PROLOGO Con indosso una preziosa vestaglia di seta orientale, l

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PROLOGO Con indosso una preziosa vestaglia di seta orientale, l
PROLOGO
Con indosso una preziosa vestaglia di seta orientale, l’uomo era rilassato sulla sua calda poltrona
di velluto scarlatto e immerso nella penombra dell’accogliente ed enorme camino che troneggiava
nella stanza. Il crepitio della legna che ardeva lo aiutava a seguire i versi di un antico libro amanuense, risalente al Medioevo, in cui era concentrato nella lettura. Ad un tratto, un suo servitore bussò
con veemenza alla porta.
“Avanti!” – esclamò il castellano, infastidito.
Esagitato, un uomo tarchiato e basso di statura entrò e, raggiunto il suo Signore e inginocchiatosi
poi al suo fianco, in nome di Tiberio lo implorò di accorrere negli appartamenti del terzo piano
dell’antico e possente maniero che il padrone aveva eletto quale suo quartier generale. Il castellano
si alzò di scatto e pose l’antico volume sul piccolo tavolo di cedro libanese accanto alla poltrona, si
strinse la cintura della vestaglia e, seguito dal valletto, uscì dallo studio. Percorso in fretta il lungo
corridoio, il padrone salì le grandiose scale marmoree che portavano al terzo piano e, con un groppo
in gola, raggiunse la camera dove era stato richiesto il suo intervento. Irrotto nella stanza, illuminata
solo da un abat-jour, trovò alcune donne agitate e il Console che, inquieto e con il pugno chiuso a
reggergli il mento, fissava un’anziana giacente su un letto a baldacchino che si contorceva dal dolore alle membra, come se fosse posseduta da chissà quale demone.
Il castellano si precipitò verso il letto e, scorto il viso della povera donna corrugarsi da dolorosi,
lancinanti spasmi, con tono greve ordinò ai presenti di uscire. Tutti obbedirono, tranne Tiberio. Il
padrone si chinò e, resosi visibile agli occhi stanchi dell’Inferma, cominciò ad accarezzarle il viso
sciupato dalla vecchiaia e sfigurato dalla sofferenza per quel morbo che da oltre dieci anni la tormentava. Con molta pena nel cuore, l’uomo premette un punto specifico delle tempie e della nuca e
l’ammalata parve spegnersi, sprofondando in un sonno innaturale eppure provvidenziale per alleviarle le pene. Accertatosi delle condizioni sempre più precarie della vegliarda, il castellano, preoccupato, si rizzò in piedi e la fissò appoggiando una mano sulla spalla del Console nel tentativo di
rincuorare lui e se stesso.
“Grazie... grazie!” – mormorò Tiberio senza scostare gli occhi, immobili e gonfi di lacrime,
dall’Inferma.
“Non devi ringraziarmi!” – ribatté il padrone mettendosi il Console a braccetto – “Se non fosse
stato per lei... chissà cosa ne sarebbe stato di noi! Ma ora è del tutto inutile rimanere qui! Ritirati nei
tuoi appartamenti e cerca di riposare! Veglierò io su di lei, stanotte!” – aggiunse sottovoce, mentre
accompagnava l’amico alla porta.
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“Ma io sono suo...!” – reagì Tiberio voltandosi indietro per vedere la figura, ora rilassata, della
povera ammalata.
“So cosa provi!” – interruppe il castellano, giunto proprio sulla soglia – “Sento per lei lo stesso
amore che tu nutri! E questo lo sai! Coraggio, Console! Capisco che è penoso e mi pento di averle
promesso ciò che forse è impossibile! Se non avessi commesso questo errore, ella sarebbe morta da
un bel pezzo risparmiandosi un mucchio di sofferenze! Ma io ho giurato...!” – proseguì l’uomo rivolgendo uno sguardo penetrante a Tiberio – “...e metterò tutto il mio potere a disposizione per
mantenere la promessa! Fosse l’ultima cosa che faccio in vita mia! Parola di Imperatore!”
PARTE PRIMA
CAPITOLO I
L’INAUGURAZIONE
FORMA COSTITUZIONALE
ERA SOLO UN PAZZO ISOLATO?
Fra un mormorio diffuso e continuo, i Deputati e i Senatori erano seduti sui loro scanni
nell’attesa che il Presidente facesse il suo ingresso nell’Aula del Parlamento di Lussemburgo, nuova
Capitale del neonato Stato federale. Erano occorsi più di sei mesi di duro e incessante lavoro, oltre
all’opera dei più geniali architetti del Continente, per ridare splendore a ciò che era stato il salone
delle feste di un antico maniero eretto in Place de Guillaume II, in piena città vecchia. Un impegno
pregevole che, fondendo il castello dalle architetture gotiche con una cupola di stile rinascimentale,
aveva restaurato e trasformato in Campidoglio ciò che un tempo era stata una possente roccaforte.
Ed ora, con la ristrutturazione appena ultimata e con la nuova illuminazione che ne risaltava il design ultramoderno e funzionale, l’Emiciclo si presentava perfetto per il solenne momento tanto atteso da oltre un anno, che concretava gli ultimi, sfibranti negoziati per l’Unificazione. Mentre gli addetti stampa e i cronisti televisivi sistemavano le loro attrezzature sulle tribune, i commessi quasi
correvano nell’Aula, intenti a portare messaggi ai parlamentari seduti ed emozionati non solo per
l’occasione storica che stavano vivendo e consegnando ai posteri, ma anche per le grandi responsabilità che, da domani, costoro avrebbero dovuto affrontare. Finalmente, il consesso rappresentativo
europeo, trasferitosi definitivamente a Lussemburgo, si trasformava da crogiolo di vaghe idee, fino
a ieri espresse da risoluzioni e direttive, in vero organo politico detentore del potere legislativo.
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Era stata la tenacia di brillanti uomini politici dei Paesi che formavano ciò che era stata l’Unione
Europea a rendere possibile l’aggregazione dei ventisette Stati membri della comunità continentale,
a cui andava ad accorparsi il Vicino e Medio Oriente, compresi Israele e Repubblica Palestinese, e
numerosi Stati del nord-Africa. Non vi erano assenti fra i parlamentari, riuniti in seduta comune per
riconoscere il primo Presidente dell’Unione delle Nazioni Europee. Anche l’Esecutivo tradiva però
una certa emozione. I ministri e i sottosegretari si guardavano nei loro volti tesi, per poi volgere gli
occhi all’Emiciclo o, a tratti, verso la grande porta laterale per vedere se appariva il Capo dello Stato.
Ma si rimaneva senza parole nell’osservare, dietro il Banco della Presidenza, la gigantesca bandiera dell’U.N.E. che, con le sue quarantaquattro stelle dorate e disposte in cerchi concentrici su
campo blu, sanciva il successo dei negoziati del 2015 che avevano portato alla fusione del Vecchio
Continente otto anni dopo l’aspro conflitto caucasico che l’aveva brutalmente insanguinato. Agganciato a due imponenti colonne corinzie di marmo rosa di Carrara, lo stendardo stellato separava le
quarantaquattro bandiere degli Stati nazionali, dritte e ornate nei bordi da frange dorate: ventidue
messe in fila a sinistra della bandiera dell’Unione, ventidue a destra. Dai tempi dell’Impero di
Traiano non si materializzava, nel Mediterraneo, uno Stato così esteso che dall’Atlantico si spingeva
fino al Tigri e all’Eufrate, dall’Artico al deserto del Sahara. Ora, però, la Storia volgeva a favore
dell’Europa. In neanche dieci anni, dopo la sconfitta della Guerra del Caucaso che nel 2008 aveva
visto perdente la Forza Multinazionale Europea, l’intero Mediterraneo diventava politicamente solido. Stabilità che aveva indotto i Paesi dell’Eurozona, Regno Unito incluso, a firmare il Trattato di
adesione del 2012, preludio del Concordato di Unione del marzo 2015 sfociato poi nelle prime elezioni del Parlamento e per la carica di Presidente Federale indette per la fine del 2016.
Dal 1957, anno del Trattato di Roma, con cui era stata sancita la volontà delle Nazioni europee di
unirsi in una condivisione di idee allora economiche e di mercato, era passato oltre mezzo secolo,
periodo durante il quale il Vecchio Continente aveva subìto gli arbitrii dei vari Presidenti americani.
Questi, infatti, brandendo il Patto Atlantico, avevano condizionato non poco le politiche degli Stati
dell’Unione Europea per i favori militari ed economici, e non solo, che Washington forniva ogni
qual volta occorreva. Pruriti, però, mal digeriti dalle popolazioni slave che, indirettamente, avevano
provocato attriti nei gruppi etnici caucasici e offerto al Governo di Jerevan un ottimo pretesto per liberarsi dalle continue pretese dell’Azerbajdzan, originando un conflitto in nome della tutela della
sovranità armena che si trasformò poi in una voragine.
Non era la prima volta, infatti, che Baku reclamava come proprio il Nagorno Karabakh, una repubblica autoproclamatasi indipendente al confine con l’Armenia, tanto che verso la fine del ’900 si
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giunse alle ostilità che proseguirono nei primi anni del XXI secolo, coinvolgendo anche la Georgia.
Un abisso bellico dai paradossali colpi di scena che, però, rivelò anche la prima crepa nella
N.A.T.O. poiché la Casa Bianca decise di agire senza tener conto delle strategie elaborate dai vertici
militari europei. Washington, infatti, dopo il conflitto bosniaco che sconvolse i Balcani, non voleva
più essere additata come l’opportunista che interveniva solo quando ravvisava convenienza politica
ed economica; motivo per cui, venne inviato un primo contingente che, di fatto, annullò l’autorità
del Consiglio di Sicurezza dell’O.N.U. e a cui se ne aggiunsero altri 550 senza che si riuscisse a dirimere le ostilità. L’esercito più preparato del mondo, tenuto immobilizzato per circa due anni.
Ciò, però, non avrebbe dovuto stupire il Dipartimento di Stato, né il Pentagono: sia Baku che Tiblisi e Jerevan consideravano, infatti, la guerra... quella guerra, come un regolamento di conti in cui
nessuno doveva interferire. L’ingerenza di americani ed europei venne così mal digerita che armeni,
georgiani e azeri, dapprima nemici, con una mossa a sorpresa si allearono per cacciarli. Le montagne caucasiche furono il triste teatro della controffensiva antioccidentale che culminò con la Battaglia di Kazbek, un gorgo infernale dove la Forza Multinazionale d’intervento inviata da Bruxelles,
come contraltare delle armate U.S.A., venne travolta. Vinsero di misura gli americani, anche se la
stampa d’oltre Oceano dipinse la vittoria come una conferma della loro potenza. Alla fine si giunse
all’Armistizio di Atene, con cui si stabilivano i confini antecedenti alla guerra; in pratica 700.000
morti, di cui oltre la metà americani, per nulla. Dal conflitto, però, emersero le insofferenze tra Europa e U.S.A. e, al tempo stesso, le difficoltà di Washington a gestire contese belliche di lungo periodo, checché ne dissero i giornali statunitensi.
Persino Londra, di solito solidale con gli Stati Uniti, storse il naso per l’arroganza con cui essi
piombarono in Europa. Tuttavia, il Premier di allora appoggiò le mosse della Casa Bianca, contrariamente alla popolazione del Regno che non voleva saperne di avallare una guerra con cui la Corona mai avrebbe dovuto infangarsi e di cui i cugini americani avrebbero speculato per ribadire il loro
primato sulla scena politica mondiale. Ma l’opinabile vittoria dello Zio Sam trascinò l’inquilino di
Downing Street nell’impopolarità, specie quando alcuni quotidiani newyorchesi considerarono
Londra come ottima spalla per il gigante a stelle e strisce. Fu così che, per limitare la caduta di stile
che rischiò di intaccare il prestigio inglese, il Partito rinnegò il suo leader e, sfiduciandolo, lo spogliò della carica di Primo Ministro. Il successore dichiarò poi che, d’allora in avanti, ogni opzione
militare che implicava un coinvolgimento europeo sarebbe stata deliberata da Bruxelles d’accordo
solo ed esclusivamente con le Nazioni Unite. Eppure, Washington si sentiva ancora forte. E con la
stessa presunzione con cui piombarono in Caucaso, gli americani si spinsero fino nel Deccan, inconsapevoli di ricevere lì una dura lezione.
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La Guerra dell’India, risoltasi nell’estate del 2013, vide gli Stati Uniti sconfitti. Una sonora disfatta che la Casa Bianca accusò e che, ora, si stava manifestando con tutti i malesseri che ogni crollo militare comporta, fino ad intravedere lo spettro di una guerra civile albeggiare all’orizzonte storico. Tanti, forse troppi, erano stati i sintomi di un malessere intestino agli U.S.A.. L’attentato di Atlanta del 14 marzo 2014, dove rimasero uccisi il Presidente Jonathan Gilmore e parte della sua famiglia, diede un serio scossone alla fiducia della gente verso le istituzioni, al punto da ipotizzare un
altro caso Kennedy. Ma il furto elettorale denunciato dal vicepresidente Adam Coltrane fece precipitare la situazione. Nonostante le ultime consultazioni presidenziali lo avessero proclamato vincitore anche in Pennsylvania e nell’Ohio, al Congresso i GRANDI ELETTORI di questi due Stati votarono
per il rivale Arthur Grant e lo proclamarono 47° Presidente degli Stati Uniti. Ciò fece traboccare
l’orlo di un vaso colmo di sfiducia mista a rabbia.
Ogni parlamentare europeo era conscio dei possibili e tristi sviluppi delle tensioni interne americane, ai quali doveva aggiungersi anche l’ansia per gli eventuali errori che uno Stato appena nato
avrebbe potuto commettere. L’unico sollievo a tanti timori erano i contenuti di ciò che, per molti
giuristi, era un capolavoro di Costituzione: era così elastica e liberale da indurre l’ostico Regno Unito ad accettarla e a confluire in uno Stato organizzato a Repubblica, pur mantenendo al suo interno
l’istituzione monarchica. Ed ora eccoli lì, seduti insieme dopo secoli di lotte sanguinose, come se la
Guerra dei Trent’anni, la Seconda Guerra Mondiale e i conflitti israelo-palestinesi, che sconvolsero
la Terra di Canaan dalla seconda metà del ‘900 fino ai primi anni del XXI secolo, non fossero mai
avvenuti. Le telecamere inquadravano i parlamentari riuniti nell’Emiciclo secondo le loro idee politiche e componenti i gruppi di Maggioranza e di Opposizione. Poi la regia puntò sullo sfondo dove,
sotto la bandiera stellata, lo Speaker provvisorio del Senato confabulava con un deputato.
Le elezioni del 20 dicembre 2016, appena concluse, avevano sancito la vittoria della coalizione
democratico-laburista per una manciata di voti. Eletto dal popolo con procedimento di primo grado,
il Presidente sfuggiva però ad ogni maggioranza parlamentare e instaurava il rapporto di fiducia direttamente con i cittadini dell’Unione. Inconsapevolmente, si evitava il voto dei GRANDI ELETTORI
per la massima carica federale e, quindi, una potenziale scintilla di eventuali conflitti intestini nella
Repubblica, come era avvenuto oltre Atlantico. Tuttavia, molti spunti erano stati presi dal modello
americano, forse l’unico in grado di garantire una certa stabilità di Governo e, al tempo stesso, capace di porre un contrappeso sostanziale per evitare concentrazioni di potere in un solo organo, legislativo o esecutivo che fosse. Erano stati i delegati tedeschi, sulla scorta del fallimento della Repubblica di Weimar, ad avallare una legge elettorale maggioritaria pura e le elezioni intermedie dei rami
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del Parlamento. Solo così, nell’idea dei costituenti, si poteva fornire una risposta al Presidente circa
l’approvazione o meno dell’indirizzo politico intrapreso dal suo Governo.
Anche se svincolato da lacci di disciplina partitica, sarebbe stato lo stesso difficile gestire gli affari di Stato, specie quelli economici e finanziari, con le Camere di diverso colore politico e in opposizione all’Esecutivo: espediente questo che aveva trovato negli Stati Uniti un valido mezzo per
garantire la volontà popolare senza lasciare spazio ad eventuali derive autoritarie. Ma l’intento di fare del Presidente della Repubblica anche il Capo del Governo fu desideroso di ricevere il consenso
di tutti i quarantaquattro Stati membri, nonostante l’iniziale avversione dei movimenti di sinistra italiani e del Partito Socialdemocratico tedesco; contrarietà subito mitigata, oltre che dalle elezioni intermedie, dall’adunanza del Parlamento plenario in casi gravi.
L’art. 96 della Carta sanciva, infatti, che qualora l’operato del Governo fosse stato causa di effetti
tali da minare la stabilità dell’Unione, il Presidente sarebbe stato convocato dalle Camere riunite in
seduta comune e invitato a dimostrare l’opportunità politica delle sue scelte. Se, in quella sede, costui non fosse riuscito a giustificarsi in modo esaustivo, l’art. 96 proseguiva con l’approvazione, da
parte dei Parlamenti nazionali, di una mozione che avviava la procedura di impeachment. Nel II Libro della Costituzione, oltre alle varie ipotesi di messa in stato d’accusa, erano elencate anche le fasi
successive per il giudizio e la sentenza verso il Presidente.
Speaker del Parlamento plenario era il Presidente del Senato, nonché la seconda carica dello Stato. Non era questo un modo per ammansire pruriti italiani, giacché anche a Roma tale carica era uguale. Mentre in Italia tale prerogativa non era altro che un retaggio dello Statuto Albertino, nel
quadro istituzionale dell’U.N.E. costui era il Presidente della Camera rappresentativa delle varie
Nazioni. Certo, l’Assemblea dei Deputati era l’alter-ego della sovranità delegata, ma il Senato rimaneva pur sempre lo specchio di vari poteri d’imperio dei singoli Stati confluenti in un unico Consesso. Per tale motivo il Presidente della Camera Bassa, nei casi di seduta plenaria, sedeva sugli scanni
dell’Emiciclo come un membro qualunque. Ma quel giorno il Parlamento non aveva né Presidente,
né Vice. La Carta stabiliva che, all’indomani delle elezioni, il Senatore cui era stato attribuito il
maggior numero di preferenze avrebbe svolto le funzioni di Speaker e diretto le procedure di elezione delle gerarchie parlamentari, alle quali sarebbero seguite le costituzioni delle Commissioni. Anche se, straordinariamente, i Delegati Esecutivi erano già stati tutti nominati, era quello il termine
assegnato al Capo dello Stato per completare la lista dei ministri da sottoporre alla presa d’atto delle
Camere.
Il tempo, però, passava e l’attesa diventava snervante. La ressa all’esterno dell’Aula si faceva
sentire con un profondo malumore per il protocollo trasgredito. Tutti si chiedevano perché il Presi-
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dente ritardasse tanto, finché, dalla grande porta laterale, non apparve un uomo in frac nero che, con
fare compassato e solenne, si accostò al banco del Governo.
“Ladies and Gentlemen Deputies and Senators... Mesdames et Messieurs Député et Sénateures...
Signore e Signori Deputati e Senatori...!” – esordì il commesso – “...the President of the Union of
the European Nations... le Président de l’Union des Nations Européens... il Presidente dell’Unione
delle Nazioni Europee!” – concluse, dopo circa dieci minuti impiegati per annunciare, nelle varie
lingue, l’entrata del Capo dello Stato.
