e indifferente. I loro corpi si erano
- 40 -
caricati di raffinate sfumature: il mare gli aveva dato una nuova veste, di lustro. Vagavano e scrutavano. Di continuo.
Il groviglio di filamenti inquieti, che partiva dai corpi, ricordava la trama
dei capelli di Medusa. Da qui il nome dei nuovi ospiti marini, così insoliti
agli occhi dei più. La gente accorreva ad ammirarne i movimenti fantasmagorici, che donavano alle acque un non so che di onirico.
Le meduse, intanto, continuavano a cercare.
Per mezzo dei tentacoli avvinghiavano ogni umano si aggirasse nei dintorni: ma l'illusione che si potesse trattare del loro pescatore moriva in un
attimo. E rimaneva ogni volta una bruciante delusione, riversata con rabbia
sopra le vittime dell’equivoco.
I fantasmi non lasciarono mai i mari, nonostante tutto. Erano convinti
che un giorno l'avrebbero ritrovato.
- 41 -
Il mare fece un viaggio
Angela Amico
Il mare fece un viaggio.
Partì per scoprire perché la terra incessantemente lo chiamasse, perché
mandasse le sue creature a solcarlo e depredarlo, a misurare profondità e distanze, a disegnare sulle carte tatuaggi di rotte e misure a braccia, a nodi, a miglia, a chilometri.
Il mare fece un viaggio.
Voleva trovare un’isola, la sua isola. Accanto a lei avrebbe acquietato il proprio cuore di turchese, e fermato gli impeti delle sue onde, e lì avrebbe vissuto,
per sempre.
Il mare cercava l’amore.
Dal cuore delle acque dove le balene cantano e dai boschi di coralli rossi,
il mare smorzò la sua potenza ruggente e si avvicinò alle spiagge che tante volte
aveva tormentato o accarezzato, lambito o flagellato, lui mutevole e capriccioso,
con le maree altalenanti, con i venti ai suoi comandi, con le stagioni rovesce
dei due emisferi.
Delle onde fece morbidi riccioli scuri; dai fondali pescò ciglia lunghe agli
anemoni di mare; il rosso della bocca lo rubò alle code dei gamberi. Il mare
marinaio, pelle ambrata dal sole e sorriso di perla. Il mare appassionato e irascibile; il mare infido amante e tenero compagno.
Il mare fece un viaggio.
C'è un’isola nera e aspra, la costa appuntita e selvaggia, sorpresa da ciuffi
di verde; ha lunghi capelli ondulati, ammorbiditi dall’olio di tiarè e ingentiliti
da un fiore; ha movenze da gatta. Si chiama Ni’ihaue e con le mani, i fianchi e
i capelli danza le onde e il suo cullare. L’isola nera ha una storia nobile di regine
e di vascelli lontani. Gli squali dai temibili denti che diventano mansueti al
canto di Ni’ihaue, nelle notti di luna piena. Il mare la vede da lontano, la circonda gentile e le regala mille perle di schiuma da mettere al collo, sulle orecchie, ai polsi. Lei sorride, abbraccia il mare corsaro e affascinante e gli si stringe
vicino.
“Cosa vuoi da me, principessa?” chiede il mare.
“Aiutami a fermare il vulcano”.
Il mare rimane a infilare collane di fiori e mangiare i frutti degli alberi. Il
clima è dolce e le notti profumate. Pensa: “Qui potrei fermarmi per sempre”.
- 42 -
Una notte di cielo viola il vulcano urla e fa tremare l’isola e il mare. La
lava discende lungo i fianchi dell’isola e ghermisce le piante, trucida le case
e i giardini; implacabile e lenta arriva fino al mare. Il mare la tocca, quella
lingua di fuoco rovente, e la pietrifica. Altre coste nere di nuova geografia,
altre rocce a strapiombo vengono a formarsi da quel mare di lava, quando
entra nel mare di mare. L’isola si copre di un velo nero da cui domani tirerà
fuori altra forza, altra vita, altra terra.
Il mare, bruciato e ferito, si allontana. Addio, isola scura.
Riparte verso nord. Lì l’oceano maestoso e si infila tra le dita della terra
e nel blu specchia distese di boschi e gelide nuvole. Sono mille le isole, con
case rosse e fari e giornate interminabili. Il mare approda ad un’isola padrona
di nidi di uccelli dalle ali grandi e pesanti, un’isola pittrice e artista di nome
Viknaa. Pallida ed esile, nel mare punta lo sguardo e legge il tempo del giorno
dopo. Arrossisce quando lo vede arrivare e guardandolo fisso scorge brume
e nebbie impenetrabili e fitte, e un guerriero dalle braccia possenti. Lo cinge
alla vita e gli porge la piccola bocca rossa da baciare. Isola sfrontata e verde.
“Cosa vuoi da me?” le chiede il mare.
“Fammi compagnia durante la notte”.
Lui rimane a giocare tra i fiordi, aspettando l’imbrunire. Pensa: “Qui potrei fermarmi per sempre”.
Poi la notte viene, sospesa dalle mani dell’isola, e nordica. Ma la notte,
lì in alto, dura per sempre, o quasi: sei mesi di buio che congela la terra e
l’acqua, e blocchi di ghiaccio a marmorizzare le onde, e il freddo che paralizza: immobile morte. Il mare supplica l’isola di leggere quando sarebbe
tornata la luce a sciogliere quei lacci che lo imprigionano, mentre tutti in
letargo aspettano: la gente nelle case, gli animali nelle tane, i germogli nella
terra…quando?
E quando finalmente il sole bianco sorge, il mare infreddolito e spaventato dalla misura del buio del nord, se ne va. Addio, isola del ghiaccio.
Il mare tornò verso sud, guardando i colori che si riempivano di luce, il
blu il verde il giallo tanto forti da far male. Una storia di vascelli pirati e
scaltri commercianti, di traffici intensi sulle onde per arricchire armadi e
stipi di spezie e di stoffe: zafferano, noce moscata, cardamomo, cannella; e
seta, alpaca, damasco. Un flusso ininterrotto che porta carichi preziosi che
colorano il mare e lo macchiano di sangue.
Ecco un’altra isola, un’altra donna del mare. L’isola si chiama Salina, e
insieme a una manciata di altri piccoli scampoli di terra sembra, dall’alto,
- 43 -
uno schizzo di marrone sulla tela del blu. Salina, materna e concreta, ha ciò
che dà sapore al pane e alla vita; Salina isola del sale. Quando vede il mare,
lei si colora del giallo delle ginestre e del verde del cappero. Lui si mette a
rincorrerla e a giocare con le sue spiagge, con le vele delle barche pescatrici
di aguglie, con i turisti stizziti da Eolo dispettoso. Risuonano le risa del mare
che cerca Salina nascosta dietro gli scogli in un rimpiattino di luce. Pensa:
“Qui potrei fermarmi per sempre”.
Chiede a Salina: “Cosa vuoi da me?”
“Aiutami a raccogliere il sale”.
Si recintano le vasche, l’acqua evapora al cielo sotto il sole accecante, e
nella vasca resta il sale. Uomini bruni sotto il sole cocente a bruciarsi la pelle
col sale, a caricarlo, quel sale, in sacchi gonfi di sudore da mandare per mare
ai continenti. Il mare maledetto dagli uomini impietriti dalla fatica; gli uomini
a bestemmiare sottovoce quel mare salato e quella fatica. Il mare odiato e
generoso, calunniato e prodigo di ricchezza;, la faccia del mare a raccogliere
gli sputi degli uomini, le braccia del mare scarnificate, abbracciate e respinte.
E in un grande respiro, milioni di litri di ossigeno, lui decide di partire. Addio
isola salata.
Non c’è terra dolce abbastanza per far felice il mare, né mare felice abbastanza per allietare gli uomini.
Il mare fece un viaggio, ed ancora lo fa.
- 44 -
Le avventure della vita - fiaba marina
Paolo Annibali
Il Cormorano Enzo e Lor, il Pulcinella di mare.
Lor e il significato del volo
Un dì, mentre i raggi di un sole al tramonto indoravano i flutti marini,
su uno scogli, screziato dai riverberi dell’acqua, un anziano cormorano e un
cucciolo di pulcinella di mare, lisciandosi il piumaggio, si beavano di tanto
splendore.
D’un tratto, il piccolo esclamò:
“ Tu che hai viaggiato molto, mi sapresti dire perché voliamo? ”
L’enorme compagno allargò le ali, quasi in un abbraccio paterno, poi incrociando il limpido sguardo del suo protetto disse:
“Bella domanda! Vedi Lor, Dio ci ha donato l’ incanto del volo affinché
potessimo vedere meglio i pesci, per il nostro nutrimento, sfuggire ai predatori in caso di pericolo e per cercare più facilmente un riparo sicuro nella
stagione fredda.".
“Tutto qui??” esclamò un deluso Lor.
“Ummh… No caro, non è soltanto per questo… In verità ci libriamo
nel cielo per fare il solletico alle nuvole, quando ci accorgiamo che sono tristi
per qualche motivo,altre volte per far innumerevoli piroette sugli arcobaleni,
altre ancora per curiosare tra i mercantili o accompagnare gl'instancabili pescatori ma il nostro compito più nobile è senza dubbio quello di prendere in
consegna le preghiere di ogni uomo di mare e condurle lassù dagli angeli,
così che il Padre Eterno le possa leggere ed esaudire, una per una."
concluse il cormorano con occhi lucenti di pianto.
“Deve essere meraviglioso!!!
Ecco, adesso ho veramente voglia d’imparare a volare!!” dichiarò un
elettrizzato Lor, Pulcinella di mare, novello araldo dei Cieli.
- 45 -
Santa Teresa a mare
Aurora Augello
Santa Teresa a mare l’ho sempre portata nel cuore. Me ne rendo conto
solo adesso, con rammarico,mentre la piccola imbarcazione si avvicina alla
sua costa e una forte emozione mi lascia lacerata. Mi chiedo chi dei due abbia
abbandonato l’altra. Appena superato il porto l’agitazione lascia il posto al
senso di pace di questo luogo surreale dove il tempo sembra essersi fermato.
Inverno 2000 anime e 5 asini. Le strade sono prevalentemente strette e sinuose per proteggere le case dalla brezza marina che soffia dolce e persistente. Nella brutta stagione anche gli uomini dediti all’arte venatoria
patiscono quello che i poeti chiamavano l’ennui, lo stato d’animo che a nulla
invita. I boschi smettono di promettere promesse, i sentieri si riempiono di
bacche asciutte,precipitate dall’albero della noia per poi giungere all’estate
quando il piccolo villaggio addormentato si anima con il vocio dei parenti
degli abitanti giunti dalle città vicine e con lo schiamazzo dei bambini che
giocano a pallone sulla spiaggia,sotto il sole e a tutte le ore.
Santa Teresa a mare, d’estate si sveglia alle sei di mattina. L’odore delle
ginestre e quello del mare a pochi metri dalle abitazioni penetra nelle case.
Alle sette e 30 le basse frequenze di uno stereo su ruote travestito da
piccola Ape 50 annunciano il panettiere, tre volte la settimana passa il pescivendolo: una festa per i pochi villeggianti, cernie, saraghi, polpi, scorfani e
aragoste. Ogni estate della mia infanzia l’ho trascorsa qui con i miei nonni,
Ginevra e Vincenzo. In questo pezzo di terra tra cielo e mare prevale una
componente araba e disordinata, ricca di emozioni. D’inverno la montagna,
dietro le case, con i suoi boschi la rendono di un solo colore: verde. Anche
il mare si colora del verde delle foglie, somigliando sempre più ad un’immensa pianura, nulla a che vedere con il rosso delle giornate di scirocco come
il colore che assume l’orizzonte nei tramonti estivi.
La casa dei nonni da lontano sembra poggiare sul mare che gli fa da
sfondo. Mentre mi avvicino l’onda bassa va e si ritrae con un mormorio continuo da sembrare una ninna-nanna, si infrange su una spiaggia bianchissima,
accecata da un sole che non si vede.
Nonna Ginevra è dietro alle persiane azzurre, scalfite dal vento e dal
mare, ad aspettarmi, 38° gradi sono eccessivi per uscire sul terrazzo e venirmi incontro. La tengo stretta per un po’, forse troppo. Il mare le ha in-
- 46 -
cartonato la pelle del viso, per un attimo ho avvertito le sue rughe, tante piccole pieghe e ho immaginato che ogni ruga corrispondesse agli anni che ci
hanno visti lontani e che se così fosse adesso tutto sarebbe tornato come
prima. Minuta e con gli occhietti vispi e dal colore imprecisato tipico della
vecchiaia,difficile da definirsi passano dal celeste al grigio, ma lei afferma che
sono solo sbiaditi e che il colore sé l’è mangiato il tempo come coi capelli.
D’estate Santa Teresa a mare è carica di luce. Situata in una piccola baia
sabbiosa dominata dal Forte di Santa Teresa, e in fondo alla baia sulla destra,la
grande Tonnara,ora in disuso, dove si svolgeva il complicato rituale della mattanza seguito da regole ben precise e modi rigorosamente stabiliti dal capo
della tonnara, completo di canti propiziatori e scaramantici (le scialome).
Quasi ogni giorno gli abitanti del luogo amavano raccontare ai più giovani
imprese epiche delle cruente lotte dei pescatori, quasi un corpo a corpo con
questi enormi bestioni, lotta dall’esito sempre certo e non certo per il tonno.
Così nel terrazzino dei nonni ci si riuniva dopo la sosta pomeridiana e
benché il mare fosse propenso ad accoglierci nelle sue acque calde e cristalline, si preferiva restare a chiacchierare di fronte ad una tazzina di caffè e a
raccontare storie di miti e cavalieri dopo avere esaurito il repertorio dedicato
alla mattanza.
Portare alle labbra una tazza di caffè fumante...! un gesto che ci faceva
sentire un po’ una grande famiglia accumunati dall’esperienze del posto.
Era intransigente nonna Ginevra, una vera fanatica del caffè.
Caffè Illi, miscela bar, solo quello da macinare al momento appena tostato
e mettere nella sua macchinetta napoletana. insieme al surrogato “Leone”
che regala al caffè un colore e un aroma più intenso. Costringeva così nonno
Vincenzo a recarsi ogni giorno nell’unico bar alla piazzetta in centro,per
pochi grammi di caffè.
Una maniera, secondo me,di toglierselo tra i piedi e potere passare lo
straccio in quelle due stanzette al piano di sotto e magari rinfrescare il terrazzo.
Succedeva sempre… Lui usciva ed ecco lei già pronta con il secchio e
lo straccio!
Nonna Ginevra era affezionata alla sua “macchinetta napoletana” di lattastagnata, riusciva con la maestria di un giocoliere a togliere la caffettiera dal
fuoco appena l’acqua era giunta in ebollizione e rigirarla, la guardavo ammirata, temevo sempre che potesse scottarsi. D’estate in quel piccolissimo centro le occasioni per gustare un buon caffè a casa di donna Ginevra e il dottore
- 47 -
Vincenzo non mancavano mai i motivi forse sono da ricercarsi in quel terrazzino che si affacciava al mare ombreggiato da un grosso albero di gelsi,
refrigerio per tutti .
Quando nonna Ginevra sostituì la moka alla sua macchinetta napoletana ,lo
fece con rammarico. “Devo sostituirti” disse mentre la riponeva nel pensile di formica
sopra i lavelli della cucina, tra le tazzine “buone”. “qui siamo in troppi ad aspettare
e la Moka, haimè, è più veloce”Con l’avvento della Moka mi spiegò, da brava maestrina che era stata, la cerimonia di preparazione del caffè, una cerimonia che conosceva bene, mentre accendeva il fornello con un lungo cerino accompagnandolo da
una mano per proteggerlo da colpi d’aria,
Nonna Ginevra insieme al caffè mi ha regalato un luogo, un posto da trattenere
tra i ricordi.
Ho scoperto che di Santa Teresa a mare non ci si libera. Se le chiudi la porta in
faccia lei piange e tira pietre alle finestre.
- 48 -
Storia di una ragazza con i capelli neri
Valeria Bellono
La ragazza con i capelli neri sedeva sulla spiaggia.
Aspirò con forza una boccata d’aria che odorava di sale, che sapeva di
nuovo.
Era la prima volta che vedeva il mare, e il suo cuore batteva all’impazzata.
Le avevano raccontato che sotto la sabbia bagnata giacevano, a milioni, i
desideri irrealizzati delle donne e che bastava entrare in acqua e fare qualche
passo per raggiungerne alcuni. Man mano che si andava avanti ce n’erano
altri, e arrivati al largo, nel preciso punto in cui l’azzurro diventa davvero intenso e nasce l’orizzonte, si trovano quelli più nascosti e difficili da esaudire.
La ragazza con i capelli neri credeva che il suo fosse proprio lì, profondamente addormentato, e che forse un giorno qualcuno l’avrebbe trovato e
glielo avrebbe consegnato.
Si chiamava libertà e aveva il profumo morbido e gentile del tè col miele.
Era un pensiero che la faceva stare bene, e mentre si perdeva nell’aria
tiepida, continuava a respirare, facendosi accarezzare da un timido scirocco
che cercava un luogo sicuro. Proprio come lei.
La ragazza con i capelli neri annusò ancora una volta l’aria. Chinò la testa
fino a toccare le gambe, strinse tra le dita le sue caviglie sottili e si perse, per
un attimo, nei suoi pensieri, che erano l’unica cosa che le restava. Serrò gli
occhi e fece uscire quello che vedevano le sue palpebre chiuse.
La storia delle donne l’aveva scritta un uomo, ne era certa, almeno quella
del suo villaggio, popolata da schiave analfabete e mogli devote che abbassano
lo sguardo e muoiono di parto, squarciate dalle ferite di chi non le pensa
degne dell’amore, figuriamoci del piacere. Un rito d’iniziazione a cui sopravvive una su due, una selezione naturale che ricalca quella degli animali
selvatici che scampano ai predatori. Sua sorella se n’era andata così qualche
giorno prima, urlando dal dolore e chiedendosi perché essere donna fosse
una condanna a morte invece che una benedizione.
Presto sarebbe toccato a lei. Un sasso appuntito, una ciotola d’acqua
- 49 -
sporca, un ago e del filo scuro. E poi sarebbe stata pronta. Pronta a servire
un vecchio sdentato, a mettere al mondo figli senza un futuro e a perpetrare
questo scempio che dilania i corpi anziché accarezzarli.
Ma la ragazza con i capelli neri non voleva vestirsi da sposa. Era ancora
una bambina, preferiva giocare, andare a prendere l'acqua al pozzo, infilare
le perline nello spago.
Così era andata via di notte, scivolando piano dal suo giaciglio mentre
il villaggio era profondamente addormentato, o forse solo in preda ad un incantesimo che facilitava la sua fuga. Pregava il suo dio a bassa voce, sapeva
che l’avrebbe ascoltata, protetta, perdonata. Il suo dio era buono. Il suo dio
l’aveva voluta così com'era. Il suo dio si era nascosto per non farsi catturare
e camminava piano al suo fianco. Il suo dio l’amava. Il suo dio aveva i capelli
lunghi e le mani affusolate.
Il suo dio era donna, ma non poteva raccontarlo a nessuno.
La ragazza con i capelli neri aveva sentito parlare del mare e sapeva che
al di là delle rocce, oltre i confini che le era concesso di conoscere, poteva
esserci la vita, quella vera. Un posto in cui le bambine diventano adulte solo
quando sono grandi, un luogo in cui le madri accarezzano loro il viso, sussurrando che essere donna non è un peccato. Essere donna è meraviglioso.
La ragazza con i capelli neri si scrollò di dosso i pensieri, aprì gli occhi e
si alzò in piedi. Chissà cosa c’era dentro il mare, chissà chi c’era oltre il mare.
Entrò piano nell'acqua e sentì che non poteva farle male. L’acqua era liquida, morbida e buona come l’aveva sempre immaginata.
Era il suo momento. Si chinò e affondò le mani nella sabbia. Avvertiva la
consistenza molle e farinosa dei milioni di granelli che stringeva tra le dita.
Cercava i desideri, ma non riusciva a trovarli, perché non sapeva quale aspetto
avessero. Allora andò più avanti, in un punto in cui l’acqua solleticava il suo
ventre e mentre scavava, trovò alcune piccole conchiglie madreperlacee,
screziate di ocra e di azzurro. Certamente ospitavano i desideri.
La ragazza con i capelli neri le raccolse delicatamente, gridando per la
felicità, e mentre urlava pronunciava il nome di sua madre, quello della
nonna, quello delle sorelle più piccole. Le stava liberando, rendendole per
la prima volta degli esseri umani. Continuò senza sosta a frugare nel terreno
- 50 -
friabile e a ogni passo restituiva la dignità a una prigioniera della sua terra, a
ogni piccolo corpo mutilato che chiedeva perdono, senza sapere perché.
Ma per liberare se stessa, la ragazza con i capelli neri doveva arrivare
dove nasce l’orizzonte.
Così andò avanti, senza fermarsi, anche quando le onde le lambirono il
viso e non riusciva più a respirare. Prima o poi sarebbe arrivata nel punto in
cui il mare diventa più azzurro e tocca il cielo.
Allora sarebbe stata libera anche lei.
- 51 -
Un’avventura mitologica
Francesco Bonecchi
Rimiravo con interesse ed ammirazione la lunga scia spumeggiante formata dalla chiglia dell’imbarcazione. Ma l’ammirazione era anche determinata dal successivo disegno che la natura andava modellando con i suoi
elementi. Eravamo attorniati dall’acqua del mare, in alcuni punti di intenso
blu, mentre vicino alla riva il suo colore diventava di un riposante colore
verde smeraldo: coi suoi colori questo mare ti coinvolgeva, t’incantava! In
alcuni momenti, fra il bianco spumeggiante della scia, s’intravedeva un leggero, temporaneo arcobaleno che subitamente svaniva. Il sole, brillante,
caldo, fungeva da cornice in quest’attimo che il poeta descriverebbe di “sogno
ad occhi aperti”. E qui, mi sembrò sentire un lamento, o forse una dolce cantilena musicale. Mi guardai attorno; ci guardammo attorno. Pareva venire
dal fondo del mare. Feci qualche passo, girai intorno lo sguardo e mi sembrò
veder, fra i flutti sollevati dall’imbarcazione, delle Sirene, che ci seguivano.
Mi affascinarono la bellezza, la sinuosità dei loro movimenti nel rincorrerci.
Apparivano e sparivano tra i flutti. Continuava quella fascinosa, tenue musica,
sorgente dal mare, incominciava a pervadermi un certo torpore in tutta la
persona. L’imbarcazione proseguiva con regolarità, non molto lontano dalla
costa. Mi svolsi a sinistra: rimasi impietrito. Mi si parò dinanzi il grande scoglio di Scilla; Sembrava si muovesse, un rantolo di fondo richiamava alla mia
memoria la descrizione di un antica lezione: vedevo < un mostro a sei teste,
con dodici piedi e tre terribili file di denti>. Di scatto staccai lo sguardo impaurito e andai a posarlo all’opposto lato. Qui, a questa nuova vista, la paura
si tramutò in terrore. Un enorme essere deforme, mostrava, per metà immerso nel mare, a lui attorno, tumultuoso, da un buco nella parte alta della
mostruosa sagoma che poteva essere una bocca, un continuo risucchiare e
vomitare l’acqua del mare: Cariddi? L’istinto mi spinse a gridare, ma la voce
non usciva dalla gola: volevo urlare di aprire l’otre del vento consegnatoci
da Eolo, Rivolsi col pensiero una supplica a Posidone affinché proteggesse
me, l’imbarcazione e tutti noi, permettendoci di superare quei terribili incontri. Passo un’ora, un anno, secoli, millenni. La piccola imbarcazione con-
- 52 -
tinuava la sua navigazione lungo lo stretto di Messina; il sole magnificava sul
mare, una leggera brezza salina mi batteva sul viso provocandomi un senso
di sollievo. Mi voltai, quasi pigramente alla ricerca delle Sirene nella scia sollevata dall’imbarcazione , ma non vidi nulla. Al contrario mi accorsi di quella
rupe imponente sulla quale si ergeva Scilla.Vidi poco lontano la spiaggia che
dava inizio alla terra di Sicilia. Mi gurdai ancora con curiosità attorno, vedendo sorrisi condiscendenti degli ospiti ch’erano con me, dinanzi allo spettacolare panorama offerto dal mare, in questo punto tanto stupendo da essere
scelto per una avventura mitologica, nell’antichità ed oggi.
- 53 -
Menta e il mare
Giulia Lina Callegari
Devo assolutamente trovarla capisci?
No, non capisco. Scusami – ma che tu voglia metterti a curiosare tra le
carte di tua nonna…
Ma non voglio curiosare tra le sue carte! Voglio solo trovare la password
del suo computer perche dentro ci sono le nostre foto e i suoi appunti e mica
possiamo lasciare che vadano persi.
Mah, fai come credi – ma sei sicuro che tua nonna, a novant’anni suonati,
avesse una password? Cioè non solo aveva il computer ma anche la password?
Eh sì, e anche difficile da trovare, ho provato tutte le nostre date di nascita, e I nomi dei nipoti e i cugini eccetera.
Hai provato Marsiglia?
No, perché?
Tua nonna, alla tua età, viveva a Marsiglia.
Non lo sapevo!
Abitava in una casetta bellissima, davanti al mare, con suo nonno… Mi
ascolti?
Sì, sì ti ascolto, comunque non è neanche Marsiglia, non funziona. Va
beh, mi racconti?
Sì, ma tu chiudi l’aggeggio.
Devi fare la mamma anche adesso che ho vent’anni per gamba eh?
Le storie vanno rispettate, soprattutto se sono vissute e non di fantasia.
Dunque, fammi ricordare… Tua nonna si è trasferita a Marsiglia quando
aveva quindici anni, nel 1937. C’è andata con il suo di nonno, che faceva il
ferroviere. Vivevano in una casa microscopica, credo fosse una stanza, ma
erano felicissimi perché – a differenza degli altri immigrati – loro abitavano
proprio davanti al mare. ‘Pieds dans l’eau’ come si dice in Francia. Avevano
la cucina con le piastrelle di maiolica azzurre, e una barchetta ancorata proprio alla fine del loro terrazzo. Cenavano fuori estate e inverno… Ma tu
dove credevi che avesse imparato a cucinare cosi? Mica in Piemonte!
Suo nonno andava a lavorare tutte le mattine mentre lei girava per i mercati, imparava il francese, sbirciava le ricette delle brasseries… Soprattutto
- 54 -
nuotava. il nonno non voleva che usasse la barca e le permetteva di pescare
solo da riva – con il bollentino. Ovviamente, come è tradizione di famiglia
mi pare, i giovani se ne infischiano delle raccomandazioni dei vecchi, e così
tua nonna. Prendeva la barca… Menta, l’avevano chiamata Menta se non
sbaglio, e andava alle isole di fronte, quelle di Dumas. Ci passava dei pomeriggi interi, si faceva il bagno nuda, pescava, leggeva, mangiava e prendeva il
sole. Credo che si sentisse libera in un modo particolare, lì, finalmente da
sola. Io ho spesso provato a immaginarmela, quando mi raccontava quei pomeriggi interminabili, e alla fine vedo una giovane distesa su di un telo
bianco, con una pila di libri, una bottiglia di bianco (tua nonna dice che beveva sciroppo ma secondo me non è vero) e un sacco di pomodori, olive, acciughe e una baguette… Quelle cose dovevano avere un sapore che oggi non
conosciamo nemmeno più eh? Insomma per tua nonna quella casa di fronte
al mare è rimasta un luogo così importante, io le ho sempre detto che la
idealizzava, che non poteva essere così perfetta, ma lei mi rispondeva con
una frase di Izzo, mi diceva: “La felicità davanti al mare è un’idea semplice”.
Un giorno hanno licenziato il nonno e sono tornati a Torino, e lei a questo
concetto del fiume, e voglio dire il Po è maestoso ed è bellissimo – non riusciva ad abituarcisi. Faceva un sacco di capricci. Io penso di averlo capito solo
dopo, che per lei remare verso le isole del Frioul a bordo di Menta doveva
significare scappare da tante cose: dalle paure, da un matrimonio quasi combinato, dal pavimento da lavare, dai costumi da bagno anni Trenta – che dovevano essere una tortura, credimi.
Già che ci siamo, penso che lei avrebbe voluto essere seppellita davanti
al mare, forse a Marsiglia, forse in Italia – non importa.
Tu dici che quello che importa è il mare?
Penso di sì, penso che voglia stare lì, davanti a quelle infinite possibilità,
non penso le piacerebbe avere davanti una collina o un muro o un platano.
Beh, hai ragione – specialmente se al mare è stata davvero felice.
Come?
Dico hai ragione, c’è il testamento della nonna sul computer.
Ah - hai trovato la password?!
- 55 -
Sì: Menta.
Un cerchio che si chiude, tua nonna nuda nel 1937 su una barca a pensare
a Dumas e poi nel 2012 che scrive al computer, il testamento al computer!
No dico, siamo una famiglia di scapestrati, disobbedienti e matti. Ecco cosa
siamo. A novant’anni al computer – questa mi mancava.
Mamma ho un’idea.
Dimmi.
Andiamo al mare. Andiamo a Marsiglia, prendiamo il treno fino a Genova, e poi Ventimiglia e poi Nizza. Andiamo a nuotare dove nuotava la
nonna, facciamo un pique nique in mezzo al mare, con i pomodori e le acciughe e peschiamo…
Adesso a Rita scende una lacrima, ma ha sempre sognato di vedere suo
figlio che sale su Menta e la porta al largo, verso l’Africa – in linea teorica
ovviamente - al massimo si arriva a qualche miglio dalla costa. Per essere
precisi Rita sa anche dov’e’ nascosta Menta, ma decide che sarà piu bello
dirlo a Enrico quando saranno già a Marsiglia, quando ormai non se lo
aspetta.
Forse è un po’ matta anche lei in fondo.
- 56 -
Quattro improvvisati in barca
Clara Calvini
“Ossettiiii...oi...Ossetti, chama Choppi che mi vo cercare me mojere,
nemo a Ciosa”. Ossetti sono io, Clara, e Cioppi è mia sorella Angela: i veneti
ti pesano a occhio e poi ti appioppano un nomignolo. Da un cugino lo accetti.
“Porteve la giaca a vento”. “Perché? E poi la giacca a vento io non ce l’ho!”.
“Ciapa la mia”. “Ma, ma ci sto dentro tre volte!!!”. “Fa i stesso”. “Dove ci
porti?”. Te vedaré”. “Daiii, dove?”. “In laguna”. “Ma tu non hai una barca...”.
“Fino a doman la go!”. Nemmeno un chilometro e mezzo di asfalto e ci fermiamo lungo un canale che passa da Conche. “Su sbrighemose che la laguna
se sensa fanai e anca mi”. “Come navighi, all’orba?”. “Fa i stesso”. Che bello,
i canneti che bordano il canale, le ondine che lascia la barca, l’odore salmastro, i colori dorati che si specchiano all’imbrunire,...le zanzare...ma io...
l’Autan ce l’ho! Diventa mare aperto e le luci ancora lontane della terraferma
già si distinguono. Mi sorge un pensiero: “Ma se caschiamo in acqua?”. “Va
ben, te se noare”. “Perché, non abbiamo il salvagente?”. “Tanto non te serve”.
“Scusa, e i remi?”. “Fa i stesso”. “Come ‘fa i stesso’?”. Candidamente Siro ammette che non siamo a norma su niente. Figuriamoci, poi, i documenti…
Sua moglie Fania lo fulmina con lo sguardo. Ecco, il solito allegro facilone
che ti coinvolge con simpatia per poi finire regolarmente nel pantan...e noi
a ricascarci ogni volta. Ricapitolando, abbiamo solo l’Autan.. Pazienza, siamo
sulla stessa barca e, quindi, speriamo in bene. Ormai è buio, qualche barchetta galleggia come noi qua e là: il luogo è magico e qualche rischio vale
la pena correrlo. Chioggia è vicinissima, non sembra neanche vera dal fascino
che emana ed in punta anche la Capitaneria di porto appare bellissima. La
Capitaneria di porto??!?? Porca miseria, c’è un’ imbarcazione della Guardia
Costiera che gira. Pensieri a raffica: che succede se ci fermano? Bo! Tutto
fuori regola, niente documenti; che possono farci? Metterci in galera? E
poi...che figura di merda.... “Che si fa, che si fa, Siro, che si fa?”. Brillante
idea, scappiamo per il canale interno: la loro barca è troppo grande, non ci
passa. In certi momenti la disinvoltura è tutto. Ed è con questa che fiancheggiamo la Dogana per infilarci nella via luccicante che taglia la città. Passato
- 57 -
apparentemente il pericolo, la bellezza delle rive, i palazzi decadenti sull’acqua, le calli che si intravedono da lì, i ponticelli che ci scavalcano, mi fanno
entrare in una dimensione irreale fin quando mi risveglio di colpo. Oh oh,
siamo in alta marea e c’è un ponticello con l’arcata ben più bassa degli altri.
Il passaggio è minimo: forse la barca si riesce a infilare a pelo nel punto centrale della volta. Logico,noi dobbiamo sdraiarci sul fondo se vogliamo farcela.
