Autonomia e dipendenza: due termini che si

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Autonomia e dipendenza: due termini che si
Autonomia e dipendenza:
due termini che si oppongono?1
STEFANO CIRILLO
1. La crisi culturale della dimensione della dipendenza.
Alcuni anni fa (2007) mi è stato richiesto di tenere una delle due relazioni introduttive al
Convegno francofono di Terapia familiare di Lione, convegno dedicato al tema
“Autonomia e dipendenza”. Il comitato organizzatore mi proponeva di riflettere
sull’evoluzione della posizione del corpo sociale nei confronti di questa coppia di opposti,
sottolineando come, malgrado le oscillazioni del pendolo culturale si siano spostate negli
ultimi anni decisamente a favore dell’autonomia, è esperienza comune degli psicoterapeuti
che mai come in questo periodo i pazienti che si presentano nei loro studi sono portatori di
problematiche legate ad un eccesso di autonomia, che si trasforma in distanza.
Il tema mi ha molto intrigato e ci ho costruito intorno diversi pensieri, tanto che
recentemente ho deciso di affrontarlo di nuovo al Convegno sistemico di Santiago del Cile,
organizzato, vedi caso, nel bicentenario dell’indipendenza del paese.
Il punto di partenza da cui già da molto tempo hanno preso le mosse le mie considerazioni
sull’argomento è una concettualizzazione di Marion Solomon (1989), che i miei colleghi ed
io abbiamo riportato - ormai dodici anni fa - nel nostro libro sull’anoressia (Selvini
Palazzoli, Cirillo, Selvini, Sorrentino, 1998), Solomon ha individuato una sorta di
continuum difensivo nell’organizzazione della personalità rispetto all’elaborazione ferite
infantili (bisogni insoddisfatti). L’estremo borderline (che potremmo anche chiamare
depressivo - dipendente) è quello della interiorizzazione di un atteggiamento negativo verso
il Sé, del tipo: “Io sono cattivo, gli altri sono buoni, mi trattano male per colpa mia, devo
cercare di accattivarmeli”. Possiamo considerare difensiva una simile posizione nella misura
in cui aiuta l’individuo a uscire dalla passività dell’angoscia spingendolo a cercare
attivamente delle relazioni affettive. Una tale visione del mondo, espressa nel modo in cui
queste persone agiscono e sentono all’interno di interazioni in cui chiedono aiuto, o in cui
aiuto e cure vengono loro offerti (come la relazione terapeutica) somiglia molto
all’interiorizzazione di un modello operativo interno, frutto dell’aver sperimentato, fin dalla
prima infanzia, un pattern di attaccamento ansioso-ambivalente. L’altro estremo
dell’organizzazione della personalità è quello narcisistico (che giunge fino alla paranoia e
all’autismo). Qui l’individuo si difende dalla sofferenza, ma anche dall’accettazione di una
visione negativa del Sé, con un atteggiamento del tipo: “Io sono bravo e buono, sono gli
altri a essere cattivi, avrò successo e sarò ammirato”.
Questo atteggiamento porta l’individuo a privilegiare nelle relazioni la strumentalità,
l’immagine, il potere, a scapito degli affetti e dei sentimenti. Una tale visione del mondo,
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In corso di pubblicazione.
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nello stesso senso di quanto dicevamo sopra, somiglia molto al modello operativo interno
dell’attaccamento evitante. Naturalmente, tra i due estremi esistono tante posizioni
intermedie, che mescolano e alternano le due fondamentali posizioni difensive.
Questa idea (che io in verità ho ridotto all’osso: troppa dipendenza indebolisce, troppa
poca isola) si è da allora radicata in me come uno strumento semplice ed efficace per
orientarmi nei miei incontri con i pazienti. Se penso alle persone che, come si è detto, in
questi anni arrivano a chiedere il nostro aiuto collocandosi verso il polo di un’esperienza
insufficiente di dipendenza, non possono non tornarmi in mente le parole di Doherty nel
suo bel libro sull’etica in psicoterapia (1995), allorché rimprovera quei colleghi che
spingendo a tutti i costi i loro pazienti verso l’autonomia ottengono il risultato nefasto che
questi, recisi i propri legami, finiscono con il dipendere dagli psicoterapeuti… E qui ci sta
benissimo la sua citazione del volume di Hillman Ventura: Cent’anni di terapia e il mondo va
sempre peggio (1992).