I fotoreporter si accalcarono, allora, sulle balconate delle tribune per riprendere l’ingresso di chi
avrebbe consegnato il Presidente della Commissione Europea alla Storia. Un uomo sulla settantina e
con tutti i capelli bianchi, elegante ed emozionato, varcò la soglia dell’Emiciclo; gli uomini della sicurezza rimasero invece fuori e all’erta. La preparazione era stata lunga e scrupolosa per sventare
eventuali attacchi terroristici o la brama di mitomani che vedevano nell’evento storico l’occasione
per farsi pubblicità o per far spargere un po’ di sangue e d’inchiostro in più ai giornali di mezzo
mondo. Un lungo e fragoroso applauso di tutte le forze politiche, alzatesi in piedi, accompagnò il
Presidente per il breve tragitto che lo condusse al suo scranno, dopodiché tutti si risedettero e un religioso silenzio piombò sull’Aula. Lo Statista si rizzò sulla schiena e inspirò profondamente per infondersi coraggio ed evitare che l’adrenalina incalzante nel suo corpo gli giocasse un brutto scherzo
emotivo. Si volse poi a destra e a sinistra e, con un cenno del capo, salutò i ministri che pendevano
dalle sue labbra, quindi l’anziano soldato prestato alla politica si accinse a tenere il suo primo discorso ai parlamentari armati di cuffie per la traduzione simultanea e, di riflesso, agli uomini della
stampa e della TV.
“Possiamo dare inizio ai lavori!” – esordì il Presidente provvisorio del Senato avvicinatosi al microfono – “Oggi 2 Gennaio 2017 si procede alla prima adunanza del Parlamento plenario!” – aggiunse, mentre gli stenografi, seduti al tavolo fra l’Emiciclo e il Banco del Governo, riportavano fedelmente le sue frasi; come da galateo parlamentare, lo Speaker diede subito la parola al Capo dello
Stato – “Ha chiesto di parlare il Presidente dell’Unione delle Nazioni Europee! Prego... ha facoltà!”
– e si abbandonò sullo schienale.
Lo Statista alzò lo sguardo, volse gli occhi alla platea e, dopo un lungo respiro, si accinse a discorrere.
“Grazie, signor Presidente! Onorevoli parlamentari, membri del Governo...!” – iniziò lo Statista
abbagliato da innumerevoli flash – “...dopo una campagna elettorale avvincente e un voto significativo da parte dei cittadini dell’ormai vetusta Unione Europea, dei Paesi del Vicino e del Medio Oriente e dell’Africa Settentrionale, siamo oggi riuniti per celebrare la volontà di tutti a partecipare
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alla vita politica del Bacino del Mediterraneo e non solo! Una volontà dovuta e sofferta, per adempiere l’obbligo che i nostri Padri sancirono con il Trattato di Roma nel 1957!”
A queste parole cariche d’orgoglio, l’uomo fu interrotto da un accorato applauso, mentre la Maggioranza si alzava in piedi.
“Da oggi...!” – riprese il Presidente annuendo in segno di riconoscenza – “...tutti noi saremo
chiamati ad una missione storica! Saremo noi coloro i quali guideranno quel cammino condiviso
che dovrà rendere il nuovo Patto, instaurato con tutti i popoli mediterranei, valevole di ostentazione,
affinché i nostri cittadini siano orgogliosi di essere europei a dispetto degli ostacoli di ordine nazionalistico che, per decenni, hanno impedito la costruzione di una casa comune continentale che potesse racchiudere tutta la civiltà maturata nei secoli! Questo era il desiderio! Un ambizioso sogno di
fratellanza e di fusione di culture che, finalmente, vede oggi i natali! La nascita di un’Intesa che porterà l’Unione delle Nazioni Europee a vertici così alti come non se ne sono mai visti in oltre diecimila anni di storia umana!” – aggiunse con ancor più fervore. Un altro applauso fece da punto esclamativo al discorso del Presidente il quale, emozionato, sospese di parlare per bere un po’
d’acqua – “È dovere di questo Governo...!” – riprese – “...tracciare una prima linea di condotta per
dare personalità al neonato Stato unificato che, da oggi, ho l’orgoglio di governare! Mi sento come
il padre di un bimbo che muove i primi passi verso un futuro incerto e insidioso, ma che potrebbe
dare grandi soddisfazioni a tutti noi e a chi, in sessant’anni, ha fermamente creduto che fondere le
anime nazionali, fino a ieri divise e incomprese, fosse l’unica via per rendere competitivo e politicamente solido l’intero Continente! La sfida che ci accingiamo ad accettare è di portata memorabile,
ma il confronto cui siamo chiamati oggi a sostenere è oneroso quanto allettante! Certo... errori se ne
commetteranno! Ma la nostra Storia e la nostra Civiltà perfezionata nei secoli mi convincono che,
nonostante i falli che in qualche modo potranno intralciare il processo appena avviato, proprio da
questi noi sapremo risorgere come sempre abbiamo fatto e come sempre faremo! Ci siamo reinventati Onorevoli parlamentari, a coronamento di un sogno a lungo coltivato ed ora reso reale! Personalmente...!”
All’improvviso, l’uomo venne interrotto da un urlo terrificante provenire dall’alto della lunga
scalinata di fronte a lui. Il Presidente vide un pazzo che iniziò a lanciare grida forsennate e ad inveire contro i presenti, agitando un oggetto metallico tenuto in mano. Tutti atterrirono quando si accorsero che si trattava di una bomba a mano. Gli addetti alla sicurezza, con i loro auricolari, tentarono
perciò di approntare il piano di emergenza per sventare le mosse squilibrate del folle, penetrato fin
dentro l’Aula in barba a tutti i protocolli di sicurezza per mesi studiati.
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“Voi... voi... non riuscirete a resistergli!” – gridò l’esaltato tenendo ben saldo l’ordigno, mentre
puntava l’indice dell’altra mano verso il Presidente – “Pazzi illusi della vostra potenza...!” – aggiunse con gli occhi in fuori, di certo sotto l’effetto di droghe.
Intanto, dei cecchini si disponevano sulle tribune spostando, con estrema cautela, alcuni cronisti
e spettatori atterriti; ma la paura iniziò ad impadronirsi dei presenti e più di un Senatore accusò un
malore che lo fece accasciare sulla spalla del vicino.
“Fermo tu... bastardo di un politico corrotto!” – inveì il pazzo impugnando una pistola, per poi
puntarla verso il parlamentare che aveva tentato di prestare soccorso al collega privo di sensi. Fu un
attimo: un colpo fiammeggiante esplose dalla semiautomatica. Il Senatore crollò, colpito a morte in
piena testa, mentre un fiotto di sangue schizzava dal suo cranio fin sui volti dei vicini e sui banchi
dell’Aula. Un urlo di terrore, specie delle parlamentari, echeggiò per l’Emiciclo, subito smorzato da
altri colpi esplosi in aria dal pazzo – “Così impari a star fermo!” – mormorò il balordo fissando, con
occhi sbarrati, il corpo esanime del Senatore – “E questo vale per tutti!” – gridò poi girandosi intorno a sé, ma agitando sempre la bomba in bella vista.
Tutti allibirono, pietrificati dal panico. Se, nonostante i sistemi di difesa, quell’uomo era riuscito
ad irrompere in Aula armato, fosse stato un professionista li avrebbe fatti saltare in aria, riuscendo
magari a piazzare una bomba sotto ogni scanno. Ma quel pazzo, visibilmente preda di una tonnellata
di allucinogeni nel sangue, poteva essere fermato già all’ingresso del Palazzo, anziché mettere sotto
scacco l’Assemblea e sotto tiro il Presidente dell’Unione.
“Mi ascolti...!” – urlò il Capo dello Stato, sgualcendo i fogli tenuti in mano per frenare la paura.
A quel richiamo, il folle si volse verso di lui e lo fissò mentre la sicurezza, sperando che questo gli
avrebbe fatto abbassare la guardia, mirava dietro il piccolo cannocchiale di un fucile di precisione,
pronta a fargli saltare la testa. Il momento era grave e lo Statista stava rischiando in prima persona,
timoroso di fare la stessa fine del Senatore accasciato sul banco e con le braccia penzolanti – “...se
posso fare qualcosa per lei... sono qui ad ascoltarla e...!”
“Zitto!” – proruppe il pazzo, per poi puntare audacemente la pistola contro il Presidente – “Non
c’é niente che voi, stupidi ingenui, possiate fare! Niente! Nessuno potrà fermarlo! Lui piomberà su
di voi seduto sulla groppa dell’Aquila! Essa... sta per tornare! La sua Ombra già vi sovrasta e il vostro insignificante proposito sarà spazzato via da un solo battito d’ali! E questo...!” – gridò ancor di
più, mostrando la bomba a mano – “...è solo l’inizio!”
Il folle tolse la sicura. Subito dopo, un cecchino esplose un colpo di fucile che lo centrò al volto e
lo fece stramazzare al suolo. Innescato, l’ordigno cadde a terra e rotolò fino a cacciarsi sotto il banco degli stenografi. Fu il caos. Terrorizzati, tutti urlarono come impazziti e tentarono di fuggire,
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mentre il Presidente e il Governo, protetti dagli agenti di sicurezza, venivano fatti uscire dalla porta
laterale. Poi lo scoppio, fragoroso quanto assassino, che rimbombò nell’Aula, amplificato dalla volta gotica che la sovrastava. Chi non riuscì a scappare venne sbalzato lontano, per poi precipitare a
terra, straziato dall’esplosione e privo di vita. Tutto ripreso dalle telecamere, le quali mandarono in
onda e dal vivo l’apocalittica scena.
Un cratere di circa quattro metri per due apparve dopo che la nube di polvere e detriti si dissipò. I
cronisti, di cui tanti stesi a terra e piagati dall’esplosione che investì anche le tribune, tentarono di
aiutarsi fra loro per fermare il sangue grondante dalle ferite. Lamenti disperati si udivano nell’Aula,
mentre i superstiti vagavano, piangenti, fra gli scanni divelti e imbrattati di carne umana per soccorrere i più colpiti. Dopo circa un’ora, i feriti e i cadaveri dei parlamentari uccisi furono portati via; i
resti del folle erano invece già all’obitorio per essere esaminati della Procura. Intanto, il Governo si
riuniva al quarto piano del Campidoglio per fare il resoconto dell’attacco che aveva insanguinato il
primo giorno di Legislatura.
“Come è stato possibile! Come!!” – urlò il ministro dell’Interno scuotendo la testa, incredulo di
come l’apparato di sicurezza avesse subìto un affronto così grave da causare la morte di dieci parlamentari e dell’attentatore stesso.
Il Presidente, ancora sotto choc, rimaneva in silenzio; le mani giunte e le bianche sopracciglia
aggrottate, che celavano in parte lo sguardo fisso verso i ministri, erano eloquenti della frustrazione
per non essere riuscito a convincere il folle a desistere.
“Signore, la Federpol fornisce già un’identità dell’attentatore! Si tratta...!” – aggiunse il sottosegretario alla Sicurezza Nazionale, leggendo alcuni fax che la polizia federale gli aveva subito trasmesso – “...di un italiano, un certo Gneo Marchi...!”
“Gneo?” – interruppe il ministro del Bilancio, anch’egli di nazionalità italiana – “...non è un nome usuale in Italia... almeno non al giorno d’oggi! Sembra che sia... di origine romana!”
“Romana?” – chiese il Capo dello Stato, protendendosi verso il tavolo – “Spiegati meglio, Guido!”
“Voglio dire che Gneo era un nome usato in Roma antica e...!”
“Non fa alcuna differenza se quella carogna si chiamasse Gneo o Trebonio!” – interloquì Domenico Flavi, ministro degli Esteri, pure lui italiano – “È inaccettabile che costui abbia attentato alla
vita di centinaia di persone con il suo gesto folle! Ha ucciso dieci parlamentari e stava per eliminare
pure il Presidente! Ciò che m’infastidisce è che quell’animale era nostro connazionale! Vedrai domani le critiche feroci sui giornali tedeschi e britannici!”
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“Non ci voleva! Qualcuno gli ha permesso di entrare in Campidoglio armato fino ai denti per
porre in atto il suo proposito! E... per poco non c’è riuscito!” – riprese lo Statista accendendosi un
grosso sigaro che appestò la stanza di un olezzo nauseante.
Proprio in quel momento, un funzionario dell’Ufficio di Presidenza entrò con un fax su foglio di
carta intestata in mano e lo portò al ministro dell’Interno, il quale lo afferrò, ringraziò l’impiegato e,
dopo aver inforcato le lenti, ne lesse il contenuto.
“Signore! Dai primi rilievi, l’unica traccia visibile che la Federpol ha potuto riferirci dietro consenso della Procura è un tatuaggio all’altezza dell’ombelico raffigurante... mah...!”
“Qualche dubbio, Derek?” – chiese il Presidente, incuriosito.
“Beh... un’aquila!” – rispose il ministro, titubante – “Un’aquila dalle ali spiegate su una mano
aperta e rivolta all’ingiù!” – aggiunse, annuendo poi al collega, il quale si rizzò sulla schiena.
“Si può sapere cosa avete di così misterioso voi due?”
“Signore...!” – riprese il ministro del Bilancio – “...il nome e questi simboli sono prettamente...
Romani!”
“Vuoi farmi credere che forse abbiamo a che fare con una setta di esaltati che professa qualche
culto romano?” – replicò il Presidente, stizzito – “Mio Dio signori! Abbiamo subìto un attentato nel
giorno inaugurale del Parlamento e del Governo che sancisce la nascita dell’Unione delle Nazioni
Europee! Siamo vivi per miracolo, al contrario di dieci parlamentari dei quali, a momenti, non se ne
trovano più i pezzi! E tutto sotto gli occhi del mondo! E voi... voi mi raccontate che un insulso tatuaggio potrebbe essere essenziale per capire chi o cosa abbia potuto muovere quel pazzo drogato?
Non fatemi ridere perché, francamente... non ne ho voglia!”
“Suggerirei una cosa!” – riprese Flavi alzandosi in piedi.
“Spero sia sensata!” – mormorò il Capo dello Stato.
“Aspettiamo...!” – suggerì il ministro – “...e vediamo quali pieghe prenderà l’inchiesta che la
Procura avvierà! Poi, valuteremo! Credo sia prematuro dar luogo a congetture che potrebbero, un
domani, rivelarsi del tutto errate!”– concluse, appoggiandosi con i pugni sul tavolo, ma fissando lo
Statista.
“Ok! Attendiamo!” – rispose il Presidente che, di certo, non nascondeva profonda stima verso
quell’uomo fortemente voluto nel suo Governo come responsabile delle deleghe diplomatiche –
“Chissà... magari potrebbe giungere qualche rivendicazione alle agenzie di stampa!”
“Perfetto!” – disse Flavi – “A questo punto, Derek... dovrai fare del tuo meglio per convincere
l’opinione pubblica che quello di oggi è stato solo il gesto scriteriato perpetrato da un folle mitoma-
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ne scappato da chissà quale manicomio! È ovvio, signori...!” – aggiunse flettendosi leggermente per
poi fissare i presenti – “...che dobbiamo essere tutti d’accordo su questa linea!”
Il tono di voce si fece più tenue, come a non voler far sentire nulla all’esterno. I colleghi acconsentirono, convinti dell’astuzia politica del delegato agli Esteri, il quale, risedutosi sul suo scranno
girevole, rivolse lo sguardo al Presidente per cercare un segno d’approvazione alla sua idea; cenno
che puntualmente arrivò e che compiacque il giovane ministro.
“Hans...!” – riprese lo Statista rivolgendosi al titolare della Giustizia – “...tienimi informato sugli
sviluppi che la Magistratura accerterà e che permetterà al nostro servizio informativo di diffondere!
Per altre delucidazioni, ricorreremo ai nostri Servizi Segreti! Adesso... dobbiamo organizzare il funerale!”
“Credo di sì!” – rispose il ministro dell’Interno – “Me ne occuperò io! Naturalmente... funerali di
Stato!”
“Purtroppo!” – mormorò il Presidente affilandosi in viso per poi rimanere qualche attimo in silenzio; riavutosi, riprese a parlare – “Prima di procedere alle solenni onoranze funebri, lasciamo che
la Magistratura faccia il suo dovere! Speriamo che dai rilievi si possa giungere ad un’ipotesi! Dopodiché... fisseremo la data della cerimonia! Per ora è tutto, Signori!” – finì, alzandosi dalla poltrona –
“Tu no!” – disse rivolgendosi a Flavi.
I due attesero che tutti fossero usciti. Appena soli, il Presidente, ancora scosso, si versò da bere
da una bottiglia di whisky tirata fuori dal bar che un congegno attivato da un pulsante fece balzare
da due ante d’uguale colore del tavolo.
“Serviti pure!” – esordì lo Statista con un italiano stentato.
“Grazie!” – rispose Flavi mescendo un po’ di whisky in un largo bicchiere di spesso cristallo di
Murano, molto prezioso.
“È grave!” – mormorò il Presidente dopo aver bevuto un sorso del suo liquore, senza scostare però gli occhi dal bicchiere.
“Sissignore! È molto grave! Chi ha scatenato l’Inferno in Parlamento aveva di certo forti agganci
che lo hanno fatto prima entrare, mandando in malora tutti i body-scanner del Palazzo, e poi lo hanno aiutato a portare a termine il suo piano!”
“Oppure... le armi erano già dentro e costui sapeva dove erano e come servirsene una volta penetrato in Campidoglio!”
“Può darsi! Tuttavia... escludo sette o congreghe religiose!”
“Anch’io!” – convenne il Presidente annuendo.
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“Da parte mia... vedrò di calmare gli Stati confinanti e quelli nazionali che compongono l’Unione
qualora la scusa del pazzo mitomane non dovesse far presa! Spero solo di essere convincente!”
“Bravo! Sappi che mi aspetto molto da te e...!”
“Non ti deluderò! Stanne certo!”
“Lo so... lo so!”
IL FURTO
L’INGENUITÀ DI GLORIA
La donna alzò lentamente il capo. Riflessa allo specchio, scoprì due borse, pesanti tonnellate,
sotto gli occhi smeraldi.
“Mamma mia! Che mostro!” – pensò alzando le sopracciglia per scrutarsi ancor di più il volto affaticato da due settimane trascorse insonni per imbastire un’inchiesta, poi defraudata; un camicione
bianco ricamato di pizzo lasciava intravedere, dagli orli molto larghi, la parte superiore di due seni
opulenti.
Con una mano Gloria si reggeva sul bordo del lavandino, mentre con l’altra cercava di stirarsi alcune rughe del viso che credeva fossero originate da una vecchiaia precoce; in realtà si trattava solo
di pieghe causate dalla federa increspata del cuscino. Stanca di studiarsi, la donna si allontanò dallo
specchio e si accomodò per rispondere alle urla che la natura le lanciava da almeno due ore, tempo
durante il quale era rimasta a crogiolarsi fra il caldo delle coperte. Poco dopo, però, si riassopì sulla
mano che le reggeva la testa, mentre il gomito premeva sul ginocchio. Riavutasi di scatto, sentì le
gambe indolenzite e intirizzite, poiché dalla finestra entravano spifferi talmente gelati da renderle la
pelle delle gambe peggio della carta vetrata. Tentò di alzarsi, ma la posizione assunta era stata così
innaturale da farle avvertire un fastidioso formicolio per tutta la gamba e un dolore pungente appena
accennava a qualsiasi movimento. Cessato il brulichio, si rizzò in piedi e si denudò: due corone rosa
alla base di altrettanti irti capezzoli resero, per quanto piccola fosse, molto erotica la sua figura. Tirato lo sciacquone, la donna si avvicinò alla vasca per una doccia calda e rilassante, ma, ripassando
davanti allo specchio, un altro sussulto la costrinse, nonostante il freddo, a fermarsi e a studiare ancora il suo corpo. Gloria iniziò a tastarsi e a maledire quelle cicatrici lungo il ventre e il torace; alzò
un seno e riscoprì un’altra traccia rosa alla parte inferiore dello stesso, non riuscendo ancora a farsene una ragione di quella linea irregolare, indubbiamente antiestetica. Si girò e ritrovò altri solchi rosacei lungo la schiena, tanto da impedirle di indossare abiti succinti sul dorso.