E adesso? Siro è assolutamente un cialtrone di talento, specie con i motori
di qualsiasi genere. Io sono certa delle sue capacità ed a questo punto l’”aventure c’est l’aventure”: dai passiamo sotto il ponte. Angela non vorrebbe essere
lì e se la fa sotto solo all’idea, ma si rassegna. Fania è in preda ad una crisi
isterica. Si alza in piedi e, col tono imperativo e ricattatorio tipico da moglie,
se ne esce con un: “Siro se non te te fermi, mi smonto.” Dopo un attimo di
silenzio, una fragorosa triplice risata le rimbalza addosso ed un “ma dove
casso te smonti se semo in acqua” annulla ogni sua ribellione. Ok il motore
è al minimo, andiamo. Siamo tutti sdraiati dentro la barca che, magistralmente guidata, si insinua con lentezza dentro quel buco. O maaammma...io
voglio guardare, anche se, confesso, la prima sensazione sepolcrale non è
bella, anzi. Poi, sfiorando con le mani i mattoni dell’interno, magicamente
cambia tutto. L’unicità, la storia, l’antichità prevalgono. Ma quanti anni
avranno questi mattoni? Chi li avrà cotti e chi li avrà messi su? Quanta gente
ha calpestato questo ponte?Pure Goldoni l’avrà visto, l’avrà attraversato...sicuramente non in questa situazione assurda. Usciti dal tunnel si rinasce! Finisce pure il canale e, non so come né dove, ci ritroviamo in laguna. Ma
quante stelle ci sono qui? Sembrano molte di più e molto più grosse che in
qualsiasi parte del mondo. In più stasera c’è una magnifica luna piena. Ormai
ci siamo scordati il perché di tutta questa fuga. Con calma torniamo al largo
dove eravamo prima, dove c’è parecchia gente su altre imbarcazioni. Tutto
sembra tranquillo, le stelle ci proteggono...ma non è vero niente...ecco riapparire i guardacoste che fanno controlli. Ormai la strada la conosciamo e,
senza indugio, rieccoci su ancora per il canale centrale. Questa volta il problema ponticello non si pone più. Ognuno al proprio posto, sdraiati e via. Il
passaggio è diventato “quasi” divertente. Nuovamente in laguna e pian pianino
riacquistiamo la nostra postazione iniziale. Non ci sono vedette. “Che si fa?
Si rientra?”. “Speta un fia!”. Poco poco devo aspettare: PAM********* PATA
- 58 -
PIM ********PATA PAM******* PAM************** Nooooo...non
ci posso credere... Siro ci ha portate qui per farci una sorpresa.
Ormai siamo tutti con il naso per aria ed il pericolo controlli non esiste
più, almeno per ora. Tra le onde che ci cullano assistiamo allo spettacolo pirotecnico senza sapere se guardare in cielo o in mare con i colori che si spargono ovunque attorno a noi. Sulla barca abusiva , in questo contesto unico,
per mezz’ora posso permettermi il lusso di regredire allo stadio della prima
infanzia, quando distinzione e separazione da te non esistono e sei un tutt’uno
con quello che ti circonda. Acqua intorno a me, aria su di me, terra vicino
a me, fuoco colorato ovunque. Anche io faccio parte di tutto questo e non
lo so: lo intuisco in rari momenti. Grazie per avermi portata qui, per ricordarmi semplicemente che esisto.
- 59 -
Thálassa
Alberto Camerano
Piccole onde sulla superficie del vino nel grande cratere posto al centro
riflettevano la luce, che giungeva ai suoi occhi scomposta in fasci iridescenti.
L’uomo ci vide le navi. Di certo dovevano esserci alla ricerca del passaggio
verso un altro Mondo. Quando si era spinto ad occidente fino a giungere in
vista delle Colonne di Heracles, gli era successa la stessa cosa. L’acqua nebulizzata del mare scomponeva la luce nei sette colori. Il vento, rinforzando,
creava onde sempre più alte e mano a mano che le due navi procedevano
verso lo stretto, la loro velocità aumentava. C’era il rischio che le vele si
strappassero e tra non molto i fragili scafi sarebbero stati completamente in
balia di quel mare, senza che nessuno potesse più governarli. Eússenos guardò
Protis, il nocchiero, che continuava impassibile a tenere gli occhi rivolti verso
prua e le braccia attaccate al remo del timone. – Ammainare la vela, uomini
ai remi! Il grido del comandante fece muovere i marinai così rapidamente
che non risentirono della instabilità della bireme. Anche sulla seconda sembrava avessero sentito il suo ordine, perché fece istantaneamente la stessa
manovra. Quindi le Colonne rimasero là. Le navi voltarono verso oriente,
costeggiando per molti giorni in modo che la terra ed il carro dell’orsa stessero alla loro sinistra. Le parole dell’oracolo, indecifrabili quando aveva parlato, lo avevano preannunciato. Tuttavia era facile presagire una tempesta lì,
come in qualsiasi altro punto della Terra. Il dubbio semmai era se l’Uomo,
fosse pronto per superare le Colonne.
La donna entra seguita dalle ancelle ed i suoi occhi cercano subito lui,
prima di posarsi sugli altri maschi. Donna… La figlia del re avrebbe scelto
tra i convitati e lui, uno straniero, è stato chiamato tra essi. Lei soltanto, offrirà la coppa ad un uomo, dichiarandolo suo sposo. Allora egli pensa. Che
usanza è stabilita tra questa gente, che sa solo pescare, mena sempre le mani
con le tribù vicine e manco è capace di preparare del vino appena decente?
Addirittura lascia che sia la donna a decidere. E se sceglierà lui? Non può
escluderlo. In tal caso non c’è scampo, con le navi ferme nella baia, dove è
difficile manovrare, e i suoi uomini sparsi per il villaggio. Persino ad alcuni
di loro è toccato, stranieri venuti dal mare: le donne hanno deciso. Niente
da fare, l’oracolo ora gli è chiaro. Addio per sempre Focea, patria, in fondo
- 60 -
senza rimpianti. Un brivido gli fa capire. La donna è davvero bellissima e
lotta, contro l'immenso che è in lui, la profondità che agita il suo cuore, il
mondo intero, la vita stessa. Il mare non lo solcherà più. È un’avventura diversa che attende l'uomo.
Esaminò la sagola dello scandaglio, Eússenos, e comprese che non si poteva andare avanti di un’altra spanna. Si sporse oltre la murata e vide agitarsi
sul fondale attraverso l'acqua trasparente le posidonie, esili dita che a migliaia
protese verso la carena quasi la toccavano. Allora diede il comando di rientrare i remi ed ancorare. La spiaggia che chiude il porto naturale nel quale
erano approdati appariva deserta, ma dietro di essa la pineta si ergeva come
un baluardo esteso e compatto. – Ti affido le navi, Protis… io scendo a vedere
cosa essa cela… ascolta: se prima che siano passati tre giorni vedrai un fumo
bianco salire dal promontorio, attendi altri tre giorni e così ogni volta, fino
al mio ritorno, altrimenti prendi il largo. Dicendo queste parole Eússenos
diede una manata sulla spalla a Protis, compagno di mille viaggi. Questi si
voltò e ricambiò il saluto, stringendogli l’avambraccio. – Attento, perché
sento odori suadenti provenire da terra… e anche il mare ha un aspetto
troppo mansueto in questo posto… dovrai scegliere e non sarà facile… Protis, uomo prezioso, sensibile e saggio forse già sapeva. In ogni situazione i
suoi avvertimenti da indovino andavano ascoltati, prima di affrontare luoghi
ignoti ed imprese ardue che tutti temevano.
Le ancelle hanno denudato le braccia di Gypta. In alto le muove, ruotando su sé stessa nella danza. Gli occhi dell'uomo vedono Afrodite che gioca
con la spuma del mare e il suo cuore batte impazzito. Ella afferra la coppa
con entrambe le mani e la rivolge al padre, seduto nello scranno d'onore di
fronte al cratere. Il Re fa un lieve cenno, chiudendo gli occhi, e lei pone la
coppa a galla nel vino, quindi le dà una breve spinta in modo che navighi proprio nella direzione dell’uomo. Poi gira intorno al cratere per coglierla dalla
parte opposta, la immerge e la tira fuori gocciolante. Infine si volge, si accoscia con grazia sui talloni e, tendendo le braccia, gli offre il vino. – Tu sei il
mio signore e sposo. Lo dice solennemente e forte, perché tutti sentano. Egli
le risponde con un inchino della testa, prende la coppa e beve.
Scesi a terra e superato il tratto di spiaggia, i Greci entrarono nella pineta.
Eússenos si orientava tra gli alti pini di mare, controllando la posizione del
- 61 -
sole che filtrava dalle chiome. Uscirono solo al tramonto, dove finendo gli
alberi una pianura si estendeva dolcemente verde, chiusa al fondo da monti
boscosi. Il sogno antico dei miti si rivelava ai loro occhi. Poi incontrarono
gli abitanti di quella terra e chi li governava. Osservarono la loro vita, così
compresero che lì pure era il Mondo.
Dalla pineta ai piedi del promontorio esce il corteo con gli sposi. La
vacca consacrata lo precede, poiché dove si fermerà, la città sarà costruita.
Va salendo l'erta, così Protis indica che lassù sorgerà l'acropoli. – Ascoltami,
non sacrificare la bestia… gli dei non vogliono, altrimenti la nuova città nascerebbe sotto cattivi auspici e dovresti espiare. Allora Eússenos alza il braccio
e lo muove a semicerchio seguendo l'orizzonte sul mare. – Da essa le rotte
raggiungeranno i mari ed i popoli di tutta la Terra. Quindi si avvicina a Gypta
e le porge ambedue le mani, perché vi appoggi le sue. – Vorrei che tu, Aristóssena, regina, le dessi il nome! Lei, calma, non esita. – Ho scelto: si chiamerà Massalía.
- 62 -
La leggenda della Salvezza
Alessandro Cantiniello
“Dove sono?”:
“Perché sono qui?”.
“Non ricordo nulla. Ho una gran confusione nella testa”.
Queste furono le prime parole ch’ebbi a pronunciare, in un soliloquio
mentale, dopo aver riaperto gli occhi.
Solo, su una scialuppa di salvataggio, i vestiti laceri.
Non ricordavo nulla e mi rendevo conto di trovarmi in mezzo al mare.
Più della gola arsa provavo una sensazione che mi pervadeva: la solitudine.
Che strano il destino: si cerca di andare lontano dalla riva per vivere questa condizione, ma ora che tutto coincideva era subentrata l’angoscia.
Anche il dolce dondolio della barca, tanto ricercato per addormentarsi,
ora sembrava una sciagura.
Eppure sin da piccini si viene dondolati nella culla per ricreare tale situazione: farsi coccolare dal mare come trasposizione del liquido amniotico
materno.
Madre infanticida, in questo caso.
Cercai di far mente locale e ripercorrere le fasi precedenti che mi portarono a vivere tutto ciò. Ma nulla.
Il mio corpo mi chiedeva acqua. Ero allo stremo.
Sciacquai il viso e con la mano iniziai a fare quello che non si doveva:
bere l’acqua del mare per dissetarsi.Vomitai anche l’anima, se ancora l’avevo.
Morire di sete in mezzo al mare è peggio che trovarsi nel deserto senz'acqua: nel primo caso, il mio, si percepiva veramente il senso della beffa.
Svenni.
Quando mi risvegliai era notte. Il mare era calmo. Fui rapito dalla visione
delle stelle che mi resero più tranquillo.
Mi tornò alla mente un ricordo di quando ero giovane e con una piccola
barchetta a remi portai la prima morosa nei pressi di una grotta. Era una
notte come questa. Rimanemmo abbracciati avvolti dalle stelle che ci copri-
- 63 -
vano come un mantello. La baciai. Fu il mio primo bacio.
“Che stupido che sei!”, dissi ridendo di me stesso.
“Stai per morire e non hai di meglio a cui pensare!”.
Iniziavo a parlare da solo: brutto presagio.
Certamente mi ero spostato di qualche miglia rispetto alla posizione
della mattinata o pomeriggio, chissà.
Guardando il blu del mare, seppur notte, si poteva intravedere il movimento di alcuni pesci. Il riverbero delle stelle mi aiutava. Mi tuffai, non prima
di aver legato una piccola corda alla mia salvezza.
Si, “salvezza” era il nome della scialuppa o forse della nave in cui ero imbarcato.
Ora sapevo due cose: un nome, ma soprattutto che ero capace a nuotare.
“È già il secondo gesto istintivo che compi!”.
“Prima bevi, consapevole a cosa vai incontro e poi ti tuffi inconsapevole a
cosa vai incontro! Ma scusa non ti ricordi quasi nulla! E se non sapevi nuotare!!”.
Devo ammettere che il mio alter-ego o coscienza è più intelligente e saggio di me!
Il bagno ristoratore conciliò nuovamente il sonno.
Fui svegliato non so quanto dopo dalla pioggia che batteva sulla mia faccia. Urlai di felicità. La raccolsi il più possibile con le mani e con una bottiglia
vuota che era nella barca. La pioggia continuava insistentemente. Ero pieno
di gioia e la ringraziai.
“Dai su, scendi ancora! Scendi ancora!”.
Che stupido! Non capivo a cosa stessi andando incontro con le mie vane
preghiere.
Poco dopo, infatti, il mare cominciò a gonfiarsi ed un vento prima flebile
divenne quasi insopportabile: la pioggia così intesa che sembrava scendessero
spilli dal cielo. Le stelle scomparvero d’improvviso.
La barca rischiò di capovolgersi una volta, poi una seconda. Infine accadde.
Ero in mare aperto. La mia bocca imbarcò tutta l’acqua che non ero riuscito a bere di giorno.
“Perché mi fai questo!”. Urlai al cielo.
La vidi allontanarsi da me. La chiamai a squarcia gola: “Salvezza!”.
- 64 -
Che controsenso!
“Ti imploro! Smetti tutto questo! Abbi pietà di me!”. Gridai rivolto al
cielo.
Era come un incubo, il peggior incubo che si potesse vivere: in mezzo al
mare, di notte, con la burrasca, senza un’ancora di salvezza.
“Che brutta morte!”, pensai.
Questo era ciò che il destino aveva in serbo per me?
Cosa avevo commesso di così turpe nella mia vita per meritarmi tutto
questo?
Per un po’ provai a nuotare in senso opposto ai giganteschi flutti che si
frangevano contro il mio corpo in balia del procelloso mare. Poi, preso dallo
sconforto e dalla stanchezza, ritenni più opportuno, per conservare le ultime
forze, pormi in posizione di “morto a galla” e lasciarmi trascinare.
La scelta dello “stile” forse non era un buon presagio , così disse il mio
alter-ego.
Ero allo stremo. Da troppe ore mi trovavo trasportato a destra e manca
dalle onde rischiando di affogare. Riuscivo a riemergere, ma non avrei resistito per molto: la forza del mare mi spingeva troppo a fondo, così non
avendo modo di trattenere abbastanza il respiro.
Fu in quel momento che accadde l'improbabile.
Un lampo squarciò il cielo permettendomi di intravedere in lontananza
degli scogli, un faro.
Pensai ad una “fata morgana”. La vista era annebbiata. Forse era arrivata
la mia ora.
Cominciai a nuotare con tutte le forze che mi erano rimaste verso quella
direzione, aiutato dalla forte corrente.
Lo raggiunsi. Era uno scoglio in mezzo al mare.
Una stella, l’unica che si poteva osservare lo illuminava. Mi attaccai e,
schiacciato dalle onde contro lo stesso, vi salii arrampicandomi: ivi trovai la
mia barca rivoltata. La salvezza.
Stremato svenni.
Quello scoglio non fu più da me abbandonato. Vissi i miei ultimi giorni
di vita riuscendo a sopravvivere mangiando i pesci e bevendo il loro sangue.
La leggenda narra che in mezzo ad un mare lontano, quando i marinai si
- 65 -
trovano in difficoltà, durante le burrasche più violente, quando il cielo diventa nero ed oscura gli astri, riescano a ritrovare la via perché appare loro,
come nella mitologia celtica, uno scoglio in mezzo alle onde, sulla cui cima
essi hanno la visione di un faro che squarciando l'oscurità, li aiuta a far ritorno.
Raccontano ancora che vedono un uomo con i vestiti laceri che con la
luce proveniente dal faro illumina loro la scia.
Non si conosce se sia mitologia o realtà ma tale scoglio, tale faro è stato
battezzato “salvezza”.
- 66 -
Sarai il mio Armaduk sul mare(*)
Piccole emozioni di un invalido alla ricerca della felicità.
Marco Caputi
Le sette del mattino e sono in anticipo.
La banchina è deserta e Alfa 13, il Comet 11 di Ernesto, è chiuso.
Sono perplesso, un senso di vago timore mi pervade; forse non ho valutato bene la situazione quando lui, una sera davanti al camino di casa mia, ha
domandato da quanto tempo non andavo in vela; forse, invece di rispondere
“da troppo”, avrei dovuto glissare.
Era venuto a trovarmi per chiedermi consiglio su un caso difficile e, mentre parlavamo, aveva visto sul tavolinetto accanto al divano una foto incorniciata nella quale ero ritratto con Roberta e Mauro Mancini alla presentazione
stampa di un portolano nella collana il Tagliamare di cui lui, giornalista, che
all’epoca lavorava alla Nazione di Firenze, era autore.
Mauro adorava il mare e di mare sarebbe morto.
All’epoca possedevo una barca, un vecchio splendido Sangermani sul
quale purificavo, ad ogni refolo di vento che potevo catturare, il mio spirito
costantemente stuprato dalle corrispondenze di guerra che ero costretto a
fare come inviato speciale.
Amare il mare è solo un vago modo di ciarlare; per chi lo conosce è qualcosa di più, che ti coinvolge in quella sensazione d’infinito che può essere
interpretata solo dalle parole del grande poeta “m’illumino d’immenso”:
un’espandersi di luce all’infinito con sussurri, bisbigli, rincorrersi di movimenti e caleidoscopica follia di colori mossi dal vento della bolina o del gran
lasco, mentre nell’ anima percepisci il meraviglioso piacere della ricerca di
una meta che cambia e si rinnova costantemente.
Sono lì sulla banchina quando vedo, sulla terza bitta di levante, un bianco
d’ali che incorniciano il becco giallo.
- E tu, pennuto, che fai tutto solo?
- A me lo domandi vecchio? – risponde piccato il gabbiano – dimmi tu
perché arranchi su quella specie di trabiccolo?
- Non essere impertinente uccellaccio, non puoi strapazzare un invalido,
non te lo devi permettere!
- 67 -
- Invalido? E che vuol dire?
- Tante cose gabbiano… troppe per poter capire…
- Che ci fai qui a quest’ora dell’alba?
- Cerco ricordi, per darmi il coraggio di ritrovare il piacere di un giorno
quando su quel mare, sotto quella vela, al timone, c’era la parte più bella di me.
- Quale coraggio?
- Quello di superare il limite: quei tre metri dalla mia carrozzina alla
poppa di Alfa 13.
Non è facile, pennuto, credere in se stessi al punto di sentirsi in grado di
fare qualcosa che ti è apparentemente negato al punto di renderti pauroso e
rinunciatario.
- Allora perché sei qui?
- Bella domanda uccellaccio, bella domanda…
- E la risposta?
- Una sola, ma ci sarà se tu mi aiuti…
- E come?
- Se sarai il mio Armaduk e correrai, bianco, davanti a me sul mare. Tra
un’onda che sussurra e una che canta mentre insieme si rincorrono.
- Chi è Armaduk?
- Era il cane di un amico che, costretto in un letto, da una paralisi progressiva, sognava una nuova barca, una grande vela e tanti comandi elettronici
per poterla pilotare.
- Per dove?
- Verso l’ala della vecchia signora, gabbiano Armaduk.
- Parli difficile vecchio mio.
- Già, ma ricordare mi ha dato lo spunto per provare…
- Marco! Che fai, parli con i gabbiani? – è la voce di Ernesto alle mie
spalle.
- Forse mi sono rimbambito amico mio…... ma dovevo vincere un momento difficile… quello di uscire dall’inutilità e tornare ad ascoltare la musica dell’acqua quando canta la canzone antica che si suona tra prua e poppa,
lungo la fiancata, per incantare il navigante.
- 68 -
(*) Armaduk era il cane da slitta di razza “husky” che aveva accompagnato Fogar in una fallita
spedizione al Polo Artico del 1982. Per 50 giorni aveva tenuto testa al freddo e ai venti polari,
aiutando il suo compagno di viaggio a superare la solitudine dei grandi spazi in un'impresa
oltre i limiti di ogni vivente tolleranza.
Nel testo è riportata la più famosa poesia di Giuseppe Ungaretti (1888-1970).
Mauro Mancini era un giornalista, autore dei libri della collana “Navigare lungocosta”. Nel
1978 con Ambrogio Fogar, si avventura con la barca Surprise, in una navigazione oceanica
dalle conseguenze tragiche. La barca affondò nell’urto con un branco di orche. Furono recuperati
da un mercantile nella loro zattera dopo 74 giorni dal naufragio; Mancini morì dopo due
giorni.
- 69 -
Dalle 8 alle 8
(un papà Comandante, una mamma Assistente di viaggio,
un fratello maggiore da sconfiggere e io, verso il Mare.)
Stefano Cardillo
“Mancano 59 minuti alla partenza!”
Le parole del Comandante, quelle stesse parole che aspettavo da quando,
ieri sera, ho spento la luce della mia lampada sul comodino, pronunciate
esattamente come me le aspettavo, con la stessa teatrale enfasi carica di giocosa ironia, mi svegliano nel modo in cui solo oggi, oggi 1 agosto 1975 e non
gli altri 364 giorni dell'anno, mi posso svegliare.
Oggi è quel giorno che viene solo oggi.
Oggi ci si sveglia ben coscienti che il ritmo abitudinale del tempo che
passa consueto durerà ancora 59 minuti, poi sarà stravolto da un ritmo del
tempo nuovo, o meglio non vissuto per un anno intero e oggi ritrovato. Il
ritmo del viaggio infinito verso il mio mare.
Un ritmo del tempo carico di Avventura, quella con la A maiuscola che
sa vivere un bambino di 10 anni pre-globalizzato.
Perché oggi mi sveglio nel mio letto, mi infilo le mie ciabatte, vado a lavarmi nel mio bagno; ma di qui a poco il tempo di cose rassicuranti perché
consuete viene strappato via di colpo da una automobile con un nome da
battaglia, “Fuego”, che, anche lei, all’inizio percorrerà le strade consuete ma
poi non più, per un giorno intero, fino a quando si abbandonerà sfinita al
“ferry boat” che la prenderà in braccio per cullarla sulle onde dello Stretto e
consegnarla alla Madonnina benedicente sul porto l’arrivo dei viandanti a
Messina e che ci saluterà con un “benvenuti nella terra natia”.
Un giorno intero è un tempo lungo per un viaggio, è un tempo sufficiente a trasformare un viaggio verso le vacanze estive in un avvenimento
che ti porta in un’altra dimensione, un tempo che mi metterà alla prova e
che finirà quando sarò stremato dal tempo passato, che mi avrà portato davanti a quella spiaggia dove è possibile mettere, come mi dice il Comandante
per insegnarmi a sognare, “una gamba nel Tirreno e l'altra nello Ionio”, nel
quasi nuovo perché non frequentato, nella terra esotica delle origini.
- 70 -
Alla fine di questo tempo guarderò stupito la maglietta che avrò indosso,
il livido procuratomi nel tempo consueto, le cose consuete nella tasca dei
jeans, e mi stupirò che tutto ciò mi avrà seguito fino a quel punto, fino alla
fine di quel tempo, fino a quel posto di cui né la mia maglietta, né il mio livido, né la figurina dentro alla tasca fanno parte.
No, perchè io sono un cittadino modenese fiero di esserlo, tifoso emozionato sui gradoni dello stadio “Braglia” quando mi ci porta papà, assatanato
cliente della migliore pizzeria al taglio del centro della città, utente avventuriero quando gioco a viaggiare sull'autobus fino al capolinea e ritorno.
I miei primi ricordi di vita sono un balcone modenese sulla Via Emilia e
un triciclo rosso (Fuego!) sul quale imitare Giacomo Agostini.
Ma sono nato a Messina, sono nato sul mare e dentro, nel mio Fuego
interiore, qualcosa mi attira verso quel posto che raggiungerò, Dio volendo,
tra 12 ore.
“Mancano 44 minuti alla partenza!”
Il comandante ci ricorda che il tempo consueto va esaurendosi velocemente.
Intorno a me percepisco la tensione emotiva di questa consapevolezza,
l’eccitazione per l’imminente salto nel nuovo già vissuto, ma sempre nuovo.
L’assistente di viaggio vive più intensamente quel che resta del tempo consueto.
Per lei è più consueto che mai, a lei tocca ogni giorno pianificare le attività
di bordo, anche nei 363 giorni in cui non si viaggia per un giorno intero.
Il ragazzo grande di mondo che dividerà con me i posti di dietro vive il
consueto agli sgoccioli come il resto, lui è scafato e il tempo ce l’ha in mano,
pure quando è agli sgoccioli.
Lo osservo e penso alla convivenza forzata con lui che mi aspetta nelle
prossime 12 ore.
Studio col pensiero le strategie più efficaci per far convivere pacificamente le mie gambe bisognose di allungarsi con le sue.
Giocherò in trasferta, ne sono consapevole, perché le sue sono più lunghe
e questo accresce i suoi diritti di occupazione dello spazio.
E poi ha il certificato di fratello maggiore adolescente, non si scappa.
Sarà dura, lo so.
- 71 -
Combatterò da guerriero con la nobile arte da guerra dei posti di dietro,
sconfitto in partenza dalla soverchiante potenza del nemico ma con l’onore
di chi non si sottrae al suo destino.
“Mancano 29 minuti alla partenza!”
Avrà dormito bene il comandante che scandisce la fine del tempo consueto? Non è un dettaglio da poco.
Il rischio è enorme: in caso di mancanza di sonno ci si può ritrovare di
colpo sottoposti al supplizio della veglia immobile e silente sul comandante
che dorme nel posto di guida parcheggiato all’ombra precaria di un tetto di
paglia del parcheggio di un autogrill di un posto inconsueto.
Un incubo supplementare nel momento più impegnativo, quelle ore centrali della giornata dove non hai più la freschezza dell’inizio e lo stupore del
tempo del viaggio che ti porta via dal tempo consueto e non hai ancora la
speranza della meta della sera, quando ti sei emancipato dalla vita reale e cominci ad assaporare il dolce sapore dell’esotismo della terra natia.
Quando vedi il mare che non è ancora il tuo mare ma ci assomiglia, e la
strada si trasforma pian piano nel fido scudiero della terra delle origini.
“Mancano 14 minuti alla partenza!”
L’assistente di viaggio si spazientisce.
La partenza avverrà quando lei avrà dichiarato di aver esplicato tutte le
pratiche necessarie al viaggio, non tra 14 minuti.
Le mamme hanno sempre ragione, e che diamine!
Ma il Comandante ha promesso a se stesso che il viaggio durerà esattamente 12 ore, “ dalle 8 alle 8” e alle 8 della partenza mancano 14 minuti.
Due filosofie di vita a confronto, due vite in amoroso conflitto da sempre,
un gioco delle parti recitato alla perfezione, la sceneggiatura di viaggio senza
la quale non ci sarebbe viaggio.
Siamo partiti alle 8.02 e miei genitori hanno litigato per questo fino a
Bologna. Nella prima notte messinese mi hanno fatto un po' male le gambe.
- 72 -
Sotto l’ombrellone
Tommaso Casale
Non mi era capitato mai prima un cielo così vuoto.
Non agitato e non mutante, senz’aria.
Quasi mi soffoco.
Neppure da bambino.
Mi era.
Capitato.
Ci vedevo sempre qualcosa dentro, una nuvola a forma di mulo, una a
forma di hula hop, una a forma di pizza napoletana, una a forma di occhi di
mamma, mia.
Ci vedevo il sole.
La brezza, che è quel vento di mare fastidioso, impoetico, mica bello eh..
per chi ha pochi capelli come me.
Dicevo.. labrezza, tutta attaccata, odora di cose attaccate, sigaro toscano,
di abbronzante e di un omicidio di telline e granchietti spiaggiati .
Un bambino gioca con i suoi versetti strani e con un progetto di castello
di sabbia.
Una mammina tenera, molto retard, lo richiama da vicino con urlo da
lontano.
Il bimbo, per niente fesso, assorbe l’urlo con l’epidermide, ignorandolo.
Il vento di un elicottero della finanza illumina un sobborgo di meduse
bianche, luce fredda d’emergenza marina.
Appare un sole circonciso, prevedibile, imprevedibile, a scelta.
È tutto quello che ho dice una donna, bella.
Lo dice attraverso il suo bikini stampato di rose, pieno di seno.
Mi prendo metà di lei con lo sguardo.
Cammina sulle punte, sollevata da un cric di aria di mare.
Per essere precisi sono le 9 di un mattino domenicale di Luglio.
Sto su un lettino reclinabile a strisce accanto ad altri lettini reclinabili a
strisce.
Un terzetto di bagnini, simpatici di professione, lavorano per il ripristino
- 73 -
ambientale, nell’imitazione di un villaggio di villeggiatura.
Setacciano con tre retini smagliati cicche di sigaretta, ossi di seppia, ossi
di percoca.
La donna bella svela al suo pubblico ristretto e sfacciato che il tempo
passato a guardarla pur avendo un grande valore pedagogico sta per finire e
se ne va.
Il pubblico dello stabilimento, distratto, è disposto in tre file di ombrelloni con uno spazio putativo risicato e con tre zone di fuso orario comportamentale.
Gli uomini hanno quasi tutti i baffi, occhiali a specchio e capelli cementati
antivento.
Le donne hanno quasi tutte da ringraziare senza indugio una smaltista
impazzita.
I bambini si dimenano con sincronia perfetta tra secchielli, palette, pianti,
lamenti, patatine, acqua minerale e qualche scivolo gonfiabile.
Sedato dal vento, ho l’unica fronte asciutta della fila e una pancia sofferta
lucida di un solare che riflette l’articolo del quotidiano che sto leggendo.
Ai piedi una piacevole combutta con una borsa frigo e con i suoi diverticoli di chinotto.
Un treppiedi di plastica mostra un libro chiuso, non mosso dal vento.
Per una questione di rotazione quelli della seconda fila ogni tanto avanzano.
Schermo la luce con la visiera di un cappellino da tonto.
Un minuscolo comunicato vocale dice: Tommaso al bar.
Raggiungo la ragione di quell’annuncio e trovo un fondale pubblicitario
di se stesso animato da una quota indefinita di facce contente, i miei amici.
L’ospitalità di una spiaggia priva di sentimento si trasforma in una ruspa
emozionale.
Come faccio ad abbracciarvi tutti??......lo dico quasi al pianto.
Non ci devi abbracciare, siamo qui per caso.
Ho gli zigomi sporgenti color liquerizia masticata.
Loro sorridono mostrando denti e costole evidenti.
Tutto il lato destro, quello sgombro di mare è pieno di gente che si vuole
bene.
E non lo vuole dire.
- 74 -
Una rete tagliata
Jacopo Luca Casiraghi
Presi a correre che la campana del Molo Guardiano stava ancora battendo. L’aria era calda e la posizione del sole non dava scampo: ero più in
ritardo di quanto avessi immaginato. Sgusciai fra le gambe dei pescatori scartando il focone appena acceso e lasciai alle mie spalle i pescherecci e un’intera
nube di gabbiani.
“Mi uccideranno” pensai, ma invece di affogarmi, come avevo immaginato, Berto mi aveva scosso solo un paio di volte per poi indicare la sciabica
che faceva ritorno attaccata alla boa arancione.
“Lascialo in pace” disse Maria, che nonostante fosse una ragazza batteva
tutti in altezza, “non sarebbero servite a niente un paio di braccia in più:
guarda, vuota e sgonfia”.
Era vero e la banda s’assiepò attorno al paio di granchi e alla manciata di
alghe che testimoniava il nostro fallimento. Io dovetti mettermi sulle punte
per vedere oltre le spalle dei miei amici.
“È colpa del suo ritardo” insistette Berto indicandomi: “lui sa dove buttare
la rete”.
“Chi? Giacomo? Ma se tira ad indovinare!” esclamò Maria, “non si tratta
di un errore: guardate la rete… che ne dite?”
“Che sbrogliarla sarà un macello” chiosò Berto.
“No, dico dei tagli, guarda che buchi e che falle! Da qui a qui! Non l’avevamo controllata?”
“Ieri sera, almeno un paio di volte…” ammisi.
“Controllata male, dico io” brontolò Berto.
“Non diciamo sciocchezze: erano in tre ieri sera a rattopparla. Nessun
errore ve lo ripeto. Qui abbiamo un sabotatore!” E il tono di Maria non ammetteva repliche.
Così quella mattina facemmo un processo.
Andammo fra le cabine del lido, dove la sabbia era ancora umida e fredda
fra le dita dei piedi. C’era l’accusa e anche un Giudice, come in televisione.
- 75 -
Il problema era trovare gli “impuntati” o come diavolo si chiamano, quelli
che insomma dovevano essere puniti. Il delitto? Qualcuno aveva tagliato la
rete favorendo così la fuga del nostro pesce.
“Che sia nostro quel pesce non ci sono dubbi”. Maria indicò il molo alle
sue spalle: “pescare con le barche è facile, non si suda e si fatica come a terra”.
In realtà una barchetta l’avevamo pure noi e serviva per buttare la sciabica
al largo, poi tira tira, cinque ragazzi da un lato e cinque dall’altro, la rete rastrellava tutto: dai pesci alle meduse. Questo in teoria. La nostra aveva più
buchi che un colapasta e l’unica cosa che riuscivamo a pescare erano quelle
alghe verdi e rosse che sembravano la barba dei tritoni.
“Se trovo il colpevole gli rompo il muso con questo pugno, lo giuro,
croce sul cuore!” disse Berto. Io rabbrividii: un suo pugno poteva spedirti
sulla luna se avesse voluto.
“Tu sai chi è stato?” Mi chiese Maria. Me lo chiedeva perché io sapevo
sempre dove si trovava il pesce così come indovinavo quando passava il carabiniere al mercato, o quando Giordani, il professore di matematica, girava
sul molo con la sua vespa nuova di zecca.
“Qualcuno con un coltello di sicuro”, disse Beppe “e che sa dove nascondiamo la rete…”
Di coltelli non è che ne avessimo molti. Berto aveva perso il suo tuffandosi dalle capanne dei pescatori e quello che aveva Maria neppure lo cavava
dal suo nascondiglio. Se lo avesse perso avrebbe pianto per due giorni filati
come quella volta che aveva trovato il corpo di un bastardello. “Che c’è?
Anche i capi piangono!” ci aveva detto e questo aveva zittito tutti.
“Potremmo nasconderci nei pressi della rete e aspettare” dissi. “Se si avvicina qualcuno…”
“Bastonate!” Gridò Berto.
Poi il bagnino comparve fra le cabine. Ci odiava perché Berto spiava le
signorine in costume. “Teppisti, furfanti!” sbraitò il viso rosso cotto dal sole
“se vi acchiappo…”, ma noi eravamo già di corsa, per strada.