La prima volta che mi sono imbattuto in questo equivoco, la demonizzazione della
dipendenza come se fosse matrice di vincoli irresolubili, è stata nei primi anni ’90, durante
la ricerca che precedette la pubblicazione del lavoro La famiglia del tossicodipendente (Cirillo,
Berrini, Cambiaso, Mazza, 1996). Con gli altri membri del gruppo di ricerca ci rendemmo
conto, esaminando le storie dei pazienti eroinomani e dei loro genitori, che frequentemente
questi ultimi avevano ricevuto il consiglio da parte del personale di varie comunità
terapeutiche di assumere verso i figli resistenti all’ingresso in comunità un atteggiamento
fermo, al limite della durezza, fino al chiudere loro la porta di casa se continuavano a
drogarsi. La teoria sottostante era appunto che la tossicodipendenza rappresentava un
disturbo dello svezzamento, presente in eterni bambini troppo legati alle loro madri.
Viceversa, ricostruendo le vicende infantili di quei giovani, non riscontrammo alcun indizio
di iper-accudimento, ma piuttosto segni inequivocabili di disaccudimento, che andavano
dall’abbandono all’accudimento “mimato”: con questa lente, la tossicodipendenza veniva a
caratterizzarsi al contrario come un disturbo dell’attaccamento.
Nei propri sistemi di appartenenza, l’individuo deve infatti poter beneficiare di una
dipendenza sana, che soddisfi i suoi bisogni di calore, sostegno, nutrimento affettivo, amore,
protezione, per potere da lì partire ad esplorare il mondo in crescente autonomia, senza
bisogno di ricercare esperienze surrogate di dipendenze patologiche.
L’appartenenza è una dimensione che per anni la clinica ha poco esplorato, confondendola
con la dipendenza: il pensiero corrente era che l’individuo umano, che come abbiamo detto,
nasce totalmente dipendente, evolvesse gradualmente verso l’indipendenza e l’autonomia.
Il modello di uomo (e donna) adulto tendeva perciò ad essere presentato come quello di
una persona che basta a se stessa.
Si può invece vedere la crescita di una persona come l’evoluzione da una dipendenza ad
un’altra: o, per meglio dire, da un’appartenenza all’altra. Partendo dalla vita intrauterina
all’abbraccio della mamma, il piccolo dell’uomo fa poi l’esperienza di vivere in seno ad una
famiglia, e quindi di appartenere anche al gruppo dei pari, la cui importanza relativa
crescerà bruscamente in adolescenza, finché l’esperienza dell’innamoramento non lo
riporterà ad appartenere ad una coppia, e poi di nuovo ad una famiglia, questa volta di
procreazione, senza cancellare le altre appartenenze e senza smettere di aggiungerne altre,
mutualmente non escludentesi, come il gruppo dei colleghi, le associazioni, e così via. Un
autore francese, Neuburger (1997), ha costruito addirittura uno strumento,
“l’appartenenzometro”, per descrivere e misurare il livello di differenziazione personale di
un soggetto all’interno dei legami che sono significativi per lui.
Ricordo una paziente che seguivo tanti anni fa quando lavoravo nel consultorio familiare di un
piccolo paese: era una donna anziana, nubile, sola al mondo, sofferente di depressione. Una donna
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bizzarra, ma simpatica, a cui mi ero affezionato. Aveva vissuto sempre con i genitori e una sorella,
lavorando come operaia. Ora i suoi erano tutti morti e lei era in pensione da tanto tempo. Non aveva
più nessuno, salvo un nipote, sposato a Milano, con un bambinetto di qualche anno. Questo
pronipotino era diventato l’unica ragione di vita della mia paziente, che ogni giorno faceva
un’incursione in casa sua, suscitando l’insofferenza del nipote e ancor più della sua giovane moglie. Io
mi sforzavo di aiutarla a mantenere un po’ più di distanza, a trovare qualche interesse alternativo, a
spronarla insomma ad una maggiore autonomia: niente da fare. Un giorno, forse un po’ bruscamente
(magari a causa di una mia identificazione con il suo sconosciuto nipote, che aveva più o meno la mia
età), le ho sottolineato che suo nipote a Milano aveva la sua propria famiglia, separata da lei.
Ricordo ancora il grido angosciato con cui ha risposto al mio intervento: “Ma allora io, di chi sono?”.
Questa sua tragica domanda, in anni di femminismo in cui le donne gridavano “Io sono mia!”,
aveva una sua provocatoria e drammatica verità.
Nel mio libro Cattivi genitori (2005) ho cercato di mostrare come anche nel campo della
protezione all’infanzia in Europa la dimensione dell’appartenenza non riscuota grande
successo, mentre viene privilegiata quella della continuità: per garantire quest’ultima, nei
Paesi mediterranei la misura della decadenza della potestà è caduta sempre più in disuso
anche quando i genitori appaiono sicuramente non recuperabili al loro ruolo, impedendo
così a molti bambini di diventare adottabili e di godere di una nuova e stabile appartenenza.