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Ogni mattina rivedeva quelle ferite e ripensava al medico dell’ospedale che le raccontava le tristi
conseguenze dell’incidente stradale. Tuttavia, la donna non ricordava nulla al di fuori delle parole
pronunciate dal dottore. Si scostò dallo specchio ed entrò nella vasca, lasciandosi poi massaggiare
da una doccia ristoratrice che la riscaldò e che sperava potesse farle smaltire la stanchezza del periodo e lo stress di una notte da dimenticare. Era molto delusa dal fatto che l’uomo a cui si era intimamente concessa non si era neanche degnato di aspettare il suo risveglio e di augurarle una buona
giornata. Si sentiva sporca e gettata come un rifiuto. Ciò che, però, la deprimeva era la disinvoltura
con la quale la mollavano tutti gli uomini che incontrava; sembrava una condanna, pesante da scontare. Molte sue amiche vivevano esaltanti esperienze di coppia con i rispettivi partner, ma a lei questo percorso di vita sembrava negato e inaccessibile.
Disillusa, Gloria chiuse il miscelatore della doccia e uscì dalla vasca, indossò l’accappatoio coprendosi la testa con il cappuccio e si sedette, triste, sulla sedia dirimpetto alla specchiera illuminata. Guardò poi l’ora da una specie di enorme orologio da polso attaccato al muro e si accorse che erano già le 7,30. Era tardi, ma di andare a lavorare non ne aveva proprio voglia: l’articolo, cui aveva
dedicato due settimane di sfibrante lavoro, era stato oggetto di scambio e carpito da rivali in redazione. Era furente, anche se scoraggiata. Eppure l’avevano avvertita che nei corridoi del giornale si
aggiravano lupi anziché colleghi, pronti a saltare alla gola del primo sprovveduto. La donna si alzò
di scatto e, rimproverandosi per la sua ingenuità, iniziò ad asciugarsi il corpo con rabbia.
Le 8,00: Gloria, in strada, tentava di avviare la sua utilitaria per andare a guadagnarsi la pagnotta,
anche se, intimamente, desiderava andarci con un bazooka. Di certo avrebbe fatto tardi, visto il traffico di quell’ora. Pazienza; avrebbe sopportato l’ennesimo richiamo del suo caposervizio. Un’ora
dopo, la donna varcava il cancello d’ingresso del giornale e svoltava per i parcheggi sotterranei.
Percorsa una breve discesa, sostava poi accanto ad una lussuosa berlina, facendo stridere gli pneumatici sul pavimento liscio dei garage. Uscita dall’abitacolo con la cartella in mano, chiuse l’auto e
si avviò verso gli ascensori. Giunta al quarto piano, faticò ad uscire dalla cabina per i colleghi che vi
si riversarono. La urtarono e la spinsero, tanto che la cartella cadde a terra e, apertasi, fece fuoriuscire tutte le carte dal suo interno, sparpagliandosi, come impazzite, per il corridoio.
“Grazie tante!” – mormorò, trattenendo in gola un accidente verso quei cafoni che, forse, non si
erano neppure accorti di lei.
La donna rimase qualche attimo a fissare quei fogli sparsi a terra. Sospirando, si inginocchiò e si
cacciò i lunghi capelli neri da un lato della testa, mostrando buona parte delle gambe dalla gonna
scura che indossava. Prese le carte e li spinse con rabbia nella borsa, senza far caso che un suo superiore si era piazzato alle sue spalle per assistere a tutta la scena, oltre a gustarsi il panorama.
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“Non credo che lei addurrà questo incidente come pretesto per giustificare il suo ritardo!” – esordì tenebrosamente l’uomo con le braccia incrociate e con il piede che batteva a terra.
Spaventata, Gloria si rizzò di scatto in piedi e si girò verso il suo superiore, mentre le carte le scivolavano dalle mani e cadevano leggere al suolo, sparpagliandosi ancora. I due si fissarono per
qualche attimo finché l’uomo, appagato della carognata appena inferta, si allontanò e la lasciò di
sasso.
“Che giornata da cani!” – rifletté la donna scuotendo il capo.
Non era difficile capire che quello era un periodo in cui tutto sarebbe andato storto, come se il
genere umano, il destino e tutti gli accidenti di questo mondo si fossero coalizzati contro di lei. Amareggiata, si chinò di nuovo e si rimise a raccogliere le carte dal pavimento lucido. Giunta finalmente nella sala-reporter, Gloria trovò una trentina di colleghi che, dietro le loro scrivanie e intenti a
stendere gli articoli da inviare alle rotative, affollava la stanza in fila di tre. Anche se adirata per il
furto subìto, la donna entrò e, in silenzio, attraversò la sala avvertendo, alle spalle, la malizia con cui
i colleghi, appena superati con passo frettoloso, la irridevano. Raggiunto il tavolo di lavoro, si sedette e si guardò intorno con fare sospetto, finché non scorse una collega, e amica intima, avvicinarsi e
sedersi proprio di fronte a lei, fissandola poi con le sopracciglia alzate. La donna stentò a ricambiare
quello sguardo penetrante; anzi, aprì il cassetto e tirò fuori una boccetta contenente delle piccole pillole bianche. Nervosamente la aprì e la capovolse, facendone scivolare una nella mano. Quindi la
inghiottì senza neanche bere un sorso d’acqua.
“Guarda che potrebbe andarti di traverso, così!” – accennò l’amica, mentre incrociava le braccia.
“E allora? Mica mi aspetto che una giornata iniziata male finisca meglio! E poi... non credo siano
affari tuoi se e come m’impasticco!” – rispose stizzita Gloria sgranando gli occhi, poiché la pillola
stava davvero andando a finire nella trachea.
“Oh... io dicevo così... per sdrammatizzare! Comunque, se la cosa può consolarti...!” – riprese la
collega alzandosi – “...anch’io sono stata fregata tempo fa! Proprio come lo sei stata tu!”
“Quindi è vero! Mi hanno rubato il pezzo! Dimmelo, Claudia! Dimmelo!” – reagì la donna.
Nell’animo crebbe il fuoco. Aveva finalmente la prova di quanto supposto nel bagno di casa sua.
Avrebbe voluto strozzare chi l’aveva raggirata così facilmente, anche se si rendeva conto che la
causa del furto era proprio da addebitare alla sua imprudenza.
“Santo Cielo... Gloria! Qui dentro lo sapevano tutti tranne te! Non hai capito che hanno gareggiato per vedere fin dove arrivava la tua ingenuità? Quante volte ti ho ripetuto di stare attenta e di
guardarti le spalle?” – proruppe la collega; ma poi si calmò – “Non te la prendere! Non ne vale la
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pena e soprattutto... non tentare inutili rappresaglie! Dopo essere stata scippata del marito... ho imparato una cosa che credo tu non abbia ancora capito!”
“Cioè?” – chiese Gloria, scostando gli occhi da Claudia per prendere una sigaretta, con
l’intenzione di fumarsela più tardi.
“Non mi fido! Neanche di quello appeso all’entrata e che questi signori, qua dentro, neppure si
sognano di rispettare!” – rispose la collega additando un crocifisso sopra la porta d’ingresso della
sala-reporter; Gloria, girando la sigaretta spenta fra le dita, volse istintivamente gli occhi verso il
Cristo indicato dall’amica.
“Credo... credo che tu abbia ragione!”
“Detesto aver ragione!” – mormorò Claudia – “Stasera al solito posto! Puntuale, mi raccomando!” – aggiunse; quindi si allontanò dalla donna dopo averle dato una pacca sulla spalla.
Gloria si abbandonò sullo schienale della sedia, si portò la sigaretta spenta alle labbra e incrociò
le mani dietro la nuca, sperando di assumere un’aria da “dura”. Aveva imparato molto dall’accaduto
e dalla sua permanenza nel giornale. Perché affidarle sempre fatti di poco conto che nessuno mai
legge? E le promesse del Capo Redattore e del Direttore, rivelatesi lettera morta? La donna osservava i colleghi maschi e capì la malizia che si celava dietro gli sguardi che ogni tanto le lanciavano.
Avrebbero dato ognuno un braccio per passare una notte di fuoco con il suo corpo minuto e sfuggente come un’anguilla, per poi gettarla come immondizia o, magari, schiacciarla come una blatta
rivoltante per evitare che potesse montarsi la testa. La notte trascorsa con chi l’aveva adulata per
due mesi e che non si era poi neanche degnato di attendere il suo risveglio, era la riprova. Forse
l’infame era in quel preciso istante al bar del giornale ad offrire caffè e a raccontare ai colleghi
quanto saporiti fossero i suoi seni.
Provò ribrezzo verso se stessa e verso quelle mani che, ricordava, la toccavano ovunque, ma si
sentiva ancor più come una perfetta idiota per aver fatto credere, specie alle colleghe, di essere colei
che, per far carriera, si concedeva sessualmente a tutti e che, però, concludeva cattivi affari con questo metodo. Al pensiero di avere due orecchie da asino a decorarle il volto, Gloria scosse il capo;
prese poi la cartella da terra e la sbatté sul tavolo, facendo sussultare parecchi colleghi per il botto
improvviso. Compiaciuta di averli spaventati e di aver attirato l’attenzione con un semplice gesto risoluto, la donna accennò un ghigno. Tentò, quindi, di aprire la cartella, ma si rese conto che, nonostante fosse nuova di zecca, il suo gesto istintivo aveva causato la rottura del manico. La ispezionò
meglio e si accorse di aver impiegato tanta di quella forza da strappare letteralmente l’impugnatura
dai suoi agganci.
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“Porca putt...!” – mormorò con la sigaretta alle labbra – “...ottanta euro buttati dalla finestra!” –
aggiunse, storcendo la bocca.
Ad un tratto, un collega con un sorriso a trentadue denti e gesti volutamente teatrali entrò nella
sala-reporter scambiando saluti a destra e a manca. Gloria si alzò di scatto e, così furiosa da quasi
tremare, gettò la sigaretta sul tavolo e si precipitò verso di lui. Fermatasi a poca distanza dall’uomo,
come a volergli bloccare il passo, questi, sorpreso, la fissò negli occhi ardenti e vogliosi di fargli
passare quel sorrisetto da ebete.
“Devo parlarti, Alberto!” – esordì Gloria con le mani ai fianchi, mentre alcuni colleghi trattenevano a stento, e a via di cazzotti, risate di scherno – “Ehi, voi tre! Sapete che sapore hanno le vostre
palle?” – chiese volgarmente a coloro che la irridevano – “Se non la finite, dal binario quattro vi arriva una pedata a ciascuno di voi che ve li sentirete galoppare in bocca!”
“Oh, Dio mio! La bimba si è arrabbiata!” – rispose uno dei tre che continuava a beffeggiarla, fingendo di essere impaurito.
“E tu lo sai che sapore hanno, gioia? Oh... sì che lo sai!” – aggiunse un secondo collega, spalle a
Gloria.
Per la battuta, gli altri due non si trattennero più e le risa echeggiarono nella sala, mentre la donna sentiva dentro di sé il furore voler esplodere.
“Gloria... mi volevi parlare o no?” – interloquì Alberto per distrarla dai colleghi.
“Vieni con me! Fuori!”
“Va bene... d’accordo!” – rispose Alberto, allargando le braccia.
Gloria allungò il passo e lo superò, ignara che l’uomo le faceva il verso alle sue spalle per far divertire ancor di più i colleghi. Appena fuori, la donna si fermò e lo attese con le braccia incrociate,
mentre un piede batteva a terra per scaricare la tensione.
“Allora... cosa c’è di tanto impellente da dirmi?”
“Vi state divertendo, non è così?”
“Che intendi dire, Gloria?”
“Tu non ne sai niente, vero?” – insistette la donna.
“Non capisco di che parli!”
“Non fare il finto tonto con me, Alberto!” – proruppe Gloria, puntandogli l’indice in faccia –
“Solo tu sapevi su cosa stavo lavorando per questo maledetto giornale! Ho impiegato due settimane
per stendere l’articolo da mostrare al Direttore, e a ventiquattr’ore dall’incontro me lo vedo soffiare
da una stronza che darebbe volentieri un braccio per vedermi sbattere fuori di qui!”
“Ma che dici? Vedi fantasmi da tutte le parti e...!”
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“Fantasmi? Bastardo... pensi che sia nata ieri? Io mi ero fidata di te, ma stamattina ho capito tutto! Prima mi dai gli impulsi e mi fai lavorare come una forsennata con l’illusione che tutto ciò lo fai
per me, per darmi coraggio, e poi, a cose fatte... mi vendi alla prima che ti allarga le gambe meglio
di me!” – sbottò Gloria.
“Ehi... ma che ti prende? Ti sei alzata col piede di traverso?”
“Te lo do io un piede di traverso!” – borbottò la donna, tentando di assestare un calcio agli stinchi dell’uomo con la punta delle scarpette; Alberto fu però più rapido e le bloccò la gamba.
Gloria provò allora con un pugno, ma l’uomo le agguantò il polso e la spinse fin dentro i bagni
poco distanti. Ormai soli, Alberto la girò fronte al muro e gli saltò addosso con tutto il suo peso, impedendole di muoversi.
“Bastardo!” – mormorò Gloria accesa in volto, mentre cercava di dimenarsi – “Tu sapevi che mi
stavano facendo le scarpe e... Giuda... sei lo stesso andato a letto con me! Il tuo trofeo, vero? Hai
approfittato della mia buona fede per fare il tuo comodo!”
L’uomo non parlava, ma dal suo silenzio era chiaro che Gloria avesse pienamente ragione delle
sue congetture.
“Lasciami... mi stai facendo male!” – urlò la donna nel tentativo, vano, di divincolarsi. Ma Alberto le prese i capelli da dietro e con violenza glieli tirò, trasformando il suo viso delicato in una maschera di dolore. Gloria sembrava ora un lupo senza difese, con la gola pronta per essere azzannata.
“Ora ascoltami bene, bellezza!” – mormorò Alberto, truce in volto e a pochi centimetri dal naso
della donna dolorante – “Cosa vuoi da me, eh? Che ti porti all’altare con tanto di confetti e Mercedes? Le troie come te si scopano finché è possibile, punto e basta!” – aggiunse, ferendola ancor di
più nell’animo – “Non intendo perdere altro tempo con te, chiaro? Puoi andare anche a raccontarlo
al Direttore! A chi pensi possa credere quel vecchio idiota, eh? A chi?” – le urlò all’orecchio; quindi
la girò e iniziò a scuoterla senza, però, mollarle i capelli.
“Lasciami...! Aiutatemi...!” – strillò Gloria.
“Stammi bene a sentire!” – intimò Alberto strattonandole la chioma nera; piegò poi un ginocchio
e, mentre la gonna di Gloria si alzava oscenamente, l’uomo lo insinuò fra le sue gambe fino a sfregarglielo all’inguine – “Qui dentro sei solo un pezzo del meccanismo e bada che se l’ingranaggio
non funziona a dovere, la prima che salta come un elemento avariato sei proprio tu! Fuori di qui...
chissà... potresti farti ingaggiare da qualche pappone e competere con tante altre puttane dell’EUR!”
– finì l’uomo. Quindi, disgustato, la spinse lontano senza, però, lasciarle i capelli, alcuni dei quali si
strapparono e gli rimasero in mano.
Un urlo straziante risuonò nei bagni, tanto che un collega entrò per vedere cosa stesse accadendo.
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“Ma che succede, qui?” – fece l’uomo; Gloria gemente e dolorante alla testa, era seduta sul pavimento con le gambe piegate e la chioma sfatta – “Che hai fatto a quella donna...?”
“Fuori!” – intimò Alberto con gli occhi accesi dall’ira, mentre si sbarazzava dei capelli spezzati
gettandoli a terra – “Non sono affari tuoi! Mi hai sentito? Fuori di qui, e subito!” – urlò.
“Ok... me ne vado! Ma ne vado!”
Appena la porta dei bagni si richiuse, Alberto si rivolse ancora alla donna la quale, sofferente e
con sguardo basso, si massaggiava la testa dove i capelli le erano stati brutalmente strappati.
“Vedi, gioia? Tutti mi ubbidiscono alla lettera!” – riprese l’uomo mentre si avvicinava a Gloria –
“Peccato che una bella pupa come te debba anche essere un’emerita stronza! Chi ti credevi di essere? Una di quelle emancipate che crede di mettere gli uomini sugli attenti al solo alzare la voce? Mi
fai solo schifo! Capito? Schifo!” – concluse, sputandole a poca distanza.
“Vattene...!” – sussurrò Gloria.
“Sì... me ne vado! Ma...!” – aggiunse Alberto, chinandosi; con una mano le agguantò il mento e
le girò la testa con forza per poi penetrarla con i suoi occhi ardenti – “...lasciami in pace! Fai finta di
esserti divertita pure tu stanotte e basta! Tu non sai che razza di casino posso scatenare nella tua vita! Scordati di me come io ho già cancellato il tuo volto da idiota! Mi sono spiegato?”
I due si fissarono, finché l’uomo non le mollò il mento con violenza e le cacciò lo sguardo
dall’altra parte. Si rizzò poi sulla schiena e, disinvolto, si aggiustò le pieghe del vestito. Un’ultima
occhiata a Gloria, oltraggiata nel fisico e nell’orgoglio, e senza dire una parola uscì. Appena la porta
si chiuse, la donna scoppiò a piangere. Con fatica e singhiozzante provò poi ad alzarsi e a rimettersi
in sesto per affrontare tutti appena fuori dei bagni. Si scrutò allo specchio e vide uno spettro: le lacrime le avevano sciolto il mascara. Ad un tratto, udì la porta riaprirsi; credeva che Alberto fosse ritornato a maltrattarla. Si sentì però più sollevata quando si accorse che era invece Claudia ad entrare
e a chiudere poi la porta dopo aver dato un’occhiata fuori per assicurarsi che nessuno venisse a disturbarle.
“Ti avevo avvertito che non era il caso di tentare rappresaglie, tesoro!” – disse Claudia avvicinandosi verso la piccola, eppur ben fatta, figura di Gloria.
“Cosa vuoi, eh? Va via... non sono...!”
“Come no! Non sono affari che mi riguardano! Certo! Ma... se la cosa può consolarti, guarda che
Alberto lo ha fatto con tutte o quasi qui dentro! Sposate e non, belle e brutte!”
“Anche con me... mi vergogno di...!”
“Sei matta? Di cosa dovresti vergognarti? Di aver passato una notte con chi credevi un affetto
sincero? Bada che ciò che senti tu ora, io l’ho provato tre anni fa e so quale rabbia sale dalle budel-
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la! Tuttavia, a distanza di tempo...!” – proseguì Claudia appoggiandosi al lavandino accanto a quello
sul quale Gloria stava togliendosi, con dell’acqua, il mascara sciolto – “...posso assicurarti che non
rimpiango le notti trascorse con quella carogna! Sa scopare meglio di chiunque abbia conosciuto e
per tale bisogna estimarlo! Non credo che meriti altra considerazione!” – aggiunse, mettendole una
mano sulla spalla; quindi tirò fuori dalla tasca della giacca che indossava un rossetto e un fard e li
pose sul lavandino accanto ai rubinetti – “Ora, se proprio vuoi sopravvivere in questo Paradiso...
dimenticati di tutto, se ci riesci, e vai avanti! Non soffermarti a pensare alle delusioni, altrimenti...
cambia mestiere!”
“Grazie Claudia! Ci penserò!”
“Bene! Truccati di nuovo ed esci da questo cesso! Fronte al nemico e appiccicati un sorriso a
trentadue denti sulle labbra, ok?” – disse Claudia sorridente; quindi se ne andò dopo aver fatto
l’occhiolino all’amica intenta ad asciugarsi il viso ritornato roseo, ma con ancora un forte dolore alla testa.
Decisamente più sollevata, Gloria si ripulì della polvere che aveva addosso e si diede un tocco di
rossetto e di fard. Respirò contando fino a dieci e uscì dai bagni, consapevole di dover affrontare i
colleghi e le risate che, di certo, l’avrebbero accompagnata per tutta la giornata; ma era assolutamente proibito starle a sentire. Fu un furetto; entrò nella sala-reporter e raggiunse la sua postazione
battendo i tacchi sul pavimento, senza rimuginare sui ghigni di scherno che la seguivano. La donna
si sedette e, dopo aver lanciato uno sguardo di sufficienza ai colleghi, si tolse la giacchetta e la appese allo schienale della poltroncina, quindi accese il pc ed entrò in rete per capire cosa stava accadendo al mondo e ai suoi sette miliardi di abitanti, poiché ciò che era capitato a lei lo sapeva già.
