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Monet alla Beyeler
Alcuni dei più bei quadri del padre dell'Impressionismo in esposizione a Basilea
/ 06.02.2017
di Gianluigi Bellei
Abbiamo scritto di Claude Monet circa un anno fa in occasione dell’esposizione a cura di Guy
Cogeval alla Galleria civica d’arte moderna e contemporanea di Torino. Allora i dipinti in mostra
erano una quarantina e provenivano tutti dal Musée d’Orsay di Parigi. Oggi la Fondation Beyeler di
Basilea, in occasione del suo ventennale, gli apre le sale con 62 opere provenienti dai principali
musei del mondo come il Metropolitan Museum of Modern Art di New York, il Museum of Fine Art di
Boston, la Tate di Londra, il Musée d’Orsay di Parigi, affiancate dalla serie di dipinti di sua proprietà
come l’incredibile «Bassin aux Nympheas» del 1917-1920: tre pannelli di due metri per tre ognuno
raffiguranti lo stagno di Giverny dove l’artista ha vissuto negli ultimi anni.
Pannelli che non sfigurerebbero certo accanto alle dodici tele analoghe esposte all’Orangerie di
Parigi. Monet muore proprio a Giverny nel 1926, a 86 anni. Tele mozzafiato, queste, che secondo
Cesare Brandi fanno «capire che cos’è la pittura, o se non si capisce, la fa ignorare per sempre».
Dipinti effervescenti, fluidi, che non definiscono il mondo esterno ma l’arte stessa, perché con essi la
pittura diventa essenza e purezza. Ma anche ibridazione: esce infatti dai propri limiti per incontrare
il mondo della musica e della poesia, tra fantasia e sogno. Come dimostra il legame con opere di
poeti quali Mallarmé e musicisti come Debussy.
Certo la sua fortuna critica ha subito nel tempo fasi altalenanti. Dagli esordi piuttosto contrastanti,
fino all’accoglienza totale nel periodo di maggior successo, per poi cadere nell’oblio perché tacciato
di passatismo dopo la morte. Oggi è considerato uno dei maggiori artisti del suo tempo ed è amato
da ogni genere di pubblico.
La mostra basilese inanella una serie di dipinti realizzati dopo il 1880 scanditi secondo aree
tematiche: la Senna, gli alberi, il Mediterraneo, Londra, Giverny. Dopo la morte nel 1879 della
moglie Camille, Monet inizia una serie di viaggi verso il Mediterraneo e poi a Londra che gli è
rimasta nel cuore a seguito del suo soggiorno nel 1870 per sfuggire alla guerra franco-prussiana. Un
periodo intenso, riflessivo, che coincide con i primi soggiorni a Giverny dal 1883 assieme alla nuova
compagna Alice Hoschedé e alla ripetizione quasi ossessiva dei soggetti pittorici tendenti a una sorta
di astrattismo cromatico. Dipinti con uno stesso soggetto realizzati da angolazioni differenti e in
diversi momenti della giornata che rappresentano il suo amore per la natura, ma soprattutto la sua
concezione della vita in continuo movimento. Ed è la luce che li plasma. Una luce vibrante, intensa,
dinamica. Monet è considerato il capostipite dell’Impressionismo. Frantuma il colore attraverso le
pennellate poste una accanto all’altra senza sfumature. Un metodo rivoluzionario che ha
nell’immediatezza il suo carattere distintivo.
A ben vedere però si nota subito che il suo procedimento esecutivo negli anni diventa più meditato e
probabilmente, per un antiaccademico come lui, molto tradizionale. Troviamo sì le singole pennellate
corpose e di getto, lo schiarimento dei colori, tipici degli Impressionisti, ma il tutto realizzato
attraverso procedimenti lunghi e canonici. I vigorosi sfregazzi – una sorta di pennellate corpose
posizionate quasi a secco sulla tela mediante pennelli irsuti – usati da artisti come Tiziano e
Rembrandt, si accompagnano a una serie di velature sovrapposte. Per velature si intendono sottili
campiture di colore dato molto diluito di tonalità più scura di quello sottostante, sempre secco e
pastoso. Una tecnica dai tempi lunghi che serve a dare maggior luminosità al dipinto e che in questo
caso viene alternata agli sfregazzi. Un po’ come faceva uno dei suoi artisti preferiti: Turner.
In mostra troviamo nella prima sala «La cathédrale de Rouen» del 1894 dipinta al mattino con le luci
bluastre rischiarate dal giallo del Sole nascente e «La meule au soleil» del 1891, controluce con la
sua ombra allungata che copre metà della tela. Poi la serie degli alberi, alti, spogli, luminosi od
oscuri. La Senna ghiacciata dai riflessi oro o argentei. La capanna del doganiere, il mare a Pourville
e la impressionante «Vagues à la Manneporte» del 1885 con il suo arco rampante realizzato con
pennellate rapide e vigorose, fra il giallo della parte illuminata e il blu del mare spumeggiante in
basso. Segue la serie «Waterloo Bridge» in una dissolvenza di colori tra il rosa, il grigio e il blu che
mette a repentaglio la stessa percezione visiva. Nei due dipinti del parlamento londinese del 1904 si
nota chiaramente l’influsso di Turner con la torre controluce che si staglia nel cielo pieno di bagliori
giallastri come nell’acqua.
Alla fine del percorso troviamo le ninfee, il soggetto preferito degli ultimi anni. «Ho impiegato del
tempo prima di capire le mie ninfee – racconta –, le avevo piantate per piacere e le coltivavo senza
pensare di dipingerle. Poi, d’improvviso, ebbi la rivelazione della magia del mio stagno. Presi la
tavolozza e da allora in poi non ebbi altri modelli». All’inizio Monet inquadra la riva, la vegetazione
attorno, i salici, le iris. Poi dal 1904 solo lo specchio d’acqua. Verso il 1908 le cateratte gli
indeboliscono la vista e le sue opere sono invase da gialli virulenti; dopo l’operazione del 1923 per
un po’ di tempo riacquista la percezione del blu. Dipinge quello che sogna e non più quello che vede
perché, come sostiene lui stesso, «sogno sempre le mie ninfee».
Durante il suo funerale nel 1926 la bara viene coperta da un telo nero. Il suo amico Clemenceau
strappa dalle pareti un drappo colorato e lo getta sulla bara gridando: «Niente nero per Monet».
Bella mostra, pulita e lineare; ottima l’illuminazione, come sempre. Cataloghi in tedesco e in inglese.