La scelta più frequente è invece quella di soluzioni meno radicali (affidi sine die, comunità)
che consentono per l’appunto al minore di evitare il trauma della rottura, ma lo fanno
crescere tra due appartenenze, forzatamente indebolite. Maurice Berger, nel suo libro di
pesante condanna al sistema di tutela e assistenza francese dal provocatorio titolo L’échec de
la protection à l’enfance (2003) porta come esempio “virtuoso” proprio l’Italia,
paradossalmente il paese della “mamma” e dei figli che restano dipendenti dai genitori fino
oltre ai trent’anni, dove i Giudici per i minori osano più facilmente recidere il legame di
sangue, quando questo sembra rappresentare il male minore per il bambino.
2. Cinque personaggi lungo un continuum.
Se percorriamo dunque il continuum tra eccesso di dipendenza ed eccesso di autonomia,
proviamo ora a ritrarre alcuni personaggi che via via incontreremo, il cui funzionamento ci
permetterà di sviluppare numerose riflessioni, nonché di porci alcuni interrogativi
interessanti.
Descriveremo cinque personaggi-simbolo, due sul versante dell’eccesso di dipendenza (il
paziente con disturbo dipendente di personalità e il paziente borderline), due sul versante
dell’eccesso di autarchia (o della insufficiente dipendenza), vale a dire il paziente narcisista e
l’antisociale, e un personaggio intermedio, che aspira alla dipendenza e allo stesso tempo la
respinge, il paziente con disturbo evitante.
Come si vede, non ci occupiamo dei sintomi che spingono questi cinque pazienti a
consultarci, cioè la loro patologia sull’Asse 1: i loro sintomi possono essere i più diversi,
dalla tossicodipendenza che abbiamo già menzionato ai disturbi alimentari, passando per
l’alcolismo e il gioco patologico, ma anche problemi che non hanno nulla a che fare con la
dipendenza patologica, dai disturbi sessuali agli attacchi di panico, alla depressione, ai
fallimenti scolastici e così via. Già nel volume sulla tossicodipendenza (citato) ci eravamo
concentrati sui disturbi di Asse 2; più diffusamente, nel successivo lavoro sull’anoressia
(citato) avevamo discusso il superamento della concezione sistemica purista del sintomo come
messaggio, abbracciando una posizione più complessa in cui il sintomo è
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contemporaneamente un mezzo per esprimere la sofferenza del paziente e insieme per difendersene,
grazie al controllo che consente al paziente tanto su se stesso che sull’ambiente circostante.
Ma il medesimo sintomo può curare sofferenze diverse, come l’aspirina che può essere
assunta come febbrifugo, antidolorifico o fluidificante del sangue: e qui a noi interessano
per l’appunto le sofferenze sottostanti che il sintomo cerca di curare, e quindi il cattivo
funzionamento della personalità che è concettualizzato nei disturbi di Asse 2.
In questa prospettiva, che non è più sistemica purista, bensì multidimensionale, si abbandona
l’ambizione di trovare una corrispondenza tra due poli famiglia da un lato e sintomo dall’altro,
come nel classico articolo di J.Haley “La famiglia dello schizofrenico: un sistema modello”
(1959), abbracciando una visione su tre poli, la famiglia, che contribuisce a forgiare la
personalità dei soggetti che la compongono, in particolare i figli, e questi che eventualmente
“scelgono”, nell’ambiente socio-culturale circostante, il sintomo che meglio si presta a
esprimere e a controllare il proprio disturbo di funzionamento. In una visione complessa
di questo tipo si può utilmente integrare, come si vede, il contributo bowlbyano della teoria
dell’attaccamento (1988), in quanto modello che descrive la maniera in cui la famiglia
costruisce i tratti della personalità del soggetto.
3. Il paziente dipendente.
Oggi è raro riscontrare questo disturbo di personalità tra i pazienti dei terapeuti sistemici,
mentre una volta questo tipo di funzionamento, mescolato ad elementi di tipo ossessivo,
era classico nelle pazienti anoressiche. Presumibilmente ciò dipende dal fatto che nella
società occidentale è ormai rarissimo un accadimento materno soffocante, controllante e
iperprotettivo, in cui il/la bambino/a è il trofeo di una madre frustrata che non vive che per
lui/lei.
Mara Selvini Palazzoli scoppiava in una delle sue famose risate quando confessava una delle
più grosse cantonate che aveva preso allorché aveva profetizzato la sparizione dell’anoressia
quando il movimento per la liberazione della donna avesse condotto alla diffusione del
lavoro femminile: l’anoressia è invece cresciuta esponenzialmente, una vera epidemia. E
però è scomparso, questo sì quasi del tutto, il funzionamento dipendente sottostante,
sostituito da quadri evitanti o da disturbi più severi (in particolare borderline o narcisisti).