Rimase per oltre un’ora in rete, ma nulla trovò di interessante per un nuovo lavoro da portare al consiglio di redazione. Poi l’occhio andò a finire sulla sigaretta che aveva buttato sul tavolo prima di
scontrarsi con Alberto. Gloria si alzò e uscì, poiché lì dentro era vietato fumare e non era proprio il
caso di buscarsi una multa. Appena fuori, si appoggiò sul davanzale di una delle tre grandi finestre
del corridoio e, assorta nei propri pensieri e nelle sue deluse aspirazioni di brillante cronista, si accese la sigaretta e contemplò il Tevere che, impetuoso per le forti piogge degli ultimi giorni, si era ingrossato fin quasi alla linea di guardia.
Il fiume scorreva sotto Ponte Umberto I, proprio di fronte al giornale, fino a deviare nei pressi di
Ponte Vittorio Emanuele II, descrivendo un gomito naturale talmente brusco da richiedere il consolidamento delle sponde del Lungotevere in Sassia e di quello Vaticano. A tratti, Gloria aspirava lunghe boccate di nicotina per offuscarsi la mente e tentare, così, di scordare la brutta avventura della
mattina. Ancora umiliata da quel farabutto che il suo cuore aveva mal valutato, la donna sentiva
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l’ira crescere, anche se si rendeva conto che per ora era inutile tentare di affrontarlo. Ma Gloria non
si sentiva tanto santa da farsi martirizzare come se niente fosse. Prima o poi gli avrebbe mollato un
cazzotto sul grugno da ricordarselo a vita; un cazzotto però professionale, poiché sempre più convinta che, a ragione di Claudia, in quel lavoro l’unica rivincita fosse il campo. Pazienza: sarebbe venuto il momento di dimostrare il suo talento e di umiliarlo. Presto o tardi, il cadavere di Alberto sarebbe transitato per il fiume della vita, e lei sarebbe stata lì a ridere e a gustare la sua vendetta
ghiacciata.
Spenta la cicca, Gloria rientrò nella sala-reporter con la volontà protesa a cercare almeno qualche
pettegolezzo che potesse condurla ad abbozzare un articolo; e se non ve ne fossero stati, avrebbe girovagato per la città sperando che qualche crimine accadesse in quella Babilonia. Macchè; impiegò
un’altra ora buona a scandagliare Worldnet1 senza esito. A parte il funerale con cui i parlamentari
uccisi furono onorati, e che veniva ancora riproposto ad una settimana dalla funzione, nulla la ispirò. Stanca di stare dietro un monitor, Gloria uscì alla ricerca di qualcosa degna di nota, ma qualche
ora dopo rientrò poiché, proprio quel giorno, i romani avevano deciso di fare gli angioletti.
“Che iella!” – pensava, mentre tornava a casa dopo una giornata fiacca e piena di amarezze.
Nessun fatto rilevante. Nulla di interessante da scrivere e far stampare neppure nel più piccolo
angolo del quotidiano; neanche qualche esaltato che volesse scoprire quanto putride fossero le acque
del Tevere, tentando di suicidarsi. Tutti buoni e santi quel giorno. Ma appena scesa dall’auto, due
balordi le scipparono la cartella e la buttarono a terra. Gloria si rialzò dolorante per la brusca caduta
che le contuse l’anca e che le lacerò i collant. Terrorizzata per essere stata aggredita, due volte in un
giorno, la donna si convinse che, non potendo scrivere un articolo sulle sue disavventure, la cosa più
ragionevole da fare era di andare a letto prima possibile e porre così fine alle sue ultime quarantott’ore piene di disgrazie; sempre che, dall’alto dei Cieli, qualche spiritoso non finisse di tormentarla con un violento terremoto, facendo però crollare solo il soffitto del suo appartamento.
NESSUNA NOVITÀ DALL’ATTENTATO
I DUBBI DEL PRESIDENTE
Seduto immobile, il Presidente fissava i ministri mentre si accomodavano. Appena tutti si sedettero, con occhi penetranti lo Statista li interrogò sugli sviluppi dell’attentato. Molti di loro erano però imbarazzati poiché, a due mesi dall’attacco, né i Servizi Segreti né la Procura erano riusciti a ca-
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Evoluzione di Internet = Fantasia dell’Autore
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vare un ragno dal buco. Era come se, quella sera, il folle fosse balzato dal nulla nell’Emiciclo senza
alcuna spiegazione ragionevole.
“Signor Presidente...!” – esordì il ministro dell’Interno, intento a scartabellare alcuni rapporti
contenuti in una carpetta rossa – “...tutte le informazioni giunte al mio Dicastero non forniscono
nessuna prova con la quale si possa giungere ad alcuna conclusione plausibilmente valida atta a giustificare l’attacco!”
“In pratica, quel tale è piombato in Aula senza che qualcuno lo avesse mandato? Neanche il Padreterno? Derek... mi stai prendendo in giro?” – reagì piccato il Presidente aggrottando le sopracciglia, mentre si abbandonava sullo schienale della poltrona.
“Lungi da me l’intenzione di farlo! A due mesi dall’attentato, nessuno ha rivendicato alcunché!
Alla luce dei fatti, credo che quel matto non sia altro che una mina vagante o una scheggia impazzita di qualche servizio segreto andato in malora, ma...!”
“Ma?”
“Nessuno sa chi era né da dove proveniva! La Federpol ha interrogato centinaia di persone e
compiuto altrettanti sopralluoghi, prima che l’Aula fosse ricostruita dopo l’esplosione!”
“Ebbene?”
“L’unica cosa che si sa è che questo... Gneo Marchi si faceva chiamare Hans Mayer! Professione... idraulico presso un’agenzia di lavoro interinale di Dresda, Germania! Tutto qui!” – finì il ministro chiudendo lentamente la carpetta, come a ribadire l’assoluta mancanza di informazioni utili che
potessero dare una chiave di lettura all’attacco o per capire se vi fossero le manovre sinistre di qualche organizzazione terroristica.
Sentito il breve rapporto, il Presidente storse la bocca e si protese di nuovo verso il tavolo, quindi
giunse le mani sospirando, mentre le spalle, curve dalla vecchiaia, gli si stringevano fino a farlo apparire più piccolo di quanto non lo fosse realmente.
“Un italiano che parla il tedesco alla perfezione, tanto da spacciarsi per un certo... Mayer! Solo
questo e nulla più! Da due mesi ricevo rapporti da tutto il Continente che dicono la stessa cosa e
nient’altro! Vi rendete conto che figura? Cristo... il Parlamento dell’U.N.E. messo sotto scacco da
un esaltato che manda al Creatore dieci suoi membri nel giorno del suo insediamento ufficiale e del
suo esordio sulla scena politica internazionale!” – sbottò lo Statista, mostrando un ghigno; lo stesso
che egli immaginava sulle labbra dei vertici politici degli altri Stati – “Complimenti! Una potenza
politica come la nostra, incapace però di sapere chi diavolo si cela dietro l’identità di... un idraulico!”
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“Vedi, Presidente... non solo ha colpito al cuore il Parlamento, ma ha pure fatto emergere i limiti
della Magistratura!”
“Appunto! E non solo della Magistratura!”
“In parole povere...!” – interloquì il ministro degli Esteri fino allora taciturno, come se la discussione non lo interessasse – “...vorresti farci intendere che tutti e tre i poteri istituzionali sono stati
giocati, più o meno violentemente, senza neanche avere la minima di idea di come far fronte ad una
simile bordata?”
“Credo di sì! La Procura brancola nel buio! Se le informazioni a me giunte sono veritiere... il
Procuratore Capo che coordina l’inchiesta ha perfino intenzione di archiviare la faccenda!”
“Già! Coprendo la figuraccia e adducendo che l’attentato è stato commesso dalla mano isolata di
un folle mitomane deficiente!”
“Appunto...!” – concluse Derek Bentley, annuendo.
“Ma vogliamo scherzare?” – proruppe il Presidente – “Questo mitomane, come lo chiamate voi,
è entrato in Aula armato di pistola e di una bomba a mano modificata capace di creare una voragine
di quattro metri di larghezza e due di profondità, annullando tutti i sistemi di sicurezza del Campidoglio! E questo credo che la Procura lo sappia già!! Ma dico... a nessuno è passato per la mente che
quest’uomo possa aver corrotto qualcuno della sorveglianza o essersi avvalso di qualche basista...?”
“Un traditore, vorrai dire!” – interruppe Flavi.
“Quello che è! Traditore, mercenario o squilibrato non importa! Qualcuno lo ha aiutato a compiere quello scempio e voi mi venite a dire che la Procura intende archiviare il caso ritenendolo sul serio un fatto isolato? Anche l’omicidio di Kennedy a Dallas nel secolo scorso e quello di Gilmore nel
pieno centro di Atlanta appena qualche anno fa erano casi isolati?”
Tutti, tranne Flavi, tradirono imbarazzo.
“Domenico, almeno tu... dimmi qualcosa! Possibile che siamo i comandanti di una baracca piena
di spifferi?”
“Non so proprio cosa dirti, credimi!” – rispose Flavi – “Ho fatto il possibile per correre ai ripari
con gli Stati confinanti! Ma è il massimo che io possa fare per ora!”
“E quel segno ritrovato sulla pelle? C’era nel rapporto n. 3 di sei settimane fa! Parlava di un tatuaggio...!”
“Non era un tatuaggio...!” – interruppe il ministro Bentley – “...ma un marchio! Il rapporto del
medico legale parla di un’impronta lasciata da una sorta di timbro metallico...!”
“In parole povere?” – chiese il Presidente.
“Lo hanno marchiato come i buoi, a ferro e fuoco!”
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“Mio Dio!”
“Proprio così! Un’aquila con le ali spiegate su una mano tesa rivolta in basso! Il segno è stato
tracciato bruciando l’epidermide e tessuto connettivo sottostante!”
“Nessuna spiegazione a questo... marchio?”
“Niente! Abbiamo suggerito alla Commissione Parlamentare d’inchiesta di esigere dalla Procura
i filmati dei network televisivi intervenuti durante l’inaugurazione del Parlamento dove il pazzo parlava di un’aquila che stava per ritornare e che nessuno avrebbe potuto fermare... o roba del genere!”
“Ora, guarda caso... un’aquila viene trovata marchiata sulla pelle di questo... folle!”
“Appunto! Ho indagato tramite gli uffici del mio Ministero e... scusa Guido! Subito dopo
l’attentato... quando il Presidente convocò il Consiglio in sessione straordinaria! Ricordi?”
“Sì... allora?”
“Bene! Non so se lo dicesti per caso o per un lampo di genio, ma tu parlasti di segni romani!”
“Beh... sì! L’aquila e la mano tesa erano simboli di Roma antica, insieme al fascio littorio e alla
Lupa Capitolina! Nondimeno, l’aquila fu usata moltissimo durante l’epoca imperiale!”
“Già, due insegne fuse insieme e simboleggianti una civiltà durata più di un millennio!”
“E questo... porterebbe novità?” – chiese lo Statista.
“No! La mia era un’idea buttata così.. per caso, ma se la Procura intende archiviare tutto, beh...
non credo che vi sia ormai molto da congetturare!”
“Tutto perciò si riduce al gesto suicida di uno squilibrato tossicodipendente, preda di un raptus di
follia o di un’insopprimibile voglia di protagonismo?” – domandò il Presidente, esasperato.
“Temo di sì!” – concluse Bentley.
Il Presidente sospirò, passandosi le mani sul volto; dopodiché guardò i ministri negli occhi, increspando le sopracciglia.
“Spero davvero che sia stata solamente l’opera di uno con le rotelle sfasate...!” – disse il Capo
dello Stato incrociando le braccia – “...altrimenti temo che tutti noi possiamo considerarci perfetti
bersagli da abbattere! Pazienza! Sono costretto a rafforzare la sicurezza nostra e dei parlamentari!”
“Credo...!” – riprese il ministro dell’Interno – “...che anche qualche giudice abbia bisogno di una
sorveglianza più accurata!”
“Ipotizzi che...!”
“Sì... ho il presentimento che non siamo soltanto noi dell’Esecutivo e i membri delle Camere a
correre rischi!”
“Quel folle non era una scheggia impazzita... vero?”
Gli sguardi dei ministri erano eloquenti.
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“Combattere contro un nemico invisibile è davvero... snervante! Non sai se colpirà ancora oppure
se ha finito di seminare terrore nel Paese!” – bofonchiò lo Statista.
Nessuno replicò. Tutti rimasero, invece, a fissarlo per tentare di interpretare l’inquietudine che
traspariva dal suo volto e che, per lo sguardo fisso, rendeva non poco enigmatico il suo contegno.
CAPITOLO II
LA CENA AL RISTORANTE
CHI È RAUL DE CESARIS?
Elegantemente vestite, le due amiche entrarono in una delle sei sale del lussuoso locale romano,
subito accolte da un cortese cameriere che le accompagnò al tavolo destreggiandosi fra tovaglie
penzolanti e colleghi che portavano ai clienti chi il menù, chi i piatti. Quella sera, il giornale era riuscito a riservare, a Claudia e a Gloria, un tavolo in quello che era ritenuto il più distinto e al tempo
stesso il più chiacchierato ristorante della città, poiché non era raro che proprio lì si concludessero,
fra una portata e l’altra e con favolose donne come scenografia, contratti milionari anche sporchi.
Sedutesi, Claudia e Gloria pregarono il cameriere di tornare più tardi; l’uomo accennò un inchino e
si licenziò da loro. Le due amiche iniziarono perciò a guardarsi intorno. Tutti gli ospiti indossavano
abiti molto fini e costosi, atteggiandosi con movenze lente e ricercate, indicative di un’affettazione
quasi stucchevole agli occhi di Gloria.
Il business e la raffinatezza del luogo esigevano, d’altronde, un certo protocollo che nessuno poteva o doveva trasgredire, pena l’esclusione dalla cerchia di affaristi e dal giro di denaro che il locale favoriva, tanto che riuscire a prenotare un tavolo era considerata, fra i vip, una vera fortuna e
l’occasione per poter ostentare la propria ricchezza tramutata in gioielli e pellicce che, da sole, costavano quanto un anno di stipendio delle due croniste. Il pavimento di marmo rosa e le pesanti tende di una tonalità più scura ai lati di ogni finestrone, dal quale si ammirava un suggestivo panorama
di Roma notturna, contribuivano poi ad impreziosire l’insieme. Il tutto reso ancor più chic
dall’enorme lampadario di acciaio e oro che, con i suoi prismi di purissimo cristallo, diffondeva la
luce con un turbinio multicolore lungo le pareti affrescate dalla sala.
I camerieri andavano avanti e indietro e servivano la clientela con movimenti calcolati eppur veloci e aggraziati. A tratti si vedeva qualche servitore che spingeva un carrello dorato sul quale dei
cestelli d’argento, con del ghiaccio all’interno, rendevano gradevole al palato e alla vista il vino
pregiato contenuto in spesse bottiglie scure. Le due donne si guardarono in faccia, all’inizio confuse
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da quell’ambiente che trasudava lusso persino nelle posate finemente intarsiate e riproducenti arabeschi orientali ma, per non deludere il Direttore che aveva promosso il reportage, alla fine si adattarono.
“Peccato...!” – sussurrò Claudia protendendosi verso Gloria ancora incredula di trovarsi in un posto visto solo nei film di James Bond – “...che proprio oggi non avevo nessun fustaccio da portarmi
dietro! Gli avrei mostrato che luoghi frequento!” – aggiunse guardandosi poi intorno con fare indifferente mentre, con le dita, accostava i lembi del suo abito di chiffon nero dai quali due seni procaci
traboccavano invitanti.
Neanche Gloria, quella sera, scherzava per fascino: un aderente abito di pizzo bordeaux modellava perfettamente ogni curva del suo corpo senza, però, lasciar scoprire le sgradevoli cicatrici.
“Certo che qui... si fa la fame!” – mormorò Gloria con modi distaccati e discreti per non dare
nell’occhio agli avventori, di certo attenti a chiunque non si fosse atteggiato secondo copione.
“Fame? Stai scherzando! Tutti qui dentro valgono tanto oro quanto pesano... tranne noi, intendo!”
“Sicura? Sarà... ma dalla quantità di cibo che portano, sembra che il locale se la passi maluccio!
Pare che ci stiano razionando il mangiare!” – ribatté Gloria fissando uno dei piatti portati da un cameriere al tavolo accanto, per poi stringere le palpebre nel tentativo di allungare la vista e capire se
l’uomo stesse portando del cibo oppure volesse prendere in giro il povero cliente con quel piatto a
malapena riempito di un qualcosa di indefinito.
“Mica siamo alla trattoria dove ogni giorno ci roviniamo il fegato o alla mensa del giornale! È
chiaro che qui i piatti debbano essere contenuti, badando più all’occhio che alla sostanza!”
“Poveri noi, allora! Se quello che vedo è lo stesso di ciò che ci porteranno... faremo cinghia stasera! A parte il denaro che questi furbastri vorranno per... ‘sta sola!”2 – sussurrò Gloria sogghignando, mentre si apriva una paratia in fondo al locale e dal quale, su una pedana roteante, apparve
una piccola orchestrina.
“Sai cosa ti dico, bella?” – ribatté Claudia – “Tu sei la classica tipa da tavola calda o al massimo
da pizzeria, non di posti come questo! Ma guarda la finezza delle portate, la ricercatezza dei gesti
dei camerieri! Qui non si mangia, gioia! Qui si lavora...!” – aggiunse riavvicinandosi all’amica; intanto lo striminzito gruppo musicale accennava una melodia per rendere più gradevole la serata ai
facoltosi clienti – “...e si trattano milioni di euro e di dollari come noi trattiamo con il fornaio per un
chilo di pane!”
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Dialet. romanesco – “...questo bidone!” – inteso come raggiro, imbroglio.
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“Lo so, Claudia! So che non siamo qui per girare la scena chic di qualche film TV! Stavo solo
scherzando! Il guaio è che questi posti proprio non li sopporto! Li sento pieni di ipocrisia!”
“Su questo concordo con te! Ma credimi... che una notte a farmi coccolare come dico io dal tale
che ho adocchiato, non mi dispiacerebbe affatto!” – sussurrò Claudia con un ghigno e rivolta a fissare il profilo di un uomo sui trenta, trentacinque anni, ad occhio e croce di media statura tendente al
basso.
Incuriosita, Gloria si voltò; distante circa cinque, sei metri, il cliente indossava un costoso doppiopetto dal quale due gemelli d’oro, raffiguranti fregi indistinti, si scorgevano dai polsini della camicia. Appena il suo sguardo lo raggiunse, la donna convenne nel giudizio di Claudia. Era davvero
notevole il fascino di quell’uomo intento a consumare da solo il suo pasto. Tuttavia il suo charme
non era poi così travolgente da perderci la testa al solo avvistarlo, nonostante i modi con cui egli si
atteggiava; un fare del tutto distaccato, come se in quel posto dovesse starci per forza. Ma i suoi
movimenti erano delicati eppure risoluti; la nobiltà dei gesti era visibile, ammaliante. Vinta dalla curiosità, Claudia fermò un cameriere e, con discrezione, chiese da quale pianeta provenisse
quell’alieno e con quale nome fosse chiamato.
“De Cesaris! Conte Raul de Cesaris!” – rispose secco il cameriere, sorpreso dalla sfacciataggine
di quella donna che chiedeva impudentemente l’identità di uno dei migliori clienti del locale.
“Grazie tante! Può andare!” – rispose Claudia atteggiandosi con un’improvvisata, quanto inopportuna, albagia.
“Caspita! È nobile davvero!” – disse Gloria; quindi si accese una sigaretta, poiché in sala era
consentito fumare nonostante la legge federale proibisse il fumo nei locali aperti al pubblico – “Allora, se riesci a sedurlo ti sistemi per sempre!” – aggiunse con ironia, dopo aver aspirato una leggera
boccata dalla sua bionda.