Il mio piano venne approvato, così, dopo averla rattoppata, nascondemmo la rete nel solito posto: fra l’erba folta dietro il poligono di tiro. Poi
ci infrattammo anche noi, tutto il gruppo, per essere certi di tenerci d’occhio
l’un l’altro e di poter intervenire in forze se si fossero presentati guai.
- 76 -
Ben presto il sole era tramontato e il mare era diventato tanto nero e
buio da sembrare catrame. L’unico suono era il rotolare delle onde sui sassi
della spiaggia. Poi arrivò un vento freddo come gli abissi. Le stelle apparvero
nitide e io mi ritrovai a sbadigliare stanco morto. Maria si era accovacciata al
mio fianco e uno della banda aveva preso a russare. Infine cedetti addormentandomi alla nenia della risacca.
Dopo qualche minuto od ora, non so, aprii gli occhi consapevole che
stesse per accadere qualcosa. Dalla riva giungeva un rotolare e un calpestare
mai udito prima: era come se tutti i sassi dell’adriatico si fossero messi in
marcia. Vidi queste falangi levigate zampettare verso il sottoscritto. Pensai
di sognare ma poi sentii Maria muoversi al mio fianco. Le presi la mano trattenendo il respiro.
Ognuno di quei ciottoli levigati era in realtà un granchio con le chele alzate. Una marea di granchi marciava verso il nostro nascondiglio! In realtà
non puntavano a noi quanto alla rete che zac-zac in quattro e quattr’otto avevano sforacchiato. In breve il fiume corazzato aveva cambiato direzione ed
era ritornato verso il mare in ordinati ranghi.
Rimanemmo al buio, mano nella mano, e nessuno dei due osò spiccicare
parola.
Il giorno dopo la pesca non si fece: la rete era troppo malridotta e almeno
la metà di noi avrebbe preso una lavata di capo per la sortita notturna. Alla
fine in spiaggia rimanemmo solo io, Berto e Maria.
“Te la sei inventata questa” disse Berto. La storia dell’armata di granchi
non lo aveva divertito affatto: “se non volevate pescare bastava dirlo” e se ne
andò offeso le mani in saccoccia.
“Io so cosa ho visto” bisbigliai a Maria.
Lei mi fissò sorridendo, poi appoggiò la sua fronte alla mia: “non credevo
fossi tanto coraggioso” disse.
Io sbalordii: non sapevo cosa fare ma per fortuna ci pensò lei a fare la
mossa giusta.
Poi non potei far altro che ringraziare i granchi dell’adriatico per il mio
primo bacio salato.
- 77 -
Blu come un impatto, forte come il mare
Alessandra Chiappori
- Ehi amico, su dalle brande! Niente, sonno profondo.
- Giorgio! Ti vuoi svegliare?
Gli era toccato gridargli nelle orecchie, chinandosi sul cuscino dell’amico. Come risposta, un’emissione gutturale di natura non definita.
- Forza, muoviti! Tra neanche un quarto d’ora arriva Tore giù col gommone, non possiamo farlo aspettare, s’è preso una giornata libera per portare
noi a zonzo!.
A quell’affermazione, la coscienza di Giorgio si era smossa. Forse non
era il caso di far aspettare troppo uno che quel giorno li avrebbe portati gratis
a fare un po’ di giri in mare. Vacanze a Carloforte, sull’isola di San Pietro:
un mondo da scoprire. E come, se non dal mare?
Nonostante fosse nato e vivesse a Genova da trent’anni, Giorgio aveva
da sempre coltivato un rapporto di rispettosa e distaccata ammirazione per
il mare, elemento così preponderante nella sua città. Niente di più però.
Poetico e spettacolare, rifugio nelle giornate no, distensivo in quelle positive,
mira dello sguardo quando andava a correre, pace dello spirito quando era
stressato. Ma il mare, lui, in fondo non l’aveva mai vissuto. E quella vacanza
in Sardegna si stava rivelando giorno dopo giorno una specie di campo avventura per ragazzini vogliosi di conoscere il mondo, frantumando il suo
sogno di soggiorno rilassante, ma costruendo nuove sensazioni, inaspettate
e intense. Come quella di sentirsi un po’ a casa capendo il dialetto locale, di
riconoscere l’impatto dell’antica occupazione genovese nei balconcini e nelle
persiane delle case.
Quella mattina, con aria frastornata, si era buttato giù dal letto, aveva
ingoiato il caffè e si era infilato un costume. Neanche il tempo di rendersene
conto ed era giù sul gommone. Tore sembrava sveglio da sempre. La pelle
nera, cotta da sale e sole, gli occhiali da skipper e il cappellino, si era presentato con una vigorosa stretta di mano:
- Pronto a innamorarti?
- 78 -
ed erano partiti.
Gli spruzzi in faccia e l’aria salina che gli impiastricciava i capelli, Giorgio, turbato da quella guida spericolata e dai continui sobbalzi, aveva sempre
più voglia di tornare a dormire. Non aveva mai viaggiato così libero in mezzo
al mare, e da un certo punto di vista gli piaceva, gli regalava un insolito senso
di sconfinata libertà. Pensieri troppo filosofici, evaporati con l’esortazione
di Fabio, già in acqua da un po’:
-Vieni giù, è una favola!
Invitante, certo. Ma erano pur sempre in mare aperto. Una scogliera di
fianco, e poi solo orizzonte.
Ansia o meno, non gli restava molta scelta, e, dopo un tempo di preparazione dilatato, si era tuffato da poppa, già armato di tutto punto di pinne
maschera e boccaglio. Pessima idea, se ne era immediatamente reso conto.
L’impatto gli aveva fatto staccare la maschera, e ora gli sembrava di sprofondare all’infinito, senza vedere niente, in un freddo totale, in uno spazio senza
barriere. Credeva di soffocare, non avrebbe mai avuto l’aria necessaria a risalire. E stava in un certo senso affogando, le vie respiratorie colme d’acqua
salata che si insediava, annebbiandogli il cervello e intasandogli i polmoni.
Quant’era durato quel tuffo? Pochissimi secondi, per poi riemergere in
superficie trasportato da forze non sue, con il cuore a mille e il fiatone, annaspando per poter stare a galla, bevendo altra acqua dallo spavento. Era vivo.
Incredibilmente scampato alla tragedia. Tragedia di cui, peraltro, nessuno
sembrava essersi reso conto a giudicare dai sorrisi di Tore e dall’incalzare di
Fabio:
- oh, ci sei? Questa è un’antichissima parete lavica, vieni a vedere che
spettacolo sommerso.
Il tempo per riprendersi non gli era stato concesso: forse perché, in
fondo, non c’era niente da cui riprendersi. Ancora ansimante e sconvolto dai
movimenti liquidi che da un momento all’altro si era trovato a compiere con
spontaneità, Giorgio si era tranquillizzato, aveva regolarizzato il respiro, e
potuto inserire il boccaglio.
Se dapprima, infilando la testa in acqua, quei movimenti flessuosi di alghe
sulla roccia sommersa gli avessero comunicato un certo turbamento, avvicinandosi si scopriva una babilonia fluida e floreale. I colori delle rocce, lava
- 79 -
incandescente pietrificatasi in mare. Le bollicine create dal suo nuotare. La
mirabolante varietà di organismi che tra quelle pareti e la sabbia vivevano
indisturbate, in un mondo incontaminato e indipendente. Giù nel blu.
Giù nel blu, dove tutto si muoveva rallentato e plastico, dove i raggi del
sole entravano come lamine abbaglianti e rimbalzavano l’acqua di tinte fluorescenti.Tutto era sommesso, calato al dolce ondeggiare delle alghe. Ritmico,
onirico. Regolare a tratti, per poi spezzare la melodia con spruzzi di sabbia
tra cui compariva un riccio, aculei nero di seppia, luminescenti. Movimenti
lenti, pacifici, rilassati. Non era blu oceano, inquietante di mistero e profondità. Era il paradiso azzurro, il nirvana dell’anima, l’ondeggiare dello spirito,
felice e in armonia con l’universo.
Sarebbe rimasto così per ore, a stella marina, trasportato dalla corrente
lieve, osservando incantato il fondale, esplorando meravigliato le grotte a
pelo d’acqua, ridendo dell’eco delle voci sua e di Fabio. Credeva che la vacanza al mare fosse spiaggia e asciugamano steso al sole. Credeva che la pace
fosse quella. Secchielli, urla e ghiaccioli. Perché il mare lo vedeva tutti i
giorni, ma non ci era mai entrato dentro.
E scorrere il dito sulla cresta dell’onda lasciata dal gommone, in un tramonto lilla sulla scia del ritorno, non è guardarlo dal lungomare, piantato a
terra. È esserci dentro, starci proprio in mezzo a quel blu. Un puntino umano
invisibile e felice, parte di quello sconfinato mondo sommerso.
- 80 -
Il mare di Jules
Roberto Cipolato
Il vento arrivò all’improvviso da ovest, foriero di tempesta. Il cielo terso
cambiò presto umore lasciando spazio a torreggianti cumulo nembi che si
ammassarono minacciosi all’orizzonte come un armata prima della battaglia.
Il vecchio guardò i gabbiani sfilare sotto le nuvole e puntare verso la terraferma. Gocce di pioggia gelida miste a grandine presero a flagellare il ponte
di legno della vecchia goletta. A dispetto degli anni Jules salì con agilità sul
castello di prua dell’Etienne reggendosi sulla scotta della grande vela aurica.
Non sembrava preoccupato mentre guardava verso il largo, una vita passata in mare ti prepara sempre al peggio. Aveva alle spalle quarant’anni di
esperienza nella marina militare francese ed alle tempeste era preparato. Attorno agli occhi, profonde rughe striate gli conferivano la tipica espressione
da vecchio lupo di mare, regalo di una vita trascorsa strizzando lo sguardo
al riverbero del sole. Quegli anni intensi passati tra gli oceani gli resero estranea la terraferma e così, una volta in pensione, si comprò quella vecchia
goletta che per anni aveva visto ormeggiata dondolarsi mestamente ogni volta
che tornava alla base di Brest.
Prese così le sue quattro cose trasferendosi sull’ Etienne. Dopo mesi di
lento ed amorevole restauro la barca fu pronta a riprendere il mare. Era sempre stato un tipo solitario e senza far troppo rumore, a sessantanni con quella
barca fece il giro del mondo. Non ci si vedeva proprio a rintanarsi in qualche
posto da vecchi spegnendosi lentamente, se doveva fare il grande salto sarebbe accaduto in mare. il mal tempo ormai era arrivato, pensò a quello che
si diceva nelle bettole del porto vecchio, il mare della baia non era più quello
di una volta. Soppesò il da farsi, doveva sfuggire in fretta alla tempesta, si
decise per sciogliere anche la vela a prua per guadagnare qualche nodo. Agì
rapidamente con gesti esperti,la tela grezza, di un colore rosso acceso salì
velocemente lungo l’albero sbocciando in un istante tendendosi al vento.
Due baffi di spuma bianca si aprirono ai lati della prua mentre fendeva
decisa le onde, la corsa era cominciata. Un raggio di sole lacerò la coltre di
nubi. All’orizzonte, la sottile linea di fusione tra cielo e mare cominciò a
muoversi. Prese i binocoli, un espressione di incredulità alterò il suo volto
solitamente imperturbabile. L’onda alta almeno sei metri avanzava maestosa
e inesorabile. Non poteva vedere la seconda ancora più grande seguirla a
- 81 -
circa un miglio di distanza. Rimase poco a pensarci sù, si infilò in fretta il
giubbotto salvagente e si preparò a riceverla. Buttò sottocoperta tutto ciò
che poteva cadere fuori bordo e chiuse il boccaporto. Chiedere aiuto via
radio era inutile, l’onda sarebbe arrivata molto prima, doveva affrontarla e
basta. Fece solo in tempo ad ammainare la randa, in meno di un minuto gli
fu addosso, anticipata dal crepitio del gigantesco muro d’acqua.
Si scagliò con violenza inaudita sulla barca rovesciandosi con fragore sul
ponte, Jules si portò a fatica verso il timone, tenendosi al cavo di sicurezza
L’Etienne si inclinò, lottò come un cavallo imbizzarrito ma riuscì a scrollarsi
quella valanga d’acqua rialzando cocciuta la prua, pronta a resistere. Fu un
colpo poderoso e in quella lotta impari l’uomo e la sua barca ebbero la peggio. La forza devastante del mare aveva spezzato l’albero. La vela strappata
era rimasta attaccata alla drizza e sbatteva con secchi schiocchi come una
fiamma al vento. Cercò di sganciarla ma era ostacolato dalle raffiche. Con
uno sforzo disperato aprì il moschettone rimasto attaccato all’albero, il bozzello d’acciaio della vela lo colpì al volto provocandogli un profondo taglio.
Dopo quella sfuriata il mare si placò, una calma apparente calò all’improvviso. Si accorse di aver perso qualsiasi riferimento, nebbia e nuvole basse
avevano avvolto la zona. Prese fiato, cercò di fare una stima dei danni. Ridusse
a pezzi con l’accetta il moncherino dell’albero che si era messo di traverso
tenendo sbandata l’Etienne e sgomberò il ponte. Era arrivato il momento di
avvisare la capitaneria. Il pannello radio era sottocoperta, aveva appena
aperto il boccaporto per scendere quando un boato si ingigantì di colpo come
un crescendo d’orchestra.
Gocce d’acqua salata lo colpirono con violenza sulla faccia spinte dal
poderoso pistone della seconda onda che dissolse la nebbia irrompendo sulla
scena ad una velocità devastante. La parete d’acqua verde, fredda come l’occhio di uno squalo a meno di cento metri da lui, gli gelò il sangue. Superava
la prima di almeno un terzo, era così alta che onde più piccole e lente correvano sulla sua cresta come fedeli remore increspandosi in rivoli di spuma
bianca prima di rovesciarsi sul dorso. Per sua fortuna non fu aggressiva quanto
la prima. Sembrò un manto di velluto blu quando si alzò in una maestosa
progressione per un fronte largo un paio di chilometri. Sollevò la barca come
un mostro che emerge dagli abissi. L’Etienne salì verso la ripida cresta con
un angolo assurdo e avrebbe dovuto già ribaltarsi. Jules era come in trance
affascinato da quella dimostrazione di forza, poteva vedere le nervature iridescenti dell’acqua all’interno del gigantesco tunnel formato dall'onda men-
- 82 -
tre si rovesciava. La goletta rimase sospesa un interminabile istante sulla cresta prima di precipitare pesantemente nell’incavo con un tonfo sordo che
sembrò squassare lo scafo. L’onda passò, proseguì la sua corsa inarrestabile
verso il porto lasciando sbatacchiare la barca come un guscio di noce. Ce la
faremo anche stavolta disse tra sé.
L’ Etienne era in acqua dagli anni trenta, gemeva e scricchiolava, ma assieme ne avevano affrontate di situazioni difficili. Probabilmente una volta
all’attracco qualcuno gli avrebbe detto male parole per essere uscito ancora
da solo. Non aveva più l’età dicevano, prima o poi getteremo nella baia una
corona di fiori. Che ne sapevano loro del mare. Brontolò in silenzio, asciugandosi il rivolo di sangue che gli colava copioso dal mento, guardò in sù,
verso il cielo, forse a cercare l’attenzione di Dio. A questo pensava, mentre
navigava verso il porto. In un lancio di dadi, cielo e mare rimasero a contendersi quel puntino solitario decidendo il suo destino.
- 83 -
Romantici ricordi
Antonia Colella
Mi ritrovo qui, sola e pensierosa,seduta su questa spiaggia che ha trattenuto
in sé, per tutta la giornata,il calore sprigionato dal settembrino sole. Vedo in
lontananza passeggiare, mano nella mano, una coppia di anziani, testimoni di
un visibile grande amore, che a tratti si abbracciano e fissano felici l’immensità
del mare. Il soave suono delle onde che a riva bagnano i miei piedi mi riporta
a pensieri lontani, dal sapore di spensieratezza e adolescente amore.
Era un’estate di diversi anni fa quando, scanzonata giovane donna,conobbi te in modo decisamente insolito.Ti vedevo da lontano girare e rigirare
una cartina stradale e guardarti intorno, come un imponente galeone che ha
perso la sua rotta. Chi l’avrebbe mai pensato che saresti stato il mio dolce
tormento e l’artefice di uno dei periodi più spensierati della mia vita!
Suscitasti in me un misto tra curiosità e dolcezza e, solo dopo alcuni minuti in bilico sul da farsi, decisi di venirti incontro. La tua lingua straniera mi
spiegò che eri partito dalla tua terra natia per conoscere nuovi posti. La sintonia fu immediata; non mi sarei mai stancata di ammirare e contemplare i
tuoi occhi cerulei come l’infinità del mare. E proprio questo mare fu testimone delle nostre lunghe passeggiate e di infinite parole dette sulla sua riva.
Era pura magia quando aspettavamo in silenzio la sera e lo spuntare della
luna: vederla uscire di soppiatto dalla linea nera che separa il cielo dal mare
per poi alzarsi timida con la sua luce candida era uno spettacolo divino.
Ora sono qui,sola e malinconica,a rimirare lo stesso mare che ci ha visti
brevemente felici; questo mare stupendo che con il suo scintillare fa viaggiare
la mia mente verso pensieri lontani. Il mare può rendere infiniti attimi piccolissimi ed infondere gioia e serenità anche alla persona più cupa e sfiduciata.
La potenza e la magia del mare può fare questo e molto altro ancora perché questa immensità ha la capacità di restituire tutto dopo un po’, soprattutto i ricordi.
- 84 -
Dalla finestra della scuola, al mare
Angelo Colombo
Dalla finestra della scuola si vedeva un capannone industriale con un
grande piazzale solitamente adibito a parcheggio di camion e macchine di
chi, dentro quel capannone, lavorava.
Alberto era un bambino quando scelse di navigare, rimase affascinato dai
racconti del nonno, sempre pacato eppure appassionato nel narrare vicende
di mare da lui vissute.
Le lezioni a volte erano noiose anche per chi, come Alberto, aveva scelto
il Nautico come base per il suo futuro. La finestra, il capannone e il piazzale
erano sempre lì, e ogni tanto lo sguardo del futuro navigante vi si posava.
Una mattina, tra i fiori del pesco, quel piazzale sembrava avere qualcosa di
diverso: persone che andavano e venivano e una certa agitazione che fino ad
allora era mancata. Alberto guardava spesso la finestra, in attesa di quello
che doveva dare un senso a quel movimento di persone, a quella tensione
che poteva percepire senza capire. Attese fino a quando dal capannone vide
uscire qualcosa, lentamente, con voci che arrivavano fino al suo banco e che
invitavano qualcuno ancora celato dalla struttura a fare attenzione, a muoversi
piano, a venire un po’ a destra, poi un po’ a sinistra e infine dritto. L’oggetto
misterioso prendeva forma e Alberto era già lì con gli altri sul piazzale, lontano dalla sua aula e dalle parole di chi voleva insegnargli le nozioni teoriche
per affrontare una vita in mare. L’emozione cresceva insieme alla sagoma
che usciva lentamente dal capannone su un insolito carrello. L’attenzione di
Alberto era tutta per quello che accadeva su quel piazzale, dove uomini con
occhi attenti osservavano ogni piccolo movimento di quella sagoma sempre
più affascinante per quel giovane studente, che mai, avrebbe pensato di avere
a pochi metri dal suo banco di scuola qualcosa di simile.
Il sole del mattino dava ora forma a quella sagoma, facendo splendere le
superfici e gli acciai.
“Ciao, da dove sbuchi tu?” – a rivolgere la parola ad Alberto era un signore più giovane di suo nonno ma più anziano di suo padre, con i capelli
bianchi, gli occhi chiari e un sorriso amico.
- 85 -
“Vengo da scuola… - indicando l’edificio – ho visto dalla finestra che
stavate…insomma, questa!”
“Ti piace?”
“E’ bellissima…”
“Ci sei mai stato su una così?”
“No mai, credo che la mia famiglia non potrebbe averne una”.
“Per andarci non è indispensabile possederla. Quanti anni hai?”
“17”.
“Domani la dobbiamo provare, la mettiamo in acqua qui sul fiume e andiamo fino al mare. Puoi venire con noi se vuoi, magari ci dai anche una
mano”.
“Ma io non so fare molto…”
“Non sai scrivere?”
“Sì certo…”
“Allora ci aiuterai a registrare tutti i dati che dobbiamo rilevare se ne hai
voglia”.
“Certo, avviso i miei…per la scuola…”
“Naturalmente, digli pure di chiamarmi se vogliono, il mio numero è
qui, guarda”.
Alberto prese il biglietto da visita sovrastato da un nome in blu che era
l’inverso del cognome di quel simpatico signore. Guardò attorno un po’ confuso e insieme eccitato, capì che quella mattina rappresentava un momento
importante, questo in parte lo emozionava e in parte lo spaventava.
Era il 1984, Alberto non è mai sceso da quella barca e continua oggi ad
emozionarsi quando ne vede di nuove, chiamato a provarle per conto di chi
si affida al suo giudizio per decidere se acquistarle. Quel simpatico signore
dal sorriso amico e gli occhi vispi non lo ha più rivisto, ma sa che nonostante
l’età è ancora impegnato a costruire barche, seppur con un nome diverso da
quelle che costruiva allora.
Sarebbe bello ringraziare - pensa oggi Alberto – la persona il cui cognome all’inverso ancora è simbolo di una nautica fatta di uomini che sperimentano, ricercano e creano seguendo una passione autentica, la stessa di
quella mattina di primavera nei suoi occhi, la stessa che ancora oggi, entrambi, posano sul mare.
- 86 -
“Mario”
Mauro Corsini
La ragazza continua a camminare sorridendo, senza neppure guardare
davanti a sé. Che scemo che è! Ora gli dico che è uno scemo, dai! Così i suoi
pollici duettano nervosi e frenetici con la tastiera del cellulare, nella paralisi
della sua attenzione.
La passeggiata lungo il viale alberato porta al mare attraverso una parata
di platani ben allineati.
La ragazza si allontana. Le fa eco il ritmico picchiettare sull’asfalto dei
suoi zoccoletti di legno. Ed il leggiadro oscillare dei suoi vent’anni.
Fino al confine dell’orizzonte, quel mare incanta con il suo brulicare vivido di luce. L’aria tersa dalla leggera brezza gli restituisce una nitidezza quasi
irreale. Il sole illumina radente le facciate delle case, tutte schierate sul lungomare, abbacinandole.
L’uomo se ne sta assorto, poggiato al muretto che s’offre al litorale come
un’immutabile balaustra di pensieri. Il mento sui gomiti. Fissa quell’orizzonte senza degnarlo di uno sguardo. Perché l’orizzonte delle sue riflessioni
è ben oltre di quello. Cos’hai, Mario? Sembri triste. Sei forse malato? Sono
uno sciocco, vero? Perché non lascio in pace il tuo silenzio?
“Mamma! Mamma! Guarda quanti sassi che ho preso!” “Stai attento
Mario! Non allontanarti troppo”. E chissà poi dove sarà Mario, oggi. Cosa
ne sarà stato di lui. L’autunno ad Ostia arriva sempre con l’intenso profumo
del libeccio, che increspa il mare e spruzza sui frangiflutti, riempiendo i polmoni di iodio e l'anima di primitiva vitalità. Luca aveva appena undici anni e
l'impazienza di ritornare a scuola lo torturava. Prima media! Com’era eccitante nominarlo quel trofeo, quell’attestazione di essere finalmente grande!
Mario di anni ne aveva diciannove e l’impazienza di stringere la sua Lucia
sferzava in lui come una virile libecciata. Andiamo a comprare i quaderni,
andiamo, andiamo! Luca tormentava il fratello con la sua impazienza senza
concedere scampo. Unico antidoto era cedergli e condurlo al reparto cancelleria dei Grandi Magazzini del centro e lì lasciar sfogare la sua eccitazione
tra matite e penne colorate, squadrette, righelli e tutta quella meravigliosa
- 87 -
attraente varietà di prodotti per la scuola. Emozione evanescente, che sarebbe
svanita già alla fine di ottobre, ma irrinunciabile sino ad allora. È ancora bello
il mare, sai? Ci sono i cavalloni e si possono cavalcare! In quale altro modo
poteva convincerlo quel rompiscatole di fratello? Rischiava di fargli saltare
l’appuntamento con Lucia. Cero che ci sto attento, mamma non lo perderò
di vista, sì. I genitori gli avevano raccomandato di restare sempre con lui.
Perché lui era il fratello maggiore. Perché lui era un ragazzo responsabile.
Responsabile!
Schiamazzi e grida di ragazzi rincorrono un pallone. Ma Mario è lì, immobile. L’estate è appena all’inizio ed il caldo promette di essere il peggiore.
Come ogni estate ad inizio estate. Per Mario quell’estate si chiamava Lucia.
Era Lucia. Ed a settembre prometteva di non terminare mai. Erano stati altre
volte insieme sulla spiaggia. Ci andavano nel pomeriggio, quando pian piano
il più delle persone defluiva in massa verso la sera, a saziare le fresche vie
del centro con oziosi aperitivi e rilassanti passeggiate. Ci andavano nel tardo
pomeriggio, quando lei si lasciava baciare. Il pallone raggiunge il muretto
con una serie di piccoli rimbalzi, quasi scivolando sul fondo cosparso di granelli di sabbia. Non viene perso di vista un solo istante dagli sguardi concentrati dei ragazzi, che gli si avventano contro ributtandolo sempre più in là ad
alimentare una rincorsa infinita. Quei baci avevano un sapore nuovo. Quello
dei grandi. E cancellavano la sua infanzia, la sua adolescenza. Sciogliendola
la facevano scivolare via. Avevano percorso quel viale quasi correndo. Luca
si consolava calpestando a saltarello una coltre di foglie noiosamente croccante. Mario era felice. Era un uomo ormai, Mario.
Il pallone schianta di colpo la vicina saracinesca dell’edicola all'angolo di
viale Stella Polare, ancora chiusa a quell'ora, e le grida dei ragazzi si confondono presto con il fischiare del trenino metropolitano che da Roma porta
ogni venti minuti un torrido convoglio gonfio di villeggianti, sudati e sbuffanti.
Luca? Dove sei Luca? Luca, Luca, mio Dio! Guardami Luca! Respira! Ti
avevo detto di non allontanarti, Luca! Che combinazione: uno, tra quei ragazzi, si chiama Luca. Luca, passa! Passa sta palla, Luca! I cavalloni si rincorrevano. Continuavano a rincorrersi. Erano allora d’una impetuosità
inafferrabile. Ora, invece, la brezza che gioca con la superficie calma dell’ac-
- 88 -
qua, la increspa appena un poco. Dove vai Mario? Dove? A volte il dolore invade lo spazio lasciato tra un respiro ed il successivo. A volte lo fa il silenzio.
Li ama entrambi, Mario. Respiro dopo respiro. Il dolore ed il silenzio diventano Mario Respirano per Mario. Pensano per Mario. Mario è ora solo una
coltre afona di ricordi. Ricordi che si allontanano fino al confine dell’orizzonte, su quel mare che pur incanta con il suo brulicare vivido di luce.
- 89 -
In rotta per Alessandria
Brunello Gentile
Vedendolo perplesso sul gioco di cavi che gestiscono il varo delle scialuppe di salvataggio, glielo aveva spiegato.
Tra l’uomo ed il ragazzo che, di fronte al mare indifferente alla vita, seguivano la scia della nave in rotta da Corfù ad Alessandria era nata un’intesa
spontanea.
La ringrazio signore, mi presento: Paolo Fernetti - aveva detto il ragazzo
dal volto aperto.
Molto piacere, giovanotto, puoi darmi del tu!...
Alle 05.00 del 15 luglio Paolo è sul settimo ponte a fissare oltre la prua.
Vuoi sapere dove ci troviamo? - una voce alle sue spalle lo fa sobbalzare:
è lo sconosciuto del giorno prima.
Magari! – risponde con un sorriso.
L’uomo agisce sul GPS manuale.
Il faro sulla sinistra è Capo Krios, quello più avanti è l’isola di Gaudos.
Stai vedendo la costa occidentale di Creta, ancora 354 miglia per raggiungere
Alessandria.
Dovremmo arrivare domani!
Hai ragione! Alzato presto stamane?
Sì… A quante miglia siamo dal primo faro?
Ti creo sullo strumento una rotta fino al promontorio che gli fa da base,
posiziono il cursore e poi… go to ed enter. Ecco, appaiono dati: miglia all’arrivo, rotta da seguire e tempo occorrente all’attuale velocità. Vedi l’isola
sullo schermo? Calcola tu la distanza dal secondo faro.
Porge lo strumento e lascia che il ragazzo agisca.
6,8 miglia! - La voce dimostra entusiasmo.
“È sveglio il giovanotto!’” - pensa fra sè.
Bravo! Che indirizzo sceglierai dopo la licenza media?
Un giorno vorrei comandare una nave. E’ solo una speranza!
Allora saremo colleghi.
Comandante? - Paolo è imbarazzato - Ma io ti sto dando del tu!
- 90 -
Continua a farlo tranquillamente!
Anche tu ti alzi prestissimo la mattina!
Vivo solo, ragazzo, mia moglie è morta 18 anni fa!
Figli?
No, ma ne avrei voluti.
Il ragazzo sente l’emozione di quell’uomo di fronte al mare e alla vita.
Capisce che deve intervenire in qualche modo.
Almeno lui, il figlio che non hai avuto, non soffre!
Perché tu?
Mio padre si è risposato e, da quando la nuova moglie gli ha dato una
bambina, io come figlio valgo molto meno.
E tua mamma?
Anche lei si è fatta un’altra vita, la vedo due volte all’anno.
Ti alzi troppo presto, dovresti dormire di più, Paolo! Il sonno è l’oblio
che accompagna il riposo delle nostre tristezze... - l’uomo sospira, sa che
non è così per lui, da troppo tempo.
Al mattino il mare mi ascolta e mi risponde. Se lo dico a qualcuno mi
prende in giro.
Di dove sei?
Di Trieste. Da settembre frequenterò il Nautico. Anche a casa mi alzo
presto e guardo il mare fino alle sabbie di Punta Sdobba. Gli chiedo di aspettarmi e di realizzare il mio sogno.
Gli hai affidato un sogno?
Sì! E, quando arriva, il vento da nord-ovest ripete le mie parole.
La tua nave viaggerà con il mare, il vento ed il tuo segreto?
Quel giorno Il segreto non servirà più. Sarò io a decidere!
L’uomo sorride: quelle parole sono semplici e profonde.
Ti piacerebbe visitare la plancia comando?
Gli occhi del ragazzo si illuminano.
Vieni, vediamo se ci aprono...
Avvicinandosi all’ingresso della sala comando chiedono di conferire con
un ufficiale e appare il comandante in persona.
Rino Ragusa!? Almeno dieci anni che non ti vedo! Perché non hai avvisato
che eri a bordo?… Questo è tuo figlio?… Caro ragazzo, tuo padre è stato
- 91 -
un grande comandante! Entrate!
Il ragazzo si sofferma su ogni strumento. Un ufficiale si avvicina e scopre
di dover rispondere a domande molto specifiche. Parlano a lungo prima di
raggiungere i due comandanti che, dialogando, fanno riaffiorare ricordi comuni.
Comandante Ragusa, - esordisce l’ufficiale - mi complimento per la preparazione di Paolo: mi ha posto domande che solo persone esperte di navigazione fanno solitamente. Senza dubbio seguirà le orme del padre!
Da questo momento - sentenzia il comandante, quasi a dare una disposizione al suo ufficiale - per tutta la durata della crociera, ‘Paolo Ragusa’ sarà
ammesso in plancia comando per mia personale autorizzazione! - poi, rivolto
al ragazzo - Vieni quando vuoi, con o senza tuo padre.
Caro Franco, - interviene Rino Ragusa prendendo per un braccio
l’amico, allontanandolo di qualche metro e iniziando a raccontare una storia
inventata al momento - ricorderai che Alda, mia moglie, è morta 18 anni
fa... Qualche tempo dopo ho avuto una breve relazione con una donna sposata e solo da poco ho saputo che aveva avuto un figlio, ufficialmente del marito, in realtà mio. Donna e marito sono a bordo. Sull’elenco dei passeggeri
il ragazzo è identificato come Paolo Fernetti... Io sto facendo questa crociera
per stare vicino a mio figlio.
E bravo Rino! Se non me lo avessi confessato tu stesso non avrei mai sospettato che uno come te avesse doti da ‘Casanova’ e ora scopro che ha anche
un cuore di padre. Trovo geniale l’idea della crociera: ti ritrovi a navigare
con tuo figlio senza insospettire il marito!... Mah... Il ragazzo è al corrente?
Credo sospetti la verità...
I due uomini tornano vicini all’ufficiale e al ragazzo.
Vuoi rimanere in plancia comando?
No, grazie, comandante... Andiamo a far colazione, papà? Poi vorrei che
mi spiegassi un’attrezzatura che ho visto a poppa.
Dopo aver salutato escono dirigendosi verso il bar.
Scusami se prima ti ho chiamato ‘papà’. Non volevo perdere il privilegio
concessomi solo perchè mi credevano tuo figlio.
Io ho fatto di peggio! Ho inventato una strana storia al mio amico Franco
e, devo confessarti, non so perché, ho fatto credere che tu sia mio figlio!
- 92 -
Forse anch’io non volevo perdere il privilegio che mi era stato riservato
come padre.
Scoppiano entrambi a ridere.
Facciamo colazione insieme? Avrei fame, papà!
Volentieri…
Seduti al tavolo è Paolo a parlare.
Dove abiti?
A Grado, con vista sul mandracchio.
Posso venire a trovarti?
Ho una barca a vela, ti va di uscire insieme? Cerco skipper!
Sai cosa avevo chiesto al mare?
Dovrei immaginarlo?
Che mi facesse trovare quel padre che sogno da sempre.
...Il mare indifferente, una nave in rotta per Alessandria…
- 93 -
Scilla e il mare
Valentina Grazi
Ogni giorno la bella Scilla si recava a fare il bagno nella spiaggia di Zancle,
sulla punta più a est della Sicilia.
Alle prime luci dell’alba raggiungeva la spiaggia dopo aver superato il
fitto di alberi che la nascondeva e si avviava verso un’insenatura arcuata, che
preferiva. Subito correva verso le onde e ad ogni passo nell’acqua si sentiva
più a casa, conciliata con le sue origini.