In un lavoro sui disturbi di personalità rivisitati in ottica sistemica (2004), Selvini e
Sorrentino raccomandano di utilizzare anche il vertice del vissuto controtransferale del
terapeuta per formulare un’ipotesi diagnostica sul paziente che non costituisca una sterile e
stigmatizzante etichetta, ma un modo di inquadrare il suo “essere nel mondo” (qui lo
chiamerò il suo motto) che permetta all’interlocutore di entrare in rapporto con lei/lui nel
modo più efficace.
Nel caso del paziente dipendente, il vissuto del terapeuta è quello di essere spinto da lei/lui
a lavorare sempre di più e sempre meglio (“Come è bravo, lei!”), con il rischio che in
parallelo il paziente si passivizzi diventando sempre più regressivo.
Il motto del paziente dipendente, pressoché cosciente, è: “Io sono di mia madre”. Si badi
bene, non “Mia madre è mia”, nel senso che la percezione del paziente è di essere una
proprietà, un’appendice della madre, con una frequente inversione di ruoli (nel caso di un
dipendente parentificato) che lascia il paziente in una sostanziale solitudine, in quanto non è
lui/lei ad appoggiarsi alla figura di attaccamento, bensì il contrario. Nello stesso tempo, la
vernice comportamentale è quella di un rapporto di iperprotezione della madre verso il
figlio/a, che attacca inevitabilmente la stima di sé di quest’ultimo. E l’anoressia è per
l’appunto una prova di forza che permettere di tenere a bada questo sentimento di
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disvalore. “Prima di scoprire l’anoressia - mi diceva una mia paziente – mi sentivo proprio
una nullità”.
Ecco una vignetta clinica.
Chiara, 18 anni, arriva in consultazione familiare per un’anoressia restrittiva che impensierisce la
sua psichiatra perché anche la sorella maggiore ha sofferto anni prima dello stesso problema, risoltosi
spontaneamente dopo che la ragazza ha trovato lavoro e fidanzato. Figlia secondogenita
disperatamente attesa da una giovane madre, che aveva dovuto cedere la prima neonata alla suocera
convivente e che aveva poi perso un secondo bambino, è bella, brava e intelligente. Si esprime così
all’inizio della prima seduta: “Io ho sempre vissuto per dare soddisfazione a mia madre. La dieta è
la prima cosa che ho fatto per me”. La madre le appare, come dice, una donna che non ha saputo
realizzarsi: vive all’ombra del marito, che ama e ammira, e ha lasciato il lavoro di operaia per
dedicarsi alla famiglia, ma senza alcuna autonomia decisionale neanche in quest’ambito (il marito da
sempre la accompagna in tutte le spese). Chiara vede suo padre come “una montagna”, alta ma
inaccessibile: “Non mi ha mai dato un bacio o una carezza: io ho sempre voluto essere il figlio che
lui desiderava perché si avvicinasse a me”. La madre condivide questa percezione del marito, uomo
volitivo, determinato e professionalmente riuscito: non oserebbe mai contraddirlo, ma si sfoga con la
figlia per le inevitabili frustrazioni e delusioni che il maschilismo e la lontananza di lui le causa.
In questo pattern (attaccamento ansioso ambivalente alla madre, evitante al padre; percezione di un
rapporto di coppia altamente squilibrato) si forma la personalità della bambina, incapace – come la
madre – di ottenere la stima del padre, malgrado i suoi studi brillanti, nonché di esprimere alcuna
assertività esplicita, reagendo solo in forma mascherata attraverso il digiuno.
Nella terapia del paziente dipendente è particolarmente indicata la scelta di formati paralleli,
vale a dire alternare sedute familiari, sia congiunte che in sottosistemi (i genitori, le figlie),
per svelare il gioco familiare e aiutare ciascuno dei membri a trovare un appropriato
cambiamento del proprio ruolo, e sedute individuali con il/la paziente, per rivedere le
trappole della dipendenza ed esplorare una autonomia sana e una capacità di affermarsi che
non passi attraverso il sintomo.