“Sai che ti dico, gioia? Sarà pure conte, ma... ho sentito dire che più sono nobili e più sono squattrinati!” – rispose Claudia mentre la collega non la finiva di burlarla con il suo ghigno.
Il locale seguitava intanto ad affollarsi sempre più. Le donne continuavano a studiare i movimenti del conte, incuranti di altri due clienti che, poco distanti, le fissavano con la stessa insistenza. Vestiti di mantello e kefiyeh bianchi, i due uomini fecero cenno ad un altro cameriere e ordinarono di
servire una bottiglia di Borgogna alle due croniste. Quando, poco dopo, le due colleghe videro apparire il servitore che trascinava un carrello dorato, simile a quelli che circolavano in sala, con sopra lo
stesso cestello pieno di ghiaccio e dal quale l’uomo, fermatosi loro accanto, ne estrasse la bottiglia,
Gloria guardò in faccia l’amica con stupore. Chi era stato tanto gentile da offrire quel costoso vino
francese? Claudia pensò che fosse stato il conte, magari dotato di telepatia, ma dovette ricredersi
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quando il cameriere, con un cenno discreto del capo, indicò il tavolo e i due arabi i quali, con radiosi
sorrisi seminascosti da folti baffoni, le invitarono ad unirsi a loro.
“Cristo Santo! Pensavamo di sedurre quel damerino... e invece ci ritroviamo sulla strada di qualche harem sperduto in mezzo al deserto! Scusi, buon uomo! Si da il caso che il Borgogna non sia di
nostro gradimento! Gentilmente, riferisca a quei due poligami laggiù che siamo spiacenti di dover
rifiutare la loro offerta!” – disse tutto d’un fiato Claudia, mentre Gloria continuava a ridere delle
gaffe involontarie della collega.
Imbarazzato, il cameriere rimise la bottiglia nel cestello e, con forzata galanteria, si congedò dalle due donne trascinando il carrello con sé. Gli arabi capirono il rifiuto e iniziarono ad imprecare
contro Claudia e Gloria, senza che queste capissero dove i due corteggiatori le stessero mandando.
Trascorsero venti minuti, prima che qualcuno portasse loro qualcosa da mangiare. Nel frattempo,
Gloria aveva appuntato in mente tutto ciò che stava osservando; a casa, avrebbe steso la bozza del
reportage per il quale lei e Claudia si erano recate in un locale così lussuoso da avere anche ricconi
islamici come ospiti. La collega, intanto, continuava a spogliare il conte con gli occhi. Ciò che la
colpiva era la sua apparente assenza mentale, come se nulla potesse distrarlo. De Cesaris non si accorgeva neanche che, per attirare la sua attenzione, Claudia ogni tanto tossiva violentemente, indispettendo gli altri clienti; aveva provato anche ad espirare folate di fumo di sigaretta verso il nobile,
per almeno provocare una qualche reazione, ma quello rimaneva imperturbabile.
“Guarda che potrebbe anche arrabbiarsi, Claudia!” – borbottò Gloria, prima di portare alla bocca
una forchettata di qualcosa che doveva essere un involtino al formaggio e prosciutto – “Stai infastidendo me con quella sigaretta! Lascialo in pace!”
“Mah! Credo che sia del tutto rimbambito! È affascinante, ma completamente fuori di testa!” –
ribatté Claudia, spegnendo la cicca in un posacenere di cristallo.
“Ti piace così tanto?”
“A parte la sua totale assenza... sì! È veramente... curioso!”
“Già! Talmente curioso che vorresti scoprire se possiede doti nascoste!” – disse Gloria girandosi
verso il conte per far ritornare alla mente il suo aspetto.
Appena, però, il suo sguardo incrociò quello del nobile, questi ebbe una reazione inattesa quanto
brusca. Il conte dapprima sgranò gli occhi per poi corrugare subito dopo la fronte e smorzare fra i
denti un’imprecazione. Atteggiandosi nervosamente, come se volesse celare il suo volto, l’uomo
chiamò un cameriere e ordinò di portar via. Fece poi cenno di annotare le consumazioni sul proprio
conto e, rizzatosi in piedi, frettolosamente uscì dalla sala. Le due donne rimasero sbigottite; qualcosa lo aveva spaventato o, almeno, reso irrequieto. Addirittura, non aveva neanche finito il suo pasto.
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“Visto?” – disse Gloria ritornando ad infierire sui suoi involtini, tanta era la fame – “Lo hai terrorizzato a morte!”
“Sarà stata la mia acconciatura?” – chiese la donna mentre Gloria scuoteva il capo, chiedendosi
perché Dio non si fosse sforzato di fornire un po’ più di materia grigia all’amica.
Comunque, la serata trascorse liscia e piuttosto noiosa. A parte la strana reazione del conte, nulla
sconvolse la loro permanenza nel lussuoso locale. Finito di cenare, le donne chiamarono un cameriere e, mostrato la tessera di addette stampa, pregarono di spedire il conto al giornale. Presero le loro cose e, dopo un’ultima occhiata agli ambienti sontuosi, ma che alla lunga apparivano piuttosto
monotoni, uscirono dal ristorante raccogliendo al loro cammino sguardi maliziosi.
“Certo...!” – esordì Gloria entrando nella sua utilitaria – “...che le inchieste che ci assegnano sono
di una noia!”
“E perché? D’altronde... frequentiamo bei posti e bella gente!”
“Già! Con tutto il casino che sta succedendo... ci affidano roba da riviste che trovi dal parrucchiere!”
“E che volevi raccontare? La Guerra Civile negli Stati Uniti?”
“Guarda che ancora reggono!” – replicò Gloria, pur sapendo che le vicende d’oltre Atlantico erano davvero critiche.
“Sì... ma per quanto? Stamane, Luca mi ha riferito che la situazione sta precipitando e che le due
fazioni possono far scatenare l’attacco da un momento all’altro!” – rispose Claudia rivelando una
notizia del suo amico corrispondente da Washington.
“Dio mio! Dodici anni fa era impensabile una cosa simile!”
“Già... come il muro di Berlino!” – ribatté Claudia, mentre la collega, preoccupata, svoltava per
Via del Plebiscito.
“L’escalation! È una vera escalation! Dove ci porterà?”
“Figli di puttana! Scherzano con il fuoco alla faccia nostra!” – mugugnò Claudia, mentre si accendeva un’ennesima sigaretta che invase di fumo acre il già abbastanza piccolo abitacolo.
“Cavolo... che gli prende?” – disse Gloria. L’auto perse potenza e iniziò a sobbalzare; la donna
accostò sul ciglio della strada e fermò la vettura che finì di sussultare e si spense – “Benissimo!
Siamo a piedi!” – mormorò seccata, tentando, invano, di farla ripartire – “Ma che diavolo gli sarà
mai preso?” – sbottò, mentre la pioggia iniziava a macchiare il parabrezza – “E pensare che l’ho fatta revisionare appena tre giorni fa!”
“Sarà la propulsione... le batterie...!”
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“Macchè!” – interruppe Gloria girando la chiave del cruscotto per verificare il quadro comandi –
“Vedi? L’energia c’è! Ho ricaricato le batterie oggi stesso! Ma... ora sembra che qualcosa non vada
nella meccanica! Porco Giuda... ci mancava anche questa!”
“Calmati!” – disse Claudia tirando fuori il videotelefono dalla borsetta – “Vediamo se c’è qualcuno di animo pio disposto a salvare due fanciulle in pericolo!”
Gloria era esasperata; sembrava che tutto le andasse storto in quel periodo. Certo, quell’auto
l’aveva acquistata per pochi euro, ma aveva avuto anche l’accortezza di farla controllare accuratamente dal suo meccanico di fiducia, il quale, sorridente e fiducioso, le aveva assicurato lunga vita.
Le bizze del motore, però, le stavano facendo capire la bufala che le avevano appioppato. Ad un
tratto, Claudia, cellulare all’orecchio, scorse dallo specchietto retrovisore una berlina di grossa cilindrata affiancarla. Giunta all’altezza dello sportello, la donna distinse il conte De Cesaris sempre
assorto nei suoi pensieri. Subito fece cenno a Gloria di suonare il claxon per far notare la loro presenza, ma appena l’uomo si girò per vedere chi erano quelle matte che suonavano con tanta insistenza, la sua reazione fu ancor più insolita: sgranò di nuovo gli occhi e, smorzando un’altra imprecazione, innestò la marcia più bassa. Con uno stridio di pneumatici sull’asfalto bagnato, che echeggiò per tutto l’isolato, il conte scappò via.
“Ehi, bastardo... torna indietro!” – tuonò Claudia sporgendosi dal finestrino – “Imbecille!” –
mormorò dopo essersi ricacciata dentro, completamente zuppa – “Manco a fermarsi per vedere se
eravamo in agonia!”
“E tu che morivi dalla voglia di conoscere quel mascalzone!”
“È la mia disgrazia! Tutti gli uomini che mi piacciono fuggono come se vedessero un’appestata!”
– mugugnò Claudia mentre si toglieva il soprabito bagnato.
Gloria annuiva, ma un dubbio iniziava ad insinuarsi in mente. Era una sensazione che ebbe pure
nel locale, anche se ritenne di sbagliarsi; ora, però, quello sguardo e la replica negli atteggiamenti
del conte la stavano convincendo che non era Claudia a farlo scappare con tanto timore, ma lei.
Quegli occhi, quei movimenti nervosi e scoordinati erano dovuti alla vista del suo viso. Ma perché?
Comunque, non stette a pensarci più di tanto. Claudia continuava invece a maledire il conte, arrabbiata anche dal fatto che, proprio quella sera, tutti i suoi amici avevano il videotelefono spento. Alla
fine, esasperate anche dal maltempo che buttava acqua a secchi, le due colleghe decisero di chiamare il soccorso stradale. Di scendere neanche a parlarne, dato che la pioggia aveva generato delle
pozzanghere profonde; ottimo sistema per rovinarsi le scarpe e gli abiti a festa.
Poco più tardi, il camion dell’A.C.I. sostò dietro di loro e una montagna umana, vestita di una tuta rossa ornata di strisce catarifrangenti, scese dall’automezzo e si avviò, con passo pesante, verso le
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due donne. Intimorite da quel gigante, Gloria e Claudia si irrigidirono sui sedili, ma, giunto al finestrino, con voce cordiale l’operaio le invitò a star calme, assicurando loro che tutto si sarebbe sistemato. L’uomo urlò al collega rimasto al posto di guida di superare l’auto in panne e di mettersi davanti per agganciarla. Mezz’ora dopo giunsero a casa di Gloria e, parcheggiata la macchina sul ciglio della strada, le due colleghe si salutarono. Claudia allora si accomodò nella cabina
dell’autocarro, poiché i due del soccorso stradale si erano offerti di scortare quella splendida Venere, alta uno e ottanta, fino alla sua dimora. Gloria entrò nel palazzo e lanciò un’ultima occhiata al
camioncino che, sotto la pioggia, si allontanava da Via di Acqua Bullicante per raggiungere Via
Aversa dove Claudia abitava. Non che si fidasse molto di costoro, ma Gloria era certa che l’amica
avrebbe saputo come difendersi qualora fosse stata importunata con avance sconce.
Entrata nel suo appartamento, Gloria accese la luce e lanciò le scarpe in aria, come a liberarsi di
una morsa che le stringeva i piedi. Si spogliò poi del rossastro abito seducente e, buttatolo sul divano, decise di rilassarsi con un bagno caldo prima di andare a letto. In reggiseno e slip, Gloria entrò
in bagno e aprì il rubinetto, quindi si girò e si specchiò. Era pur sempre una bella donna dopotutto,
nonostante l’età e un senso di insicurezza che a volte affiorava per le cicatrici che le solcavano il
corpo liscio e ben definito nella muscolatura. Comunque si piacque, sapendo che molte ragazze un
fisico come il suo se lo sognavano. Mentre però l’acqua scorreva e il vapore appannava le pareti, a
Gloria balzò in mente il viso del conte. Una strana quanto indefinibile rabbia la assalì e, istintivamente, la fronte le si corrugò, finché la sua immagine riflessa non scomparve a causa del vapore,
così come sparì, subito dopo, il viso del nobile dal cervello. Turbata, Gloria scosse la testa per allontanare dalla mente quell’uomo mai visto prima d’allora, anche se non riusciva a spiegarsi il perché
quel ricordo fugace e alquanto insolito le facesse ribollire il sangue nelle vene.
La donna si allontanò dallo specchio appannato e, chiuso il rubinetto, pose reggiseno e slip sullo
sgabello accanto alla vasca, abbassò le luci e si immerse schizzando gocce sul pavimento, per poi
chiudere gli occhi e abbandonarsi al tepore rigenerante dell’acqua. Il monotono ticchettio della
pioggia la distese fino a farla quasi appisolare, ma il viso del conte le saltò ancora, e con prepotenza,
in mente. Di scatto Gloria si ridestò e con un urlo si rizzò nella vasca, credendo addirittura di avvertire dolore alle cicatrici. Riavutasi, la donna distinse lo specchio, il reggiseno e gli slip sporchi sullo
sgabello e l’insistente picchiettio della pioggia.
Sperando che tutto fosse frutto della stanchezza, Gloria scivolò di nuovo nella vasca fino al mento e, con occhi sbarrati e il respiro accelerato, tentò di rilassarsi per dimenticare quel viso. Ma perché, stranamente, il suo cervello accoppiava il conte alle ferite? E perché quel volto iniziava a tormentarla? Gloria non riusciva a cancellare quello sguardo e a capire il motivo di quelle reazioni
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scomposte. Perché, appena vista, De Cesaris si era comportato in modo così strambo, quasi terrorizzato? Che la conoscesse? O forse l’uomo vedeva nei suoi tratti delicati chi voleva scordare, come le
visioni di James Stewart ne “La donna che visse due volte” di Hitchcock? Doveva di certo essere
così. Lei somigliava a qualcuna che il conte desiderava dimenticare; un viso talmente similare da
avere un attimo di smarrimento rasentante la paura. Mica lei era vissuta due volte; con i guai che
aveva, l’ostilità dei colleghi e con l’auto fuori combattimento, ci mancava che vivesse due volte per
soffrire le bizzarrie dell’esistenza.
Stanca di stare a mollo, Gloria si eresse in tutta la sua bellezza e, gocciolante, uscì dalla vasca.
Indossato l’accappatoio, che lasciò scoperto un décolleté madido e voluttuoso, si strofinò i capelli e
raggiunse la camera da letto, dove si asciugò il resto del corpo. Nuda, si sedette davanti allo specchio del comò che fungeva anche da toletta. La sua pelle era vellutata e dilatata; si sentiva bene e in
pace, guardandosi riflessa mentre si spazzolava i capelli accalorati dall’aria calda del fon. Nel frattempo pensava a Claudia e a chissà quante lusinghe i due samaritani le avevano rivolto durante il
tragitto verso casa. Ma le ferite rievocarono il conte alla mente. Gloria chiuse gli occhi e chinò il
capo, non volendo associare le cicatrici a chi continuava ad assillarla. Spento il fon, raggiunse il letto e, indossato il suo amato camicione bianco ricamato di pizzo, si ficcò sotto le coperte sentendo il
freddo delle lenzuola rizzarle la pelle. Abituatasi alla temperatura, da sopra il comodino prese il libro che da settimane tentava di finire, ma il sonno la vinse e, convinta che il viso del conte fosse solo la stupida allucinazione di una visionaria, Gloria si addormentò lasciando la luce accesa ad illuminare il suo delicato volto di donna.
L’ESCALATION NEGLI STATI UNITI
L’IMPOTENZA DEL PRESIDENTE DELL’U.N.E.
Il telefono squillava. Gomito sul bracciolo e con il pugno che gli reggeva il mento, lo Statista lo
guardava rilassato, mentre i ministri lo fissavano come ad incitarlo con gli occhi a prendere la cornetta, finché il Presidente non si decise e, allungato un braccio, agguantò il ricevitore.
“Pronto? Sì...!” – rispose calmo; a questo seguì una serie di mugugni, come se non volesse far
trapelare nulla ai presenti. Dopo pochi minuti di sì e di no, il Capo dello Stato riagganciò lentamente
la cornetta e chiuse la telefonata che, dal suo sguardo rassegnato, doveva essere parecchio inquietante – “Signori...!” – esordì dopo un rumoroso sospiro – “...lo Stato Maggiore dell’Esercito riferisce di un notevole assembramento di truppe subito oltre i Monti Appalachi e diviso in due tronconi
supportate da trentacinque brigate motorizzate e da venti divisioni corazzate a sostegno della fante-
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ria per ogni probabile direttrice d’attacco! Uno verso nord-ovest, l’altro verso sud-ovest! Ho paura
che Arthur Grant voglia stroncare con la forza la rivolta degli Stati del Pacifico, esplosa dopo la presunta frode dei GRANDI ELETTORI a Washington!” – concluse il Presidente, fissando i ministri.
Un lungo mormorio si levò nella sala del Consiglio. L’escalation stava sul serio sfociando in
quella guerra civile che i patti di Syracuse, firmati sei mesi prima da Coltrane per evitare il crollo totale, non erano riusciti a scongiurare. Diversi incidenti erano, infatti, avvenuti nell’ultimo mese, tanto da presagire un inasprimento del dissenso. Tuttavia, far intervenire addirittura colonne corazzate
per sedare moti di protesta sembrava eccessivo, sempre che Grant non fosse davvero deciso a sganciare gli Stati dell’Est dal resto dell’Unione e che le manovre a ridosso degli Appalachi altro non
fossero che una delle fasi di una secessione in piena regola, di cui la più subdola sarebbe stata quella
di corrompere i GRANDI ELETTORI degli Stati che avrebbero dovuto consegnare le chiavi della Casa
Bianca a Coltrane. Una mossa di Grant logica e scaltra per impadronirsi del potere sotto una parvenza di costituzionalità che lo preservasse da attacchi esterni e, una volta all’Oval Office, per escludere parte dell’Unione dalla miniera d’oro che stava nascendo in Europa.
“Sembra anche che gli Stati ribelli...!” – riprese lo Statista – “...si siano uniti in una confederazione autonoma con Capitale Los Angeles, proclamando ufficialmente Adam Coltrane, come se ciò
non fosse scontato, quale Presidente della Confederazione dei Liberi Stati Americani! Almeno così
si fanno chiamare ora gli Stati dell’Ovest!”
“Mio Dio!” – disse turbato il ministro dell’Interno, toccandosi la fronte – “Il Vicepresidente
sconfitto alle elezioni, leader di una coalizione per contrastare Grant, creando un proprio quartier
generale? Ma allora... è guerra aperta!”
“Non si parla ancora di conflitto dichiarato, ma dagli ultimi dispacci provenienti dal nostro consolato a Città del Messico...!”
“Ebbene?” – dissero quasi in coro i presenti; tutti, tranne uno.
“Ebbene... il Governo messicano sta ingrossando le sue truppe al confine per accogliere eventuali
masse di profughi provenienti dal Texas e dalla Georgia! A conferma di ciò, il satellite ci invia le
manovre di mezzi corazzati provenienti dall’Arizona e da Washington in direzione nord e sud-est!
Sì, signori... direi che si tratta di vera e propria guerra civile!”
“Per l’amor di Dio! Washington-Stato contro Washington-Città! Sembra un paradosso!”
“Facci capire!” – interloquì serafico Domenico Flavi come se nulla lo turbasse, anzi sembrava
quasi che aspettasse una notizia del genere – “Coltrane sta fronteggiando Grant nel tentativo di vincere e conquistare Washington da trionfatore?”
“In parole povere... sì!” – rispose il Presidente.
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“C’era da aspettarselo!” – mormorò il ministro della Difesa.
“Già...!” – riprese Flavi annuendo – “...dall’inizio del secolo, quando i candidati delle elezioni
del 2000 ebbero problemi per l’attribuzione dei GRANDI ELETTORI della Florida!”
“Solo che, allora, sottovalutarono la faccenda!”