Per lei il mare era un genitore generoso, attraverso il quale gli era fornito
tutto ciò che amava, e per questo gli era grata. Senza l’acqua, mandorli, limoni, ulivi di quella splendida isola, non sarebbero potuti esistere, né i pesci
variopinti, o le conchiglie, dalle forme impensabili, o il rumore delle onde,
melodia dolcissima alle orecchie di chi, come lei, viveva in quel luogo.
Inoltre dal tratto di costa poteva vedere un lembo di terra oltre il mare e in
quello stretto si sentiva intimamente protetta.“Voglio vivere in queste acque
fino alla fine dei miei giorni”si disse una volta, senza immaginare che così sarebbe effettivamente stato.
La ninfa attribuiva al mare il merito di tutto ciò che di bello popolava il
suo angolo di mondo. Era colma di riconoscenza per quella madre grandiosa
che era l’acqua, e ogni giorno discorreva con lei, nuotava, raccoglieva conchiglie, ascoltava il suo strano modo di comunicare. Si diceva che non era la
sola ad amare quel luogo; anche fiumi, torrenti, ruscelli rispettavano il mare
pagandogli con costanza un tributo in acque, proprio come ad un re.
Al tingersi di rosa dell’aria, poi, si fermava a guardare la striscia d’acqua tra
la Sicilia e l’altro lembo di terra e sorrideva come si può sorridere ad
un’amica con cui si ha condiviso un bel momento.
Infine capitava che si addormentasse sulla riva, con le mani o i piedi che
sfioravano le onde al loro infrangersi sulla battigia. Chi l’avesse vista dormire
in una simile posa, avrebbe detto che condivideva il suo giaciglio con una sorella cara, e che le stringeva la mano per sentirla vicina anche nel sonno.
Proprio in una di quelle sere, quando ormai la ninfa dormiva da tempo, abbracciata e cullata dalla sua amata genitrice, Glauco la vide per la prima volta,
- 94 -
al chiaro di una grande luna. Nella luce perlacea distinse a stento dove finisse
la veste avorio di Scilla e dove iniziasse la schiuma delle onde e gli parve fossero un tutt’uno. Gli piacque così tanto quella visione, stimò così raro un
cuore che apprezzasse l’umile elemento, che finì per innamorarsi della fanciulla. Si promise che sarebbe tornato a farle visita e s’inabisso nelle acque
scure degli abissi.
Il mattino seguente, quando le manine della ninfa non riuscirono più a
toccare il corpo delicato della loro mamma a causa della bassa marea, il sonno
della ragazza divenne un inquieto. Si svegliò e lentamente sollevò la testa
bionda dalla sabbia. Nell’aprire gli occhi però si vide innanzi il viso maturo
di un uomo e lanciò un urlo spaventato. Si alzò di scatto e iniziò a correre,
non dopo essere inciampata più volte a causa dei sandali colmi di sabbia
umida. Appena le si parò davanti una piccola collinetta vi si arrampicò e tremante si rifugiò su un gruppo di scogli che s’innalzavano dai flutti.
Intanto le onde si infrangevano fragorose sulle pareti di roccia e a Scilla giungevano schizzi di acqua salmastra. Le parve che con quegli spruzzi il mare la
stesse canzonando per essere così timorosa;“perché scappi, ninfa? Non devi
temere le mie creature” sembrava dicesse. Quando dunque la sua curiosità
vinse la paura, si sporse dallo scoglio.
Glauco nuotava in tondo con lo sguardo rivolto verso l’alto. Osservandolo, notò che possedeva delle finissime pinne argentate al posto dei piedi.
Scilla conosceva l’esistenza di tali creature ma non ne aveva mai vista
una, e come sempre grata al suo mare, lo lodò per essere popolato da esseri
tanto stupefacenti. Prestò attenzione le parole adulatorie del tritone e la
storia di come le sue gambe si erano mutate in coda di pesce, scoprendosi
meno diffidente. Per un attimo fu tentata di scendere dallo scoglio, ma si
pentì subito di aver formulato quel pensiero; saltò giù dalle rocce e sparì tra
gli arbusti.
Glauco non considerò nemmeno per un attimo la possibilità di rinunciare
all’oggetto del suo amore, poiché veniva dal mare, e ciò che ha origine da
tanta pregevolezza non può che essere altrettanto prezioso.
Dunque, forte della sua determinazione, iniziò il suo viaggio verso l’isola
Eea, in cui risiedeva Circe, l’unica che avrebbe potuto aiutarlo.
Lì, nei prati davanti alla sua splendida dimora, circondata da strane creature,
- 95 -
la maga ascoltò il tritone che dalla sua posizione fra le onde rumorose la supplicava di aiutarlo a conquistare la bella.
Ma dagli occhi profondi della donna Glauco intuì che ella lo voleva per
sé e che il suo viaggio era stato vano. Malgrado l’attraenza singolare di questa,
rifiutò di unirsi a lei;"Prima in mare nasceranno le fronde, e in cima ai monti
cresceranno le alghe, che si muti il mio amore per Scilla". E si congedò.
La maga non aveva mai subito un rifiuto tale; oppressa dalla gelosia tritò erbe
e intonò litanie. Con un gesto sgraziato versò l’umore prodottosi sulla tavola
di legno in un’ampolla dal vetro opaco che tenne stretta al petto nel recarsi
a Zancle.
Dormì sonni tranquilli le notti a venire, per nulla turbata per aver avvelenato il mare attorno all’isola. Le capitò persino di sorridere nel figurarsi i
movimenti convulsi della ninfa mentre si trasformava in un mostro.
Infatti quando Scilla era andata a bagnarsi in mare aveva avvertito le sue
gambe come cinte da serpenti e presa dal panico aveva cercato di scacciare
gli animali, Si era contorta terrorizzata, ma nulla era valso ad allontanare gli
esseri immondi, percepiva anzi sempre più intensamente il viscidume.
Quindi aveva realizzato con orrore che le serpi affondavano nelle sue stesse
membra. Vergognandosi profondamente era sparita fra le onde, con la promessa di continuare a servire e difendere il suo mare.
- 96 -
L’uomo del mare
Laura Monfregola
Da tanti anni ormai era tornato sulla terraferma, ma il ricordo della sua
vita marina era ancora talmente forte e vivo dentro di sé che, a volte, mentre
camminava per le strade affollate di gente, gli sembrava di nuotare in un
branco di pesci. Chiudeva gli occhi e gli sembrava di essere circondato dal
Mare, sentiva la corrente che gli accarezzava la pelle e il sapore del sale sulla
lingua.
Era tornato sulla terraferma, ma non poteva vivere lontano dal Mare.
Ogni giorno si sedeva sulla spiaggia e scrutava l’orizzonte, come se potesse
ancora vederla arrivare. Come se lei potesse ancora chiamarlo e lui potesse
ancora seguirla nelle profondità marine, come aveva fatto quella volta.
Quanto avrebbe desiderato solcare ancora quelle acque insieme a lei!
Ma le sirene, si sa, sono esseri delicati e, il giorno in cui quella macchia
nera aveva iniziato a espandersi sul Mare uccidendo e devastando, lei non
aveva resistito al dolore. Era stato un giorno terribile, che aveva cambiato il
suo cuore per sempre. Il suo popolo moriva avvelenato, asfissiato. I pesci soffocavano, gli uccelli rimanevano intrappolati sulla superficie del Mare e non
riuscivano più a spiccare il volo. La gente del suo popolo, la gente del Mare,
moriva senza colpa e lei era impotente.
E come poteva lui, piccolo uomo, svelarle la verità su ciò che stava accadendo? Come poteva dirle che la macchia nera assassina si chiamava petrolio?
Come poteva dirle che il popolo della Terra, al quale lui apparteneva, stava
uccidendo la sua gente?
Molti perirono. I pochi sopravvissuti furono costretti ad andare lontano,
a lasciare le loro case per cercare un luogo più sicuro. Anche lui e la sua sirena
dovettero andarsene.
Poi un giorno, un altro giorno maledetto, la verità venne a galla. Fu un
gabbiano di porto a raccontarle tutto sulle navi e sul petrolio e sulla gente
senza scrupoli che aveva sterminato il suo popolo. La sirena ascoltò in silenzio, senza mai guardare l’uomo negli occhi, poi pianse così a lungo che il livello del Mare salì e gli oceani furono devastati per giorni e giorni da grandi
burrasche e onde altissime. Capì che lui, l'uomo che lei amava, non poteva
non sapere.
Il suo cuore si divise. Da una parte il dolore per lo sterminio del suo po-
- 97 -
polo e l’odio per quella specie umana senza rispetto. Dall’altra parte l’amore
per quel piccolo uomo che aveva lasciato tutto per seguirla e che non aveva
altra colpa che appartenere alla stessa specie dei carnefici della sua gente. Il
conflitto che sentiva dentro di sé era così forte che alla fine il suo cuore si
spezzò. La sirena morì, senza lasciare all’uomo nemmeno il tempo di salutarla.
L’uomo rimase solo. Completamente solo. Di tutti i sogni fatti insieme,
di tutti i progetti, della loro vita insieme, gli era rimasto solo il Mare. L’uomo
vagò a lungo senza meta e dopo molto tempo, ormai stanco di tanta solitudine, decise di tornare sulla terraferma.
Tornò in città, dove una volta c’era la sua casa, ma vide che non c’era
più niente. Non c’era più nessuna traccia della sua famiglia, dei suoi amici,
dei luoghi che conosceva. Doveva essere rimasto sul fondo del Mare tanto a
lungo da cancellare ogni ricordo di sé. Ormai era come se non esistesse. Non
conosceva più nessuno, non aveva più niente. Camminava per le strade a testa
bassa e nessuno si accorgeva di lui. Aveva voglia di gridare: “Guardatemi, ci
sono, esisto anch’io!” ma sapeva che non sarebbe servito a niente.
Allora pensò che in quel Mare avrebbe voluto affogarci. Nuotare fino al
largo, lasciarsi trasportare dalla corrente e poi, lentamente, andare giù. Sempre più giù, fin dove non fai più in tempo a risalire. Una volta ci aveva anche
provato, ma era stata un’idea stupida perché lui non poteva affogare. Ormai
era mezzo uomo e mezzo pesce e i pesci non affogano.
Da allora erano passati molti anni e lui era invecchiato. Viveva ancora
sulla terraferma, vagabondando, senza mai allontanarsi troppo dalla costa. Il
ricordo della sua sirena lo teneva in vita perché il dolore per la sua morte
non era mai riuscito a superare né la felicità degli anni trascorsi insieme, né
l’amore per lei e per la sua gente. Durante il suo peregrinare aveva visitato
molti Paesi e città e si era accorto che tante persone, pur vivendo vicino alla
spiaggia, non conoscevano davvero il Mare. Lo usavano, ma non lo amavano.
“Ora so il perché di quella tragedia”, pensò.
Fu allora che decise.
“Regalerò a queste persone la mia storia, perché vedano quanto dolore
possono provocare. Gli darò il mio amore per il Mare, in modo che non possano più fargli del male. E gli darò la felicità che conservo nei miei ricordi:
ogni volta che guarderanno il Mare saranno felici come lo ero io quando vivevo con la mia sirena e in questo modo non saranno più in grado di nuocere
alle creature che lo abitano”, disse.
- 98 -
Così iniziò a distribuire la sua storia, il suo amore e la sua felicità a tutti
coloro che incontrava. Alcuni lo prendevano per matto e lo cacciavano via in
malo modo ma molti, moltissimi, lo ascoltavano. Accettavano i suoi doni e li
custodivano con cura e lui vedeva nascere in loro, poco a poco, l'amore per
il Mare e per le sue creature.
“Bene”, pensava l’uomo ma, per poter regalare a quella gente l’immensità
del Mare di cui era fatto, si stava lentamente svuotando e quando ebbe terminato non gli rimase più niente. O meglio, quasi niente.
Gli restò solo un granello di felicità, piccolo come un granello di sabbia,
che era rimasto incastrato tra gli ingranaggi del suo cuore, proprio vicino
alla branchia sinistra, e dal quale non poteva separarsi: il ricordo del primo
bacio con la sua sirena. Sapeva che senza quel ricordo, legato agli anni della
gioventù e dell'amore, non avrebbe potuto continuare a vivere.
Allora sentì forte il richiamo del Mare.
“Non ho più niente da fare qui”, disse. Strinse forte a sé quell'ultimo granello di felicità, si gettò nel Mare e sparì per sempre.
- 99 -
Il canto della balena
Paolo Muzzi
Il cielo era un arazzo impazzito di nubi e nebbie sempre in moto, spinte
da gelidi venti del nord.
Le onde dell’oscuro mare si muovevano come sinuosi serpenti, danzatrici
possenti d’un rito arcano, sollevando la lancia da caccia con una certa delicatezza decisa, quasi a voler dimostrare che la vita è relatività assoluta e che
basta poco perché la furia possa cancellare ogni cosa in un attimo, senza una
ragione che altro non sia se non legge arcana..
Così era il mare quel giorno, possente ma carezzevole, sinuoso ma deciso, scuro e impenetrabile, gentile ma senza riguardo alcuno per le conseguenze della propria improvvisa furia. Una furia solo accennata, al momento,
ma comunque promessa in un incerto futuro, se necessario. La lancia da caccia procedeva decisa verso il varco delle balene; otto rematori, un timoniere
e il lanciatore con l’arpione pronto all’appuntamento con la morte.
La baleniera era oramai un punto alle loro spalle, neppure tanto grande,
tenue filo che legava quegli uomini all’umanità, ultimo anelito di speranza
per un ritorno a casa. Eppure lui, l’uomo dell’arpione, ritto come un titano
sulla prua della lancia, venne assalito da una torma di dubbi e domande, pensieri contrastanti che cozzavano contro ogni logica, formando mulinelli sempre più complessi e stranianti. Non era la prima volta che cacciava balene, i
suoi 30 anni da poco compiuti, seppure pochi in assoluto, li aveva spesi a costruirsi una solida reputazione di buon cacciatore, forte e deciso, implacabile
ma mai crudele. Mai crudele, ripensava tra sé e sé, mentre le mani nodose
stringevano l’arpione, col berretto di lana calato sulla testa, i capelli lunghi
che gli scendevano da ogni parte, la barba ispida incrostata di sale e lo sguardo
ferino che tagliava l’orizzonte con pupille grigie, sempre mobili, attente. Gli
altri suoi compagni remavano con forza cupa, cantando una cadenzata ballata
gaelica, una strana melodia che parlava di battaglie e di Dublino liberata.
Scosse la testa, l’uomo dell’arpione, pensò che in fondo gli Irlandesi sono
sempre uguali, fossero anche in presenza del Diavolo in persona eccoli lì,
pronti a bere, ad ubriacarsi magari, a cantare comunque dei loro ricordi e…
- 100 -
a combattere! Ma com’era lontano il Quebec, pensava lui mentre stringeva
l’arma fatale, quella terra d’un tempo che aveva lasciato da anni in un lontano
presente ed ora quel mare, scuro, minaccioso come lo sguardo insondabile
d’un orso grizzly, il mare e quei nove Irlandesi, la loro canzone e la balena…
la balena!
Misteriosa la balena, maestosa come la cattedrale di Montreal, ferma,
immobile, li osservava dall’alto della sua superiorità morale, messaggera
d’una saggezza sconosciuta e antica. Un urlo gutturale quasi proveniente da
una sola bocca, i remi vennero tirati su, la barca rallentò l’andatura, parve
fermarsi o forse, caso strano e inspiegabile, si fermò davvero. Quindi l’uomo
a prua sollevò l’arpione, tese il braccio per scagliare il dardo, il polso d’acciaio, nervi muscoli, ogni riserva di forza pronta a scattare, a ferire, ad uccidere. Gli Irlandesi tacevano, i volti tesi in una strana attesa: barbe e berretti
come congelati, labbra serrate e occhi sgranati, occhi verdi, neri o castani,
mute le voci, sussurrate le preghiere. Gli occhi della balena erano rimasti
fissi sulla piccola barca, scuri ma brillanti allo stesso tempo, si poteva vedere
una strana luce splendere nelle nere pupille della creatura; non c’era malvagità in quegli occhi, solo che…non si capiva bene cosa si poteva interpretare
e poi, improvviso, cominciò il canto. Inizialmente in un tono molto sommesso, quindi, di lì a presso sempre più distinto ed incalzante. Che storia
narrava quella voce? Già perché quella era una voce, non c’erano dubbi in
proposito, ma cosa diceva, cosa significava tutto ciò? Gli uomini si guardavano
stupiti, giravano le teste e poterono notare che le acque del mare, poco prima
agitate, erano ora divenute pressoché immobili: la balena cantava ed il mare
s’era fermato, ma che canto era, quale malia, chiese con ansiosa meraviglia
il vecchio timoniere? L’uomo dell’arpione aveva abbassato l’arma e, senza
neanche voltarsi, aveva fatto cenno ai compagni di tacere: ora stava ascoltando
il vecchio canto degli Inuit, quello antico, quello che narrava della fine di
Lord Franklin e di Lady Jane. Non erano versi casuali; ciò che la balena stava
narrando era un storia completa, una vecchia storia. Gli uomini cominciarono a capire di più, poi la balena iniziò a battere le onde con la smisurata
coda, creando una improvvisa muraglia d’acqua e di spruzzi, spaventosa
quanto mirabile. I colpi erano cadenzati, uno dopo l’altro, con un ritmo preciso: l’antica danza di guerra degli Inuit, i tamburi implacabili, pensò il Ca-
- 101 -
nadese lasciando cadere l’inutile arpione sul fondo della lancia. La canzone
si ripeteva come un mantra :- Ascolta le storie del mare se sai ascoltare ma,
vedi, fuggi la furia se non vuoi comprendere, è ora di fermarsi…
Le mani del cacciatore erano ancora strette a tenaglia, i pugni lungo i
fianchi: ma di cosa aveva parlato la voce? E gli altri avevano sentito, avevano
capito? Le loro facce erano terree, forse si, forse avevano compreso. Intento
i colpi erano aumentati di sequenza, lo sguardo della balena era ancora fisso,
calmo, sereno, implacabile. Un ordine secco, improvviso, remi in acqua e si
torna indietro:- Non si vede più nulla, non ci sono balene, ci siamo ingannati,
quasi urlò l’uomo dell’arpione con il suo strascicato accento francese. La
lancia girò agile su se stessa e rapida fece rotta verso la baleniera.
Alle spalle di quegli uomini la balena era un punto neanche troppo visibile ma il suo canto si udiva bene, la storia di Lord Franklin e di Lady Jane
era sempre bellissima, dolce e drammaticamente malinconica. Il tamburo
degli Inuit aveva cessato di battere il suo peana di guerra, lievi brezze carezzavano le onde scure, in alto nubi e nebbie tessevano i loro cangianti arazzi
in un cielo sempre più scuro.
- 102 -
La fine
Paolo Neglia
Pietro era seduto vicino al tavolo, sulla solita sedia impagliata dove, pure
se scomodo, passava quasi tutta la sua giornata.
Già, la giornata, quell’insieme interminabile di ore dal momento in cui
in cui l’orologio biologico interno lo strappava all’oblio del sonno dove, magari, era ancora il comandante Sisti e non un vecchio con l’Alzheimer che
avanzava sgretolando ogni giorno un pezzetto di dignità.
La dignità, Pietro ne aveva sempre avuta tanta, era l’unica cosa che avevano in abbondanza gli diceva suo padre ridendo dopo una giornata passata
sul peschereccio cercando i posti migliori per tornare in porto stravolto di
stanchezza ma con le reti piene. Anche i padri degli amici di Pietro erano
pescatori, in quel piccolo borgo dove c’era solo una salumeria che fungeva
anche da emporio e da bar non c’era altro da fare, l’unica alternativa era andarsene lontano, emigrare ma chi l’aveva fatto tornava al paese ogni anno
con le spalle un po’ più curve e con la convinzione che non si può vivere
senza la salsedine attaccata alla pelle, ai vestiti, persino alle lenzuola del
letto…
Pietro sapeva che con il lavoro di suo padre non si campava bene, e vedere
sua madre sempre stanca, con gli occhi cerchiati e le mani rosse e gonfie per
il troppo lavare: panni, piatti, figli, gli faceva pensare che per la sua donna
non sarebbe stato così, lui voleva spaccarsi la schiena ma la sua donna doveva
avere tutto, soprattutto delle belle mani, lisce e rosee.
Però anche lui era figlio del paese e non riusciva a fuggire il richiamo del
mare, per fortuna era anche molto intelligente e con un’atavica abitudine
alla fatica che gli permise di studiare come un pazzo, guadagnando una borsa
di studio dopo l’altra, fino ad arrivare alla maturità presa all’istituto nautico
ed al primo imbarco, con una valigia piena di paura, orgoglio e aspettative a
cui ne erano seguiti tanti altri.
Fino a qualche anno prima Pietro li ricordava tutti, ogni viaggio aveva
lasciato una ruga in più sul viso perennemente cotto dal sole, ogni rotta era
stata l’occasione per mettersi alla prova e per ritrovare il profumo del suo
mare, quell’odore inconfondibile che ti fa spalancare le narici per fartelo entrare tutto dentro, che ti disintossica dall’aria viziata di case ed automobili e
che ti fa sembrare sana anche una pessima sigaretta fumata controvento.
- 103 -
Ora invece la sua mente era offuscata, dell’uomo energico sempre pronto
a sfidare le onde non come un nemico ma come un leale avversario, era rimasto solo l’involucro, un pietoso ricordo sbiadito di quello che era stato.
Aveva sempre trattato il suo equipaggio con rispetto e correttezza, pur
senza dare troppa confidenza, gli sembrava una cavolata della psicologia moderna, un po’ come essere amico dei figli e condividere tutto, che stupidaggine. I figli e coloro che dipendono da te hanno bisogno di sicurezza e non
di un compagno di giochi.
Questo suo atteggiamento ne gli aveva fatto guadagnare la fama di comandante in gamba e non c’era nessuno che non ricordasse di aver imparato
qualcosa da lui, anche solo un dettaglio di quelli a cui non dai peso ma che ti
entrano sottopelle e diventano i tuoi e li tiri fuori quasi inaspettatamente.
Ora invece il mare era solo un ricordo, o forse nemmeno quello, chi poteva dirlo; ormai non guardava neanche più le foto delle sue navi e, l’ultima
volta che la badante gli aveva messo fra le mani una rivista su cui erano raffigurate alcune delle più belle imbarcazioni della marina, aveva cominciato a
strapparla senza nemmeno guardarla.
La moglie era morta qualche anno prima, il loro era stato un matrimonio
felice anche se lei, scherzando, ogni tanto gli diceva che avrebbe preferito
sposare un guida alpina perché non ne poteva più di passare tutte le vacanze
al mare, già le toglieva suo marito per troppo tempo. Anche a lui i lunghi
imbarchi a volte pesavano ma era come una droga. Solo una volta aveva guardato con odio la distesa luccicante davanti a lui, quando suo figlio era stato
operato per una peritonite fulminante e lui non era lì ad aspettare nella sala
d’attesa dell’ospedale.
Diceva sempre che il suo sogno era di trascorrere la vecchiaia al suo
paese, a sedersi con gli altri davanti ai bar, che nel frattempo erano diventati
due, a raccontarsi storie di tempeste e traversate, a ricordare quelli che non
c’erano più e a guardare i ragazzini che da aprile a novembre dopo la scuola
scappavano sulla spiaggia per tornare a casa con la sabbia nelle scarpe e le
orecchie ancora piene di vento.
Poi però era arrivata lei, la “bestia”, quella maledetta malattia che ti uccide ogni giorno togliendoti i ricordi e il rispetto degli altri, dai tuoi figli che
ti guardano quasi sempre con tristezza e a volte con fastidio, a quello delle
persone che si occupano di te e a cui non importa niente se sei stato un uomo
di valore quando ti devono cambiare per l’ennesima volta perché non ricordi
più come si arriva in bagno. Ormai Pietro era diventato l’ombra di quello
- 104 -
che era stato e forse era meglio così, il comandante, come lo chiamavano
scherzosamente gli amici , non avrebbe sopportato di vedere la pietà degli
altri e sarebbe diventato una belva nel sapere che ormai i figli avevano deciso:
tenerlo a casa era troppo pericoloso e dispendioso e ricoverarlo in istituto
era l’unica soluzione, avevano preso tutti gli accordi ed il giorno seguente lo
avrebbero accompagnato, tanto li seguiva docilmente, bastava solo dargli il
braccio, lui che aveva attraversato mari pieni di scogli ora non ricordava nemmeno più che per camminare occorre mettere un piede davanti all’altro.
Quella notte un violento nubifragio colpì la città dove viveva Pietro e la
badante, alzandosi brontolando perché il temporale non l’aveva fatta dormire, cacciò un urlo nel trovarlo freddo e senza vita, forse le onde che avevano flagellato tutta la notte il molo avevano voluto dare l’ultimo saluto a
chi le aveva tanto amate e che, pur senza ricordarlo, aveva ancora l’odore
della salsedine nelle narici.
- 105 -
Accampati sulle rive del sogno
Federica Nin
«Usciamo a guardare il mare?», propone Luca a un certo punto della serata da me organizzata nel tentativo di vivacizzare il mortorio di questi bui
e tetri giorni invernali, che per scarsa lungimiranza ho scelto di passare al
mare, nella speranza di ritrovare la calda atmosfera e l’allegria estive.
Nessuno risponde e cade su tutti noi un silenzio ingombrante.
La serata sembra decisa a scorrere via insipida e scoraggiante.
«Allora, usciamo a guardare il mare?», insiste Luca, con tono allusivo e
misterioso, che fa passare la voglia a tutti, non tanto per il freddo, ma perché
aveva raccontato troppo bene quella cosa: «... il mare, screziato di enormi
cavalloni spumeggianti. Cercava di trattenermi, mi risucchiava indietro. Ma
io riuscii a raggiungere la riva. Mi sollevai. Mi scrollai di dosso tutti i grovigli
di alghe...».
Luca sa raccontare le cose facendotele sentire sulla pelle, facendoti entrare con lui nella magia di luoghi ignoti e nel mistero dell’esistenza.
Al solo ricordo, mi accorgo che mi sto strofinando via qualcosa di invisibile dai capelli e dalle spalle. Mi tornano le sue parole: «Mi voltai.Tra le onde
fluttuava un corpo vestito in un modo strano. I capelli, raccolti in un codino
intrecciato con le alghe, erano completamente incatramati. Eppure, si vedeva
che erano di un verde luminescente. A ogni onda, l’uomo sfiorava per un attimo la spiaggia e poi scivolava di nuovo via, rotolando sulla sabbia.»
La tenda si muove come se qualcuno la stesse tirando. Rabbrividisco,
anche se la stanza è ben riscaldata. E non riesco a scacciare le immagini che
mi ha evocato Luca: «Un’onda lo rigirò, mettendolo supino, e il suo ghigno
sembrò rivolto proprio a me. E fu allora che capii che non era, non avrebbe
ma-i- po-tu-to -es-se-re… un ghigno… umano».
«Brrrr! Si era lamentata Barbara: «Lascia perdere, Luca.»
Continuiamo a giocare svogliatamente a carte.
A un tratto va via la luce. Black out totale.
«Allora vi voglio raccontare il finale della mia avventura, dopo che mi
ero ritrovato coi polsi slegati e senza più il bavaglio.»
- 106 -
«No, Luca, no. Falla finita!» gridano alcune voci coralmente nel buio.
Un sentore di mistero percorre la stanza. Una sensazione di attesa angosciosa mi invade. E non me sola. La tensione si fa palpabile.
A un tratto mi assordano le urla di Bea e di non so chi altri, che hanno
amplificato le mie quando Luca mi ha sfiorato i capelli bisbigliandomi, nel
buio più completo: «Non erano alghe, quelle che mi si intrecciarono fra i
capelli quando mi chinai a osservare meglio il ghigno della creatura, mentre
ancora ci lambivano le onde. Ma non sapevo più nemmeno se a toccarmi fossero davvero soltanto le onde...»
«Usciamo di qui» ha detto una voce spezzata. «Fuori ci sarà un qualche
chiarore.» Siamo usciti a cercare le stelle. Non c’era altro che si potesse fare. E tutti
noi lo sappiamo fare molto bene, perché siamo un gruppo di inguaribili sognatori. È questo il filo che lega la nostra amicizia.
Ci siamo messi a scrutare la stellata.
Inseguendo l’orizzonte, a un tratto metto a fuoco la battigia, scorgendo
la linea lambita ritmicamente dalle onde.
D’impulso mi tolgo stivali e calze, per ritrovare il contatto con la sabbia.
Lo assaporo benché sia così fredda. Fa pensare che sia polvere di stelle. Concentrandomi sulle sensazioni che si irradiano dai piedi, così diverse rispetto
a quelle provate su questa stessa sabbia in estate, raggiungo il mare. Mi lascio
avvolgere i piedi dalle onde, lievi, cadenzate, gelide. E ne ricavo un senso di
potenza mentre mi domino per fermare i brividi di freddo.
Mi volto e grido: «Venite! Provate!».
Anche se qualcuno brontola che fa troppo freddo, mi raggiungono. Anche
Alice mi si affianca scalza. Ma invece di sondare con me l’orizzonte alla ricerca di una qualche linea di separazione tra mare e cielo, abbassa gli occhi,
come a controllare la presenza di rifiuti e conchiglie. Io mi perdo nel blu di
quel mare diventato di colpo un vasto oceano, che fa tutt’uno con il blu di
quello sconfinato firmamento che ci sovrasta, avvolge e abbraccia, facendoci
sentire che sì, “Qualcosa” deve esserci, oltre a noi e alle nostre piccole e insignificanti esistenze.
Accanto a me si materializza anche Elys, sussultando quando immerge i
piedi. Ma come me guarda lontano e in alto, con aria assorta, come tesa ad
- 107 -
ascoltare e a percepire la voce di quel celeste silenzio che fa da sfondo al lieve
sciacquio delle onde instancabili intorno alle nostre caviglie.
Sospiro, al pensiero di che cosa si nasconde in quell’immensità che ci
circonda e sovrasta e assaporo quant’è bello sentire il contatto della sabbia
bagnata che cede sotto i miei piedi ad ogni nuova onda e quant’è bello contemporaneamente staccare i piedi da terra e inseguire l’«altrove», con lo
sguardo perduto fra cielo e mare con quella misteriosa strisciolina di luna
crescente. Taciamo tutti, immersi in questa esperienza tra sogno e realtà.
«Simili ma diversi. Siamo accampati sulle rive del sogno – mi sembra
che abbia detto qualcuno, non so chi – c’è chi vi si immerge completamente,
chi si ferma sulla riva e vi si piega un po’ solo a specchiarvisi, chi vi cerca
l’immagine riflessa non di sé, ma di altri mondi, o di una Natura superiore
a noi, che spieghi tutto e a tutto dia un senso. E tutti noi, amici sognatori,
amiamo destreggiarci in equilibrio su questa corda tesa fra sogno e realtà,
tra illusione e speranza, senza bisogno di preoccuparci se sotto ci sia la rete
o il ruvido cemento».
Poi all’improvviso una luce soppianta il buio e di lì a poco un fragore
inaspettato ci fa sobbalzare.
Un altro lampo e mi pare di scorgere… No. Mi rifiuto di crederlo.
Un tuono, cui fa eco il battito non meno assordante del mio cuore.
Un altro squarcio di luce: tra le onde fluttua un corpo vestito in un modo
strano. I capelli, raccolti in un codino intrecciato con le alghe, sono completamente incatramati. A ogni onda, l’uomo sfiora per un attimo la spiaggia e
poi scivola di nuovo via, rotolando sulla sabbia mentre rotola via un altro
tuono.
- 108 -
Solo un bicchiere
Giovanni Parigi
Era proprio una brutta sera quella che il signor M., agente di commercio,
stava passando perso tra le viuzze del porto di T. Acqua e vento sferzante
non davano tregua. Nonostante tutto doveva assolutamente raggiungere il
numero 12 del Vicolo del Tritone e concludere un affare che sin dal primo
contatto telefonico considerava a rischio. Tuttavia le necessità dell'azienda
avevano avuto il sopravvento sul suo istinto e, nonostante le sue resistenze,
aveva dovuto cedere alla volontà del direttore commerciale.
Erano da poco passate le 18; il freddo e la stanchezza gli consigliarono
un bicchierino. All’angolo male illuminato della via che stava percorrendo,
vide una vecchia insegna luminosa che, penzolante, funzionava a intermittenza. “Taverna la vela” lesse con difficoltà. Tra sé pensò che per un bicchierino un locale valesse l'altro e, fatte alcune decine di metri, entrò nella
taverna, non prima però di averne osservate da fuori le condizioni attraverso
l’ampia porta a vetri sferzata dalla pioggia.
“Buonasera signore” disse il gestore che, nascosto da un paravento, lo udì
entrare grazie a una fila verticale di campanellini attaccati a una vecchia striscia di cuoio posta quasi a contatto con la porta. Il signor M., superata quella
minuscola anticamera, si trovò in un locale piccolo ma pulito. Fiocamente
illuminato, presentava vaste zone d’ombra. L’arredamento era semplice:
mura senza intonaco lasciavano che le pietre, intervallate da qualche mattone,
sprigionassero un certo calore, mentre i tavoli di legno scuro e le sedie impagliate facevano sembrare il tutto veramente accogliente e tipico.
Il signor M. si trovò di fronte un ometto calvo con dei baffetti bianchi,
tutto intento a lustrare con scrupolo un calice appena lavato. Al saluto del
barista rispose che neppure volendolo quella si poteva definire una buona
serata e, sedutosi in uno degli sgabelli di legno accanto al banco tirato a lucido, disse: “Mi dia qualcosa di suo gusto, giusto per il freddo”.
“Aspetti, credo proprio di avere quello che fa per lei” rispose il gestore
andando verso la fila di mensole lì vicina e dalla quale, dopo un'accurata
scelta, prese una bottiglia che conteneva, immersa nel liquore, un modellino
- 109 -
di trireme greca ormai quasi del tutto macerato dall’alcool.
“Guardi che bellezza! Vele consumate e scafo ormai quasi del tutto corroso. Un grande invecchiamento! Vedrà che sapore!” esclamò entusiasta il
gestore mentre tornava dietro al banco.