4. Il paziente borderline.
L’universo calmo, strutturato, ansioso, rigido, adultizzato della persona dipendente cede qui
il passo ad un ambiente destrutturato, incoerente, angoscioso. L. Smith Benjamin (1996)
descrive la famiglia del borderline (o meglio, della borderline, come lei dice) come caotica e
regolarmente segnata dal dramma dell’abuso sessuale. Analogamente Green (1994)
afferma che il disturbo borderline è più diffuso tra le donne perché l’abuso sessuale è più
frequente contro le bambine e le ragazze. Se non vogliamo arrivare a posizioni così nette,
possiamo dire che una delle forme tipiche in cui si esprime l’incoerenza che caratterizza la
famiglia della paziente borderline è quella che vede un padre sforzarsi di compensare le
gravi mancanze nell’accudimento alla bambina da parte della moglie, finendo però con
erotizzare il proprio rapporto con la figlia.
L’attaccamento di quest’ultima è dunque evitante versus disorganizzato con la madre e
ansioso-ambivalente versus disorganizzato con il padre.
Il motto della ragazza borderline potrebbe essere questo: “Io sono la principessa di mia
madre”. Sembra che il suo essere nel mondo si basi sulla seguente premessa esistenziale: “
Gli altri mi hanno sedotto e abbandonato. Ora devo sedurli io per prima e attaccarli prima
che mi lascino.”
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Si comprende come qui la dipendenza sia vissuta in modo morboso, eccitato e segnato dai
sensi di colpa per l’illecito.
Sul piano controtransferale il terapeuta sperimenta un eccesso di vicinanza, sentendo di essere
invaso, sedotto e aggredito assieme, come da un gatto che morde la mano che lo nutre:
soprattutto rischia regolarmente di essere trascinato ad infrangere le regole del setting.
Gabbard (1994) ammonisce che quei terapeuti che non sono capaci di contenere i propri
impulsi sessuali e seducono le proprie pazienti, molto spesso lo fanno con donne con
disturbo borderline.
Il quadro appena descritto si attaglia molto bene alla maggior parte delle donne
tossicodipendenti accolte nelle comunità terapeutiche, delle quali gli operatori dicono che
una di loro dà da fare più di dieci tossicodipendenti maschi: il loro disturbo di personalità
borderline, con vicende disastrose di abusi sessuali infantili, si accompagna ad una
molteplicità di sintomi, al di là dell’uso di eroina: automutilazioni, disturbi del
comportamento alimentare, furti, promiscuità sessuale… Si tratta di comportamenti che da
un lato tentano di riempire il vuoto che il BDL sperimenta (si tratta di persone
estremamente vulnerabili alle rotture e agli abbandoni, essendo di matrice dipendente), ad
esempio con l’abbuffata o con l’anestesia data dalla droga, dall’altro puntano a ricercare un
risarcimento (vedi i furti) o a controllare il trauma sessuale con il cambiamento della
posizione (passando da quella di vittima, oggetto del piacere altrui, a quella di chi conduce
attivamente il gioco della seduzione senza implicarsi affettivamente) (Cirillo, 2009).
Vediamo un esempio.
Virginia, 26 anni, è una ragazza molto bella (ha lavorato come modella), colta (ha interrotto
l’Università quando la sua vita è precipitata), che dopo una fase anoressica da anni è diventata
bulimica, con attacchi orgiastici in cui svuota il frigorifero ingoiando cibi dolci e salati assieme, e
grandi quantità di bibite gassate per vomitare. Ha altri comportamenti autolesivi (tagli, tentativi di
suicidio) e di promiscuità sessuale senza alcuna protezione (in un periodo esce con i clienti di una
linea erotica per cui lavora). Suo padre è morto quando lei aveva 10 anni. La madre, donna
elegante e raffinata, nasconde un importante disturbo di personalità. Virginia racconta come la
madre avesse un amante che perseguitò a lungo quando ne fu abbandonata, coinvolgendo la figlia
ragazzina nelle minacce (con tanto di pistola) e nelle ritorsioni (gli ha distrutto l’appartamento).
Prima di approdare alla consultazione familiare, la paziente è stata a lungo in cura da un noto
psicanalista di cui si era innamorata, tormentandolo al punto che questi si mise in ginocchio
supplicandola di lasciarlo in pace! In una fase avanzata del trattamento, rivela di aver subito un
abuso sessuale da bambina da parte di un vicino, mai rivelato ad alcuno, e di averlo ripetuto più
tardi su un bambino piccolo. (Nel mio articolo appena citato ho discusso le condizioni che favoriscono
il passaggio da vittima ad abusante).
Anche nella terapia di queste pazienti è consigliabile alternare formati paralleli, cercando nelle
sedute congiunte di esplorare se esistano ancora risorse familiari residue da riattivare, e
disponendosi nelle sedute individuali alla massima pazienza e costanza, per offrire
contemporaneamente empatia e struttura.