“Ed ora... costoro eleggono al Congresso Arthur Grant nonostante costui avesse perso anche in
Ohio e in Pennsylvania!” – riprese il Capo dello Stato – “Ad ogni modo... Coltrane sta intasando
Worldnet con invocazioni di condanna alle azioni sciagurate di Grant e...!”
“E di certo...!” – interloquì Flavi volgendo lo sguardo al Presidente – “...chiederà ausilio anche
all’Unione delle Nazioni Europee.... cioè a noi!”
“Lo ha già fatto, Domenico! Il generale Müller, di stanza al 14° comando di brigata presso la nostra ambasciata a Los Angeles, riferisce che Coltrane ha ufficialmente chiesto al nostro ambasciatore Jacques Funes l’invio di un contingente in Arizona per sostenere l’azione di difesa della Confederazione!”
“Come no!” – ribatté Flavi con una smorfia delle labbra – “Così... mentre questo pseudopresidente se ne sta comodamente seduto in un lussuoso ufficio al di là delle Montagne Rocciose,
pretende che Lussemburgo venga trascinata in un conflitto dagli esiti imprevedibili e forse controproducenti!”
“Beh... prima o poi il nostro potenziale bellico e le dotazioni strategiche dovranno essere in qualche modo rodate! Comunque, secondo quanto riporta Müller, credo davvero che la situazione sia
più grave di quanto possiamo pensare! D’altra parte, Coltrane non si limita a chiederci un appoggio
militare, ma ci esorta a schierarci con lui e a deplorare ufficialmente Grant!”
“Chiacchiere!” – reagì Flavi – “Per il bene dell’Unione, ritengo sia il caso rifiutare! Hai dimenticato il Caucaso? Stolti! Erano venuti a fare gli sceriffi come nella Seconda Guerra Mondiale, e ci
hanno trattato da incapaci senza capire che Kazbek era una trappola! Certo... hanno vinto e ci hanno
umiliato, ma ora hanno finito di fare i gradassi, e se credono davvero che, dopo quegli insulti,
l’Unione delle Nazioni Europee sarà tanto boy-scout da aiutarli, beh... si sbagliano! Che si scannino! Dopo verremo noi a ricostruire, ma secondo le nostre regole stavolta, così come loro hanno fatto
con noi dopo il 1945!” – proruppe alzandosi dallo scranno, come se ciò che aveva appena esternato
lo avesse da tempo nel cuore ed ora veniva sfogato con rabbia – “La scusa dei Balcani... la volontà
di accorrere e fare da arbitri! Ricordi quando dovemmo creare la Forza Multinazionale perché Washington volle fare da sé, alla faccia del Patto Atlantico? E ricordi come l’allora Segretario di Stato
americano definì le nostre truppe? Lattanti da svezzare!” – aggiunse, rinfacciando tutte le azioni oltraggiose degli Stati Uniti contro l’Europa.
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Il Presidente ascoltò, silenzioso, la protesta del suo ministro: mai aveva visto quel ragazzo, di solito ponderato, reagire in modo così brutale e, al tempo stesso, tanto determinato da quasi spiazzarlo.
“Allora, cosa proponi di fare?” – chiese lo Statista, risedutosi.
“Condannare Grant mi trova d’accordo! Convocherò una conferenza stampa dove esternerò il
biasimo di Lussemburgo per l’escalation scatenata da questo... matto!” – rispose Flavi, calmatosi –
“Ma non reputo politicamente e militarmente opportuno inviare truppe oltre Oceano! L’Europa non
ha ancora dimenticato l’arroganza degli americani dopo la disfatta subita ai piedi del Kazbek! E gli
Stati arabi rappresentati in Senato? Come ci giustificheremmo con alcuni di loro, quando per anni li
hanno avuti per nemici? Ecco perché non credo sia consigliabile imbarcarsi in questa avventura dagli effetti e dalle reazioni interne imprevedibili!”
“Benissimo... e allora?”
“Decliniamo l’invito! Anzi, ritiriamo gli ambasciatori e dichiariamoci neutrali, considerando i loro dissidi come un semplice e riservato fatto interno agli Stati Uniti!” – rispose Flavi con un ghigno.
“Praticamente... mascheriamoci tutti da Ponzio Pilato!”
“Se questo giova a non farci intrappolare in un conflitto in cui costoro non ci diranno neppure
grazie... sì! Indossiamo pure questa maschera!” – finì il ministro degli Esteri accendendosi una sigaretta che sfumò i suoi lineamenti fattisi affilati e rigidi.
“D’altronde...!” – interloquì Bentley – “...se accettassimo di intervenire a sostegno di Los Angeles... dovremmo convincere, come diceva Domenico, anche Stati che fino a dieci anni fa facevano
parte della Lega Araba e che erano acerrimi nemici degli americani! Teniamo sempre presente che
questi Paesi fanno oggi parte della Repubblica e non credo che ciò sia da sottovalutare!” – aggiunse
annuendo e fissando il tavolo con le sopracciglia alzate – “No! Concordo in pieno con te! È un cattivo affare che minerebbe la stabilità interna!” – concluse volgendo lo sguardo a Flavi.
Tutti si guardarono in faccia, concordi con il giovane ministro il quale, certo del forte sostegno
all’interno del Consiglio, fissava risoluto il Presidente aspirando lunghe boccate dalla sua sigaretta.
A questo punto, lo Statista non poté far altro che prendere atto della volontà dei suoi ministri e si
abbandonò sulla poltrona. Forse anche lui era d’accordo con Flavi, ma in quel momento gli occorreva qualcuno che interpretasse il suo pensiero e lo portasse avanti, perorando anche istanze in apparenza insostenibili. Per questo aveva voluto quell’uomo nel suo Governo e, in particolare, agli Esteri: la sua capacità di persuasione era così forte da piegare anche lo spirito più riluttante ad adottare
scelte impopolari. Per non parlare della scappatoia costituzionale: l’art. 82 sanciva che le decisioni
unanimi espresse dai ministri potevano anche divergere con le valutazioni del Capo dello Stato. In
questo caso scattava una sorta di irresponsabilità del Presidente che rimandava le conseguenze di
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merito al Consiglio; contrappeso, questo, che evitava l’ingovernabilità ed eventuali attriti in seno
all’Esecutivo. Certo, il Presidente era il Primo Cittadino dell’Unione, la cui autorità racchiudeva il
consenso della maggioranza dei popoli dell’U.N.E.; tuttavia, la figura del Capo dello Stato e del
Consiglio dei ministri, costituzionalmente parlando, non era univoca. Entrambi rappresentavano due
organi funzionali e distinti che, insieme, formavano il Gabinetto Governativo Federale. Tutto sommato allo Statista non dispiaceva un’eventuale unanimità del voto; almeno lui aveva una giustificazione che lo tutelava di fronte al Parlamento plenario. Tuttavia, il dubbio restava annidato nel formidabile senso del Presidente che era il suo istinto.
“Capiranno?” – mormorò il Capo dello Stato, guardando di sbieco il suo prediletto, per poi incrociare le braccia al petto.
“Non sono gli americani che devono capire, ma l’Assemblea dei Deputati e il Senato Federale!
Chi glielo andrà a dire che, a neanche tre mesi dalla fusione politica, il Governo intende mobilitare
le EUROPEAN ARMED FORCES3 per aiutare coloro che, dopo Kazbek, ci derisero nonostante abbiamo
perso oltre 150.000 uomini e più di 120 miliardi di euro in armamenti e vario materiale logistico?
Proprio gli stessi che decisero autonomamente di svellere la pianta del comunismo in India! Come
se costoro fossero invincibili in eterno! Cristo Santo... se la sono cercata ed ora vengono ripagati
con la stessa moneta con cui questi signori hanno riscattato i loro crediti con tanti popoli del mondo
in oltre settant’anni! Il loro Impero è finito e non sarò di certo io ad aiutarli a risollevarsi!”
“Che intendi dire?”
“Intendo dire, Signor Presidente, che se stasera da questa seduta prende vita la volontà di dislocare anche il più misero plotone a sostegno di quei macellai che agli inizi del secolo furono definiti
dall’allora Presidente Clinton come guida dei popoli... beh... vorrà dire che questo rispettabile Consiglio e il Gabinetto Governativo Federale possono andare avanti anche senza di me! Sono pronto a
rassegnare subito le dimissioni! Il pensiero di curare la tigre ferita mi ripugna! Ti dirò di più! Se potessi gliele spedirei davvero le armate, ma per eliminarli tutti! Non meritano niente quelli là!”
“Come vuoi! Si dia inizio alle votazioni!” – mormorò lo Statista, soggiogato dalla determinazione del ministro.
I Delegati votarono e dal responso risultò chiara la loro volontà a favore della posizione assunta
da Flavi: unanimità totale. Il Presidente lesse il risultato del voto e, preso atto della decisione del
Consiglio, non poté far altro che darne attuazione.
“Domenico...!”
“Sì, Signor Presidente!”
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Forze Armate dell’Unione delle Nazioni Europee – Fantasia dell’Autore
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“Invia, tramite il tuo Ministero, la decisione di stasera con s-mail criptato ALFA e con codice
d’accesso riservato!”
“Destinatari?”
“Tutte le ambasciate e i consolati distaccati negli Stati Uniti! Ordina all’intero personale amministrativo, politico e militare di stanza in tutte le città americane di rientrare in Patria con il primo aereo e di chiudere le relazioni diplomatiche con le due fazioni in lotta! Ci dichiareremo neutrali e rifiuteremo qualsiasi richiesta di aiuto rivolta all’Unione delle Nazioni Europee avanzata dall’uno o
dall’altro schieramento in conflitto! Tuttavia... mi dichiaro non concorde con la decisione di oggi e
aggiungo a verbale che la votazione non riflette la volontà del Gabinetto Governativo Federale! E
che Dio ci perdoni!” – mormorò il Presidente sospirando.
“Non preoccuparti!” – ribatté Flavi, eccitato – “Ci perdonerà!”
L’U.N.E. SE NE LAVA LE MANI
L’IMPERATORE È COSTRETTO AD INTERVENIRE
Clamorosa dichiarazione del ministro agli Affari Esteri Domenico Flavi....!” – annunciò lo
speaker durante il TG1 delle 13,30 – “...con la quale, in nome dell’Unione delle Nazioni Europee,
ha severamente deplorato le operazioni militari che stanno ingigantendo la crisi interna agli Stati
Uniti e ha declinato l’istanza di sostegno bellico avanzata dal Capo della Confederazione dei Liberi
Stati Americani Adam Coltrane per fronteggiare l’ormai prossima offensiva di Washington! Ma, per
maggiori dettagli, colleghiamoci con il nostro inviato a Lussemburgo! Mi senti, D’Amato? Abbiamo qualche problema con la linea! Ce ne scusiamo con i telespettatori...!” – proseguì il giornalista,
imbarazzato, mentre la regia mandava in onda le immagini dell’inviato che tentava di aggiustarsi
l’auricolare – “D’Amato...?”
“Sì... Giancarlo... ti sento bene ora! Allora... come dicevi dallo studio, molto scalpore ha suscitato la dichiarazione di neutralità di Lussemburgo verso le ostilità che stanno lievitando negli Stati
Uniti e con la quale è stato respinto l’invito di Los Angeles a sostenere la Confederazione contestualmente al biasimo rivolto ad Arthur Grant e al suo intento di imporre una separazione forzata agli Stati Occidentali, adducendo a pretesto le accuse di brogli elettorali denunciati da Coltrane! –
disse il corrispondente, mentre la regia mandava in onda le immagini della conferenza stampa dove
Domenico Flavi rispondeva ai cronisti che ascoltavano in religioso silenzio – “Lussemburgo...!” –
dice il Ministro Flavi – “...rifiuta ogni coinvolgimento in eventi bellici che possono alterare gli equilibri interni dell’Unione delle Nazioni Europee! È indiscutibile...!” – continua Flavi – “...il no-
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stro biasimo nei confronti del Presidente Arthur Grant e della sua risolutezza a voler, col pretesto
di una rivolta delle popolazioni occidentali a causa di franchi tiratori al Congresso, estromettere
Stati fratelli che hanno scritto la Storia del secolo scorso! Ma è indubbio che nessun figlio europeo
sia propenso ad imbarcarsi in una guerra dalle conseguenze imponderabili e che, di certo, non porterà alcun vantaggio al nostro Continente! Siamo un’Unione ancora giovane che desidera la pace
dopo secoli di conflitti e di lutti! Per tali motivi, la Repubblica che solennemente rappresento non
ha alcuna intenzione...!” – conclude il Ministro – “...di dissanguarsi in ciò che potrebbe trasformarsi in un nuovo Vietnam o che potrebbe sfociare in un conflitto come quello caucasico, di cui abbiamo ancora, e purtroppo, un triste ricordo! Invitiamo tuttavia Arthur Grant a ritirare le truppe
dislocate sul versante occidentale dei Monti Appalachi e a rivedere la sua posizione verso la Confederazione dei Liberi Stati Americani! Confederazione che non sarebbe mai nata se le elezioni presidenziali si fossero svolte nel rispetto delle regole e se Washington non avesse preso una decisione
tanto precipitosa! Naturalmente...!” – prosegue Flavi – “...chiediamo ad Adam Coltrane a ridimensionare il proprio atteggiamento oltranzista e a ritirare anch’egli le sue truppe!” – “Le dichiarazioni del Ministro...!” – riprese il cronista ritornato in primo piano, alle cui spalle un fermo immagine ritraeva il Ministero degli Esteri in prospettiva – “...hanno provocato un lungo mormorio in sala
stampa! Abbiamo tentato di incalzare Flavi con altre domande, ma il ministro si è subito congedato
da noi e si è chiuso nella sua segreteria! È tutto da Lussemburgo! Restituisco la linea!” – finì
l’inviato togliendosi l’auricolare, non sapendo però di essere ancora in onda.
“Sì... grazie Franco! E la risposta della Confederazione non si è fatta attendere! Coltrane si è espresso con parole dure nei confronti di Lussemburgo ritenendosi indignato, mentre dal Campidoglio il Capo dello Stato, tramite il suo portavoce, ribadisce la posizione dell’Unione delle Nazioni
Europee espressa dal ministro Flavi in sala stampa! Posizione criticata da diverse associazioni umanitarie, dal Segretario Generale dell’O.N.U. e dal Vaticano! Sì... dalla redazione mi dicono che Giovanni XXIV ha appena divulgato, tramite gli organi di stampa della Santa Sede, un messaggio dal
quale traspare tutto il suo rammarico per questa crisi e per le dichiarazioni di neutralità dell’Unione!
Dalle prime indiscrezioni, pare che il Santo Padre non abbia risparmiato precisi riferimenti a Lussemburgo, rimproverandola di pericolosa indifferenza! E questo quando il nostro inviato da Atlanta
ci riferisce, con una nota, che truppe avio-trasportate di Washington...!” – disse lo speaker leggendo
un foglio porto da un braccio subito sparito dal campo visivo – “...stanno già avanzando verso ovest
ed espandendosi da nord a sud per un fronte che andrebbe dal North Dakota al Texas! È evidente,
prosegue il collega nella stessa nota, che Grant auspica lo scontro con le truppe di Coltrane per batterle e ufficializzare, così, la vittoria e il suo potere!” – continuò lo speaker alzando, a tratti, gli oc-
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chi verso la telecamera – “Piano che vorrebbe Los Angeles esclusa da rapporti con Lussemburgo e
che metterebbe in ginocchio Stati la cui estensione territoriale sarebbe superiore a quella che, poco
tempo fa, era l’Unione Europea! Ma passiamo alle altre notizie...!”
Il castellano ascoltò sdegnato il telegiornale italiano. Sprofondato sulla sua poltrona di velluto
scarlatto e con i piedi stesi su uno sgabello d’uguale colore, si limitava ad emettere solamente qualche sospiro. Immobile, l’uomo sembrava abbandonato sul lungo schienale della poltrona, dalla quale chiunque lo avesse visto di spalle non avrebbe potuto intravederne la figura. Solo il braccio destro, che si scorgeva a tratti e la cui mano stringeva un ballòn da cognac, rendeva reale la sua presenza, riscaldata ed illuminata dall’enorme camino in basalto vulcanico che ardeva costante.
“E così hai vinto tu!” – mormorò a denti stretti, stringendo la coppa semivuota di cognac, dopo
averne sorseggiato un altro po’ – “E quell’idiota del Presidente che non ha avuto il coraggio di opporsi! Figlio di puttana...!” – urlò con la fronte aggrottata – “...volevi questo, vero? Volevi la guerra
a tutti i costi...!”
Non ci vide più. Tolse di scatto i piedi dallo sgabello e scagliò la coppa contro la TV. L’urto fu
tremendo; il video si squarciò in tanti pezzi, mentre gocce di liquore, ancora lì contenute, macchiavano la sua vestaglia di seta e lo spesso tappeto persiano steso sul pavimento. Dallo schermo si sprigionarono poi delle scintille che scaturirono dal contatto tra il liquore e i sistemi elettronici del televisore, mandandolo in corto circuito con fuoruscita di sottili lingue di fumo. Il silenzio ritornò nella
stanza. L’uomo, quasi ubriaco e ritto sulla schiena, pose la testa fra le mani e si cacciò indietro i capelli, dopodiché si abbandonò di nuovo al caldo abbraccio del velluto. Solo un odore di bruciato si
sentiva provenire dalla TV ormai distrutta. Il castellano rimase così per alcuni minuti, con gli occhi
chiusi e con il crepitio di qualche tizzone nelle orecchie. Ad un tratto, avvertì la presenza di qualcuno alle sue spalle.
“Tiberio...!” – esordì l’uomo con una punta di sofferenza dovuta all’eccesso di alcool – “...sei
tu?”
“Sì... sono io!” – rispose calmo chi, entrato in stanza, l’aveva percorsa fino a giungere di fronte al
castellano, disteso sulla poltrona con gli occhi chiusi e con il viso rivolto da un lato.
Immobile, Tiberio ne studiò i lineamenti ancora giovani e forti, sfumati dalla fioca luce del camino; un torace dalla muscolatura definita e in continuo movimento per il respiro accelerato, che la vestaglia semiaperta lasciava intravedere, testimoniava che qualcosa di inquietante aveva scosso il suo
Signore. Dai bordi, si scorgevano profonde cicatrici lungo i pettorali, come se qualcuno, tempo pri-
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ma, si fosse divertito a tagliarglieli con un coltello rovente. Tiberio si guardò intorno e notò il fumo
fuoriuscire dalla TV squarciata e il ballòn in frantumi sparsi sul tappeto.
“Ti sei sfogato, a quanto posso immaginare, eh?” – riprese Tiberio con le mani giunte all’altezza
dell’inguine.
Il padrone di casa corrugò la fronte e strinse le palpebre, come se quella voce lo disturbasse. Tentò, poi, a forza di riaprirli e distinse il camino alla sua sinistra e la fiera panoplia collocata sulla canna fumaria che si ergeva alta e sottile, troncata dal soffitto. Pesantemente, rivolse uno sguardo fiacco al televisore distrutto e, finalmente, verso Tiberio calmo e sempre immobile.
“Credo... di aver esagerato con il cognac, stasera!”
“Lo credo anch’io! Ma che ti ha fatto di male quell’apparecchio?”
“Spiritoso! Non hai sentito il telegiornale italiano?” – chiese il castellano, mentre si aggiustava la
vestaglia e celava le ferite.
Provò poi ad alzarsi facendo leva sulle braccia, ma l’alcool mandato giù lo faceva pesare tonnellate, così si rilasciò sulla poltrona ansimando per ossigenare il cervello e recuperare lucidità.
“Beh... se è per questo ho seguito anche quello di altre undici emittenti televisive private e pubbliche di mezzo mondo, e tutti confermano la stessa cosa!” – rispose il Console.
“Brutt’affare!”
“Lo so... lo so, ma che vuoi farci?”
“Se solo potessi...!”
“Certo... ma non puoi! Ricordati il Concordato! Nessuna ingerenza con le politiche di ogni singolo Stato e...!”