“Come vedrà che sapore?” pensò l'agente lasciando che comunque gli
riempisse il bicchiere con il liquore denso e ambrato contenuto nella bottiglia
polverosa.
“Sono anni che aspetto di aprirla e credo che lei sia la persona giusta cui
per primo farla assaggiare” disse l'ometto tutto sorridente.
Udite quelle parole e non considerandosi un avventore, ma solo uno
spinto lì dalla necessità, guardò in controluce calice e contenuto, che assaggiò
con un piccolo sorso. Il sapore era buono, simile a un passito.
“Adesso vada a gustarselo in saletta, al buio insieme agli altri e... si goda
lo spettacolo!” disse gentilmente sorridendo quello strano ometto.
In un primo momento l’agente di commercio pensò di bere al banco e
andarsene, ma la faccenda ormai lo aveva incuriosito. Dette una rapida occhiata attorno e vide una saletta dove regnava il silenzio più assoluto, piena
di gente immobile, come ipnotizzata. Ogni tanto qualcuno di loro aveva dei
sussulti, ma non si udiva parola.
“Che succede?” disse tra sé un po' intimorito, ma determinato a capire
in che razza di posto fosse capitato. S’incamminò incerto verso quella stanzetta semibuia, dove scelse il tavolo più vicino all’ingresso, uno dei pochi liberi, forse perché tra i più illuminati. Si sedette e bevve tutto d’un fiato.
Lentamente l'alcool fece effetto, ma non quello solito. Nella sua mente, infatti, cominciarono a formarsi suoni e immagini. La scena che si stava producendo nel suo cervello era di una grande battaglia di mare, una di quelle
dell’antichità. D’un tratto, pochi ma chiari ordini lo scossero: “Le due triremi
a destra convergano al centro! Ordinate ai rematori una forte spinta! Timoniere, barra a destra!”. Sorrise stupito al ricordo delle parole del barista.
“Certo, vedrà che sapore!” disse con un filo di voce prima di essere catturato
completamente dalla battaglia che si proiettava nella sua mente.
- 110 -
Marina e Desideria
Cristiana Pezzi
“Questo mare mi somiglia” pensa Marina, affacciandosi alla finestrella
dalle imposte verdi di quella casa bianca e antica di fronte al mare. Ogni
giorno vede la stessa scena e ne assorbe gli odori: vecchi zitti seduti negli incavi di pietra dei fianchi delle case guardano chi passa in un viluppo di odore
di mare , cucina, rosmarino. Per lei, che ha 15 anni, questo mondo non
basta. È vero che il mare a volte placa , più ma spesso lascia trapassare le
voci dei marinai dei millenni, delle scorrerie piratesche.
Di fronte allo sposo marino infila le caviglie in acqua, ad ogni onda aspirata
dal risucchio di una forza disgregativa che le toglie il respiro, ma anche la paura.
Più volte sommersa da onde sgarbate, ride come quando era piccola.
Il momento in cui arriva l’onda violacea a staccarle i piedi dalla roccia
scivolosa lo vede come gioco e non come minaccia. Mentre china la testa e
si fa afferrare i capelli, pensa alla madre che pulisce il pesce o al padre di
burro salato che si volta e se ne va. È zitta la cucina di casa, non perturbabile
il gatto bianco e cieco, vuote le giornate sgonfie di fatti e di persone.
Non ci sono sogni appesi ai muri candidi e un piccolo vaso pieno di minuscole stelle di mare è tutto ciò che può contenere l’universo di attese di
una adolescente.
Ad alcuni chilometri di distanza, in una città grande e affaticata, vive Desideria, anche lei ha 15 anni e un piccolo sguardo d’occhi neri che si puntano
ogni giorno al computer. Contrariamente a Marina non è abituata ad annusare le ore del giorno in termini di aromi. Lì al nono piano del grattacielo
non arriva niente, che non sia l’ultima nota olfattiva dei gas di scarico del
traffico là sotto. Giornate trascorse davanti allo schermo ad assorbire musiche
sempre più strane, video sempre più stralunati .Molte comunicazioni, ma
con persone delle quali non conosce neanche la voce a dirsi cose sognate e
mai agite. Silenti genitori vanno e vengono e con un tiepido ciao siglano ingresso e partenza. Lei è sempre alla sua postazione, capoluogo di mondi finti
ed intimamente agitati. Ogni tanto le manca il respiro e un vuoto dentro la
risucchia in una penosa apatia, non riesce neanche ad alzarsi. Solo i morsi
- 111 -
della fame la inducono a difficili pellegrinaggi verso la cucina, dove la attendono biscotti e cioccolata. Quando la noia è più forte fa il bagno, a vasca
straripante, gonfiando l’acqua di bolle . Al culmine del niente, si immerge e
apre la bocca, riempiendola di schiuma, a volte deglutendone qualche grumo
scivoloso.
Sfida la morte così, al riparo da occhi umani, in attesa.
Allora i teneri occhi si dilatano e sfilano davanti a lei le Cleopatra, le Didone, eroine di passati tragici che tra veleni e rantoli posero fine alle loro
esistenze. Loro però, qualche motivo importante ce l’avevano,ad esempio
l’amore. Perso, impossibile, fuggito. Lei non ce l’ha , del resto, come potrebbe? La sua intima metropoli è veramente molto piccola. Quella là fuori
è un’estranea così gonfia di voci da far paura. Non può incontrare qualcuno
e pretendere di essere amata. Sta già sfiorendo prima ancora di essersi aperta
e lei lo sa.
Poi, la vita fornisce a Marina e a Desideria un’occasione, come più o
meno accade a tutti coloro che sono in attesa .
Marina ha ricevuto in dono una macchina fotografica ed ha iniziato a fotografare ossessivamente il suo mare. Calmo, in tempesta, dall’alto, da stesa,
il mare l’ha ripreso da mille angolazioni e la sua sensibilità tormentata gli
ha dato una voce che comunica. Questo linguaggio piace ad un turista che
passa per caso davanti al banchetto dove ha ammucchiato i suoi ritratti durante la festa di paese. Ormai ha vent’anni e accetta l’invito del sorridente
signore a frequentare corsi di fotografia in una prestigiosa accademia in città
,congedando il suo piccolo mondo. Diventerà una bravissima fotografa , incaricata da illustri riviste di ecologia ed ambiente di realizzare servizi fotografici ai quali non mancheranno originalità e passione. Vivrà nella città di
Desideria, ricca di luoghi di incontro, di atelier, di punti di partenza. Per lei
la città non è un buco nero ma uno spazio sacro dove si materializzano i suoi
progetti e le memorie delle strade, gli angoli densi di scambio, sono depositari di significati che ravvivano la sua vocazione. La polis le assomiglia ancor
più del mare, che ciononostante è stato per lei un educatore amato. Ecco
perché nelle sue foto scattate per il mondo, ne è spesso un commovente protagonista. Però, lo sa bene, doveva proprio lasciarlo.
- 112 -
Desideria a vent’anni sfoglia una rivista e rimane folgorata dai bellissimi
piccoli borghi del suo paese. Soprattutto, è colpita dalle immagini di una certa
Marina fotografa che corredano un articolo sulle bellezze del villaggio lontano
pochi chilometri. Vuole andare a visitarlo, quel paese e il suo mare spirituale.
Parte solitaria per un viaggio che sarà l’inizio del suo nuovo vivere.
Il mare fotografato da Marina è fedele a ciò che aveva promesso e Desideria decide di stabilirsi lì almeno per un po’ e sarà per sempre. Nelle sue
passeggiate sul molo, incontra un ragazzo approdato lì con la sua barca, anche
lui alla ricerca di qualcosa. Iniziano una vita insieme ove si sblocca la comunicazione e tutto prende il sapore del vero .Il borgo di mare offrirà loro
una casa semplice dove entreranno nel tempo amici , poeti, bambini, musica
e silenzio, in una vita di nuovi inizi, celebrazioni, ma soprattutto corporee
verità.
L’anima , prima costretta a scappare dal caos delle troppe vie, ha trovato
qui un riparo che diventa presto nido e infine reggia. Aveva atteso tutto questo per tanto tempo, senza saperlo.
Marina nella città di Desideria, Desideria nel villaggio di Marina.
Ma lo scambio è stato necessario : non più tentativi di morire, non più
fughe né sfide. Solo la pienezza, così com’è, del vivere.
- 113 -
“Di barche, donne californiane,
finanza e di scamorze”
Bruno Poce
La notizia della mia prematura scomparsa doveva essere giá apparsa sui
giornali, ”il noto imprenditore Ugo Pinetti, presidente della omonima impresa casearia, era deceduto in un incidente stradale, i resti della sua auto,
andata a fuoco, ritrovati in un dirupo sulla Via Aurelia nei pressi di Camogli.”
Avevo organizzato tutto alla perfezione, la sera prima mi ero fatto notare
in un famoso locale di Santa Margherita a bere mojito, ballare e scherzare
con un paio di sventole da me lautamente sovvenzionate, poi, a tarda notte,
dopo aver lasciato la piacevole compagnia, avevo preso la mia jaguar verde
e mi ero diretto sulla Ruta di Camogli, ma lí ad aspettarmi non c'era la cosiddetta ”curva del diavolo” temuta e rispettata da tutti i guidatori in stato
d'ebbrezza, bensì un'anonima VW Polo grigia, affittata qualche giorno prima
nel Principato di Monaco dalla mia amica Brigitte, altra sventola da me sovvenzionata nel corso degli anni. Avevo quindi cosparso di benzina la mia vecchia e amata jaguar e, con la morte nel cuore, avevo messo in folle e spinto
l'auto giù per il dirupo. ”Addio mia cara, si inizia una nuova vita!”
Alla guida della Polo mi ero gettato nelle curve della strada costiera con
il cuore in gola e la canzone di Bowie ”changes” nelle orecchie, fino ad arrivare a Montecarlo, quando ancora albeggiava. Avevo lasciato l'auto sotto casa
di Brigitte, con all'interno del bagagliaio una valigetta pieno di denaro ed un
biglietto con scritto: ”Merci bocout mon cherí” ed ero salito sulla barca ancorata in porto, una Fortuna 9 monoalbero con motore volvo 3500, che
avevo a suo tempo comprato intestandola ad un fondo olandese di cui detenevo la maggioranza attraverso una società anonima con sede nelle isole Cayman. Ah, le isole Cayman, che mondo triste sarebbe senza di loro. Nessuno
mi avrebbe piú ritrovato!
Il vento fresco di giugno soffiava sul mio sorriso da uomo libero mentre
navigavo ormai al largo di Marsiglia, completamente da solo, io ed il mio
nove metri, lasciandomi tutto alle spalle, l'impresa di famiglia ”F.lli Pinetti
formaggi” che io avevo trasformato da confortevole impresa locale in una
- 114 -
società con fatturato milionario che piazzava i suoi prodotti sugli scaffali dei
supermercati di mezzo mondo. Certo le scamorze non erano piú quelle profumate che faceva mio nonno, quelle erano delle opere d'arte, che tutta Caserta si metteva in coda per comprarle. Le avevamo dovute riempire di
conservanti per poterle esportare e confronto a quelle di una volta sapevano
come una merda stagionata, peró ci avevano fatto guadagnare l'ira di Dio e
poi, a dirla tutta, a me i formaggi manco piacevano.
Io volevo vivere sul mare, mangiare pesce alla griglia e stare in costume
tutto il giorno. Avete presente i personaggi del film ”un giorno da leoni”? Io
volevo essere uno di quelli. Da ragazzo avevo convinto mio padre a spendere
una fortuna per iscrivermi all'università di Berkley in California, lui pensava
dovessi diventare un mago della finanza, io invece volevo solo fare surf sulla
spiaggia. Ho passato quattro anni a Malibù, ho imparato ad andare sul surf
e contemporaneamente a fare iscrivere a bilancio un debito come una garanzia di credito. Laggiú ho anche capito molte cose, per esempio che le
donne in California non sono tutte bionde con gli occhi azzurri ma per lo
più messicane sovrappeso, peraltro quelle bionde, se gli fai capire che hai
un sacco di soldi, ti si appiccicano addosso come mosche sul miele, ma non
solo le donne, anche la finanza funziona così. È una specie di legge naturale,
se tu ce la metti tutta a far finta che una cosa sembri vera, queste diventa
reale sul serio. In pratica se tu alle banche gli fai capire che hai un sacco di
soldi vedrai che loro te ne daranno ancora di piú.
Tornato a casa mi sono messo a fabbricare soldi e tanti anche. L'aziendina
ha cominciato a sfornare utili da paura, e fare grandi investimenti. Mio padre
non metteva più becco perchè io, ”l'americano” come mi chiamavano in
paese, ero considerato una specie di Guru della finanza ed in effetti abbiamo
cominciato a vendere formaggi prima in tutta Italia e poi in Europa e non
volevamo più fermarci. Certo, avevamo dovuto fare qualche piccolo sacrificio
sulla qualità del prodotto, a Caserta non c'era più la fila per comprare, in
compenso a Stoccolma i supermercati erano pieno di formaggi Pinetti!
Avevo lavorato per quindici anni, avevo creato un impero su quei cazzo
di formaggi che non potevo neanche annusare se no mi veniva la nausea, ed
ora ero stufo marcio. Mio padre ed anche mio zio, i fratelli Pinetti di cui al
nome della ditta, se ne erano rapidamente andati in pensione. Mio padre
aveva lasciato Caserta e non solo quella, pure mia madre, che da quel giorno
- 115 -
si vestiva di nero manco fosse rimasta vedova. Lui, insieme al fratello, si erano
trasferiti in pianta stabile a Capri dove passavano il tempo ad ospitare amici
d'infanzia e pagare mignotte, ovviamente anche per gli amici. Ero rimasto
solo io a capo dell'azienda, questi quindici anni erano volati, io non me li
ero proprio vissuti, troppo impegnato a firmare contratti, a fare investimenti,
a girare per supermercati di tutta Europa a stringere mani con persone sconosciute. Avevo politici che mi bussavano alla porta, donne che mi aspettavano nelle camere d'albergo, ma ero infelice. Non avevo più toccato un surf
in tutto quel tempo, il mio unico sport era toccare mignotte ed io invece
volevo ritrovarmi a navigare nel mare ed ora finalmente potevo farlo, finalmente libero, senza più legami, senza più obblighi. Il mio obiettivo era navigare fino a Valencia, attraccare lì per un paio di giorni e poi proseguire fino
a Gibilterra, lí avrei fatto rotta su Tangeri, e poi chissà, avrei seguito il vento.
I soldi non mi mancavano, avevo un conto attivo a Singapore su cui avevo
trasferito venticinque milioni di euro e potevo finalmente vivere libero!
La terra vista dal mare ha un sapore particolare, mi dà la sensazione di
una mano gentile che accarezza l'acqua, di un'amica che ti segue lungo la
strada, ti accompagna premurosa aspettando il momento che tu la voglia
reincontrare ed allora lei ti accoglie materna e comprensiva.
Io vivrei sempre su una barca, ho bisogno di ondeggiare, di sentire il rumore del legno che si stringe nelle onde, il rumore dell'acqua che si apre
schiumando sulla prua, ho bisogno del sole che mi brucia la pelle, ho bisogno
di essere libero, ho bisogno di stare da solo!
Era ormai calata la sera, Valencia mi si offriva davanti con i suoi archi
protesi nel cielo e la sua baia cristallina. Attraccai velocemente nel molo turistico, non vedevo l'ora di entrare in un bar del porto gustare una cerveza
fresca e cercare su internet qualche notizia sulla mia improvvisa scomparsa.
Appena ormeggiato vidi alcuni uomini in uniforme avvicinarsi. Che strani
questi spagnoli hanno dei costumi simili a quelli dei carabinieri. ”Eres el senor
Pinetti?” mi guardai intorno, lo sguardo perso nel vuoto: ”io, io, no... non
so, chi siete?” si fece avanti un signore pelato, in giacca e cravatta, italiano ”
signor Pinetti la dichiaro in arresto, abbiamo un mandato internazionale per
bancarotta fraudolenta, falso in bilancio e sofisticazione alimentare. La prego
di venire con noi.”
- 116 -
Il pescatore
Maria Rizzi
Il solito scoglio. Il sole arancione è basso all’orizzonte e infiamma il cielo.
Il mare s’increspa, alcune onde iniziano ad alzarsi, sembrano non voler toccare la fanghiglia della battigia, ma non tornano neanche nel gorgo lontano
dell’alto mare. Rimangono immobili, forse non sapendo più dove il mare è
ancora mare.
Antonio srotola il filo della canna da pesca e si sofferma a pensare che
anch’egli, come le onde, non sa più dove la vita è ancora vita. Saluta con
cenni del capo i compagni di pesca. Nessun amico. I giorni sul mare sono
dedicati alle riflessioni, sono aggrappati ai ricordi. D’altronde nessun pescatore cerca la compagnia. Lanciano la lenza e il peso del mondo si dissolve
per qualche ora nei bagliori dell’acqua. L’attesa delle prede un semplice alibi.
Pescano in se stessi e affidano ai tramonti, alle notti, alle albe i propri pensieri, affinché li depositino sulla sponda rasserenante del silenzio.
Antonio è stanco. I capelli bianchi catturano il sole del crepuscolo e gli
occhi di un castano dorato, ne ricevono riflessi di malvasia invecchiata. L’ultimo lampo di gioventù se n’è andato cinque anni prima. Con Lucia…
Lucia … quaranta anni insieme, senza figli, con la capacità di incontrarlo
e riconoscerlo in ogni momento, calandosi nelle tenebre di lui e nei suoi
squarci di luce. La sua donna-tridacna, la conchiglia più grande del mondo,
nelle cui valve poteva rannicchiarsi e, un giorno, dolcemente, morire.
Il furto al supermercato.Tre ragazzi giovani , inesperti, alla ricerca della
bravata. Antonio e Lucia erano nel magazzino. Finirono stesi a terra, come
gli altri. La cassiera non diede cenni di ribellione, svuotò la cassa e, per puro
caso una macchina della polizia passò nei paraggi. I tre giovani furono colti
in flagrante e arrestati. Cinque anni… una pena irrisoria.
Lucia tornò a casa e fu colta dalla morsa al petto. Un infarto devastante.
Non riuscirono a fermarlo. E nessuno potè stabilire collegamenti reali tra i
due eventi. La donna si era sentita male la sera, tra le mura domestiche. Così
Antonio restò solo. Con il proprio rancore. Non accettava l’ipotesi che la
sua donna potesse soffrire di cuore come gli era stato detto dai medici.
- 117 -
Ripeteva a se stesso che le coincidenze sono le cicatrici del destino.
Gli esseri umani nel dolore sono spesso indotti a credere a qualsiasi cosa,
tranne che alla verità.
Negli anni seguì la sorte dei tre ragazzi del supermercato. Non avevano
meritato più di un trafiletto sui giornali. Erano stati sufficienti per conoscere
i loro nomi, avere idee vaghe dei loro vissuti.
Antonio prese di mira Gianni, il più esperto dei tre, quello che aveva
terrorizzato i clienti e la cassiera con una pistola…poi risultata scarica. Quel
giovane uomo dagli occhi iniettati di sangue si sarebbe sentito per sempre
salvo se la legge lo avesse protetto. Sapeva dove abitava ed era convinto che
non avrebbe trovato pace se non l’avesse punito.
Quel pomeriggio si era impossessato del fucile da caccia che non usava
da tanti anni, si era assicurato che fosse funzionante e aveva atteso l’uomo
nel portone del suo condominio. Nascosto dietro la tromba delle scale. La
paura rischiava di paralizzarlo, ma a restituirgli determinazione c’era Lucia.
La persona che era stata il senso stesso della sua esistenza, l’alfabeto dei propri sogni, la meridiana dei desideri. Lei non avrebbe mai approvato una simile decisione. Antonio non voleva e non poteva pensarci.
Gianni uscì dall’ascensore alle quindici e impallidì trovandosi di fronte
l’uomo anziano armato. Notò il tremore delle braccia, provò ad anticiparne
il gesto balzando verso di lui con scatto felino. Ma il terrore non congelò i
gesti di Antonio. Sparò. Una, due, tre volte. Mirando al cuore.
Quando il ragazzo giacque prono smise di premere il grilletto .Alla
schiena non poteva colpirlo. Non l’aveva mai fatto neanche con i cinghiali.
Le porte della palazzina cominciarono ad aprirsi e l’uomo si allontanò a
passo svelto. Giunse in macchina giusto in tempo. E appena varcata la porta
di casa nascose il vecchio fucile in un baule e cercò gli arnesi da pesca. Il
tremore, l’assenza di salivazione, i passi malfermi potevano trovare tregua
solo sul suo scoglio.
D’altronde non è terrorizzato dalle possibili conseguenze del gesto, ma
dal gesto stesso.
Ha ucciso un uomo di trent’anni. A sangue freddo. Con premeditazione.
E non si sente liberato. Stanco sì, così stanco da non riuscire a reggere la
canna da pesca. Il porto dinanzi ai suoi occhi è una ferita. Larga. Anni a im-
- 118 -
maginare quel giorno, a covare il desiderio di vendetta, per sentirsi così
vuoto? Per avvertire prepotente il senso di colpa?
Il cielo si disfa in lacrime pigre di luce che si posano sul fiato e svaniscono.
Gianni aveva trent’anni. L’età di un probabile figlio. Di quel figlio sognato
tanto a lungo .Non era un delinquente…e se anche lo fosse stato spettava a
lui arrogarsi il ruolo di giustiziere? Quanto l’avrebbero pianto i genitori?
Lucia era stata colpita da un infarto fulminante, ma si sana un dolore provocandone altro?
Antonio sente gli occhi inumidirsi e silenziosamente chiede perdono alla
sua donna e a Dio. In ritardo. Ora sa che l’odio è privo di senso. Non dà,
prende soltanto.
Posa la canna e si appoggia all’incavo dello scoglio.
Sul fronte della vendetta gli eventi sono maturati in modo diverso. Gianni
è ricoverato in ospedale per due colpi al torace che non hanno perforato organi vitali. Il terzo l’ha colpito di striscio. Un vecchio fucile a pallettoni difficilmente arreca danni gravi.
Il giovane ha fornito una descrizione dettagliata dell’uomo anziano che
l’attendeva nell’androne. Ovviamente i motivi dell’agguato appaiono sconosciuti. Si sospetta di un vecchio con manie omicide e si diffonde tramite i
media l’identikit. Alcune pattuglie setacciano la città.
Non lo arresteranno…
Mentre il sole scende lentamente all’orizzonte Antonio piange sale nel
sale. Convinto che l’incavo dell’antico scoglio sia Lucia vi si rannicchia per
addormentarsi. Torna alla sua tridacna dalle valve calde che raccontano la
musica della loro storia.
“All’ombra dell’ultimo sole si era assopito un pescatore, aveva un solco
lungo il viso, qualcosa simile a un sorriso”.
- 119 -
Una cosa bella
Marco Rizzo
Ne ho vista di gente a cui piace il mare.
Gente che, appena arriva la fine di maggio, non vede l’ora di infilare costume e infradito e scappare a godersi il sole e la spiaggia.
Gente che passa ogni sera d’estate in un posto diverso, purchè sia sul mare.
Ma come il signor Alfonso non ne avevo mai visti. E credo che mai più
ne vedrò.
Era una notte d’agosto. Con Sara e il solito gruppo di amici eravamo andati a Torre Sant’Andrea a fare un po’ di baldoria.
È un posto molto particolare: una spiaggetta protetta dagli scogli, situata
subito dopo una leggera discesa. In mezzo al mare uno scoglio che ricorda la
sfinge e una pineta sulla sommità di una collinetta.
Tutto sembra avere un ordine, un senso, a Sant’Andrea. Sembra quasi
che, quando Dio creò quel posto, fosse particolarmente ispirato e attento ad
ogni particolare.
Passammo la notte in pineta, chi nei sacchi a pelo e chi nelle tende.
La mattina seguente mi svegliai presto, come mio solito, nonostante l’alcool della notte prima. Il sole era ancora in mare, ne sarebbe uscito fuori
molto presto.
Ero immerso in varie riflessioni, quando una scena catturò la mia attenzione. Sulla mia destra, verso il mare, si aprì una tenda. Scena consueta, ma
quello che ne uscì fuori mi fece quasi sobbalzare.
Non aveva meno di ottant’anni. Indossava una camicia blu e dei bermuda
beige e si muoveva come se fosse l’unico essere umano nel raggio di cento
chilometri. In mano aveva un lettore mp3, dal quale non riuscivo ad immaginare che musica potesse venir fuori.
In tanti anni e tante notti passate in quella pineta, non ci avevo mai visto
nessuno al di sopra dei trent’anni.
“Non devo più bere così tanto, mai più!” pensai in un primo momento.
Ma il vecchio era ancora lì, diversi minuti dopo. Per un attimo si incrociarono gli sguardi e accennò anche un sorriso. Poi prese un asciugamano e
- 120 -
si avviò lungo la discesa, verso la spiaggetta.
Non so per quale motivo, credo per pura curiosità, ma mi alzai anch’io
e lo seguì.
Il sole cominciava a metter la testa fuori dal mare, ma appena appena,
timidamente.
L’uomo scelse lo scoglio più comodo, stese l’asciugamano e si sedette.
Mi sentivo quasi un intruso, uno che non era stato invitato a quell’appuntamento, in cui avevano già preso parte un vecchio, il sole e il mare.
Lui si era accorto di me, ma stavolta fece finta di niente.
“Buongiorno!” gli dissi, esitando un po’. Nonostante le cuffie alle orecchie, mi sentì immediatamente. “Salve, giovanotto!” fece lui, con un accento
strano. “Le piace l’alba?” mi chiese, togliendosi le cuffie.
“Sì, molto!” risposi, poco convinto. La mia testa cercava di dare un’identità a quell’uomo, con alternative che andavano dallo scafista allo sbandato.
“Spero di poterne vedere ancora tante, ma intanto me le gusto tutte!”
mi disse con un entusiasmo che in quel momento mi sembrò ingiustificato.
Si accorse che ero incapace di rispondergli e allora proseguì. “Mi hanno
tolto questo spettacolo che avevo dodici anni. Abitavamo a Melendugno e
non vedevo l’ora che arrivasse l’estate per venire al mare. Ci andavo anche
d’inverno, ma di nascosto.”
Con lo sguardo non era più con me, era lontanissimo.
“Mio zio lavorava in Germania, in una miniera. E un giorno disse a mio
padre di trasferirsi, che lì c’erano i soldi. E una terribile mattina ci trasferimmo.”
Il racconto mi stava prendendo e, quasi senza accorgermene, gli chiesi:
“Dove, di preciso?” “A Ilsenburg. Cominciammo a vedere i soldi, i problemi
che avevamo qui se ne andarono presto. Ma con i soldi non potevo comprare
il mare. Nemmeno l’odore del mio mare. Nemmeno un po’ di salsedine,
niente.Tornavamo ogni tanto, a trovare i parenti, ma era sempre troppo poco
tempo. Ogni volta che ripartivamo era sempre peggio.”
Dagli occhi azzurri cominciava a scendere qualche lacrima e io ritornavo
a sentirmi a disagio. Nel frattempo si accese una sigaretta e me ne offrì una,
ma rifiutai.
Pensando di aiutarlo, gli dissi: “Beh, ma adesso è di nuovo qui, no?”
- 121 -
Alzò la testa e mi fissò per qualche secondo. Poi l’abbassò di nuovo, in
direzione del sole che ormai era sopra il mare e si scrollava di dosso qualche
gocciolina. “Sì, ora sono di nuovo qui.” disse sospirando.
“Mia moglie è morta un anno fa, i miei figli hanno la loro vita e a me è
rimasto il mare. Il mio mare. Sai, il dottore mi ha detto che il fumo mi sta
uccidendo. Ma d’altra parte, ho ottantasei anni e non siamo eterni. E mi sono
detto che quel poco che mi resta da vivere, voglio viverlo col mio migliore
amico, che non ho visto per troppo tempo. Ho preso uno zaino e una tenda
e son venuto qui in treno, che la macchina non mi serve.”
In quel momento mi fu chiara e lampante l’essenza della vita, quella che
ci sfugge troppo spesso, probabilmente perché siamo noi a sfuggirle via, in
cerca di palliativi che ci impone chissà chi.
Sara si affacciò e mi chiamò dalla pineta. “Le chiedo scusa, devo andare!”
“Ci mancherebbe! Vai e divertiti, figlio mio. Comunque, io sono Alfonso!”
Salutai quell’uomo e pregai Dio di fargli vivere le migliori albe possibili.
“Chi era quel vecchio?” mi chiese Sara, quasi preoccupata. “Uno che ho
conosciuto tardi.”
Tornai a Sant’Andrea una settimana dopo, ma la tenda non c’era più. E
Alfonso nemmeno.
Ci tornai diverse volte, anni dopo, ma di quel vecchio con le cuffie non
v’era più nessuna traccia.
E allora cominciai ad andarci spesso all’alba e mi fermavo sugli scogli,
sempre nel punto in cui quella mattina avevo conosciuto davvero il mare. E
stavo lì ad osservare le onde, che pigre, ma incessanti, accarezzavano la sabbia.
Quelle onde che erano di Alfonso, ma che cominciavo a sentire anche mie.
Non mi bastava più andarci da solo, quel posto meritava di essere vissuto
ancora di più. Una notte di qualche estate dopo ci tornai con Sara, soli io e
lei. Non stavamo così bene da tanto, quella notte fu fantastica.
E ci tornammo qualche anno dopo.
“Papà, giochiamo a pallone?” “No, vieni qui, che papà ti fa vedere una
cosa bella!” “Che cosa? Che cosa?” “Il mare, Alfonso. Il mare!”
- 122 -
Nel mio profondo blu
Francesca Romana Mascioti
Ventotene 24 luglio 1943
“Sta arrivando! Sentite!”. L’urlo passò di bocca in bocca quando finalmente udimmo l’inconfondibile brontolio del piroscafo. Sussultai mentre
mia madre mi stringeva forte la mano. Mettendomi sulle punte dei piedi e
con il nasino all'insù cercai di scorgere qualcosa tra le persone davanti a me.
L’altezza dei miei 8 anni non mi permetteva di vedere niente. Sospirai sconsolato. Anche io ne avevo il diritto. Volsi lo sguardo verso mia madre. Sul
viso era dipinto un sorriso tirato, gli occhi velati da una profonda preoccupazione. La gente sul molo si accalcava e premeva facendomi perdere l’equilibrio. Qualcuno applaudiva, qualcuno si abbracciava. Poi, all’improvviso, il
silenzio scese pietoso lasciandoci tutti a bocca aperta. Un rumore agghiacciante squarciò l'aria portando con sé il terrore. Il placido borbottio del vaporetto che stavamo aspettando da Ponza si confuse con il rombo assordante
di alcuni aerei.
“Salva vieni!”. Esclamò Antonio che si era avvicinato.
“Dove vai?”. Gli domandai tra il preoccupato e l’incuriosito.
“Su, verso Parata Grande, da lì si vede meglio!”. Fece il gesto con la
mano di seguirlo e sparì tra la folla. Mi voltai di scatto inseguendo il mio
amico, lasciandomi alle spalle le urla della mamma che si persero nel trambusto.
“Salvatore torna qui!”.
Arrivati sul promontorio ci fermammo per riprendere fiato. Oltre a noi
accorsero altre persone, mi feci largo insieme ad Antonio per accaparrarci il
posto migliore. Quei suoni diabolici mi entrarono nelle orecchie e nella testa.
Quelle immagini scolpirono profondi solchi nella mia memoria. Uno, due,
no quattro. Contai quattro aerei, dissero che erano inglesi, aerei da guerra.
Facevano paura. Accecati dal sole seguivamo i movimenti di quelle sagome
scure che come aquile fameliche puntavano la preda. Le ombre sfrecciavano
sul pelo dell’acqua distorte dalle increspature, sembravano mostri marini in
- 123 -
agguato sotto la superficie lucente. Ora lo vedevo bene il Santa Lucia. La scia
di fumo del traghetto diventava sempre più densa mentre si avvicinava a gran
velocità. In un mare straordinariamente calmo dai colori accessi, in un punto
dove il blu profondo ipnotizza il viaggiatore, inerme e solitario il Santa Lucia
solcava quelle acque cristalline circondato da un nemico spietato. Gli spari
della mitragliatrice partirono improvvisi mandando in frantumi le vetrate, il
piccolo traghetto arrancava in cerca di salvezza. Una prima virata, un’altra
ancora, procedeva a zig zag. Quei brutti ammassi di ferro che gli volteggiavano intorno avevano sganciato delle cose allungate che sfrecciavano lasciando
una lunga scia in mare. Sgranai gli occhi incredulo. La maggior parte della
gente in preda al panico scappò via urlando, mentre gli incitamenti di quei
pochi che erano rimasti a guardare si persero nel frastuono della impari lotta.
Ero troppo terrorizzato per riuscire a urlare anche io, quando sentii tirarmi
per la maglietta con forza. Mia madre con il volto straziato dalla paura mi
avvicinò a sé chinandosi e abbracciandomi da dietro. Appoggiato alla sua
guancia sentivo il caldo scivolare delle sue lacrime.
“Dai!”
La piccola platea urlava a gran voce. Una flebile fiamma di speranza si
accese in me. Forse ce l'avrebbero fatta. Forse. Lo spettacolo surreale di una
tragedia al suo ultimo atto fece sparire dalla vista tutta la bellezza di quel
mare dalle mille sfaccettature, e proprio lì, poco distante dalle secche dello
sconciglio, un siluro squarciò il Santa Lucia. L’esplosione violenta riempì
l’aria, lacerando qualsiasi speranza. In una atmosfera ovattata, dove il terrore
ormai dilagava sinuoso negli animi, vidi vetri schizzare in ogni direzione,
fiamme levarsi verso il cielo e corpi umani sbalzare in mare. Spaccato in due
tronconi e ripiegato su se stesso in un agonizzante stridore, il piroscafo cominciò a colare a picco. L’acqua ribolliva tutta intorno, la spuma bianca accompagnava la sua discesa verso il fondo, verso il punto più profondo.
Allungai la mano nella sua direzione in un ultimo disperato immaginario
gesto di salvezza. Bastarono pochi secondi e la scena cambiò completamente.