Gabbard (cit.) raccomanda di cercare un aiuto in un collega (per esempio in uno psichiatra
che prescriva e controlli un farmaco) per condividere il peso emotivo di questi pazienti: i
terapeuti familiari possono naturalmente avvalersi del collega al di là dello specchio.
5. Il paziente evitante.
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Prima di passare all’altro estremo del continuum, quello dell’autonomia, procedendo sulla
nostra linea che unisce i due poli incontriamo un altro personaggio, in posizione
intermedia, il paziente con disturbo di personalità evitante. La sua sintomatologia può
essere prevalentemente di tipo ossessivo – e in questo caso il suo motto è “io me la cavo da
solo seguendo le regole”, regole che strutturano la realtà e calmano l’ansia – oppure di tipo
fobico, e in questo caso l’individuo, come spiega Ugazio (1998), si trova in una condizione
impossibile in quanto disprezza i propri bisogni di dipendenza, avendo imparato ad aspirare
ad una marcata autonomia, però questa lo isola e lo spaventa. Il suo genitore di
riferimento, a sua volta timido e pauroso, ammira perdutamente un partner coraggioso,
esploratorio e indipendente, che gli sfugge: così si tiene vicino il figlio come consolatore,
trasmettendogli però la propria disapprovazione per la sua insicurezza e facendogli pesare il
confronto con il coniuge audace e fuggitivo.
Questi pazienti, sottolinea ancora Ugazio, raramente arrivano ad un terapeuta familiare
perché temono l’implicazione relazionale, e quindi di solito - quando hanno un sintomo che
li affligge -cercano un trattamento cognitivo - comportamentale che gli sembra minacciare
di meno il loro rifiuto della dipendenza e il loro timore dell’intimità.
Ne descriverò uno in particolare.
Aldo, cinquant’anni, arriva in terapia come genitore di un ragazzino psicotico. Durante il
trattamento familiare la coppia divorzia e il lavoro procede soprattutto con formati paralleli: la mia
collega prende in carico la madre e io il padre. Aldo, intelligente, simpatico, con spiccato senso
dell’umorismo, ha una bassissima considerazione di sé: ne è un esempio il fatto che si percepisce del
tutto irrealisticamente come gobbo. Pensa di essere un paziente deludente per il terapeuta perché
fatica a ricordare i contenuti delle sedute così come gli episodi vissuti con il figlio tra una seduta e
l’altra. Chiuso e difeso in tutti i rapporti, dichiara che non avrà più rapporti sentimentali perché è
impotente. Man mano che si apre ad una maggior fiducia nei confronti del terapeuta, rivelerà con
molta vergogna che in realtà ha una relazione con la babysitter del figlio, donna autoritaria e
prepotente, ai cui insistenti approcci sessuali, pur sgraditi, non è capace di sottrarsi. Gradualmente
evolve verso una maggior considerazione di sé, con ricadute positive sul successo professionale, e verso
un’apertura nei confronti degli altri, tanto da trovarsi una compagna (per quanto a distanza di
sicurezza, in un’altra città…). Via via che i suoi progressi si consolidano, si ripercuotono anche in
maniera sorprendente sul benessere del figlio.
Come nel caso in questione, con i soggetti con personalità evitante è opportuno iniziare
esclusivamente con formati familiari, tenendo ben presente che il paziente in segreto anela ad
una relazione di vicinanza, ma il suo timore fondamentale di essere giudicato e criticato si
estende anche al terapeuta. Questi deve tenere in conto che l’eventualità che il paziente gli
menta se si vergogna non è così remota, e se del caso controllare attentamente la propria
delusione. Man mano che il paziente impara a fidarsi, vengono alla luce i suoi intensi
bisogni di dipendenza, precedentemente negati.
6. Il paziente narcisista.
Esaminiamo ora i personaggi che si collocano sul polo dell’eccesso di indipendenza,
nell’universo dell’autarchia, universo congelato nel quale per un terapeuta è ben difficile
avventurarsi.
Il primo personaggio che intendo esaminare è quello affetto dal disturbo di personalità
narcisista. Il suo pattern di attaccamento è di tipo evitante: non avendo mai potuto
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beneficiare di una vera dipendenza né quindi della vicinanza emotiva che questa garantisce,
ha trovato una difesa di grandiosità, di arroganza, di stima eccessiva di sé, con cui si
protegge dall’esperienza di profonda solitudine, vissuta in un’infanzia in cui i suoi bisogni
reali non sono stati appagati mentre è stata esageratamente sottolineata una sua qualità o
dote.
Il suo motto è, come è facile intuire, “io sto per conto mio perché sono speciale”.
Di regola un narcisista non chiede una terapia: se è giovane, può approdarvi sospinto dai
genitori. Ovviamente in tali casi non si potrà che procedere esclusivamente con formati
familiari: una presa in carico individuale va vista come un possibile ma lontano traguardo.