“Sì... sì, rammento il Trattato del 1998! Non c’è bisogno che me lo riporti alla mente!” – mormorò il padrone con una mano sulla fronte che gli nascondeva mezzo volto – “Maledetto...!”
“È ciò che ho detto anch’io appena sentite quelle assurde dichiarazioni!” – convenne Tiberio facendo capire di aver appreso la notizia da Lussemburgo prima del suo Signore.
“E così vuole accelerare i tempi!”
“Già, ma come farà? Chi gli darà l’aiuto? Forse la Persona?”
“No... non credo! Fortunatamente, la Regina di Picche è ancora incosciente del suo potere e...!”
“Sei sicuro?” – interruppe Tiberio preoccupato.
“Sì, lo sono! Anche se rischioso e imprevisto... era come se...!”
“Fossi uno sconosciuto! Meno male per te!”
“Già... è vero!”
“Allora da chi potrebbe avere appoggio?”
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“Mercenari, mafiosi... devo saperlo!” – rispose il castellano scuotendo la testa per il dubbio che
lo assillava.
“Lo saprai!” – ribatté il Console; quindi si allontanò dall’amico per dirigersi verso le pesanti tende, dietro le quali un finestrone dava su una terrazza rivolta verso il Bosforo – “A proposito...!” –
continuò scostandole: le luci della sponda asiatica di Istanbul si distesero ai suoi occhi, mentre un
mare in burrasca infrangeva le sue onde contro i piloni del Bosphorus Bridge intasato di veicoli –
“...ci sono novità su chi ha attaccato il Parlamento!”
Il padrone riuscì finalmente ad alzarsi e, con passo fiacco, raggiunse Tiberio che osservava la
pioggia battente sull’ampio belvedere del maniero; dense nubi si inseguivano intanto minacciosi a
sud-est, scaricando saette a ripetizione nel Mar Nero.
“Cosa hai saputo?” – mormorò il castellano.
“Ben poco, tuttavia... un dettaglio interessante sono riuscito a carpirlo!” – rispose il Console
mentre il padrone rimaneva nel silenzio di chi, anche senza dire una parola, vuole conoscere il resto;
un fulmine illuminò improvvisamente la terrazza, accompagnato dal fragore del tuono che scosse gli
spessi vetri delle finestre – “Ebbene... questo Gneo Marchi, alias Hans Mayer, aveva un marchio
uguale a quello che hai cucito sulla vestaglia! Non so se intendo!” – finì volgendosi all’amico; istintivamente, il castellano piegò il braccio e iniziò a palparsi il torace all’altezza della tasca della costosa veste da camera che indossava – “Si, Domine! Proprio un’Aquila! Il rapace che fa di tutto per
nutrire i suoi pulcini e che, prima di colpire, studia dall’alto i movimenti delle sue prede! Ma, oltre
all’Aquila, il folle aveva marchiata una mano tesa! Ti rendi conto?” – fece Tiberio inquieto – “La
stessa Aquila dalle ali spiegate su una mano tesa e rivolta all’ingiù che tu porti come stemma! Per
fortuna questo particolare non è stato approfondito dalla Procura... forse perché ritenuto poco importante!”
“E così...!” – replicò il padrone incrociando le braccia – “...il nostro amico vuole davvero anticipare i tempi!”
“Non solo! Prima che questo... Gneo Marchi portasse a termine l’attacco, ha urlato davanti a tutti
che...!”
“Lo so, Tiberio... lo so! L’Aquila ritornerà e bla bla...! Credevo che si trattasse di un pazzoide
che aveva sentito dire qualcosa su di noi! Ma il marchio rinvenuto sul suo corpo mi fa credere che
quell’esaltato sia un suddito ribelle passato dalla sua parte!”
“Lo credo anch’io! Il Traditore sta rinforzando le fila e ciò potrebbe essere molto pericoloso!”
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“Lo è già, amico mio... lo è già!” – rispose il castellano dando una pacca sulla spalla di Tiberio;
preoccupato, l’uomo si allontanò dalla finestra e dal Console rimasto immobile e ansioso per quelle
ultime parole che sapevano di resa.
“La Guerra negli Stati...!” – mormorò Tiberio.
“Sì... credo di sì! Che Dio ci aiuti!” – replicò il padrone mentre, di spalle e sospirante, si rizzava
sulla schiena e si cacciava le mani nelle tasche della vestaglia.
“Ascolta! Potremmo precederlo e togliere di mezzo qualche elemento che riteniamo possa aiutarlo nel suo intento e...!”
“Sì, ci avevo pensato! Ma dobbiamo stare molto attenti!”
“Certo! L’articolo 4 del Trattato non è lettera morta, come qualcuno ha sperato!”
“Già! Datti da fare, Console, e avvertimi dei loro spostamenti!”
“E poi?”
“Interverrò io nel rispetto del Trattato! Se poi...!” – continuò l’uomo – “...non avendo più carte in
mano, tenterà di coinvolgere la Persona... vedremo come possiamo fermarla!”
“Hai un piano?”
“Sì! È rischioso, ma ne vale la pena! Ti illuminerò a suo tempo! Credo che dovrai fare del tuo
meglio!”
“Ti ho mai deluso?”
“No, amico mio... mai! L’Inferma?”
“Ora riposa! Ma... sono preoccupato!”
“Fin quando sono vivo non c’è motivo! So che per te è una pena assistere ai suoi spasmi, ma
prima o poi manterrò la promessa!”
GUERRA CIVILE IN AMERICA
L’ALTER–EGO DI GLORIA
Sette mesi dopo la dichiarazione di neutralità di Flavi nei confronti delle ostilità che continuavano ad insanguinare gli Stati Uniti, il Segretario Generale dell’O.N.U. invitò Grant e Coltrane a sedersi intorno ad un tavolo di trattative per instaurare un dialogo e risolvere la questione, poiché durante la primavera e per tutta l’estate entrambe le fazioni in lotta accusavano già migliaia di morti,
in gran parte appartenenti alle truppe di Los Angeles. Tentativo difficile in partenza, dato che gli
Stati dell’Est erano ormai decisi a separarsi dal resto dell’Unione ed era quindi prevedibile che
l’incontro sarebbe sfociato in un dialogo fra sordi. Ciò che davvero avvenne; neanche il vertice di
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Rio de Janeiro dell’autunno 2017 riuscì a far rivedere le posizioni di Grant. Il Parlamentare inviato
da Washington fu assai risoluto nel riferire la volontà dell’inquilino della Casa Bianca, a seguito
delle accuse di frode elettorale, di sganciarsi dagli Stati Occidentali schierati con Coltrane.
L’addebito di brogli era un’infamia difficile da sopportare per Grant, per cui accettare le condizioni
di pace significava riconoscere la sua usurpazione; ma ciò non era altro che l’ultimo atto di una crisi
protratta negli anni e volutamente non calcolata.
La sconfitta in India e l’omicidio di Gilmore avevano davvero provocato effetti devastanti
all’assetto di quel colosso economico e politico che, fino a pochi anni prima, pareva inattaccabile
nonostante i tentativi di piegarlo con striscianti azioni terroristiche. Ma ora altri atti sovversivi colpivano l’Unione seminando morte e panico, specie nelle grandi città degli Stati Centrali. Tanti rievocarono la paura vissuta verso la fine del ‘900, quando il grattacielo del F.B.I. di Oklahoma City
saltò in aria con esplosivo ad alto potenziale. L’americano della strada non era abituato a fatti del
genere che ora piombavano sulla sua testa come macigni. Certo, di attentati gli U.S.A. ne avevano
subiti, e di pesanti, ma era ovvio che le azioni terroristiche attuali, simili a quelli di Oklahoma City,
nulla avessero a che fare con gli orrendi attacchi di New York del 2001, i quali, diventati catalizzatori di un nuovo spirito nazionale, avevano rinnovato il senso di appartenenza della gente sotto lo
sventolio delle stelle e delle strisce.
Stavolta il terrore proveniva dall’interno e sarebbe stato inutile additare popoli forestieri quali responsabili, dato che questi attacchi non erano altro che figli di un inarrestabile declino istituzionale
che stava causando, come risultato, una grave crisi nel sistema. Ora che la situazione era precipitata,
Oklahoma City e il contestato voto del 2000 venivano interpretati come i germi che stavano rodendo
l’ossatura del gigante americano. Anche se la Guerra Caucasica aveva dimostrato la forza dell’US
ARMY, molti esperti militari e politologi, alla luce della rovinosa sconfitta in India e di ciò che stava
accadendo, erano giunti alla conclusione, forse ardita, che la brillante vittoria riportata a Kazbek
non era altro che l’ultimo sussulto di un leone dagli incisivi consunti che aveva però il grande handicap di non rendersi conto della sua agonia. Anzi, alcuni revisionisti, analizzando le paurose perdite americane, sostenevano che Kazbek poteva considerarsi come una vittoria di Pirro vera e propria;
un sostanziale pareggio che solo i vertici del Pentagono e del Dipartimento di Stato rifiutavano di
riconoscere. La tragicità del momento era aggravata anche dal crollo del dollaro e della disoccupazione galoppante a ritmi vertiginosi.
Traino della recessione, oltre alle vittime e alle difficoltà di riconversione delle industrie belliche,
era anche l’impossibilità di vendere il petrolio, una tra le monete di scambio internazionale del tutto
svalutata per via della confluenza del Medio Oriente nell’U.N.E.. Era evidente che questi Stati pre-
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ferissero smaltire il surplus di greggio ai nuovi popoli fratelli, piuttosto che inviarlo oltre Atlantico
con enormi costi di stoccaggio e di trasporto. Il peso dell’euro fece il resto. Per gli U.S.A. divenne
arduo approvvigionarsi di oro nero, anche se di pozzi ne possedevano a iosa; mancava la manodopera giovane, caduta nell’abisso caucasico e nell’immensità del Deccan. Il crollo dell’economia comportò poi ciclopici dirottamenti di valuta all’estero, specie a Lussemburgo e a Zurigo. Tutto parve
distrutto e le macerie sembrarono cadere sulla già provata popolazione inerme. Dopo il naufragio
dei patti di Syracuse e il fallimento del tavolo di Rio, masse di profughi provenienti dal Texas e della Georgia intasarono il confine messicano, così come toccò ai cubani e ai portoricani nel XX secolo.
Il corso della Storia sembrò invertirsi. La situazione apparve allarmante al punto che il New Mexico si dichiarò fuori degli U.S.A. per aderire alla Confederazione Messicana; volontà subito riconosciuta dal ministro Flavi. Solo così i profughi poterono defluire anche nel New Mexico, evitando
incidenti alle frontiere ed onde incontenibili di disperati in cerca di asilo. Scontri accesi stavano, infatti, infiammando il centro del continente. Da settentrione, Grant aveva sferrato numerosi attacchi
ai confini del North e del South Dakota per fare terra bruciata a Coltrane ed evitare che un’eventuale
offensiva ad est delle truppe della C.L.S.A. potesse pregiudicare il suo progetto di isolare gli Stati
del Pacifico oltre le Montagne Rocciose, in modo da creare il deserto più impenetrabile dal North
Dakota al Texas e impedire alla palla al piede, come il Parlamentare definì la Confederazione a Rio
de Janeiro, di riallacciare rapporti con gli Stati dell’Est. Coltrane non apparve più in TV dopo il vertice di Rio. Dalle agenzie di stampa e dai dispacci era, però, palpabile il dolore di chi, rivendicando
il suo diritto alla Presidenza, tentava in tutti i modi di impedire a Grant di sgretolare ciò che per oltre due secoli era stato il modello politico e democratico del mondo. Grant era, dal canto suo, sicuro
di vincere. Dopo la sconfitta in India, la popolazione dell’Atlantico era stata aizzata da un’abile propaganda che additava gli Stati dell’Ovest quali principali responsabili della catastrofe orientale, poiché proprio da lì proveniva gran parte dello Stato Maggiore delle armate americane inviate nel Deccan, come pure Gilmore e Coltrane, entrambi californiani.
Ciò indusse i GRANDI ELETTORI dell’Ohio e della Pennsylvania al ribaltamento dell’esito elettorale, anche se questi non disprezzarono i trenta denari per convincersi; a ciò si aggiunse anche la volontà dei detentori dei grandi capitali a parteggiare compatti per Grant. Tutto era chiaro all’opinione
pubblica, o almeno così sembrava. Grant aveva impostato la sua campagna sull’incapacità di alcuni
uomini di Palazzo nella gestione dell’Unione, ma la sua presa di potere, che rasentava il rispetto della Costituzione, appariva come il forzato tentativo di occupare l’Oval Office. Grant non aveva però
davvero valutato la reazione della C.L.S.A., obbligando le sue armate ad una precipitosa controffen-
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siva. Almeno in questo modo la pensavano in molti! Ma era davvero così? I primi successi negli
Stati Centrali fecero rivedere l’opinione della gente: l’assetto delle truppe subito impiegate per cogliere di sorpresa le armate di Coltrane non parve una manovra disperata per arginare la reazione di
Los Angeles, ma la tappa di un piano da tanto tempo congegnato ed ora reso operativo.
L’una di fronte all’altra, le due amiche erano così immerse nelle loro discussioni da non far caso
alle tragiche notizie che il mega-schermo piazzato in fondo al pub trasmetteva, a basso volume,
dall’America. Fumavano una sigaretta ciascuna fra un sorso di birra e un altro, mentre delle avvenenti cameriere distribuivano le ordinazioni su dei pattini per essere più celeri nel servizio e, magari,
più originali. Il pub, uno dei pochi in città, aveva due sale abbastanza ampie, per fumatori e non, così come imposte dalla legge federale a seguito delle pressioni esercitate dalle associazioni antifumo. Dopo le campagne di dissuasione promosse a cavallo dei i due secoli, supportate anche dalle
condanne emesse dalle varie Magistrature, le grandi multinazionali americane del tabacco stavano
patendo un ancor più oneroso salasso a causa della guerra civile che impediva loro la regolare distribuzione dei prodotti; il tutto a vantaggio del contrabbando cui, forse, queste multinazionali si
stavano avvalendo per smaltire le loro giacenze. Non era di certo gentile da parte di Washington e di
Los Angeles costringere i loro soldati a scannarsi senza almeno farsi un ultimo tiro di sigaretta prima di tirare le cuoia.
“Ti sei decisa a cambiare casa?” – domandò Claudia dopo una boccata di fumo che sbiadì i suoi
lineamenti già sfumati dalla luce tenue e multicolore emessa da dei faretti agli angoli del locale, che
creava un’atmosfera di sicuro invitante per delle coppiette in fase di corteggiamento, ma alla lunga
stucchevole per delle amiche che volevano scambiare quattro chiacchiere.
“Non ancora! Altri guai con la mia auto e...!” – rispose Gloria guardandosi attorno, per poi fermare lo sguardo su una coppia che, al tavolo accanto, si scambiava paroline dolci all’orecchio.
Un pizzico d’invidia verso quei due ragazzi che, con piccoli sorrisi di approvazione, si stringevano le mani, la colse. Senza rifletterci, a Gloria vennero in mente le parole carine che Alberto le sussurrava durante i loro incontri, anche sessuali.
“Non ci pensare...!” – riprese Claudia intuendo Gloria che aveva subito cambiato espressione alla
vista dei due innamorati.
“No... non ci penso! Mi amareggia solo il fatto che chi ritenevo... poteva insomma... essere diverso e...!”
“Credi davvero...?” – interruppe Claudia dopo aver sorseggiato un po’ della sua birra – “...che ciò
che provi lo abbia vissuto solo tu? Tutti passano periodi simili a quello che stai attraversando, for-
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se... anche quei due! Devi superare la cosa, gioia! Dopo nove mesi ci pensi ancora? Cristo... fatti
analizzare da qualche psicanalista! E vedi di buttarla nella prima discarica che ti capita a tiro, quella
macchina pidocchiosa!” – sbottò con le mani aperte e la sigaretta tenuta saldamente fra le dita sottili
e aggraziate.
“Forse... forse hai ragione!” – disse Gloria appoggiando i gomiti sul tavolo, mentre il viso si illuminava di un sorriso.
“Sempre ho ragione, cara mia, anche se, come tu sai... detesto aver ragione!” – riprese Claudia
spegnendo la cicca nel posacenere – “Che ti piaccia o no... sei ancora una bella pupa da desiderare,
fidati! Basta che tu dica stop ai tuoi pensieri verso quell’idiota di Alberto e vedrai in quanti ti verranno dietro!” – finì osservando, nello stesso tempo, lo schermo gigante.
Il TG trasmetteva le sanguinose immagini dell’assedio di Pierre, capitale del South Dakota e circondata da oltre due settimane da un cordone asfissiante. Provenienti dal Minnesota e dall’Iowa, le
truppe di Washington avevano attaccato e ridotto in macerie Sioux Falls, grosso centro urbano al
confine con i due Stati e trasformato in avamposto della C.S.L.A., per poi incunearsi e spingersi fino
alla Capitale. Come accadde nel North Dakota, dove in quello Stato Grant aveva scagliato
un’offensiva che aveva ridotto gli abitanti dei villaggi di frontiera alla fame e che era costata la vita
ad oltre 50.000 vittime fra soldati e civili nella battaglia per la conquista di Bismark, anche il South
Dakota stava vivendo la stessa tragedia. Ora quelle crude immagini riportavano l’ultimo assalto di
Washington: anche se Pierre reggeva eroicamente alle incursioni delle truppe di Grant, colonne di
fanteria e di blindati calcavano già le strade di periferia della città fra le rovine e i cadaveri di gente
innocente sparsi ovunque e che fecero sussultare Claudia, tanto che Gloria se ne accorse e si girò
per seguire il telegiornale.
“Mamma mia... che stanno facendo!” – disse Gloria, mentre l’amica rimaneva ammutolita dal
servizio e dal pensiero del dove quella guerra avrebbe potuto portare – “Fortuna che il Governo si è
dichiarato neutrale, altrimenti quei morti potevano essere anche nostri fratelli!” – concluse girandosi
di nuovo verso Claudia.
“Non so... proprio non so!”
“Cosa?”
“Forse Lussemburgo sta sbagliando!”
“Credi che l’umiliazione in Caucaso e le allusioni di incompetenza militare rivolte all’Europa,
con cui l’allora Segretario di Stato americano rigettò la nostra proposta di ausilio, siano facili da dimenticare?” – reagì Gloria rizzandosi sulla schiena.
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“No...! Si sono comportati troppo da primi della classe, e sono d’accordo! Tuttavia, credo che
l’Unione delle Nazioni Europee avrebbe dovuto giocare d’astuzia e fare magari da mediatore, per
chiedere poi dazio a pace fatta! Questa chiusura mi pare troppo... drastica! È come se Grant e Coltrane si stessero scannando su un altro pianeta! Invece la guerra ha preso piede su questo, e con le
armi che costoro detengono... se in un conflitto del genere sfuggissero loro di mano, credo davvero
che saremmo in pericolo un po’ tutti!”
“Bah... pensi sul serio che siano così folli da farci saltare...?”
“Grant è un pazzo furioso!” – interruppe Claudia avvicinandosi al tavolo – “Ha strappato il potere a Coltrane, il quale, dopo che il Congresso lo elesse Presidente, ribadì le scuse che Gilmore, prima di essere assassinato, porse all’Europa per la vicenda del Caucaso e dell’India! Non mi stupirei
se, dopo la vittoria contro Los Angeles, Grant adducesse un pretesto idiota contro di noi così come
ha fatto con i suoi Stati fratelli, mi segui? Questa guerra è un grosso errore e non so se questo sia
stato voluto da chissà chi o sia solo il frutto della mente di un esaltato!”
“Può darsi...!”
“Bah... non pensiamoci più!” – disse Claudia alzandosi dalla sedia e invitando Gloria a fare lo
stesso, poiché era quasi mezzanotte.