Scomparve. Non c’era più, e con essa il suo carico di vite umane. Nessuno
di noi si mosse, non era ancora finita. Non soddisfatta la squadriglia tornò
sulla scena con l’ultimo micidiale affondo. L’ultima sventagliata delle mitragliatrici si abbatté sui rottami e i superstiti che erano riemersi.
- 124 -
Nelle orecchie avvertivo ancora il frastuono dello scoppio. Davanti a me
vedevo ancora il fumo nero della tragedia levarsi in alto. Nelle mie mani sentivo ancora il tremolio della paura, nel mio cuore il solco di una ferita che
non si sarebbe mai più rimarginata. Mentre il ronzio degli aerei andava perdendosi in lontananza, i primi soccorritori presero il largo con i loro gozzi.
Ventotene 24 luglio 2012
La fresca brezza del primo mattino avvolgeva le mie stanche membra
donando una piccola tregua alla calura estiva. Con le mani tremanti mi appoggiai al mio fidato amico, un bastone logoro e usurato dalla salsedine e dai
giorni vissuti insieme. Dalla terrazza osservavo Il sole che stava lentamente
salendo, i suoi raggi si riflettevano sulle acque silenti di quel giorno appena
cominciato. Debolmente mi sedetti su una sedia fissando l'orizzonte, mentre
davanti a me piccole increspature danzavano spegnendosi in una candida
spuma bianca. Assorto in pensieri che si tuffavano in quel blu scuro dipinto
da mani esperte cominciarono a prendere vita dinanzi a me le immagini che
mi avevano accompagnato per 69 anni.
La campana della chiesa scandì l’inizio della cerimonia di commemorazione. Mi alzai in piedi, la sedia di legno scricchiolò all’unisono con le mie
ginocchia. Immobile, con lo sguardo fisso nel punto in cui il mare si fonde
con l'orizzonte la scena mi riapparve in tutta la sua crudeltà. Un velo offuscò
la mia vista, le sagome nere presero a tremolare e i contorni svanirono piano
dissolti dal passaggio di un gabbiano.
- 125 -
L’ultimo viaggio
Maura Silvagni
La giornata non era bellissima: una leggera pioggerella cadeva insistente
sulla barca, ma il vento era giusto per spingere le vele. Avevo avvistato dei
gabbiani che sorvolavano una zona particolare, a turno si tuffavano in mare
risalendo a becco pieno. “Un nutrito banco di pesce” pensai. Diedi ordine di
risalire la corrente, in modo che, nel momento in cui avremmo gettato in
mare le reti per la pesca, la stessa corrente, unita alla forza del vento nelle
vele, avrebbe spinto la barca proprio nel punto in cui i gabbiani banchettavano
abbondantemente.
I gabbiani non ci avevano traditi: la pesca fu ricca e quando aprimmo la
rete che penzolava gonfia sulla coperta, avemmo la sensazione di trovarci
sotto ad una cascata di pesce. Ricordo ancora la gioia dei miei marinai nel
vedere quell’abbondanza! Alcuni marinai iniziarono la cernita del pesce, altri
provvidero alla seconda calata: si doveva sfruttare quel momento di grazia. I
gabbiani volteggiavano sopra di noi, come se cercassero la loro parte per la
proficua segnalazione. I marinai lanciavano in cielo i pesci che si erano rotti
nella rete, perché si divertivano nel vedere la picchiata dei gabbiani per accaparrarsi quel bocconcino inaspettato.
Il momento di gioia e di gioco venne interrotto dalle parole del nostromo:
“Guarda là, non ti sembra che la barca Solferino sia troppo vicino alle
mine?”
Le mine. I tedeschi avevano infestato l’Adriatico con le mine per proteggere le coste da eventuali incursioni degli Alleati. Appena finita la Seconda
Guerra, il mare non era stato bonificato e il bisogno di pescare per sfamare
le nostre famiglie era ben più forte della paura per il pericolo che correvamo.
Sapevo dove si trovavano, le vedevo minacciose là sotto nascoste sotto pochi
metri d’acqua. Le avevo mappate su una carta a quadretti, ogni centimetro
corrispondeva ad una bracciata d’acqua e come punti di riferimento avevo le
alture o gli edifici più alti della città. Come avvisare l’equipaggio del Solferino
del pericolo che stavano correndo? Non ebbi tempo di rispondermi.
- 126 -
D’improvviso uno schianto ruppe l’aria sonnacchiosa e grigia, pezzi di
barca volarono al di sopra del muro d’acqua che s’era innalzato a causa della
detonazione. I miei uomini rimasero attoniti davanti all’esplosione, poi mi
guardarono in attesa di ordini. Non esitai:
“Tagliate i cavi della rete, dobbiamo soccorrere i superstiti.”
In un attimo la rete carica di pesce venne lasciata andare sul fondo del
mare; stavamo rinunciando ad una pesca ricca, ma dalla solerzia dei miei uomini capii che approvarono il mio comando, perché la solidarietà nei confronti dei nostri compagni era ben più importante del pescato. Virai e le
manovre vennero compiute in pochi attimi. I nostri occhi erano concentrati
sulla superficie del mare, nell’affannosa ricerca di qualche amico ancora in
vita. Gridavamo i loro nomi con tutta la voce che avevamo in corpo.
Quando fummo in prossimità del relitto del Solferino, ci si presentò una
scena apocalittica. Della barca erano rimasti solo pezzi di legno galleggianti.
Angelo, il capitano, era aggrappato a un asse e si lamentava per il dolore, ferito alla gamba e al torace.
Subito dopo recuperammo Michele, che era riuscito a liberarsi tagliando
la cerata impigliata nel verricello. Anche quando fu in salvo sulla barca, continuava a guardarmi con gli occhi sbarrati per lo spavento e a chiamarmi in
soccorso come se ancora fossi lontano. Recuperammo anche Virgilio e Agostino che morì agonizzante tra le mie braccia; non ebbi la forza di nascondere
le lacrime davanti ai miei uomini. Non trovammo altri membri dell’equipaggio. Il mare se li era presi per sempre, per infoltire la schiera delle anime
del Purgatorio, pregate da tutti i marinai nei momenti di grande difficoltà.
Il nostro ritorno in porto aumentò il nostro strazio; un nutrito gruppo
di persone era in attesa di notizie sul molo. I miei uomini eseguivano le manovre, io mi limitavo a pochi comandi essenziali, solo i lamenti di Angelo e
le deliranti parole di Michele riempivano i nostri silenzi. Sul molo riconobbi
tutte le mogli e le figlie dei marinai del Solferino.
Non riuscivo a trovare le parole per le novelle ed ancora ignare vedove.
Appena attraccammo, il gruppetto di persone si avvicinò alla barca bramosa
di conoscere i dettagli della vicenda. Sul molo erano già pronti i carri del
pesce che fungevano da barella per i feriti.
Vi caricammo Angelo, mentre Michele appena toccò terra, iniziò a pian-
- 127 -
gere come un bambino e Virgilio, silenzioso e attonito, venne soffocato dall’affetto della moglie e della madre. Quando vidi la moglie di Agostino avvicinarsi, con gli occhi lucidi, ma speranzosi, abbassai lo sguardo, cercando il
corpo dell’amico adagiato sulla coperta. Ricordo la compostezza rassegnata
di quella donna, che si strinse alla figlia maggiore e in silenzio, insieme consumarono il loro dolore privato.
Seppi in seguito che si era salvato anche Guido, il motorista, che aveva
raggiunto la riva a nuoto.
Sono passati tanti anni da quel giorno, eppure il ricordo di quell’episodio
mi ha accompagnato per tutta la vita. Penso agli amici che sono morti nello
scoppio della mina, mi sono sempre chiesto qual è l’ultima cosa che hanno
visto, cos’hanno provato nello schianto. Erano così giovani! Io ho vissuto
tutta la mia vita, ormai sono vecchio, ho visto i miei figli crescere, ho avuto
nipoti e pronipoti, ma nel mio intimo ho sempre invidiato la loro morte in
mare.
Desideravo compiere il mio ultimo viaggio a bordo della mia vecchia
lancia, diretta verso l’ignoto, lasciarmi cullare dalle onde e chiudere gli occhi
pieni di blu del cielo e del mare. Invece sono circondato da estranei che bisbigliano fra loro parole e frasi incomprensibili, attaccato a delle macchine
che si accaniscono a prolungare una vita che ormai è finita.
Ora vorrei che Agostino, Lorenzo e Salvatore, ancora giovani come li ricordo, venissero a prendermi, per portarmi con loro, in fondo al nostro
mare, per sempre.
- 128 -
L’uomo che temeva il mare
Vittorio Todisco
Era una giornata fredda d’inverno, una di quelle mattine plumbee in cui
le strade sembrano specchiarsi nel cielo coperto di nuvole e l’aria pare intrisa
di un triste grigiore. Da solo, camminavo pensoso in riva al mare, osservando
le impronte dei miei piedi scalzi nella sabbia umida del mattino. Perso nei
miei pensieri, avanzavo senza meta, continuando a camminare solo per il desiderio di muovermi, di non fermarmi. D’altronde, non potevo fermarmi:
farlo avrebbe voluto dire trovarmi irrimediabilmente solo dinanzi all’azzurro
sbiadito di quel mare, smarrito di fronte alla linea di quell’orizzonte così
lontano, con le orecchie inondate dallo scroscio dei ciottoli accarezzati dall'acqua. Temevo il mare, l’ho sempre temuto; non ho paura di nuotare, né di
andare in barca: mi fa paura la vista di quella distesa sconfinata, il rumore
ritmico e profondo delle onde. È un fragore strano, quello del mare: non
colma l’aria, ma la svuota, copre gli altri rumori, sommergendoli nella sua
armonia; il mondo sembra sparire in quel suono, in quella vista, e ci si ritrova
inesorabilmente soli con se stessi. Anzi, ci si ritrova soli dinanzi alla propria
vita, riverbero abbagliante di quelle onde, ugualmente multiforme nel suo
continuo ripetersi, similmente capace di accarezzare e di annegare.
In quella mattina priva del bagliore del sole, il timore sembrava tenersi
lontano da me: cercavo di liberare la mente, di pensare solo alla luce che
inondava i miei giorni; poi una brezza leggera mi strofinò gli occhi, costringendomi a chiuderli. Un inquietante senso di vertigine scosse le mie membra, tutto spariva intorno a me.
Silenzio.
Ad un tratto, sentii una voce alle mie spalle che chiamava il mio nome.
Mi voltai: la spiaggia intorno a me era ritornata come prima, il mare era lì,
sornione, di fronte avevo un uomo alto ed estremamente trasandato, macilento, con gli occhiali storti sul naso sporgente e un pallido volto emaciato.
Avrebbe ispirato pietà, se non avesse avuto negli occhi qualcosa di terribile.
Aveva indosso un consunto impermeabile nero che gli sfiorava le caviglie e
che gli conferiva un aspetto inquietante. Ero sicuro di averlo già visto altre
- 129 -
volte: ricordavo di averlo incrociato per strada, qualche giorno prima, ma
anche in altre occasioni me lo ero travato davanti, di sfuggita; non gli avevo
mai parlato, però, anzi non gli avevo mai rivolto più che uno sguardo distratto, perché il suo aspetto, inspiegabilmente, mi spaventava.
“Ci conosciamo?”, chiesi in tono diffidente.
“Certo che ci conosciamo”, rispose quello, “io ti conosco meglio di chiunque altro, credimi.”
“Mi dispiace, ma non mi pare di ricordami di lei”, ribattei io, asciutto.
La voce di quell’individuo mi era incredibilmente familiare, m’incuteva
un’ansia crescente.
“Be’, allora mi presento”, continuò l’altro, “sono uno dei tanti disoccupati
che sono stati sbattuti fuori dalle porte della società. In fondo, però, non ho neanche voglia di bussare a quelle porte per provare ad aprirle di nuovo; sono
stanco: il mondo è un arena in cui bisogna lottare senza sosta, ma io ho deciso
di fermarmi. Basta, non ho più voglia di combattere una battaglia già persa: preferisco arrendermi. Non ho moglie, né figli, nessuno che mi ami o che io ami.
Credi che abbia un motivo per continuare ad affannarmi alla ricerca di una vittoria inutile? Io penso di no. Mi arrendo: che il destino faccia di me quello che
vuole, voglio soccombere nell’oblio. In fondo, cos’è l’oblio se non una notte
muta in un mare di silenzio? E il silenzio non è forse un araldo di morte? E la
morte cos'è se non la via di fuga più breve dalla crudeltà della sorte?”
Inspiegabilmente, tremavo: non capivo perché, ma ogni parola che quell’individuo pronunciava, anche se apparentemente priva di senso, si conficcava nel mio cuore impedendogli di battere, e il mio animo sembrava
attanagliato dal suo sguardo. Un brivido mi correva lungo la schiena: quell’uomo miserabile, sconfitto dalla vita, incapace di reagire al destino, mi teneva pietrificato, scrutandomi con quei suoi occhi orrendamente fuori dalle
orbite. Eppure, aveva un’aria familiare: e se fossi stato anch’io come lui, senza
accorgermene? Se un giorno la vita avesse scagliato anche me nella schiera
degli sconfitti, costringendomi ad abbandonare tutte le mie speranze, come
l'uomo che avevo di fronte? Volevo parlare, ma non riuscivo più ad articolare
i pensieri.
“Vado...ho fretta, lasciatemi, devo andare”, dissi alla fine, cercando di allontanarmi.
- 130 -
“Questo è impossibile, non ti libererai così facilmente di me”, ribatté
l’altro, mettendosi dinanzi a me per non farmi camminare.
Cercai di spingerlo a lato con un braccio, mettendo da parte le buone
maniere pur di uscire in fretta da quella strana situazione.
Incredibilmente, la mia mano passò attraverso il suo ventre, come attraverso un corpo invisibile. Egli continuava a sorridere. Pensai di essermi sbagliato, provai con più forza a strattonarlo, ma invano: sembrava che fosse
trasparente. Rimasi sbalordito: mi guardai intorno, vidi un’anziana signora
che mi osservava da lontano, con occhi esterrefatti, e che distolse lo sguardo
da me, mettendosi a camminare in fretta, appena io mi voltai verso di lei.
“Tu non esisti!”, sussurrai all'uomo che avevo di fronte, capendo di dover
sembrare pazzo.
“Ovvio che non esisto!”, rispose lui, “ma tu credi di esistere? E se la tua
vita non fosse altro che un sogno?”
“Vattene, non ho più intenzione di ascoltarti!”, gridai io, pur cercando
di contenere il mio tono di voce.
“Non posso andarmene! Ma non capisci? Io sono nella tua mente, io sono
te: sono uno dei tuoi tanti io possibili nel futuro, sono il te stesso sconfitto
dalla sorte! Non puoi liberarti di me: tu diventerai me!”, incalzò lui, con
voce calma, continuando a nascondersi dietro quel suo sorriso malinconico.
Ero terrorizzato, non sapevo che fare: cominciai a correre a perdifiato,
inseguito da me stesso, fuggendo da me stesso. Corsi per decine di metri,
senza voltarmi, finché il mio respiro non divenne tanto corto da costringermi
a fermarmi; volsi lo sguardo alle mie spalle, esitante: non c’era nessuno. Ripresi fiato, ancora scosso da quanto era accaduto. Il vento fischiava tra i tetti
lontani, la spiaggia cominciava ad affollarsi di bimbi che uscivano allegri da
scuola, il cielo sembrava prepararsi ad una pioggia nuova, dopo il diluvio notturno.Vidi qualche goccia frettolosa cominciare a cadere in una pozzanghera
che, increspata come un minuscolo oceano, rifletteva il mio volto. Sorpreso,
osservai l’immagine del mio viso: quello ero il vero io, non quel miserabile
individuo che mi era comparso davanti qualche minuto prima. Sì, avrei potuto diventare come lui, ma chi diceva che dovessi diventarlo per forza? In
fondo, il mio destino era nelle mie mani, io avrei plasmato il mio futuro, io
avrei deciso chi essere. No, i miei sogni non sarebbero diventati incubi, ma
- 131 -
realtà; l’importante era non arrendersi, non lasciarsi intimorire dalle avversità o dalle incertezze, crederci fino alla fine, perché solo chi li affronta con
coraggio può accorgersi che i fantasmi non esistono.
Quarant’anni, un soffio, quarant’anni sono passati dal quel giorno, da
quella spiaggia, e ogni attimo che passa mi fa capire che avevo ragione: le
spade per duellare con la vita devono essere sempre affilate. No, non sono
diventato un fantasma: ho realizzato molti dei miei sogni, ho costruito una
famiglia, mi avvio alla vecchiaia sereno. Certo, non ho fatto tutto quello che
desideravo, ma, d’altronde, non sono un dio; ho avuto momenti difficili, ho
ingoiato polvere, sputato sangue, ma ho sempre combattuto, senza arrendermi: in fondo sono un uomo, e questo era il mio destino.
Al mare, tuttavia, non mi sono mai più riavvicinato: anche se ho imparato
a combattere con la vita, continuo ad averne paura, a temerla, a tremare dinanzi alle sue onde imprevedibili, sconfinate. Riflettendoci, forse, in realtà,
più che della vita, ho sempre avuto paura di me stesso, di non essere all’altezza dei miei sogni, di scoprirmi inesorabilmente diverso da quello che credevo di essere: per quarant’anni, incatenato dal timore, non ho avuto il
coraggio di metter piede su una spiaggia. Soltanto ora, in riva al mare, ripenso agli anni andati e temo, ma non evito, la compagnia di me stesso: passeggio con i piedi accarezzati dell’acqua, tranquillo nonostante quel tremito
che pervade le mie gambe quando guardo l’orizzonte. Accanto a me, silenzioso, il fantasma di me stesso, quello che incontrai per la prima volta in riva
al mare, quattro decenni fa: è invecchiato con me, sempre orribilmente trasandato, senza abbandonarmi mai; ho continuato ad averlo accanto, di tanto
in tanto, per tutti questi anni, e non ho smesso di averne paura. Eppure, ogni
volta che viene a trovarmi, gli sorrido, perché continua sommessamente a
ricordarmi che la vita è un sogno, un diafano sogno terribile e meraviglioso,
e che il mare, inquieto e immobile, incute meno timore a chi naviga al largo.
- 132 -
Orizzonte Lampedusa
Guglielmo Trovato
L’appuntamento era fissato per le due di notte, a ridosso della spiaggetta
di Kurkum al confine tra Tunisia e Libia. Mi chiamo Ali 21 anni, ero puntuale
all’appuntamento con gli scafisti che mi avrebbero trasbordato con un barcone a Lampedusa. Tanti erano presenti forse un centinaio, uomini, donne e
bambini. Buona parte erano somali come me altri eritrei, libici. La mia famiglia aveva raccolto con tanti sacrifici 1000 dollari, venduto l’asino e la
capra, per questo viaggio della speranza. Le difficoltà economiche a casa
erano tante,mio padre anziano, mia madre malata, i miei cinque fratellini
erano molto piccoli per poter dare un sostegno. Quindi, l’unico, a poter
dare una buona mano ero io. Il barcone, un vecchio rottame, pieno di falle
rattoppate e ruggine era già pronto per la traversata in mare con rotta l’isola
di Lampedusa.
I dubbi che potesse contenere tutti i cento migranti erano troppi ma altrettanto l’arrivo a destinazione. Comunque, imbarcammo e stretti come
sardine sotto sale salpammo in perfetto orario. La navigazione, all’inizio dentro la grande baia era tranquilla, la velocità al minimo, pochi nodi di velocità,
per consumare poco nafta o perché il motore era vecchio e stanco. Usciti
dalla baia, incontrammo un mare crespato causato dal vento che prendevamo di prua, questa situazione creava un leggero beccheggio fastidioso ma
sopportabile.
Nella vita trascorsa avevamo subito di peggio. Intanto, a bordo, si fraternizzava, ci si conosceva l’uno con l’altro,alcune famiglie al completo di
figli e neonati, altri soli ma soprattutto tanti giovani. La nazionalità e provenienza, era ormai inesistente, contava poco o niente, perché le guerre, la
fame e la miseria avevano cancellato tutto,d’altronde, conveniva sradicarsi
da quei posti e passare a nuova vita.
Quindi, per tutti, l’obiettivo e la speranza comune, era di arrivare in
Italia nonostante, rischi e pericoli che questo viaggio precario comportava.
A bordo era un gran vociare di grandi e bambini. Il mio pezzettino di pane,
lo diedi subito ad un bambino che piangeva per la fame, io, tanto, avrei resi-
- 133 -
stito lo stesso, ero abituato a digiunare. L’arrivo era previsto in due giorni
di navigazione, quindi digiunare due giorni non era un problema. Comunque, io restavo in disparte nel mio minimo spazio fisicamente disponibile,
invece,mentalmente spaziavo, perché riuscivo ad isolarmi da tutti i presenti.
Pensavo alla mia famiglia sola e abbandonata, i progetti futuri per loro e per
me. Comprare, appena possibile, una decina di capre e magari un sano e robusto asino. La navigazione , intanto, procedeva verso nord con il mare che
s’ingrossava sempre di più per il forte vento, nubi nere e minacciose apparivano all’orizzonte.
Temevamo che il maltempo rallentasse il nostro viaggio, creando problemi di sopravvivenza, a bambini ed anziani. Le preghiere, in quel momento, davano un senso di protezione e sollievo per tutti ma purtroppo, al
terzo giorno di navigazione nessuno avvistamento dell’isola di Lampedusa,
forse eravamo fuori rotta. L’orizzonte era solo mare in tutte le direzioni. Il
nostro barcone era sempre più minacciato dalle onde altissime. L’acqua, cominciava ad entrare a bordo. Una vera tempesta d’acqua che ci sommergeva
mandando in avaria i motori. Ormai, senza governo, eravamo alla deriva, in
balia delle onde. Il pianto e la paura di noi tutti era indescrivibile perché mai
avevamo visto una forza della natura così brutale. Il cielo funesto e nero, buio
e profondo, i lampi invece con il loro bagliore ci davano un poco di luce.
Improvvisamente,come spuntata dal nulla, una grande barca bianca con dei
numeri sulla fiancata, si avvicinava sempre più a noi, era una motovedetta
della Guardia Costiera di Lampedusa, che sfidando il mare in tempesta veniva
in nostro soccorso.
Sempre più vicina, nel tentativo di lanciare una cima per il rimorchio,
un operazione difficile per le condizione del mare. Anche il lanciasagola aveva
difficoltà a funzionare .L’accostamento non era per niente facile ma ecco che
una robusta cima lanciata dal sottocapo nocchiere Calogero Mangiaracina
fini nelle mie mani.
Questo intervento e successivo traino portò alla salvezza la vita di tutti
i migranti. Purtroppo, l’intervento fatto con tanto coraggio, ci fece cadere
in mare entrambi. Calogero, indossava per fortuna un giubbotto di salvataggio mentre io niente comunque con tanto altruismo riuscì ad afferrarmi e
sostenermi per restare a galla. Un salvagente per due per non essere inghiot-
- 134 -
titi dalle onde. Nonostante, le ricerche con diversi mezzi di salvataggio ed
elicotteri,restammo in mare dispersi per altri 3 giorni ma finalmente forse
con l’aiuto delle correnti, all’orizzonte ecco apparire l’isola di Lampedusa,
era lì a poco bracciate di distanza. Arrivati a terra, subito soccorsi e rifocillati.
Alcuni giorni dopo la capitaneria ci festeggiò.
Io e Calogero ricevemmo un encomio solenne dal Presidente della Repubblica. Dopo una settimana, arrivò il mio permesso di soggiorno ed un
lavoro in un piccolo cantiere navale dell’isola. Con il sottocapo Calogero
Mangiaracina ogni tanto ci si incontra per un caffè ed anche per ricordare
quei momenti. Alla fine è stata una grande ed emozionante storia di
mare,fatta di generosità umana ed altruismo, alcuni valori per fortuna resistono ancora nel tempo.
Questa breve storia vuole rappresentare non solo un fatto di cronaca ma soprattutto
che l’umanità e la fratellanza tra i popoli di qualunque razza e credo, esiste ed esisterà
sempre perché fa parte ancora oggi di quel sentimento chiamato amore.
Ogni riferimento a fatti, cose e persone viene dalla mia fantasia,l’ispirazione di scrivere
questa breve storia, nasce sicuramente da storie vere e tragedie, avvenute in mare.
- 135 -
Molo Nord
Alessandro Vinci
Il Molo Nord era il braccio più lungo del porto di Ancona. Un imponente
muraglione, posto a difesa delle onde violente provenienti dalla Jugoslavia,
che sembrava essere il prolungamento naturale della collina su cui sorgeva
il Duomo di S. Ciriaco.
Appena finita la scuola, con l’estate che cominciava a farsi sentire, spesso
scendevo dalla città, con la mia bicicletta pieghevole e mi infilavo nel trambusto operoso del porto. Scivolavo veloce in una sorta di slalom tra locomotori neri e sbuffanti, grosse gru che sembravano muoversi leggere su rotaie
invisibili, colline di containers, e centinaia di persone dirette non si sa dove
come fossero formiche impazzite. Pedalavo leggero, con l’agilità dell’adolescenza e la voglia di raggiungere una meta piacevole. Guardavo i grandi traghetti sempre pronti a partire e ascoltavo il respiro del porto fatto di catene
che scendono veloci a inseguire grandi ancore, sirene, odori, gatti, gabbiani
e da mille altre cose che i miei sensi percepivano senza voler trattenere. Pedalavo fino a raggiungere il Molo Nord che si stagliava imponente a nascondermi la vista del mare aperto e, all’improvviso, attraversando un varco che
sembrava aprirsi magicamente, compariva una banchina bianca punteggiata
da grosse bitte scure. A perpendicolo della banchina una scogliera si allungava
verso l’interno del porto, mentre, in questo specchio di mare così ben protetto, tre barche dondolavano dolcemente. Due erano a vela: una elegantissima Star, che si narrava avesse partecipato trionfalmente a mille regate ed
un piccolo Flying Junior. La terza era un’umile barca di legno così pesante
in ogni sua parte, dallo scafo ad i grossi remi, che pareva impossibile potesse
galleggiare. L’aspetto rozzo e un po’ trascurato peraltro le dava una connotazione di forza misteriosa quasi quel guscio di noce fosse stato forgiato in
un blocco di granito indistruttibile.
In questo piccolo spicchio nascosto del porto di Ancona passavo giornate
felici in compagnia del mio amico Francesco vivendo avventure immaginarie
che solo la fantasia dell’adolescenza ti concede. Un luogo segreto fatto di
oggetti portati dalle onde che pareva avessero voglia di parlare. Se il tempo
- 136 -
lo consentiva mettevamo maschera e pinne e perlustravamo palmo a palmo
la scogliera alla ricerca di polpi, cavallucci marini, pesci che non finivano mai
di sorprenderci per forma grandezza colore o modo di muoversi ed agire.
Il granchio con una chela gigante ed una minuscola, la buffa aguglia, la medusa minacciosa ed elegantissima il gambero in perenne retromarcia. Se la
giornata viceversa era più fredda e minacciosa costruivamo piccole barche
con i pezzi di legno e polistirolo che trovavamo tra gli scogli e affidavamo al
vento impetuoso questi improbabili navigli traballanti sforzandoci di seguirli
fin dove gli occhi ce lo consentivano.
In questo mondo fuori dal mondo a volte arrivava un uomo zoppo. Aveva
un volto che a me pareva severo, avanzava fino alle quattro cabine blu che si
appoggiavano al muro del molo. Entrava in una di esse e ne usciva a torso
nudo, ma sempre con i calzoni lunghi. Impacciato nell’incedere, ma sicuro
nei gesti, liberava dagli ormeggi la barca di granito e remando in piedi si allontanava a largo. Dopo una mezz’ora tre quarti tornava. Legava la barca e
rientrava nella cabina a rivestirsi. Quindi, senza parlare con nessuno, si allontanava col suo passo forzatamente dondolante.
Un giorno, come molti altri, lo vidi arrivare, ma quel giorno al molo
c’era anche mio padre con la sua candida divisa da ufficiale della Marina Militare. Papà si alzò, andò incontro all’uomo zoppo e gli strinse la mano in un
saluto che mi parve particolarmente intenso e fiero. Aspettai che la barca
come sempre prendesse il largo e mi precipitai da mio padre a chiedere chi
mai fosse quel signore misterioso.”Quell’uomo - disse – è un marinaio come tuo
padre. Ha perso una gamba in guerra nell’affondamento della corazzata Roma.Va
laggiù a largo, si toglie la protesi e si immerge nel mare”. Poche parole scarne, ma
precise come era nel suo stile. Si capiva però che papà vedeva in quell’uomo
un eroe, un uomo, che fino ad un istante prima io avevo visto solo come un
povero zoppo.
Venne al molo molte altre volte. Immaginavo la corazzata in navigazione
verso l’isola della Maddalena in quel pomeriggio del 9 settembre. Vedevo
l’equipaggio sereno nella certezza che la guerra fosse finalmente finita. Immaginavo le invisibili bombe razzo tedesche che da cinquemila metri di altezza piombavano sulla corazzata. Immaginavo il fragore, l’enorme colonna
di fumo, le urla, i corpi dilaniati. Immaginavo la nave divenuta improvvisa-
- 137 -
mente un blocco di acciaio senza vita che precipitava a mille metri di profondità nell’incolpevole mare dell’Asinara. Immaginavo i millequattrocento
marinai morti ed i seicento che disperatamente cercavano di salvarsi. Immaginavo lui. Lo vedevo più giovane, ferito forse da una scheggia o da una
lamiera tagliente. Vedevo lo squarcio sulla sua gamba, il mare intorno al suo
corpo diventare rosso di sangue. Immaginavo il dolore, la paura degli squali,
la disperazione per i compagni persi. Infine i soccorsi, la traversata fino a Minorca per trovare una branda in ospedale e laggiù, in terra straniera, l’amputazione della gamba.
Sono tornato ad Ancona dopo molti anni. Cammino lungo le banchine
in un mondo che da bianco e nero è diventato a colori. Ecco laggiù il Molo
Nord. Sembra avermi atteso per tutto questo tempo. Sorrido rivedendo i
miei scogli. Guardo lo specchio di mare che sento di conoscere in ogni sua
goccia ed improvviso dal cuore riemerge il ricordo indelebile dell’uomo, del
marinaio e della sua barca di granito. Le onde leggere del porto non riescono
quasi a muoverla, al suo interno un paio di calzoni ed una gamba di legno. Il
marinaio è lì nell’acqua, nuota sicuro, libero finalmente dalla sua menomazione. La guerra gli ha rubato la felicità, ma il mare è sempre lì ad offrirgli
un abbraccio sicuro che non avrà mai fine.
- 138 -
Poesie selezionate
Dove vai a riposare, mano, con direzione di occhi?
Dove vai capitano azzurro?
Vai alla mia nave traballante?
Dove vai quando conduci il vento?
Al mio cuore che ha un miraggio d’alberi?
Dove vai?
Verso l’orizzonte che sanguina…
Ti regalo la morte di un seme.
Baciai una pietra nel sole e un seme nel pane,
scorgo una canzone antica.
È nata la bellezza ed è visione di terrore e grazia…
Francesca Lo Bue
Le prime dieci poesie
Mare di notte
Tiziana Monari
E lo sentiamo il mare in questo esodo crudele
schiumare da mille bocche sommerse
maculato come il manto di un giaguaro, affilato come una scimitarra
radente di antiche condanne
sale furente accanto al golfo di Sirte imbevuto di morte
su gole scompigliate, su braccia che cedono inermi alle tempeste
su quella barca che ondeggia senza più meta
come uno scarabeo morto
e Jamila sogna l’albero di gelso, i capperi fioriti, il fiato del Sahara
lunghe distese di oleandri viola
e Sogna Nazim le vergini del paradiso
donne dai fianchi sinuosi come serpi, licaoni nascosti tra i cespugli,
aquile di cielo
ma il cuore batte nelle ossa, su labbra avide di sale
tutto è ombra
in quella voce del silenzio che urla prima del naufragio.
Vite mai arrivate in nessun porto
laggiù dove un gatto di strada, sporco di pesce
miagola rauco.
Anche lui affamato d’amore.
- 142 -
Preghiera dall’ultimo porto
Gaia Mariani
Brezza, che da lontano accarezza
l’antica mano che vacilla,
Shabine, quel vecchio lupo di mare
che è giunto ormai alla fine
della sua traversata; sotto la luna salmastra
e la risacca, attraverso occhi di vetro
che s’aggirano tra agglomerati insonni
di fuligginose notti randage.
In ogni occasione chiedevano se
sarebbe stata l’ultima volta, l'ultima volta
che saresti tornato, Shabine, il depravato,
l’ubriaco, il traditore. “Credo di aver perso
la rotta, mi fidavo di guardare le stelle ma
io non alzo lo sguardo, non voglio,
può darsi che si mostrino
solo a chi ha coraggio, non a chi fugge”
Le mie vele ancora non raccolgono
il vento, non sono gravide di esotici profumi
Shabine, il tuo piccolo Legno
con un’ancora più grossa della carena
non ha le vele, non ha mozzi pazienti
e marinai o bussole che seguano la rotta,
che spieghino le ali, eppure,
sulla stretta fiancata “Icaro”,
Legno dalle vele di cera, con le nostre
mete mancate, si farebbero beffe di noi,
di te, Shabine, con il faro che ricorda i nostri
approdi falliti. Un porto vale
un altro porto, forse, ma il mare,
l’ultimo mare che vedo da questa finestra
- 143 -
oh...quello è unico, con occhi diversi,
come se fossi giunto
a ciò che non ho mai trovato, una casa
alla fine, ma una casa
diversa da tutte le altre, l'estrema;
avanza il mio passo sulla rena
fino a perdersi, a sfumare
dolcemente nel grande Padre
che accoglie le nostre tracce e le disperde.
- 144 -
Vessilli al vento
Vincenzo Tafuri
Vessilli al vento, vedette di costiera.
Città marine, i porti, viaggi di confine, sipario d’avventura,
il mare, intenso primordiale scenario, seno d’umanità.
Navi dipinte, voci ancestrali, divinità di palpiti.
Ronzii sommessi come bisbigli di giganti.
Dondolii di alberi, steli svettanti,
oasi serena nel turbinio di eliche.
Ritmi di scie, ordine di segnali, fasci di luci.