Se è adulto, vi arriva, in modo riluttante, solo sotto l’effetto di uno scacco esistenziale: un
fallimento professionale, una malattia, la carcerazione (si pensi ad alcuni terroristi che
hanno visto infrangersi i loro sogni megalomanici e disancorati dalla realtà), una catastrofe
amorosa, la caduta rovinosa di prestazioni sessuali raggiunte grazie all’uso di cocaina, e così
via. A questo punto la difesa crolla e il soggetto sperimenta quei limiti della condizione
umana a cui lui si illudeva di non essere sottoposto, in quanto più bello, più intelligente, più
ricco, più dotato degli altri.
Di fronte ad un paziente narcisista il controtransfert è tipico ed aiuta molto a formulare la
diagnosi: il terapeuta sente di essere sbagliato, in difetto, e sperimenta imbarazzo e disagio
sotto lo sguardo sottilmente sprezzante dell’interlocutore. Tende a domandarsi: “Avrò una
macchia sulla camicia? Le scarpe infangate? I capelli spettinati?”. E’ necessario ricordare a
se stessi che l’esperienza profonda del paziente è proprio il sentimento di vergogna, da cui
si difende trasformandola nel suo contrario, l’atteggiamento di superiorità e di arroganza.
Elisa, 17 anni, è condotta in terapia dalla madre per una anoressia restrittiva che si sta già
cronicizzando. Figlia di una donna nubile che vive in un contesto sociale limitato e di mentalità
ristretta, ha tenuto a bada la vergogna della propria condizione di illegittima con il fatto che la sua
famiglia (la madre è rimasta a vivere con i suoi) è la più ricca del paese. Il trattamento, malgrado
un appello alla collaborazione ai vari zii, si infrange miseramente contro l’impervia chiusura della
ragazza e la passività rassegnata della madre. Quattro anni dopo, Elisa torna, questa volta da sola:
lei, che era stata una brillante allieva nel suo liceo di suore, non è riuscita ad inserirsi nell’università
della grande città dove ha deciso di trasferirsi. In Facoltà non parla con nessuno e non è riuscita ad
orientarsi, tanto da non aver sostenuto alcun esame. Reclusa nel suo piccolo appartamento, da cui
telefona solo alla madre, alla zia e a una vecchia balia, non ha alcuna occupazione né interesse.
Quando le chiedo, in uno dei penosi colloqui iniziali in cui non spiccica una parola se non
espressamente interrogata, come abbia trovato la motivazione a chiedere aiuto, racconta che ogni
domenica esce per andare a messa alla cattedrale, dove si confessa da un anziano sacerdote: la
tenerezza con cui questi ogni tanto appoggia la propria mano su quelle giunte di lei le ha fatto
sperare di poter sperimentare anche altrove un rapporto di vicinanza. Oggi, dopo nove anni di
terapia, ha superato la condotta anoressica, sostenuto brillantemente i suoi esami universitari,
sperimentato vari passatempi e attività , e infine trovato il suo primo impiego dove è molto
apprezzata. Si è maggiormente legata alla madre e questa a lei. Non sono comparse né amicizie né
relazioni sentimentali: frequenta saltuariamente le cugine e ha preso un cagnolino che ama
teneramente.
7. Il paziente antisociale.
Questo paziente ci scaraventa in un mondo pericoloso, dove il vissuto controtransferale del
terapeuta è solitamente la paura. Mentre di fronte all’eventuale violenza del paziente
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borderline la paura sperimentata dal terapeuta è classicamente mescolata alla compassione
(due emozioni molto difficili da tenere assieme), qui ci sentiamo scaraventare addosso un
odio freddo e spaventoso, oppure ci accorgiamo di essere abilmente manipolati ed esposti a
seri rischi.
Il motto dell’antisociale è: “Io sono solo e me ne frego, perché faccio quello che mi pare e
prendo quello che mi serve”. Per questo non domanderà mai una terapia, perché non si
può immaginare in una relazione di dipendenza, che nella sua visione del mondo equivale a
debolezza e sottomissione: ed è lui che sottomette gli altri, non certo il contrario.
