Una casa con le tegole rosse

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Una casa con le tegole rosse
Unità
12
I TEMI: infanzie rubate
Laura Alcoba
Una casa con le tegole rosse
La Plata, Argentina, 1975
Tutto è iniziato quando mia madre ha detto: «Ecco, vedi, anche noi
avremo una casa con le tegole rosse e un giardino. Proprio come volevi tu...»
Ormai sono già alcuni giorni che ci siamo stabiliti nella nuova casa,
lontano dal centro, nei pressi degli immensi terreni incolti che circondano La Plata, là dove la città è quasi finita e la pampa non è ancora
iniziata. Davanti alla casa c’è una vecchia ferrovia in disuso, un cumulo di detriti che pare dimenticato lì da tempo immemorabile. Ogni
tanto, una mucca.
Fino a poco tempo fa, vivevamo in un piccolo appartamento in un
palazzo di vetro e cemento di Plaza Moreno, proprio accanto alla casa
dei miei nonni materni e di fronte alla cattedrale.
Ho spesso sognato ad alta voce la casa in cui avrei voluto abitare: una
villetta con le tegole rosse, un giardino, un’altalena e un cane. Una
casa come quelle che si vedono nei libri per bambini. Ma anche come
quelle che disegno in continuazione, con un bel sole giallo alto nel
cielo e un vaso di fiori accanto alla porta d’ingresso.
Ho l’impressione che lei non abbia capito bene. Quando parlavo di
una casa con le tegole rosse, era un modo di dire. Le tegole avrebbero
potuto essere rosse o verdi. Quello che volevo era il genere di vita che
vi si svolge dentro. Genitori che tornano tutte le sere dal lavoro per
cena. Genitori che la domenica preparano un dolce seguendo ricette
scritte in grossi libri di cucina con tante foto su carta patinata. Una
bella mamma con unghie lunghe e laccate e scarpe con i tacchi. O con
stivaletti marroni e una borsa dello stesso colore. O, magari senza
stivali, ma con un lungo cappotto blu dal colletto rotondo. O grigio.
A dir la verità, non era una questione di colore, non più di quanto lo
fosse per le tegole, gli stivali o il cappotto. Mi chiedo come abbiamo
fatto a capirci così male, o se lei finga di credere che il mio sogno sia
solo una questione di giardino e di rosso.
Di fatto, era soprattutto al cane che tenevo.
O al gatto. L’ho scordato.
Alla fine decide di spiegarmi qualcosa di quello che sta succedendo.
Abbiamo dovuto lasciare il nostro appartamento perché ora i Montoneros devono nascondersi. È necessario perché ci sono persone diventate pericolosissime: sono i membri dei commando della Tripla A,
l’Alianza Anticomunista Argentina, che rapiscono i militanti come i
miei genitori e li uccidono o li fanno sparire. Dobbiamo quindi met-
Una casa con le tegole rosse
terci al sicuro, nasconderci e anche reagire. Mia madre mi spiega che
cosa significa “vivere in clandestinità”. «Adesso vivremo in clandestinità.» Così mi ha detto.
Ascolto in silenzio. Ho capito perfettamente le sue parole, ma una
domanda mi assilla: la scuola. Se viviamo nascosti, come farò ad andare a scuola?
«Per te sarà come prima. Non dovrai dire a nessuno dove abitiamo,
neppure ai parenti. Ogni mattina ti lasceremo alla fermata dell’autobus. Attraverserai da sola Plaza Moreno, la riconoscerai. È facile, l’autobus si ferma proprio davanti alla porta della casa dei nonni. Durante il giorno saranno loro a prendersi cura di te. Troveremo un modo
per venire a prenderti di sera.»
Della botola nel soffitto non dirò niente, promesso. Né agli uomini
che potrebbero venire a fare domande e neppure ai nonni.
Papà e mamma nascondono armi e giornali là sopra, ma non ne devo
parlare con nessuno. Gli altri non sanno che siamo stati costretti a
entrare in guerra. Non capirebbero. Non ancora, in ogni caso.
La mamma mi ha raccontato di un bimbo che aveva visto il nascondiglio che i suoi genitori avevano ricavato dietro un quadro. La madre
e il padre avevano dimenticato di spiegare al bambino quanto fosse
importante tacere. Era molto piccolo, sapeva a malapena parlare. Sicuramente avranno pensato che fosse una precauzione superflua: non
avrebbe potuto dire niente a nessuno e, in ogni caso, non avrebbe
capito i loro avvertimenti.
Quando sono arrivati a casa loro, gli uomini della polizia hanno frugato dappertutto, ma non hanno trovato nulla. Niente armi, nessun
giornale militante, neanche un libro proibito, nonostante la lista di
quelli proibiti sia molto lunga. Non c’era nulla che potesse essere
considerato “sovversivo”. Gli uomini venuti a frugare a casa loro non
ci avevano proprio pensato, a guardare dietro il quadro.
Mentre stavano per andarsene, erano già sulla porta, uno di loro è
tornato sui propri passi. Gli era improvvisamente venuto in mente che
durante la perquisizione il bambino, lo stesso che sapeva dire solo
qualche parola, aveva più volte indicato un quadro dicendo: «Ahí!
Ahí!». L’uomo ha staccato il quadro... Ora sono tutti in prigione, a
causa di un bambino a malapena capace di parlare.
Nel mio caso però è diverso. Io sono grande. Ho solo sette anni, ma
tutti dicono che parlo e ragiono come una persona adulta. Li fa ridere
che io conosca il nome di Firmenich, il capo dei Montoneros, e che
sappia a memoria le parole della marcia della gioventù peronista. Mi
hanno spiegato tutto. Ho capito e obbedirò. Non dirò nulla. Anche se
venissero a farmi del male. Anche se mi torcessero un braccio o mi bruciassero con il ferro da stiro. Anche se mi piantassero tanti piccoli chiodi nelle ginocchia. Io ho capito fino a che punto è importante tacere.
L. Alcoba, La bambina della casa dei conigli, Piemme