Vessilli al vento, vedette di costiera, saette di schiuma,
brezze di maestrale, azzurro di pastello nel filtro di sole,
vele bianche nel silenzio di cielo.
Vessilli al vento, sentinelle di pace,
l’urlo dell’onda nell’ira sferzante.
Coraggio e ardore, tutela di vita, al fiero marinaio,
esodo di pena, tesa la mano all’inerme migrante.
Universo d’orizzonti, insidie nascoste veglia sul mare,
nell’orgoglio di popolo.
Notte di stelle tra fari guizzanti.
Il porto nell’incavo di luna, sonno di preghiere,
visi lontani , fuochi d’amore.
Mare bianco, candore di pelle, lindo tessuto
come animo di fanciullo.
- 145 -
Pianto da sponde lontane
Ester Cecere
Parla oggi il mare.
Di madri lontane,
un pianto sommesso
mormora all'alba.
Muta lo sciabordio
in grida d'aiuto
da mari remoti,
al levarsi del vento.
Urla di terrore
soffocati nei flutti,
il fragore dei marosi
d'una improvvisa burrasca.
E io,
agli scogli da gomene ancorata,
impotente odo
il pianto da sponde lontane.
- 146 -
27 giugno 1980
Adele Pedroncelli
È sera di cielo terso e strano movimento.
Quasi resa al sonno, l’estate
prende quota, nell’ultimo suo volo,
Dc9 Itavia, ingenua croce d’argento.
Gli sguardi mietono
a ridosso del vetro
lo sfrigolio delle lampare
adamantine viole di mare…
Ma il mare ha un livore profondo
muove le mani incapace
di sedare le onde inquiete
e tace.
Manca il tempo, il coraggio
dell’ultimo istante:
virata, urlo, impatto… preghiera.
Manca il tempo...
È il travaglio di una stella implosa
uno scroscio di fuoco, un delirio di corpi
smembrati, nelle tracce delle lamiere
iridescenti.
Un cane di pezza, una borsa vuota,
una scarpa rossa … infrangono lo specchio
nero dell’acqua a lutto, fresca di dolore, e poi …
un’aurora di silenzio
un cono d’ombra
di gelido mistero, cala, e permane,
su quel lembo di Tirreno.
Ustica, 27 giugno 1980.
- 147 -
Gente di porto
Luca Olmeda
All’antica taverna dei marinai,
con cento lire,
mezzo bicchiere di vino
per scrollarsi di dosso
la tristezza di un giorno …
Il biliardo e il fumo delle sigarette,
il chiasso dei vecchi che giocano a carte
e ricordano antiche storie di mare …
ma tanto chi li sta ad ascoltare,
noiose fantasie da dimenticare …
e mentre il mare grida impetuoso
ed i gabbiani urlano al vento …
io angosciato,
tutto d’un fiato
con la mente vago …
e vedo in mare luccicare
scintille di poesia,
assurda nostalgia,
di vecchi marinai
ubriachi di utopia …
gente di porto,
col fiato corto,
insegue chimere
sventolando bandiere
ingiallite dal fumo,
aggrinzite di sale …
- 148 -
Preghiera
Sergio Bisiani
Stelle dell’Orsa
Che indicate la rotta
A chi solca il mare
Mio padre si è addormentato
Guidatelo al porto amico
Alla baia tranquilla
Di un’isola lontana
E tu dio dei venti
Che riempi la sua vela
Fa che il viaggio sia breve
E le scotte docili alla sua mano
Nettuno, che domini i flutti
Apri le tue onde
Alla sua prora
Gabbiani
Mio padre vi amava
Stendete le bianche ali
Nel suo cielo senza nubi
E voi delfini
Argento nell’azzurro infinito
Giocate felici
Nella scia della piccola nave
Il vostro canto più dolce
Sirene
Lo accompagni
E lo tenga lontano
Dallo scoglio che affiora
Mio padre si è addormentato
Noi lo abbiamo visto partire
E voi
- 149 -
Che lo avete preceduto
Sulla misteriosa rotta
Dell’eternità
Accorrete sulla spiaggia
A salutare il suo arrivo
- 150 -
Pennellate mediterranee
Angela Dipasquale
Seduta sull’orlo arrotolato
d’una banchina del porto di Sicilia
per compagna uno spicchio di luna
come un amo gettato nel cremisi.
Onde di blu, flutti di stelle.
Dall’alleggio della volta
si riversa all’orizzonte la notte.
S’alternano alla costa
i seni turgidi dei monti.
Profumo di sale e di zagara.
In questa notte mediterranea
salpano riflessioni
il mare inizia ad infrangersi
il sibilo diventa lamento.
Una eco di voci erranti
accompagna la risacca.
Quale nuovo Ulisse approderà?
Nei porti non giungono solo marinai
ma nere frange di uomini.
S’arenano schiume
sporche di sangue.
Attraccano lingue e credi diversi.
Nessun carteggio
seguono le rotte della speranza.
Terra che porta in grembo
figli fermi a fare i fari
a vegliare la salsedine dei suoi fianchi.
Marinai pescano uomini
o forse corpi,
nuovi Messia di un’epoca in cui
- 151 -
persino il Libeccio, stipato,
giunge su scafi.
Mediterraneo
canestro intrecciato di blu
raccoglie le mie gocce di sbadigli.
Sui fondali scandaglio emozioni
peregrine e senza boa.
Una stella stanca
muore a mare.
- 152 -
Maree
Daniele Buccini
Fresca è l’aria stasera
e aleggia il profumo della bufera.
Il Nostromo, assorto, scruta lontano,
cercando un Dio da poter supplicare,
una luce, un segno, un rito pagano,
un ricordo cui potersi affidare.
In una culla d’onde
il sentimento, geloso, nasconde:
che nessuno intenda il suo dolore,
quel gran dolore che viene dal mare,
che nessuno sveli il suo immenso amore,
quel grande amore che torna nel mare.
Quel sentimento che nasce con la marea,
che cresce, che muore inseguendo un’idea.
Fresca è l’aria stasera
e non tornerà.
- 153 -
Marino
Cristiana Pezzi
Lo vedi seduto
Mani sulle ginocchia, ginocchia larghe
Largo sguardo steso all’infinito
Sulla fresca tavola del mare
Di fronte alla sua casa
Si riposa
È stato marinaio tutta la vita
Adesso naviga fra le spume del pensiero
Grato alla lunga relazione con l’acqua
una storia felice dal colore cangiante
Da quando respira, lui è lì dentro
Aspro e ridente
È avvinghiato all’abbraccio del flutto
fuso al grido della conchiglia,
alla sabbia che avvolge il gabbiano
in braccio al rumore della tempesta,
cullato dal fragore del sole
tagliato nel sale,definito di bianco dal vento
assopito nella bonaccia,
gioca alla guerra coi venti
nutrito dall’odore del pesce
svaporato lo sguardo, si perde
ed oggi il mare vuole amarlo per sempre,
e lo chiama brillo e suadente
- 154 -
lui si alza dalla panca di pietra,
si cava le scarpe ubbidiente
sospettoso lo squadra il paese
flaccido al sole brunito
sbattono le ali le lenzuola stese
minacciose , querule, offese
pochi passi servono adesso
a soddisfare il solenne invito
ad arrivare alla madre odorosa che è padre
che è sposa e confidente invecchiata di millenni
calza ciabatte di sabbia,si infila sotto coperte d’acqua
poggia la testa sul cuscino d’alga
un brivido lungo lo scuote
quando sente arrivare la sua barca
sull’ultimissima onda
disponibile
- 155 -
Le altre poesie
In piedi sulla riva
Angela Ambrosini
Dipana velario di luce
dal mare, colori a mescere
tra cielo e sponde,
tra sabbia e case,
povere case in barbaglio d’ocra
laggiù, dall’isola scarna di scogli.
Scuote la donna torrente
di reti ad asciugare al sole,
lo sguardo del pescatore
attento a che squarci le maglie
non abbiano tra alghe e sassi,
di terra rossi.
Così, oltre quel gesto
che dura millenni,
dura fatiche e forse rimpianti,
ammonisce la mente altri destini
che mai, come il mio, ebbero mari,
né moli, né bitte cui bastimenti strappare
all’artiglio dell’acque,
e mi somiglia, sì, quanto mi somiglia
questo brivido di vita
riversa alla salsedine aspra
d’un giorno qualunque
che lento inabissa
su specchi d’azzurro.
- 158 -
Mare
Paolo Annibali
Mirabile
Armonia di frutti,
Riverberante,
Eternità
- 159 -
La musica del mare
Elena Auddino
Il mare, maestro eccezionale,
dirige senza partiture.
Pochi strumenti musicali,
suoni incisivi.
Ritmico sciacquio di onde,
o tempesta incalzante,
le sue sinfonie provocano stati
di ebbrezza o malinconia al
pubblico che ascolta.
Di mattina,
col suo vestito azzurro,
regala una musica dolce, soave,
che infonde gioia e speranza nei cuori.
Ma di sera,
quando indossa la sua veste di fuoco,
la sua musica in crescendo
incendia gli animi più appassionati.
Se poi si veste di grandi onde
spumeggianti,
le note che si odono fra gli scogli
diventano assordanti, quasi di dolore.
Il suono fievole, evanescente,
delle piccole onde che lambiscono la riva,
non è udibile da tutti,
ma dagli animi più nobili.
Compositore…
il mare scrive la sua musica quando
rimanda i riflessi d’oro e viola del sole,
nel suo ultimo abbraccio al giorno;
e il cielo sopra l’orizzonte
- 160 -
diventa un sipario di tinte infinite,
dipinto da un pazzo pittore.
Carezza sul viso e sulle speranze,
la musica del mare è per coloro
che sanno stare in silenzio,
ad ascoltare rapiti… in estasi…
- 161 -
Il mare di ieri
Paolo Avanzi
È un assillo di vacui orizzonti lontani
ciò che subentra alla vista del lungomare di Cervia
mentre mi ritrovo ancorato alla assenza di te.
Non trapela emozioni la folla
(accalcata sull'estremo lembo sabbioso
fuori dall’onda) ma solo per me
che non sopporto pensieri che non siano di te,
del nostro amore scontroso
concluso in quella maledetta vacanza.
Così preferisco annullarmi
tra le coppie transeunti riflesso di noi
sulla sabbia, piuttosto che rintracciare tra i flutti
la memoria vitale della tua rapida corsa
schiumante. Amo il mare di ieri
e non so biasimare il tuo fuggirmi continuo
sulla scia di riflussi che tuttora s’agitano
in questo supplemento d’estate.
Ci voleva una mia frase sincera
o, chissà, una canzone
che accompagnasse lo sciabordio dell’acqua sul molo,
la sua suggestione di acre salmastro,
invece delle mie esitazioni sulla distanza esistente
dallo sfiorarti la mano.
Così ora in una sorta di tardivo riscatto,
la mia voce affidata ad una linea di telefono
occupata vorrebbe anticipare i tuoi certi dinieghi,
illuderti che siano ancora lì le nostre impronte
miracolosamente scampate
all’anonimo passeggio sulla battigia.
- 162 -
Di solito è il mare
Luigi Antonio Barone
Mare cupo e tempestoso
amico dei pescatori
che in te posano
la loro speranza.
Mare calmo e sereno
a te sono affidati
i figli dei pescatori
e la loro vita.
Piangi,
o terra di Gallipoli
tre dei tuoi figli
non fanno ritorno.
Odi!
Vaghi lamenti
fendono le acque.
Di solito è il mare
a dare il pane
a chi lo cerca:
la vita
a chi la chiede.
Ascolta la preghiera
di quelle donne,
che del loro uomo
le hai private.
Ed io l’ultimo
saluto ripongo
agli amici
della San Cosimo Secondo.
- 163 -
Notte sul mare
Marisa Bigliardi
Celata
ogni cosa
riposa la notte
sul mare
Trema l’onda
increspando effimeri bagliori
memori
d’un dì
traboccante di sole
- 164 -
Delicata veglia
Davide Bordoni
Non si è issato il cielo oggi,
la duna della spiaggia è solitaria,
mentre le onde risaccano in un brusio salino,
il vento non si sa più orientare… perso in serpentine deliranti,
l’orizzonte sfugge alle carezze del mare
e non si dipinge allo specchio del mattino,
il pennello della vita non ha scelto le tinte del nuovo giorno…
Tutto appare e poi scompare…
Forse sto osservando con gli occhi dell’anima.
- 165 -
“M”
Luigi Brasili
Mare magnum.
Maestose maree m’inondano, m’innalzano.
Misterioso, mirabile, mèsse monumentale.
Mobile membrana moltiplicante meraviglie.
Mente m’illumina.
Merluzzi macinano miglia; miliardi!
Mako, mandibole micidiali masticano membra.
Molluschi mimetici, murene, melanoceti mostruosi.
Messaggeri Moai mirano morbide moltitudini.
Mormorii marsiliani, motonavi marcianti.
Mitici mostri, melliflue melodie.
Maghe, maiali, mete mitologiche.
Melville, Montalban, Mayol, Maiorca.
Magellano, Morgan.
Mompracem, Maldive.
Mururoa...
Montagne marine, maelstrom minacciosi.
Mercanti, militari, marinai.
Miraggi, moli, missioni.
Messaggi.
Mare.
Magico mare.
Mare magnum.
Mare mio.
- 166 -
Il veliero
Rosalba Katiuscia Buongiorno
Una nave di carta.
Eravamo salpati, a sera.
E tutto il mondo ci era scorso tra i visi e la vela.
Allacciati stretti in ogni scossa di burrasca lieve,
in ogni dondolio di bonaccia,
non ci toglievamo gli occhi di dosso.
E le parole, dita tra le dita,
s’intricavano insieme
a sospingere oltre l’orizzonte il nostro piccolo veliero.
Ed era meraviglioso scorgere che
c’era davvero il profilo dell’Anima, dinanzi a Noi.
- 167 -
Partire soltanto per vedere il mare
Franco Casadei
Una volta nella vita, all’insaputa
partire solo per vedere il mare
spiando con ansia quel punto di strada
in cui, lo sai, apparirà all’orizzonte
la linea che non si può varcare
come un clandestino addentrarti poi
in uno di quei borghi accalcati
sopra i sassi, concederti al vento,
portarti via quella luce come fossi un ladro
tornare a casa e solo tu a saperlo.
- 168 -
In dolce compagnia
Giulio Rocco Castello
Amo di te, o mare,
le dolci notti calme,
con disegni di sabbia
dipinti dal tempo.
Guardando i tuoi occhi
resto fermo, penso a quello che dentro
ti agita, ti sconvolge.
Proprio questa notte
alla luce delle stelle,
a piedi nudi
ti vedo passeggiare al mio fianco.
E qui è la mia foto stanca
di un mare che mi segue
oltre le cime
con le ombre che siedono sul porto,
quei giorni in cui le onde mattutine
gridavano ai sussulti della vita.
C’era ancora forza negli occhi della sera
quell’innocenza racchiusa nel recinto
pronta a cercare la sua via d’uscita.
Ma il vento cambia direzione,
la luna guarda con altre facce
e noi torniamo a sera con le scialuppe fiacche
nel porto, con il faro spento.
- 169 -
La prua di una nave
Pasquale Catanzaro
È la prua di una nave.
Che fende il mare.
Che si protende verso l’orizzonte.
Mare.
Tutt’intorno.
E luna.
Che in quelle acque gelide si specchia.
Vuol render eterna la sua immagine
in quello specchio fatto d’onde.
E sale.
È la prua di una nave.
Scranno su cui m’accomodo.
Per ascoltare le parole
che si nascondo
tra le righe di quella tavola azzurra
ch’accompagna viaggiatori.
E le loro speranze.
E i loro sogni.
È la prua di una nave.
Punto di partenza di una nuova storia.
Pagine bianche da riempire.
Pensieri.
Che diverranno parole.
Immagini.
Che diverranno acqua
che disseta la mente.
E vibra nello spirito.
È la prua di una nave.
- 170 -
Che segna il nord del mio viaggio.
Non v' è Itaca alcuna da raggiungere.
Né Penelope
ch’attende il mio ritorno.
Solo storie da vivere.
E poi raccontare.
- 171 -
A te
Antonia Colella
Il pensiero vola a te,
che insito culli innumerevoli ricordi.
Un turbinio di piacevoli emozioni
nascondono i tuoi flutti,
che dolci e soavi accarezzano
i fanciulletti piedi di creature spensierate;
un insieme di possenti sentimenti
provochi in chi ti ammira quando,
potente e rissosa,
la tua forza si infrange su spigolosi scogli.
A te… il mare immenso.
- 172 -
Spiagge
di Mauro Corsini
Rantolano rotolandosi l’onde.
Pensieri, ricordi e pensieri ancora.
L’infinito ritorna a sussurarmi
L’infinito echeggiare suo smarrito.
Echi, silenzi,vuoti ed acque ancora:
Torni, tu, labile magia d’incanto,
Evanescente spuma levigante
L’anima. Cruda e dalla gola tesa
È la voce del cielo che sovrasta
L’incorregibile mutevolezza
Del mare.
Qui, tra ventri di schiume e tra i riflussi,
Svelo questo mio futuro di sabbia,
Provando quasi un sentimento vivo.
- 173 -
Jogging
Maria D’Ambrosio
L’iride del mare si rinnova
ad ogni assalto della mareggiata.
I frangiflutti, chiusi in falange,
si preparano all’impatto
neri d’acqua e di lava.
Corro lungo la riva respirando
nuvole di brodo primordiale,
alzate in aria, come polvere sottile,
da mastodonti in combattimento,
che si contendono il diritto antico
di continuare ad essere nel tempo.
- 174 -
Rovaglioso
Carla De Falco
il cielo in cui cicala regna
ha palpebre chiuse
e niente nuvole.
la casa rossa delle estati bambine
sorride d’un lascito lontano
e niente chiavi.
la gente che amai e difesi a lungo
è fuggita via dai rovi stanchi
e nessuna parola.
protetto da speroni aspri di roccia
tu solo ancora mi sussurri
col fiato pastoso delle spume
i tuoi paterni moniti solenni.
«ricordati di non appartenere,
increspati, per farli intimorire
incazzati e innalzati sultana
incantali e fatti anche solcare.
attenta a non svelar l’abisso.
poi calmati e goditi la quiete.
tuo padre, il mare».
- 175 -
Partenope
Teodoro De Giorgio
Fin dove tocco,
lì voglio arrivare.
Non oserò andare oltre.
Mi fermerò dove l’acqua
lambisce la gola
e ti aspetterò.
Ti aspetterò
anche se non dovessi mai arrivare.
Sarò come uno scoglio,
sprezzante delle onde
perché non può affondare.
Percuoterò la rena coi piedi
per chiamarti,
urlerò il tuo nome sottacqua
e lo sussurrerò ai venti.
Le onde melodiche
del mio cuore
ti condurranno a me.
Scruterò il mare
per cercarti all’orizzonte
e se ti scorgerò tra i flutti
guizzerò da te.
Mi lascerò incantare
dal tuo canto seducente
e dalla tua peregrina bellezza.
Mi largirai la tua conoscenza
e, come Odisseo,
non ti rifiuterò.
- 176 -
Ci uniremo in abbracci vorticosi
e penetrerò il tuo mistero.
Fuggiremo in un golfo segreto
e ci ameremo
nel più profondo silenzio.
- 177 -
Golfo del Bengala
Daniela De Nuntis
Vedo appena il divieto,
le mie orme di sabbia mute e lavate,
sagoma minima che scendo a te e mi poso avvinta.
T’ignorano i corsari,
t’ignora il nocchiere, t’ignora la nave,
tu sei proibito e solo.
Non m’avvidi
che lasciavo la mia guerra nella tua,
era tuo l’urlo che s’affoga,
tuo l’abisso e m’inondava,
era il tuo cuore che batteva travolto.
Non m’avvidi della notte,
non m’avvidi della luna di sale,
non m’avvidi di me, ero l’acqua che annega.
Confusi la mia tregua,
confusi la somiglianza che smania,
confusi la paura, il pianto e la pace,
confusi l’avida vita,
confusi la rabbia selvaggia e la violenza.
Tu portavi la fame che prega.
- 178 -
Mare di vita
Maria Rosaria Della Rocca
La nebbia comincia a diradarsi.
I primi raggi del sole temprano la terra
si riverberano nell’acqua
oltrepassando la coltre vegetale.
L’armonioso fruscio delle onde
si fonde al battito del mio cuore.
L’azzurro specchio
riflette i contorni evanescenti
del mio volto stanco.
Mi intingo nel mare,
che gelido e frizzantino
avvolge il mio corpo e la mia anima.
Rimembro gioie lontane, velate di malinconia,
abbandonata a un immenso piacere,
illuminata dalla scoperta improvvisa di arcane suggestioni,
cullata dall’oblio
nel desiderio di libertà e infinito:
mi emoziono
per tale meraviglia del creato,
che offre vita e speranze a ognuno di noi.
- 179 -
Tempesta a Torre Flavia
“A mio padre”
Francesca Di Castro
L’onda monella coperta di spuma
gorgheggia i marosi contro lo scoglio.
Vedo la Torre vicino la riva,
la meta del viaggio insieme a mio padre.
Sabbia che frusta le gambe e la mente,
entra negli occhi, colpisce la faccia.
Il tempo che cambia oscura l’azzurro,
il mare diventa come la pece.
Mio padre si volta,
mi prende per mano,
mi dice “Torniamo!”
Sulle sue spalle la Torre scompare
dietro la nebbia di tromba di mare.
- 180 -
Spora della mia esistenza
Elisabetta Di Francia
Con te sono nata.
Rapita nel tuo ventre sono stata
piccola e gigante,
semplice e paziente.
Nella tua culla di spuma e armonia,
aggrappata alle tue viscere,
ho respirato la libertà dal dolore.
Così mi hai resa schiava del tuo immenso,
battendo le tue rive sul mio cuore dismesso.
Accendendoti senza artifici
hai disegnato la rotta di superfici
profonde,
accogliendo sguardi felici
in teneri orizzonti.
Sfavillanti occhiolini di incanto,
inghiottiti dalla tua ugola,
mutano le mie parole in sussurri ameni.
Amante fedele e nemico implacabile
mi posi frammenti di seta
sulle dita
lasciandoti cavalcare
e mai domare.
Porti in grembo il dono
di un’ancora che aggancia
la mia vita col sapore
della tua dolce frenesia,
ripulendomi dal torpore
e dalla scialberia.
Pelle che abita la musica
del mio viso
- 181 -
specchiato in riflessi di luce
e di luna radice,
da te mai allontano
la danza atavica della mia anima.
Perché non sei mai abbastanza mare
se non sei dilaniante amore,
vorace desiderio
e costante melanconia.
- 182 -
Pesce nell’acquario
Maria Antonietta Filippini
Dalla sabbia nascono e muoiono,
nel giro di poche ore, castelli popolati dalla fantasia
di dame, draghi, principi arditi.
Nell’eterno rigenerarsi del ritorno
alla sempre uguale pulsione
di compattar granelli e acqua di mare,
corrisponde, bambina dispettosa,
la voglia di distruggere ogni cosa
saltandoci sopra ben molto prima
del tramontar del sole.
Acida è la nostalgia
di ciò che fu e non potrà più essere.
Come lontana eco, lo specchio ripete
la stupida novella di lei
che cerca il suo perduto amore:
Sette paia di scarpe ho consumato…
Sette verghe di ferro ho logorato…
Sette fiasche di lacrime ho colmato…
Allora, chissà come e perché,
è ancora qui presente l’età
il cui il passato è breve
e il futuro pare eterno.
In realtà la vecchiaia non sa correre,
sprofonda invece in storie in parte vere
ma per lo più inventate, labili orme
che la lieve risacca subito risucchia
come il ricordo di quell’unica estate,
col sole a picco, che racconti contiene
tali da superar le “ Mille e una notte “.
- 183 -
Luce metallica nel mare riflessa
acceca e il salmastro mantiene
sempre vive, della disillusione, cicatrici mai sanate.
Lucidi, freddi, piccoli pensieri naufragano
quando, silenziosa, già s’illumina la meta.
Fragile, spumosa cresta d’onda
la fragilità umana, indifferente al caos,
non per la prima volta, nel rotolio della tempesta,
di sale spolverata al nulla grida muta,
come pesce nell’acquario a boccheggiare.
- 184 -
A te, mare
(In ricordo di Klevis, caro alunno albanese, prematuramente scomparso)
Fiorella Fornasiero
A te, Mare,
nel languido tramonto
d’un autunno nebuloso,
affido il mio pensiero,
a te che dalla sua Terra mi separi
e, frapponendoti maestoso,
mi concedi solo di sognarla,
la Terra in cui nacque
e dove è tornato a riposare,
quella Terra che dolcemente accarezzi,
qual premuroso innamorato,
nel tuo fedele andare e venire,
nel tuo ritmico dondolare.
Culla anche queste parole mie
e tramutale in canzone,
così che giungano fino a Lui
come canto di Sirena.
Forse non riaccenderanno il suo sorriso
e non faranno brillare i suoi occhi
ma, mentre fisso la tua distesa azzurra,
io già me li figuro
quei ridenti e luminosi “Non ti scordar di me”
e la mia mesta nostalgia si placa,
per qualche istante,
nella dolcezza del ricordo.
A te Mare, guizzante di vita,
a te Mare, scrigno di segreti,
affido il sussurro del mio cuore.
Portalo sull’altra Riva,
- 185 -
quella del sonno eterno,
perché Lui non si senta solo.
Klevis, così piccolo e buono.
Klevis, così gentile e delicato.
- 186 -
Mareggiata emotiva
Francesco Ricceri
Cerco l’azzurro nei mari sbagliati di petrolio,
nuoto contro corrente nell' oceano delle prove fallite,
mi obbligo a provare la sistola delle emozioni di acqua.
Nel frattempo guardo l’orizzonte dalla prua della mia barca:
eccolo l’inizio che mi porterà a casa dopo anni di assenza,
dalla gente che non mi somiglia!
Il malecon aretuseo non mi manca:
ho un tripudio dietro me!
Le onde battono il tempo nelle clessidre dei miei ricordi.
Violenza nella rabbia di un passato ingiusto:
allattato da una pazza non riesco a perdonare la vita:
il mio sangue schizzato su uno scoglio
assieme all’amore sano della prima donna di ogni umano.
Arrivi tu: pochi minuti d’amore segreto nell’ atrio della mia diffidenza.
Il vento porta altrove quel che resta di un dialogo difficile.
Occhi alati sulle spalle e un piccolo pesce sul fianco,
carbone negli occhi di miele,
cacao sulle labbra di nuvola,
attenzione nella lentezza di un gesto,
un pezzo del mio mare per spazzare via l’uragano di un esistenza dura.
Sabbia tra i denti, deglutisco vetro:
rimpiango scelte sbagliate
e vomito ricordi sui fogli di un poeta avido.
Sudore sulla fronte...di pensieri,
amaro sul palato...di bugie,
rumore ai timpani... di idiozie,
fumo tra le narici... di ricordi :
una notte di spaccata realtà nella cruda esigenza di te!
Il sole dentro il mare mi frantuma l anima
e la trascina oltre l’orizzonte al tramonto,
- 187 -
legandola a te per sempre:
follia crederci,
estasi viverti,
suicidio continuare,
orgasmo respirarti!
- 188 -
Il soccorritore del mare
Giuanluca Frasca
Uscimmo dal quel gigante che si adagiava su se stesso,
come le formiche scappano dall’albero in fiamme.
Il fuoco insegue i miseri
come il freddo dell’acqua in quel mare buio,
incalzava la mia speranza di vivere.
D’un tratto dal cielo un rumore assordante.
Un uomo con l’aspetto di un mostro
mi trascinò e mi sollevò verso quel frastuono,
verso quella luce misteriosa
come un traghettatore porta un’anima verso l’inferno.
Tolse la maschera quel soccorritore
e da i suoi occhi capii che ero nel regno dei vivi.
Sospesi nell’aria lo vidi subito scomparire.
Non so dove fosse andato, ma capii
che era di nuovo sceso tra le onde
per proteggere qualcuno dalle fiamme.
- 189 -
Si rompono le nubi
Maria Grazia Frassi
Si lascia baciare il tuo viso
da fragranze di sale
nel meriggio inatteso…
Macchia di smalto
la panca è brillante
nell’umida spiaggia un po’ sola
improvvisa carezza del sole.
Si dondolano vive le barche più chiare
leggero il vezzo del remo legato.
Segui la luce salire una zattera avara:
è un’onda aggrapparsi alla riva;
s’infrange accecante
in lamine curve
sui dorsi e le creste,
inghiottita da chiari risucchi:
è un decanto di scorie
tra alghe d’altrove
che riporta poi l’oro
e lieto traspare un senso di nuovo
come si agitasse ad aprire le brecce
nella folla di turbati pensieri,
sul grigio dell’acqua e nel cielo
si dipinge l’argento
a tessere increspati bagliori;
e nel marasma che si scioglie
ecco si disincaglia
uno scivolare di sciarpe lucenti
sulle distese infinite di mare
lontane apparire più quiete,
lasciare il suo tempo al gabbiano
per cogliere acuto il suo pesce.
- 190 -
Al mio marinaio
Rita Gallo
Hai amato il mare,
e mi hai insegnato ad amarlo,
a non temerlo.
Ancor piccola,
mi facevi ascoltare
il rumore delle onde
sulla battigia
e mi cantavi
ninna nanne sulla riva.
Mi sembra ieri che, a lungomare,
seduti sulla panchina,
ci fermavamo a lungo
a respirare l’odore acre
della salsedine, delle alghe...
di qualcosa d’infinito,
che non si respira
in nessun altro posto del mondo,
se non c’è il mare!
Mi raccontavi storie affascinanti
di delfini, sirene, uomini pesce
e io, accoccolata a te, chiudevo gli occhi
e mi pareva di toccare il cielo,
cavalcando leggera sulle onde
con creature mitiche e gioconde.
Poi sono cresciuta…
andavamo a pesca sugli scogli
e lì mi hai raccontato le storie vere,
quelle vissute, quelle della guerra
e la paura di morire,
proprio in quel mare
- 191 -
che tu amavi tanto.
La divisa bianca
col berretto della “Regia Marina”
era il tuo orgoglio
e tu sei tuttora il mio, papà!
Voglio immaginarti ancora sul “tuo” scoglio,
come un vecchio marinaio ad aspettare le prede,
con la canna, consumata dal tempo,
il berretto blù, la maglietta a righe e i pantaloni arrotolati.
Felice, come l’ultima volta che hai visto il mare.
- 192 -
29.08.2011
Luca Gini
Perchè vuoi stare nella mia ombra?
Non è quella di un gigante,
è di una nave arenata.
Non spingere, non forzarmi
non credo salperò ancora
viaggiare senza carte
mi ha portato
dove non c’era mare.
Nessun vento è favorevole
al marinaio che non sa dove andare.
Vuoi un consiglio?
Parti sola.
Anche una piccola barca può salpare.
- 193 -
Voce di un’esiliata
Maria Rosaria Giunta
Ti sento,
avverto i tuoi odori,
i tuoi sapori,
i tuoi colori.
La mente divaga,
mentre i ricordi
della tua acqua cristallina,
inondano il mio cuore
di rimpianti.
Sei il mio amante perduto,
sei la passione della mia gioventù,
sei l’azzurro che mai più ho rivisto.
Lontano il pensiero corre,
ormai gli anni giungono al loro bivio,
ma tu, mio mare di stelle,
rimani lì ad osservarmi,
indifferente al tempo che passa;
tu ripeti il tuo ruolo
da eterno bambino,
mentre la vita scivola
e rimane la nostalgia
di un amore lontano
e mai vissuto,
della perdita di te,
mio amato Jonio,
mentre la fredda nebbia
dell’indifferenza
mi porta via
gli ultimi istanti dei tuoi tramonti.
- 194 -
Mare d’inverno
Davide Iacobellis
Il mare d’inverno
cheto un tempo non poi così lontano,
tra sbuffi e spruzzi, ed onde e mulinelli gorgoglianti,
tramuta l’esser suo acquistando le sembianze d’un mostro primordiale.
E s’alzano in formazioni d’attacco eserciti d’acqua e sale,
assediati dallo sferzare d’un vento nemico,
ad aggredendir la riva, ad inghiottir le nubi,
mentre gabbiani di luce e falchi di tuono,
vessilli di rivali potenze,
annunciano una guerra con strida ed artigli incandescenti che feriscon
l’orizzonte.
E sperano i civili che la bestia plachi la sua fame con le vite non dei loro cari,
persi nel suo manto con reti calate che tirano impazzite verso l’abisso,
finchè le preghiere dei fanciulli, di lacrime materne impreziosite,
lambiscono il cuore del mostro e saziano di pietà la famelica rimostranza.
E torna a riposare il Leviatano, oramai soddisfatto del dazio,
sul fondale del suo mondo oscuro,
smuovendo le maree ad ogni respiro del suo sonno tormentato.
E s’assopiscono i demoni del vento
in giacigli di bonaccia,
tra le nubi che evaporano,
nel silenzio della notte.
- 195 -
Come il mare
Romano Italia
Amo il tempestoso corso dei tuoi pensieri
frementi ed arditi come dei destrieri.
Amo l’animo tuo di passioni ardente
che divampa e brucia inesorabilmente,
ed amo la quiete che segue ogni tempesta:
il cuore calmo e la mente in festa.
Sei come il mare: tempestoso, rude, irruente
ma anche lieve, placido, accogliente;
quando nel cuor placata è la bufera,
intorno rifiorisce primavera.
Dormi o mio mare, la tua barca culla,
abbine cura come una fanciulla,
lasciala abbracciar dalla tua onda
e accompagnala, lieve, sponda a sponda.
O mare specialissimo, gioia di mia vita,
luce dei miei giorni e di bontà infinita,
godi questo sole e questa lieve brezza,
che nel tramonto estivo tenera ti carezza.
Dondola la tua barca che si specchia fiera
tienila stretta a lungo prima che venga sera,
quando verrà l’inverno di lei non resterà traccia
ed a nulla varrà chiudere le tue braccia.
Sogna il tuo sogno, mare, l’ultimo concesso,
forse, sin da domani, niente sarà lo stesso.
Dormi o gigante buono, presto verrà la neve,
l’estate, come la vita, è sogno lungo e breve.
- 196 -
In ammollo
Serena Lampugnani
Si, è vero.