E’ possibile trattarlo da adolescente in una terapia familiare: con Rangone e Selvini
abbiamo descritto (1997) la famiglia dell’adolescente antisociale e proposto alcune linee
guida per il trattamento. In sintesi, questa famiglia si regge su un triangolo assolutamente
specifico, caratterizzato, sul lato della relazione coniugale, dalla tirannia esercitata dal marito
sulla moglie, sul lato della relazione madre/figlio, dall’istigazione della madre sul bambino e
dalla assunzione da parte di questi del ruolo di paladino di lei, sul lato della relazione
padre/figlio del rifiuto del padre e dall’ostilità del ragazzo. Il futuro paziente non ha
sperimentato alcuna dipendenza né da un genitore né dall’altro ed è cresciuto costruendosi
una corazza emotiva. Per spezzarla e accompagnare il paziente a contattare i propri vissuti
depressivi rimossi e successivamente a intravvedere i benefici della dipendenza, è necessario
anzitutto mettere in crisi il padre, rivisitando la sua storia anche in colloqui individuali,
come premessa all’aggancio del figlio.
Da adulti, gli antisociali secondo la Benjamin (cit.) non sono curabili se non in carcere.
Nella mia esperienza si può tentare di trattarli anche in altri contesti altrettanto coatti, come
la comunità di recupero per tossicodipendenti che la scelgono come misura alternativa alla
prigione, oppure l’intervento prescritto dal Tribunale per i minorenni nel caso di genitori
maltrattanti o trascuranti.
Raffaele, un paziente che mi è stato molto caro e di cui ho scritto anche in altre occasioni (2005,
2007), giunge per l’appunto in seguito ad un intervento del giudice che limita la sua potestà sui figli.
E’ appena uscito dal carcere: durante la sua detenzione ho seguito la sua compagna, Anna, che non
aveva saputo proteggere la figlia maggiore dall’abuso sessuale commesso da un vicino di casa, abuso
che si era ripetuto per tale mancanza di misure di tutela. Anna è oggi rientrata a casa con i figli,
dopo un percorso estremamente soddisfacente, che ha previsto anche un soggiorno in una comunità
specializzata nel trattamento di madri tossicomani. Nel suo cammino di cambiamento ha deciso di
chiudere la burrascosa relazione con Raffaele. Al primo incontro con me questi è furioso: non solo
perché mi imputa la decisione di Anna di lasciarlo (lui è tuttora molto innamorato di lei, per la
quale ha sfidato l’Aids – lei è sieropositiva, lui no – allo scopo di darle i figli che gli chiedeva), ma
anche perché “si è mangiato lo stomaco” per la rabbia che prova verso il tradimento dell’excompagna. Nei fatti l’uomo è stato scarcerato e posto agli arresti domiciliari perché affetto da un
cancro che ha comportato l’asportazione dello stomaco. Arriva in seduta con la chemioterapia al
polso, nascosto dietro un paio di occhiali neri, ben deciso a non piegarsi a collaborare a una presa in
carico di cui rifiuta il fondamento. Mi sforzo di agganciarlo lavorando sull’ingiustizia che ha patito
nella sua tragica storia familiare, mostrandogli come la sua convinzione di aver diritto a prendersi
con ogni mezzo un risarcimento lo induca senza volerlo a delegare la sua rabbia ai figli,
“insegnando” loro come le regole siano fatte per essere trasgredite. Negli incontri individuali si apre,
si ammorbidisce, ma non si piega: non si abbasserà a chiedere all’assistente sociale di organizzare
degli incontri vigilati con i figli, preferisce vederli di sfuggita evadendo agli arresti domiciliari. E’ solo
durante una seduta allargata ai bambini che si deciderà a farlo, convinto dalle parole della figlia
maggiore che rivela di essere a volte arrabbiata con lui che non è mai presente nella sua vita e che
alla mia domanda di cosa potrebbe fare il papà per riparare gli consiglia candidamente: “Chiedere il
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permesso per poterci vedere”. Quando divento per lui un punto di riferimento importante, la
dipendenza che mi si spalanca davanti è impressionante. Mi chiede: “Ora che è finita la
valutazione, vorrei fare una terapia con lei, perché avrei bisogno di qualcuno… come un amico. No,
non come un amico, come un padre. No, come Dio.” Verrà nuovamente incarcerato e la terapia
proseguirà per lettera. Uscito di prigione, ritorna: è molto malato, il cancro si è diffuso al fegato, è
magro e senza capelli. Mi dirà: “Da quando sono venuto da lei, sono molto peggiorato. Prima ero
un carro armato, non mi importava niente di nessuno, ora sono fragile, mi commuovo davanti alle
disgrazie degli altri”. Il carapace difensivo si è spezzato e lascia entrare le emozioni altrui,
facendogli percepire anche le proprie. Nonostante ciò, la sua forza d’animo è rimasta integra: muore
con ammirevole coraggio, dopo essersi congedato dai figli.
Io penso che ciascuno di noi scelga questo mestiere per la qualità dei rapporti umani che ci
consente: per me questo è stato uno dei più emozionanti.
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