Non ho mai ricevuto una sorpresa, le ho sempre beccate prima.
Non ho mai ricevuto un fiore quando lo desideravo, in cambio avevo un
poster, 3 metri per 3 metri raffigurante la margherita di Romeo Britto, ma
non era la stessa cosa, non aveva lo stesso profumo.
Ho detto TI AMO per davvero, con il cuore in mano, una volta sola e la
risposta è stata un sorriso, ma quel sorriso racchiudeva tutta la sua vita.
O almeno credo!
In compenso ho amato tanti uomini, con la pancia, con la figa.
Odiavo i gatti prima di convivere con due.
Amo il sesso e lo odio, perchè il sesso mi distrugge, mi svuota, mi fa sentire
sola.
Amo conquistare.
Amo controllare le emozioni.
Non so cosa significhi vivere.
So che voglio vivere.
Ho provato tutte le due ruote possibili, scooter, motorini, vespe, moto, moto
d'acqua, biciclette, arrivando alla consapevolezza che con quelle troppo
potenti non posso resistere dal disintegrarmi.
Amo la musica.
Amo i verbi coniugati a dovere.
Amo fumare ed è difficilissimo smettere.
Amo le donne arrivate, indipendenti, forti; amo quelle donne che vorrei
essere.
Amo me, a momenti.
Amo il rumore dei tasti del pc.
Amo la carta, amo le biro, le matite e i fogli sparsi per casa.
Amo pedalare, sudare, faticare.
Amo farmi guardare.
Amo dormire, sognare, odio un po il dovermi svegliare.
- 197 -
Amo il rumore del mare.
Amo questa città e amo allontanarmici.
Amo conoscere gente.
Amo rollarmi le sigarette.
Amo la marijuana, e nessun altra droga.
Amo i gay.
Amo lavorare a contatto con la gente.
Amo i complimenti.
Amo scrivere.
Amo amare.
Amo proporre, amo stupire, amo...
Quando odio, odio tutto, me in primis per tutto questo amore che ho da
dare e che solitamente tengo stretto... a me!
- 198 -
Mare amante
Alba Clara Laudisio
Lo spazio scavato dal tuo amore e successivamente svuotato dalle tue mani,
l’ho colmato col mare.
Onde dentro di me che cullano la mia anima con sale e calore.
Un sorriso raffiora dalle acque del mare, è lui ora ad avermi, è lui ad
abbracciarmi.
Non esiste compagno migliore, ti accarezza ogni volta che vuoi lasciandoti
il proprio profumo addosso.
Mare prendimi, trascinami nei tuoi mondi sommersi, rendimi unica
regina.
Spuma avvolgimi, solleticami e con il tuo colore mimetizzami.
Ora che sono con il mare non desidero più te.
Qui le lacrime non si fanno riconoscere, mai.
- 199 -
Notturna
Anna Rita Liscio
Mi circondo d’onda nella luce sonnacchiosa del tramonto.
Rubo coralli e stelle di mare per farne ghirlande alla sera che viene
Silente
Odorosa di alghe e conchiglie adagiate nell’acqua.
Siedo sullo scoglio che affiora come unico fiore di un prato verdemare.
La preghiera del mondo si posa nei tagli d’una scogliera.
Sono tutt’una con l’acqua e con la pioggia che scende lieve
Immersa in vastità oceaniche
Attendo
La sera.
- 200 -
Nella spaccatura tra terra e cielo
Rita Loprete
Quel tratto di spiaggia
dove d’inverno
arranca il mare
in onde disarmoniche e sabbiate
mi rende
nell’intarsio delle ore
più nitidi richiami.
Degrada
in ordine fuggente
il paesaggio.
Correnti d’ali a scorrere
afferro le crespe dell'acqua
mentre rimbalzano i sensi
e si acutizzano
tra file attonite
di barche capovolte.
- 201 -
San Lorenzo
Maria Teresa Maldari
Si sparavano i fuochi sul mare nella notte del Santo in agosto.
Sulle spalle di mio padre,
io bambina, guardavo quel miracolo di luci e colori
e sognavo, guardando lontano, un futuro di uguale splendore.
Son tornata a guardare quel mare,
in una notte di fuochi e di stelle,
di ritorno da un tempo sospeso che annulla passato e presente.
Ed ho sentito vibrare nel cuore,
quel qualcosa che credevo perduto.
Hanno sparato i fuochi sul mare in questa notte
che sembra di pece.
Sulle spalle , mia figlia,
guarda il mondo con occhi incantati.
- 202 -
Mingus at antibes
Roberto Marzano
Pregna l’aria del sentor di prezzemolo
dolce menta provenzale che freme
luminose note notturne attendendo
contrabbassi come lampioni.
Quasi-quasi stai stretto
nella bianca camicia hawaiana
grossi languidi fiori blues
al tuo tavolo mediterraneo
Chez Fernandel - Port d’Antibes.
Gambe stese sulla sedia di fronte
gli occhi chiari della tua Sue
ordinando o almeno provandoci
“Pierrade Marine aux Fruits de Mer”
a un garcon piuttosto distratto
i suoi soliti fantastici voli
e…
lo sfilare improvviso di un gatto.
Intanto
accontentandovi
di un banalissimo
“Muscadet Sevre et Maine sur Lie”
(mica servono caffè americano lì)
non passa nel cielo
alcun gabbiano…
purtroppo sono tutti impegnati
in altre poesie di ambientazione marina
o in improbabili rossi tramonti a Milano…
- 203 -
Pensieri
Paola Mini
Pensieri sfuggevoli rincorro,
nel buio della notte,
pensieri veloci che fuggono lontani,
nuotano nel mare della mente,
si alzano,
sono sommersi dalle alte onde,
annaspano per vedere la luce,
ma il mare le spinge sul fondo,
sempre più giù,
è la tendenza della mente umana...
Tempeste vigorose, forti, immense, immortali
sconvolgono quella distesa infinita d’acqua,
passano ore,
si avverte uno spiraglio di luce,
arriva la quiete,
appare un timido sole,
l’acqua si calma ammirando quei tiepidi raggi,
tutto tace,
e i pensieri ritornano galleggianti e felici,
di essere salvati dalla marea della mente,
tornano in superficie,
stupiti da quell’attimo di pace,
e allora: capisci.
- 204 -
Tempesta
Giuseppina Marrone
Mi sorprende improvvisa
la tempesta che mi infuria intorno
e mi scopro impotente
in balia del mare in travaglio d’onde
di dilatarsi d’acque in ampi cavalloni
e la marea frangente
milizia blu notte in aperta battaglia
un tormento lanciato al galoppo contro
muro zaffiro in assalto che tutto travolge
tumultuosa furia in burrasca
e intorno impetuoso sbattere d’ali ai cerulei venti
respiro irruento
dentro
questo trionfo di elementi
ormai zattera
soccombo.
- 205 -
Anima pulita del mare
Virginia Murru
Sarà questo pomeriggio alterno
d’equinozio
meglio di un sogno bisestile
o il mare agli avamposti – quale incanto
i campi affascinanti
di bruma e di ritorni –
dietro quinte sovrapposte
aliti di giorni implumi –
O forse saranno
canti di gabbiani e di falchi –
un soffio lieve tra le dune
sulla soglia imperturbabile di giugno
mentre raggiunge un culmine
onda su onda.
Magari è questo stupore campale
tra solchi di mare –
le sue note avvolgenti di rientri in riva
onda e risacca
che mi fanno sentire nuova di zecca - allineata
in quell'arco di blu ad occidente
mentre m’incanto davanti
a simili schianti di bellezza- pronunciata forte
quasi rivoluzioni travolte dalla brezza –
Forse.
Sorprendo tracce d’assoluto
In queste note marine
- 206 -
Un la! Ed è già controcanto davanti all’arenile.
Non potrei svelare né dire
Eppure non mi sento
irrisolta nell’ aristocratico convivio
e so d’essere nucleo – terra e acqua
in cerimonie splendenti di natura –
quasi Vita.
Il mare – anima pulita, senza detriti.
- 207 -
Mare d’infinito
Rita Muscardin
Mare, distesa d’infinito
che nel rosso del tramonto t’accendi
e accarezzi l’orizzonte dove gabbiani con ali d’argento
volano sospesi fra terra e cielo.
Il silenzio dei tuoi abissi inviolati
veglia il lungo sonno di anime condannate all’oblio
in sepolcri dimenticati
dove nessuna mano pietosa depone corone di fiori e lacrime.
Solo bianca schiuma di onde
in perpetua corsa verso lidi sconosciuti
accarezza gli antichi sacelli
mentre nelle notti infiammate di stelle
dalle tue profondità si levano i canti dell’esilio.
Il respiro del tempo si è impigliato
nelle reti che asciugano al sole
adesso che solo immagini sbiadite
di giorni smarriti nel vento
rimangono nel fondo di pozzi senza più acqua
e nel tuo buio murmure
pare ancora di udire il suono di voci lontane.
Una barca attraversa l’ombra della luna
e scompare sulla soglia dell’invisibile,
dimmi mare, cosa si nasconde
laggiù dove si perde lo sguardo e il pensiero s’attarda
per comprendere l’Immenso?
Forse che ai tuoi ignoti confini
s’apre il passaggio che conduce all’altra riva
dove non trovano più affanno i giorni
e la profonda quiete veglia il riposo?
Sei forse dolce preludio,
- 208 -
nel perpetuo moto di docili onde,
dell’eterno divenire nei luoghi dell’Infinito?
Allora la mia anima esausta un poco s’acquieta
mentre sfiora il mistero custodito nel tuo grembo
e attende l’ultimo tramonto
per attraversare la soglia del tempo.
- 209 -
L’immenso
Noemi Neri
Quando la notte cala soffusa,
il cielo si scioglie in mare
medicando ogni confine.
I lampioni disegnano la costa,
spruzzi di luce nell’acqua.
I lumi dei pescatori
sembrano stelle
nell'immenso blu
e le donne tessono fili di parole.
- 210 -
La storia replica
Maurizio Paganelli
La storia replica, rinvanga, torna
a stretto giro. Il rivo che incantava
diviene delta e mare,
tenta una tana, si riavvolge ostile,
muro, roca tromba tra le gore.
Acqua che non monda reca altra bile.
Là sul fondo la luce
punta e sfila, maculata e fioca.
Fra alghe reclini e spine,
fa fuliggine e setaccia le dune
il muggine allamato con il grongo
in cupe spelonche di fango.
Più sopra scivola ramingo il grampo.
Pivieri in truppa,
la ripa li ripara dallo sparo
che stampa gli scogli e fumiga il coro.
Rompe l'azzurro una boa con la vela.
- 211 -
Pensieri
Ilaria Parlanti
Alba di cristallo
libere onde
appoggiano sul molo.
Azzurro di sole
mi sorprende
la luce convessa
dei suoi raggi.
Pensieri
incontrano il mare ...
il suo respiro acre di salmastro
lo sento dentro il cuore.
Scende l’anima mia danzante
disinibita e nuda
su praterie di posidonia
mentre qui
su questo asfalto schiva
si nasconde
dietro un’eclisse nera
di veti
e di paure.
Siede una vecchia
sugli scalini in pietra d’Acquaviva,
gli occhi spenti, esangui
come gusci di conchiglie vuoti e bianchi
arsi nel sole.
Così anch’io sarò
trascorsi
i venti di libeccio?
- 212 -
Un’anemone di mare
alla deriva
porta presagi
di tempesta.
Troneggia il grido dei gabbiani
tra il mio sentire di poeta
e l’orizzonte.
- 213 -
Mare infinito di che?
Pierluigi Quarta
Mare, due punti.
Per due punti passa una sola retta.
O una rotta.
Due parallele si uniscono solo all’infinito.
Così come due rotte parallele.
Gli infiniti dei verbi, gli unici a finire, finiscono in are, ere, ire.
Quindi se “mare” fosse l’infinito di un verbo,
quale sarebbe il suo presente indicativo?
Ma il mare non è un verbo e pertanto non ha tempi.
Anche perchè c’è da sempre e continuerà ad esserci all’infinito.
Per quell’infinito che noi possiamo avvertire.
Forse lui, il mare, avrà l’opportunità di vedere un giorno
due rette o due rotte parallele congiungersi.
- 214 -
Il viaggio della luce
Domenico Ragosta
È nell’attesa del suo ritorno
che è più forte il dolore nella
mia mente ed è più inquieta
la mia anima.
Durante il suo viaggio la luce
porta con se tutti i colori del
mondo, il blu del mare.. il verde
delle colline… consegnando
tutto ad un buio senza senso.
Solo il suono dell’onda a farmi
compagnia.
Al ritorno della luce tutto mi
sembra più sopportabile
persino il bicchiere con le sue
gocce e il bianco del camice.
Ma oggi è tutto così strano..
non avverto dolore ai polsi e non odo
la voce dell’amico mare eppure la luce
dovrebbe essere tornata dal suo viaggio
- 215 -
Il mare e la felicità
Maria Rosaria Rebecchi
Un giorno la Felicità passò sulle rive del mare di Gaeta.
Le chiese allora il Mare contento di parlare:
- Dove vai a quest’ora? Chi vai a cercare?
Rispose la Felicità un po’ allegra un po’ seccata:
- Cerco la fortuna ma non l’ho trovata!
Disse allora il Mare: - Tesoro, è fatica sprecata!
So che chi la tiene non l’ha più abbandonata.
A quel punto la Felicità non sapeva che fare;
fu il Mare che riprese a parlare:
- Mi hanno detto che tu sei testarda e capricciosa
e per avere te c’è sempre bisogno di qualcosa.
Che sia bellezza, ricchezza o salute,
amore, gioia, rimembranze perdute.
Ora ti chiedo Felicità mia cara,
non te ne andare, non cercare ancora.
Io do salute a chi mi appartiene,
io do ricchezza a chi mi vuole bene.
Sono bellezza per questa città incantata,
sono amore per la donna innamorata.
E se qualcuno mi guarda e sorride,
sono un ricordo che torna a fiorire.
Perché allora continuare a cercare,
fermati qui, ci potremmo sposare!
Disse la Felicità allegra e vivace:
- Sai che ti dico? La cosa mi piace!
E fu così che la Felicità, incerta e faceta,
in un giorno di sole sposò il mar di Gaeta.
Ora chi è qui non va a cercar lontano,
la felicità che ha a portata di mano.
- 216 -
La polena
Antonella Riccardi
Nel chiarore della notte
vidi l’anima tua
protendersi agli abissi,
l’aurea chioma spiegarsi alle brezze.
Memore di superba bellezza,
ti cinse l’onda dell’intimo abbraccio;
dei colori dell’alba e del tramonto,
del sereno e della tempesta
già ti fece dono.
Ai flutti frementi concedesti
la rotondità dei seni,
le lignee nudità dei fianchi
sotto le volute smeraldo,
lasciasti alla velleità di uomini e Dei.
Qual mistero sei,
o solitaria creatura,
che persuadi le acque
con la muta preghiera,
che riconosci il cammino
e il volo dell’albatro.
Quale grazia celi
sotto le pieghe dell’erosa veste,
mentre annega l’ultimo raggio
nel mare d’argento.
Dei notturni pensieri
vegli il divenir salso,
piena è la luna
di fatui sospiri.
- 217 -
Silenzi di marinai
Cosimo Rotolo
È l’odore intenso e avvolgente della sabbia
trasportata nell’aere dal vento
a risvegliare in me il ricordo
delle lunghe passeggiate d’inverno
in riva al mare
dove la battigia desolata
si perdeva sino a confondersi
con la spuma evanescente dell’acqua infranta
Angoli vuoti
fra le case sparute
con il loro silenzio
nascondevano ricordi
odorosi di salsedine
ombre invisibili ma palpabili nell’aria
ad accarezzare la memoria
docilmente
e svanire subito dopo
sublimandosi al mio sguardo
E il muto cammino
si avviluppa
al fragore dei marosi lontani
ed io mi ritrovo a scrutar le stelle
seguire i gabbiani
come fa il vecchio marinaio
che prende il largo
alla ricerca di una nuova avventura
- 218 -
Voci dal mare
Gae Sicari
Attimi di sole sull'arenile della spiaggia ardente.
Le sirene intrecciano
ai fili d’oro dei capelli attorte conchiglie ,
le bianche mani sugli scogli muschiosi
sfiorano incaute gemme di sale.
Il loro canto è dolce a sentirsi
sulle onde errabonde :
- Fermati, straniero, il tuo volto c’è amico!
Noi siam qui da millenni.
Un soggiorno ti offriamo felice
nell’isola amena d’incantati giardini,
dov’è primavera perenne.
Accogli l’invito festoso!
Libero sarai da terreni pensieri,
entrerai nell’oblio che ogni cura guarisce.
È tempo di stare con noi ,
mentre il sole risplende
al tuo sguardo vivace.
Sarai dio.
Ascolti? Il tuo nome sappiamo :
Ulisse,Ulisse !
- 219 -
Maremma
Patrizia Socci
Sono cresciuta in Maremma
soltanto là il mare
è striato d’argento.
Per amico un pino altissimo
che toccavo dalla finestra.
Orizzonti infiniti di sole e tranquillità
brezze mattutine sulla riva
in cerca di conchiglie.
Sono vissuta tanto tempo
con il cuore leggero
dove il luna park dell’estate
continuava a girare
anche nei fantasmi d’inverno.
Dolce e ruvida terra
mi hai cullato fra le onde
mi hai cantato ninna nanna
con la voce del tuo mare
mi hai amato come figlia
circondandomi di te.
Sei Maremma generosa
hai protetto la mia infanzia
regalando la speranza.
- 220 -
Canti
Maria Vittoria Somigliana
Salgono
irregolari
dalle onde
increspando
la superficie
inseguendo
infiniti cieli
su orizzonti veri
canti
che giungono
dal profondo
di lontani abissi
canti di fatica
canti di lavoro
forza di braccia
rughe di sole sulla faccia
storie di funi, ferro e fatica
leggende antiche
da tramandare
purché si canti
di questo immenso mare.
- 221 -
Reti
Silvana Sonno
Una rete di luce e sopra d’acqua.
La spiaggia entra nel mare trascinata
da una pesca di terra e sassi triti
limatura di valve legno vetri;
carezza d'alga scivola sui piedi.
Lo sguardo indugia sulle creste d’onda
che il sole fa danzare in superficie
e acceca ciò che invece muove e tace
sotto il pelo dell’acqua più profonda.
Solo il respiro che al respir s’accorda
dentro al mare intuisce la sua vita.
Contemplare quell’acqua che s’affonda
coi piedi fermi nella rena molle
è un dolce traghettare nel mistero
dell'esser me, ma insieme tutto questo:
spiaggia di sabbia e pietre, sole e mare
ala di vento e volo di gabbiani
pinna di pesce azzurro a filo d’acqua
che nuota dentro l’iride sgranata
brezza leggera sulle membra nude
tocco come di mano vellutata
spruzzi di schiuma, e nuvole nel cielo
leggere e inconsistenti come piuma;
- 222 -
nella distesa che l’occhio non racchiude
rivi d'azzurro intenso e verde scuro
come uno scivolar d’acqua silvana
giù pei clivi, da una polla lontana.
Pensiero dolce e folle, lo confesso
figlio del cuore e allontanato presto.
- 223 -
Lungomare
Maria Denise Spinelli
Brezza leggera
che viene dal mare
fragranza salmastra
è tempo d’amare.
Le mani intrecciate
mi guardi, sorridi
hai gli occhi un po’ stanchi
d’amore respiri.
Sobbalza il mio cuore
per la tua presenza
i miei sogni culli
tu ne sei l’essenza.
Plana un gabbiano
che il mio sguardo sgrana
tra un’onda di risacca
e l’altra.
Non sono né vigliacca
o scaltra:
per dirti che ti amo
ci sono solo le mie braccia
a circondarti.
Laggiù, punto lontano,
avvampa rosso fuoco
un bel tramonto.
Sento il richiamo,
non è davvero un gioco.
Ti bacio, mi rispondi:
sono pronto.
- 224 -
Marinai dell’eterno
Teriana Sequino
Vedo il sol levante sul letto di mare,
la nave attende il suo equipaggio,
suo fedele compagno d'avventura.
È il momento di salpare!
Leva al cielo una preghiera, il marinaio,
la speranza di incontrare mare calmo e vento in poppa.
A vele spiegate col vento di ponente
Lascia la terra, segue la rotta.
Il rostro beccheggia...
Lo spruzzo prodiero si alza violento
ma dolce lo sfiora e bagna il suo volto.
Nessun tempo per pensare e nemmeno per oziare,
lui e il mare, solo un tempo
per unirsi in un’ unica realtà.
Cala il crepuscolo e si rientra, si ormeggia,
lo sguardo rivolto al tramonto lontano
che lascia le stelle accompagnare la sera
e vede apparire quel bianco candore
del bagliore lunare che gioca a specchiarsi
su quel velo nero di pece.
Il buio della notte incute timore
ma è un'irresistibile immenso che lascia sognare.
- 225 -
Questa è l’ora in cui tutto tace,
si ode alla battigia una dolce melodia,
il suono fragoroso di un'onda fugace
che va a ritirarsi accarezzando la scia.
È un suono che culla i suoi pensieri,
si spegne lo sguardo per la vista calante,
con l'anima in pace e il cuore sereno
sente assopirsi come un infante.
Noi, marinai di ieri, di oggi, di domani,
che di mare viviamo ma anche lasciamo;
è nostro fratello ma pur lo temiamo,
è a volte nemico ma pur lo amiamo.
Noi, uomini che il mare governiamo poi coccoliamo,
Scorgiamo il suo volto che nessun conosce.
quale privilegio è per noi... Noi, marinai, uomini dell’Eterno!
- 226 -
Vietri
Davide Toffoli
Oggi il glicine ha il colore del mare
sotto la brezza leggera
di questa terrazza di luce
che si affaccia sul golfo.
Dopo la pioggia,
tra le volute capricciose,
lo spettacolo stagionale
di primaverile freschezza
ha il profumo più intenso
e una dolcissima
femminile aurorale epifania
già trasuda il momento del volo.
Incorniciato di azzurro,
sopra ai profili della limonaia,
persino il sole,
alle spalle dei Due Fratelli,
se ne sta sotto il tetto
del pergolato
a gustare il silenzio.
- 227 -
Isola di sogno
Eliana Tognoni
Naviganti sperduti in un isola
soli
seduti ai piedi di un tramonto
ad aspettare navi che non torneranno
colmano il vuoto dell'attesa con la fantasia
e tutti i lamenti del mare, del vento, del cielo
direzione ostinata e contraria...
che parte dove nessuno arriva
innamorati della sera innamorati della luna
che ci dona l’anima di bambini
un piccolo stuolo di spiriti determinati
che ama e ride
si mette a contare le stelle
e prende per la coda una cometa
con lo sguardo pronto a stupirsi
del perenne fluire delle cose
connubio tra libertà e armonia.
Terra del tutto nuova
bellezza del paesaggio terrestre
vestendola di ali lasciano i desideri seguire i suoi percorsi
e l’attimo fuggente servirà per andare avanti...
per chi ha dimenticato di saper ancora volare.
- 228 -
Persa tra le stelle
Sonia Tortora
Fissando il mare al tramonto
un fuoco accende il ricordo
di amorosi orizzonti passati
e tinge il cielo di petali rossi.
Questo mare placido
odora di acre nostalgia
e mi trasporta lieve
nell'azzurro dei tuoi occhi.
Ricordo ancora
quando il nero di seppia
ci serviva solo
per comporre rime sciolte
sulla battigia del nostro amore.
Ma la vita prosegue,
si superano le assenze
rassegnati a sperare
che il tempo ripari strappi
di cuori scuciti e sgualciti.
Una storia vissuta la nostra,
in cui soli,
come due terre separate dal mare
non siamo mai riusciti
a raggiungerci
e a colmare le nostre distanze.
E mentre tu ponevi domande alla luna
che muta ti ascoltava compiaciuta,
io ero persa tra le stelle
del mio acerbo cielo.
Rimane solo il rammarico
per frasi pensate e mai dette
- 229 -
e per un equilibrio precario
raggiunto su una fila di cocci di vetro
taglienti e instabili.
Talvolta ancora oggi
osservando il mare e i suoi flutti
un'antica nostalgia mi assale
e invidio le bianche vele
che libere volteggiano al vento.
- 230 -
Echi del tempo già andato
Sebastiana Urciullo
Danzano leggere le onde al primo sole
che, nell’infinito spazio,
fiumi di madreperla
quietamente riversa.
Sul candido labbro di sabbia
il vecchio pescatore,
fissa lo specchio abbagliante
come a voler rinsaldare
il suo antico legame
con quel mare, testimone
del suo duro lavoro.
Nell’indescrivibile silenzio,
lontano da voci, gli echi, rincorre,
del tempo già andato,
del tempo della pentola vuota,
del pane, mangiato
frugando le tiepidi acque
per vedere “acceso” il focolare.
Brilla, al sole, il suo mare,
spumeggia ,viene avanti
e ancora, una volta, gode
della fresca carezza dell’onda
che gli viene a morire vicino.
Come i gabbiani, a stormo,
sulla vasta sabbia,
tranquillo or se nesta,
apprezzando la solitudine
nella profonda nostalgia
che trascina con se.
- 231 -
Emozioni
Vittorio Verducci
Il mare, il desiderio inappagato
che vaga tra i pensieri del mio cuore:
vorrei inabissarmi nel candore
del suo profondo azzurro, in un beato
sogno infinito dove indisturbato
poter nuotare tra pacate aurore
di libertà, dipinte del colore
di sacrale silenzio trasognato.
Vorrei fluttuar tra l’onde e d’illusioni
cospargermi di luna, nella notte,
tra sfavillii di stelle e le passioni
disperdere verso le agognate rotte
dell’innocenza cosmica ancestrale
che mi riporta al vivere immortale.
- 232 -
Ancora estate
Adalgisa Zanotto
In una casa minuta
su un colle del cuore
abitano
i ricordi del mare
incolumi dal tempo
saltellano leggeri
s’affacciano timidi
alla porta della memoria
occhi grandi e scuri
frammenti d’anima forte
attraversano giorni radiosi
e solchi d’una croce.
Complice radioso l’eco della voce
stringe in tenero abbraccio
i nostri vent’anni
pioggia sottile sui nostri passi
ancora estate
e sempre estate
nella stagione del silenzio.
- 233 -
Ulisse
Monica Zelli
Tu sei vita
che in gioventù spumeggiò
di sogni e s’increspò all’altrui
parole, avide della tua sconfitta;
ma Nettuno impetuoso
non ti strappa ancor il cuore
e il viaggio.
Uomo che di patria hai il mondo
e l’acque e la nuda terra,
sereno or navighi
e luce osservi oltre
mari di lamenti.
- 234 -
Sole, vento, onde: un mare di… energia
Le 12 fotografie, che vedete nelle pagine successive, sono le finaliste della
IV edizione di UN MARE DI PASSIONE, dedicata all’energia rinnovabile.
Lo spunto per questo tema è arrivato dall'iniziativa dell'ONU che ha decretato il 2012 l'Anno Internazionale dell’Energia Sostenibile per tutti. Una
preziosa occasione, come ci spiega l'Organizzazione delle Nazioni Unite, di
"sensibilizzazione riguardo l’importanza di aumentare le opportunità relative
ad un accesso all’energia sostenibile.... e alle fonti di energia rinnovabile...".
Le immagini finaliste, scelte tra quelle proposte da oltre 60 fotografi professionisti e non, sono state selezionate della giuria tecnica (formata da: Daniele Fiore, Marco Firrao, Davide Leo, Paolo Loli, Massimo Maccheroni,
Daniela Silvia Pace, Maria Pia Pezzali e Andrea Stern) perché in grado di interpretare e rappresentare la potente ed inesauribile energia del mare con
le sue onde, il suo inarrestabile movimento, il vento, le tempeste, il sole.
La salute del nostro pianeta è strettamente legata alla salute del mare, all'uso
di fonti di energia rinnovabile. Per passare a comportamenti sostenibili è indispensabile estendere la consapevolezza della magnificenza e della fragilità
del nostro mare.
Siamo quindi molto orgogliosi che le immagini più belle del nostro concorso,
siano ospitate in questo volume che, con poesie e brani letterari, contribuisce
a diffondere la cultura ed il rispetto del mare.
Gli organizzatori del concorso
Paolo Bernacca
Tiziana Chieruzzi
Anna Lucia Nicosia
- 235 -
Foto di AnnaVilardi
- 236 -
Foto di Constantin Oana
- 237 -
Foto di Pierantonio Ione
- 238 -
Foto di Daniela De Paoli
- 239 -
Foto di Tommaso Petruzzi
- 240 -
Foto di Fulvio Galeota
- 241 -
Foto di Paolo Scrimitore
- 242 -
Foto di AlessiaVaracalli
- 243 -
Foto di Giancarlo Forino
- 244 -
Foto di Alessandro Paolini
- 245 -
Foto di Aida Loreti
- 246 -
Foto di Maurizio Ferrari
- 247 -
Indice
Prefazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
5
Sezione racconti
I primi dieci racconti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Shalmàt . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Erina che non sapeva nuotare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Mafalda . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Memorie di mare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Dietro la tendina . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Il Maestro di Bisso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Due secondi per decidere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Il mare dentro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Racconto breve sul mare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Nel mare e nel vento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
9
10
13
16
19
22
25
28
31
34
36
Gli altri racconti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Le meduse . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Il mare fece un viaggio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Le avventure della vita (fiaba marina) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Santa Teresa a mare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Storia di una ragazza con i capelli neri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Un’avventura mitologica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Menta e il mare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Quattro improvvisati in barca . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Thàlassa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
La leggenda della salvezza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Sarai il mio Armaduk sul mare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Dalle 8 alle 8 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Sotto l’ombrellone . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Una rete tagliata . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Blu come un impatto, forte come il mare . . . . . . . . . . . . . . . . . .
39
40
42
45
46
49
52
54
57
60
63
67
70
73
75
78
- 249 -
Il mare di Jules . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Romantici ricordi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Dalla finestra della scuola, al mare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
“Mario” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
In rotta per Alessandria . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Scilla e il mare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
L’uome del mare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Il canto della balena . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
La fine . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Accampati sulle rive del sogno . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Solo un bicchiere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Marina e Desideria . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
“Di barche, donne californiane, finanza e di scamorze” . . . . . . . . .
Il pescatore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Una cosa bella . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Nel mio profondo blu . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
L’ultimo viaggio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
L’uomo che temeva il mare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Orizzonte Lampedusa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Molo Nord . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
81
84
85
87
90
94
97
100
103
106
109
111
114
117
120
123
126
129
133
136
Sezione poesie
Le prime dieci poesie . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Mare di notte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Preghiera dall’ultimo porto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Vessilli al vento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Pianto di sponde lontane . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
27 giugno 1980 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Gente di porto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Preghiera . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Pennellate mediterranee . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Maree . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Marino . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
141
142
143
145
146
147
148
149
151
153
154
- 250 -
Le altre poesie . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
In piedi sulla riva . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Mare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
La musica del mare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Il mare di ieri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Di solito è il mare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Notte sul mare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Delicata veglia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
“M” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Il veliero . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Partire soltanto per vedere il mare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
In dolce compagnia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
La prua di una nave . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
A te . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Spiagge . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Jogging . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Rovaglioso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Partenope . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Golfo del Bengala . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Mare di vita . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Tempesta a Torre Flavia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Spora della mia esistenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Pesce nell’acquario . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
A te, mare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Mareggiata emotiva . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Il soccorritore del mare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Si rompono le nubi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Al mio marinaio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
29.08.2011 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Voci di un’esiliata . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Mare d’inverno . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Come il mare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
In ammollo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Mare amante . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
- 251 -
157
158
159
160
162
163
164
165
166
167
168
169
170
172
173
174
175
176
178
179
180
181
183
185
187
189
190
191
193
194
195
196
197
199
Notturna . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Nella spaccatura tra terra e cielo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
San Lorenzo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Mingus at antibes . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Pensieri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Tempesta . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Anima pulita del mare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Mare d’infinito . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
L’immenso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
La storia replica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Pensieri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Mare infinito di che? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Il viaggio della luce . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Il mare e la felicità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
La polena . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Silenzi di marinai . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Voci dal mare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Maremma . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Canti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Reti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Lungomare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Marinai dell’eterno . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Vietri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Isola di sogno . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Persa tra le stelle . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Echi del tempo già andato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Emozioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Ancora estate . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Ulisse . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
200
201
202
203
204
205
206
208
210
211
212
214
215
216
217
218
219
220
221
222
224
225
227
228
229
231
232
233
234
Fotografie . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
235
- 252 -
Impaginazione, grafica e stampa
D.S.G. Digital Solutions & Graphic srl
Via D. Menichella, 86 - 00156 Roma
Tel. +39 06 41222419 - Fax +39 06 41143824
e-mail: [email protected] - web: www.dsgsrl.it
!"#$%#&%'()*'"+,!"#$%#&%'()*'"+,-'6',+..#&/%'-'0#-(%-
8*'"+,-'0,#/+1#&%(/+'+'39:4;'*<+"=%-&/-'-'%*'0+-(+11%#'.#(/%-,#>
%'*)#1?%'-'*-'/,+2%$%#&%'"+,%&+,-(.?->
*-'0,#@-((%#&%'"+,%&->'*+'=+,.+'-'*<+,/-'2-*'&+A%1+,->
"+'+&.?-'(-"0*%.%'-"#$%#&%'A%(()/-'()**+',%A+'#'(#//#'*<#"=,-**#&)&'0+,/%.#*+,->')&',%.#,2#>')&'2-//+1*%#'.+//),+/#
2),+&/-'*-'A+.+&$->'*-'%"0,-((%#&%'2%')&'A%+11%#'%&'&+A-B
C#&#'(#*#'+*.)&-'2-**-'-(0-,%-&$-'.?-'%*'"+,-'D'%&'1,+2#
2%'#@@,%,-'-'.?-'#1&)&#>'0)E'/,+")/+,-'%&'0+,#*-BBB
,+..#&/%'-'0#-(%-
*-'"%1*%#,%'#0-,2-*'34'.#&.#,(#'*-//-,+,%#
#,1+&%$$+/#''2+**5+0%/+&-,%-'2%'0#,/#'6'7)+,2%+'5#(/%-,+