Pagato il conto, le due donne uscirono dal pub e si avviarono a piedi verso casa, poiché abitavano
l’una a pochi isolati dall’altra e l’auto di Gloria era fuori uso. Claudia, dal canto suo e da ecologista
convinta, aveva rinunciato da tempo alla macchina, secondo lei principale causa di inquinamento
cittadino. Ecco perché si svegliava all’alba e andava e tornava dal lavoro a piedi – “Un po’ di moto,
specie di prima mattina, fa bene alla salute e ti mantiene in forma ed efficiente anche nello spirito!”
– diceva sempre, approfittando di qualsiasi discussione per lanciarsi in lunghi monologhi allo scopo
di illustrare la bontà del suo stile di vita. Comunque, era pur sempre simpatico passeggiare per la
città dopo una serata spensierata in birreria, nonostante le tragiche notizie che giungevano
dall’America e che stavano davvero inquietando la gente.
Il freddo pungente di quell’ottobre obbligò Gloria e Claudia a stare a braccetto per sentire un po’
di calore, non solo fisico. Le due donne erano, però, ben coperte dalle loro pellicce sintetiche acquistate a pochi soldi, in barba a chi sborsava migliaia di euro per indossare le spoglie di animali innocenti. Gloria non pensava più ad Alberto e alle sue meschinità, convinta che, a ragione di Claudia,
simili incidenti di percorso, anche se dolorosi, fossero necessari nella vita per forgiare il carattere.
Parlavano e ridevano, e le loro risa echeggiavano per i palazzi di Torpignattara. Dopo una sonora risata che Claudia aveva cercato da una sera nel viso di Gloria, entrambe tacquero, incedendo serene
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e con passo lento per Via San Pietro di Bastelica ed evitando ogni tanto escrementi di cane piazzati
in bella vista, con il rischio per i più sbadati di portarsi in casa quel bell’odore di città.
“Dicono che porti fortuna!” – disse Claudia rompendo il silenzio mentre trascinava la collega alla
larga da quell’obbrobrio.
“Se è così... allora sono fortunatissima, dato che ci nuoto dalla mattina alla sera nel letame!” – rispose Gloria ridendo.
“Guarda!” – urlò Claudia scorgendo un fulmine con molteplici ramificazioni che, apparso dietro
un alto palazzo in fondo alla strada, sparì poi immediatamente, dopo aver illuminato per pochi attimi la zona e le nubi minacciose dal quale era scoccato.
Il fragore spettrale del tuono che susseguì parve una cannonata; le due amiche si guardarono in
faccia intuendo che la saetta era caduta poco distante e che era perciò pericoloso rimanere ancora in
strada con tutti gli oggetti metallici e l’oro che avevano addosso. Scosse, accelerarono il passo e deviarono per Via Renzo da Ceri totalmente al buio; il fulmine doveva aver guastato qualche centralina elettrica e mandato in corto circuito l’illuminazione dell’intero isolato. Il tenue chiarore della città si mostrò alle due colleghe, timorose delle brutali azioni di qualche delinquente. Gloria, la più
impaurita, si girava di continuo indietro, mentre Claudia quasi la trascinava a forza. La donna sembrava di pietra, rigida, intimorita dal tuono assordante di prima e dal susseguente buio insidioso. In
fondo, però, il chiarore di alcuni lampioni la rasserenò, ma superato un vicolo, le forme imponenti e
oscure di un uomo ostruì loro il cammino.
Le due amiche si bloccarono e, impaurite, fissarono lo sconosciuto immobile e celato dalle tenebre. Tentarono di indietreggiare, ma subito avvertirono un’altra presenza alle spalle che impedì loro
di fuggire. Claudia intuì subito il pericolo e accennò un timido grido, ma l’uomo dietro di loro spinse Gloria con violenza e la gettò a terra per poi avventarsi sulla collega. Il complice saltò invece addosso a Gloria dolorante al fianco e la tirò su dai capelli. Senza poter reagire, la donna fu investita
da un sonoro schiaffone che la intontì; colpita in pieno viso, tanto da sentire l’occhio schizzarle fuori dall’orbita, Gloria soffocò un urlo. La paura, però, la fece riprendere quel poco da consentirle di
vedere Claudia selvaggiamente picchiata e spinta nel vicolo buio che avevano di lì a poco superato.
Il complice allora li seguì trascinando Gloria con una mano contro la bocca per non farla urlare. Dolorante per la fitta al braccio che il bruto le aveva piegato dietro la schiena, quasi a volerglielo strappare dall’articolazione, la donna venne scaraventata contro il muro. Stordita, scivolò a terra accanto
a Claudia intontita e con i vestiti lacerati.
“Ed ora, sgualdrine, ci divertiamo un po’ con voi due!” – disse uno dei due delinquenti con accento spiccatamente romanesco, dritto e possente davanti a loro.
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L’altro, intanto, frugava nella pelliccia di Claudia, aperta fino a scoprirle i vestiti stracciati e la
gonna alzata all’inguine. Ciò suscitò nella mente del balordo una ghiotta opportunità: non esitò, infatti, a palparle un seno e ad affondare poi la stessa mano fra le gambe per tastarle le intimità. Anche
se stordita, Claudia sentì quelle dita che la sondavano e tentò una timida reazione bloccando quella
mano con le poche forze rimaste, ma un pugno le spaccò il labbro e la fece svenire. La donna, ferita
e priva di sensi, si accasciò a terra su un fianco, mentre il suo sangue gocciolava dal mento sulla
camicia strappata dagli impeti del bruto che, nel frattempo, si cacciava pochi euro nelle tasche dei
jeans.
“Ed ora veniamo a te!” – mormorò il complice, agguantando Gloria per la camicetta e per il reggiseno che, per la violenza, gli si strapparono fra le mani scoprendole i seni e le cicatrici.
La donna perse ancora l’equilibrio e cadde di peso sul marciapiede; l’altro però la riprese per un
braccio e la sbatté ancora al muro. Fra le due amiche, Gloria era la più graziosa e i due sembravano
accanirsi di più con lei e con la sua bellezza. Mentre uno dei balordi la teneva ferma, l’altro le apriva la pelliccia per scoprirle le mammelle e i capezzoli inturgiditi dal freddo. Con un ghigno celato
dal buio, i due iniziarono a palparla per poi sollevarla di peso; pareva che avessero fra le mani una
bambola da rompere e da gettare appena finito il divertimento. Ormai Gloria non opponeva più resistenza; sentiva solo quelle mani che la tastavano e le strizzavano i seni e i glutei. Ad un tratto, uno
dei due, nel palparle il petto percepì la presenza delle cicatrici.
“Ti hanno già castigata, vero? Te le hanno tagliate! Bene ora vedremo l’altro taglio!” – disse il
balordo sghignazzando.
L’uomo le alzò la gonna e allungò un dito per violentarla nella maniera più vile, mentre Gloria
gemeva con occhi fissi al cielo buio, assenti. Ansimava la povera donna, sentendo le manacce dei
due che la tenevano incollata al loro corpo e le bloccavano i movimenti con un abbraccio spregevole
e culminante in una turpe stretta ai seni. Ad un tratto, Gloria strinse le palpebre e iniziò a respirare
con più regolarità, per poi rivolgere uno sguardo truce ai due delinquenti che, per il buio, non aveva
ben visto in faccia. Costoro intanto ridevano e godevano di quel palpeggiamento, finché non incrociarono gli occhi luccicanti di Gloria. Poi, un urlo: un grido, che sembrava di battaglia, assordò i due, i quali tentarono di impedirle di dimenarsi pressandola ancor di più con il loro corpo. Fu, però,
inutile: come mosse da una forza incredibile, Gloria aprì le braccia e si liberò da quelle tenaglie. Di
nuovo a terra e con i masseteri irrigiditi dall’ira che si rispecchiava in due pupille enormemente dilatate, Gloria, fino a poco prima gracile e mite, reagì. Con velocità fulminea prese il braccio di uno
dei delinquenti e glielo torse sentendolo spezzare sotto le dita, per poi, con gesti velocissimi, assestargli un poderoso pugno in pieno viso che lo scaraventò a terra in una pozza di sangue.
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“Maledetta...!” – urlò l’altro nel vedere il complice steso sull’asfalto, morto e intriso di sangue
sgorgante dagli occhi innaturalmente sprofondati nel cranio – “...lo hai ammazzato!”
Ma Gloria gli rivolse uno sguardo furente e carico di represso istinto omicida; respirava con la
bocca aperta quanto bastava per lasciare scorgere solo gli incisivi, come una belva ferita e carica di
odio. Atterrito, l’uomo indietreggiò e tentò di ragionare con colei che, ormai, non voleva più scendere a patti. Gloria, notevolmente più piccola, lo raggiunse e, preso dalla cintola, lo sollevò in aria.
Colto dal panico nel vedersi sorreggere solo dal braccio teso di quella donna esile e dagli occhi
freddi e bovini, il bruto provò ad urlare e ad implorare pietà. Roteando la testa per rilassare i muscoli del collo, ma non scostando dagli occhi del balordo uno sguardo cinico e affamato di morte, Gloria gli rise in faccia e lo scagliò contro il muro. L’uomo scivolò a terra con il cranio spaccato in due,
lasciando una scia di sangue e di cervello appiccicata al muro imbrattato di scritte. La donna avvertì
un cerchio alla testa e il respiro accelerato, mentre fissava i due cadaveri e Claudia svenuta e stesa
sanguinante sul marciapiede. Si guardò poi le mani credendo che tutto intorno a lei ballasse.
Finalmente lo stordimento stava cessando, ma ora subentrava il panico di se stessa e di quelle
morti. Si credeva un’assassina che avrebbe dovuto dare conto alla polizia e a chi la circondava; neppure lei sapeva spiegarsi l’origine di quella forza così brutale da far fuori due energumeni con la
stessa semplicità con cui si uccide un insetto. Non c’era tempo da perdere; si precipitò verso Claudia
e la issò fra le braccia, stavolta con grande fatica. Perché sentiva ora il peso dell’amica se poco prima aveva sollevato quel colosso come se pesasse una piuma? Era forse stata la paura o la rabbia a
darle tanta forza? Mezz’ora dopo, e con il pensiero rimasto in quel vicolo, Gloria adagiava Claudia
ancora svenuta sul suo letto, mentre rimuginava sull’accaduto e sul come uscirne pulita. D’altra parte, la polizia non sarebbe mai risalita a lei sia perché, con quel buio, nessuno era riuscito a vederla e
sia perché le due morti erano avvenute in modo così feroce da non poter credere che queste fossero
le conseguenze dalla reazione impulsiva di una mingherlina. Il ragionamento filava a pennello per
scagionarla, consapevole che nessuno doveva conoscere la verità di quella sera, neanche Claudia.
Fu una vera fortuna che l’amica fosse svenuta; riavutasi, le avrebbe raccontato di essere state derubate e che erano riuscite a scappare fortunosamente dalle loro grinfie. L’azione di qualcun altro avrebbe fatto il resto.
Gloria andò in bagno e si riflesse allo specchio. Era un mostro. Si fissò e ricordò lo sguardo terrorizzato del bruto da lei scagliato contro il muro; uno sguardo che, di certo, l’avrebbe assillata per
un bel pezzo. Chiuse le palpebre e, con le braccia rigide e appoggiate sull’orlo del lavandino, chinò
il capo. I capelli le scivolarono davanti, come a nascondere il senso di colpa per aver ucciso due
uomini nonostante le violenze subite. Lo stordimento: oltre alla forza incredibile, Gloria non riusci-
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va a capire l’intontimento che la colse negli attimi più concitati dell’aggressione. Rievocò
l’accaduto e ciò che la impaurì di più fu la sua reazione indomabile, come se il suo corpo avesse
agito all’infuori dalla sua volontà e senza che nulla avesse potuto placarlo. Nonostante i tentativi di
limitare le forze, ricordò l’ira crescente e le mani come mosse da un volere appartenente ad
un’entità lontana eppure presente in lei. Alzò il capo e si riflesse di nuovo allo specchio.
Il suo viso si affilò e sentì le viscere contrarsi con violenza, finché non vomitò con dolorosi spasmi. Finito di rimettere, Gloria si sciacquò il mento e ripulì il lavandino; quindi tornò a specchiarsi.
Come in un flashback, la donna rievocò l’incubo che da tempo l’assillava in piena notte: un uomo
con il capo chino, insanguinato e appeso al ramo di una quercia che agonizzava ma che poi svaniva
risvegliandola in un lago di sudore. Lo stesso intontimento: il cerchio alla testa provato durante la
colluttazione con i bruti era uguale a quello che in sogno avvertiva alla vista del prigioniero penzolante e morente. Ma la cosa strana era che verso quel povero Cristo non nutriva alcuna pietà, anzi,
gli ribolliva il sangue e le aumentava lo stordimento. Ad un tratto il suo volto si stravolse; le labbra
si deformarono in un ghigno e gli occhi divennero crudi e simili a quelli di una belva inferocita.
Quelle sembianze riflesse la atterrirono, ma erano così magnetiche da non poter scostare gli occhi; era lei stessa alterata in viso, con i suoi delicati connotati soppressi da qualcosa che avrebbe
impaurito anche la persona più rude e sprezzante del pericolo. Sentiva il cuore battere all’impazzata,
come a voler raccogliere le forze per assalire nuove prede; avvertiva dentro di sé un non so che
sgomitare per emergere e riprendere un’identità viva in lei e carica di un odio che cresceva a dismisura e che era simile a quello che l’assalì quando il volto di Raul de Cesaris le balzò in mente la volta in cui tentò di rilassarsi con un bagno caldo, e che ora si stava rivelando con lo sgretolarsi del lavandino afferrato con forza. Finché non udì Claudia gemere. Gloria scosse il capo e chiuse gli occhi
per riaprirli subito dopo. Per fortuna, il suo viso era tornato disteso e quella figura da belva svanita.
Inspirò profondamente per riprendersi ed avere la forza per andare di là e affrontare Claudia che le
avrebbe certamente chiesto come fossero uscite dalle mani dei due bruti. Meditando ancora sulla
versione da intavolare all’amica, Gloria si diresse in camera dove trovò la collega che la fissava con
occhi inquieti. Si avvicinò e si sedette sul fianco del letto; ma Claudia si girò verso la finestra.
“Come ti senti?” – chiese Gloria con i pugni fra le gambe.
“Un po’ ammaccata, ma bene!” – rispose Claudia.
“Ce la siamo vista brutta, ma ora è tutto finito!” – riprese Gloria con un sorriso appena accennato, senza però capire perché Claudia non le rivolgesse lo sguardo.
“Ci hanno rapinato?”
“Sì, e poi...!”
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“E poi...?” – ribatte Claudia girando di nuovo la testa per cogliere gli occhi di Gloria e fissarli intensamente.
La donna fu colta dall’imbarazzo; che l’amica avesse visto tutto nonostante fosse svenuta? O forse era ben desta, ma paralizzata del terrore nel vederla uccidere due bestioni dalla muscolatura da
culturista.
“E poi... niente! Hanno tentato di violentarci! Uno dei due ha però preferito lasciar perdere e mi
ha permesso di farci scappare, anche se il complice non era del tutto d’accordo!”
“E così ci hanno fatto pure un favore!” – mormorò Claudia abbassando lo sguardo.
“Beh... sì! È la verità!”
“Gloria... è questo che racconterai appena troveranno i due cadaveri?”– chiese Claudia squadrandola di nuovo – “Ammesso che qualcuno possa ricondurre le loro morti a noi due!”
Gloria si affilò in volto e si rizzò sulla schiena. Claudia aveva visto tutto e poteva essere una pericolosa testimone. Una strana sensazione la assalì, mentre un brivido freddo le percorse la schiena;
l’insolita rabbia accompagnata da odio profondo stava ritornando, fino a meditare di assassinare pure lei. Si alzò di scatto dal letto e la fissò con i pugni serrati; chiuse poi gli occhi e scosse il capo
nella speranza di ricacciare indietro quel pensiero orribile. Aggirò il letto e, turbata, raggiunse la finestra avvertendo, però, lo sguardo di Claudia che la seguiva e che non aveva alcuna intenzione di
mollarla. Spostò le tendine e vide il temporale frustare il rione, scorgendo la gente giù in strada che
correva alla ricerca di un riparo. Richiuse le tende e si rigirò verso l’amica. Claudia sembrava pietrificata, come se vedesse Satana in persona.
“Che ti prende Claudia?” – chiese Gloria accostandosi al letto.
“Esci fuori di qui!”
“Ma Claudia... che dici?”
“Mi hai sentito? Fuori da casa mia... per l’amor di Dio!” – urlò la donna, preda di un terrore dipinto nei suoi occhi sgranati.
“Va bene me ne vado... me ne vado!”
Aggirato di nuovo il letto, Gloria fece per andarsene, mentre Claudia rimaneva immobile, seduta
sul letto con la schiena incollata alla spalliera e le braccia rigide come barre d’acciaio; finché non
udì la porta di casa sua chiudersi, quindi, sconvolta, balzò dal letto e corse verso l’uscio. Lo sprangò
e bloccò la maniglia con una sedia; si girò e appoggiò le spalle alla porta, certa che il male fosse andato via da casa sua. Chiuse gli occhi e sospirò, dopodiché optò per una buona camomilla per scordare gli orrori cui era stata testimone quella sera. In cucina, ripensò a Gloria e alla metamorfosi che
l’aveva resa assassina. Cosa avrebbe dovuto fare? Andare alla polizia e vuotare il sacco o credere di
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esserselo sognato e far finta di niente? Ma come comportarsi l’indomani al giornale? Per quanto avrebbe mantenuto un segreto così ingombrante e difficile da custodire? Con questi pensieri, mentre
sorbiva la sua camomilla, giunse in camera; dopo averla finita, dolorosamente per il labbro spaccato, si coricò e spense la luce. Tentò di dormire, ma il sonno fu perturbato da brutti incubi che la costrinsero più volte nella notte a svegliarsi di soprassalto con lo sguardo maligno di Gloria davanti
agli occhi. Ma la cosa più importante, a quel punto, era di essere ancora viva.
CAPITOLO III
GRANT ALL’OFFENSIVA
PRIMO TENTATIVO DI FORD
Curvi sul tavolo invaso da carte geografiche e da lunghi tabulati, gli uomini studiavano le informazioni codificate da sequenze alfanumeriche, alzando a tratti lo sguardo verso uno schermo piazzato di fronte a loro e dove erano tracciati i teatri delle manovre militari inviati da una delle poche
sonde funzionanti che la Confederazione era riuscita a sottrarre al controllo di Washington. Un genio informatico, infatti, supportato dalle rivelazioni fornite da schegge dei servizi segreti che parteggiavano per Coltrane, con un abile lavoro di pirateria era riuscito a penetrare nella memoria del
Pentagono e a controllare l’orbita e la strumentazione del satellite. Nonostante ciò, Los Angeles soffriva la potenza d’urto, ad essa notevolmente superiore, delle divisioni fedeli a Grant.
Nervoso, lo staff civile e militare analizzava i dati captati dalla sonda e confermati dal video. La
situazione era grave: un mese prima, le armate di Grant avevano conquistato Bismark con una battaglia ferocissima che era costata la vita ad oltre quarantamila soldati e a diecimila civili, ed ora
sembrava che anche Pierre fosse destinata alla stessa fine. Dopo la caduta di Sioux Falls, la Capitale
del South Dakota era rimasta senza difese. Ciò costrinse gli abitanti ad insorgere affinché la distruzione della città non creasse quella invalicabile e desertica linea di confine tramite la quale, secondo
i piani di Grant, Washington si sarebbe tolta la zavorra degli Stati dell’Ovest, colpevoli, per la Casa
Bianca, di aver trascinato gli U.S.A. nel baratro. Frasi deliranti trasmesse ogni sera da Grant dai
network degli Stati della costa atlantica e che avevano invaso Worldnet.
Tutti erano ansiosi per Pierre, assediata da oltre quindici giorni da tre divisioni corazzate sostenute da sei divisioni di fanteria, senza che si potesse aiutarla per le limitate forze a disposizione e per
la grande estensione del territorio da difendere. Senza contare le perdite che la resa di Sioux Falls
aveva causato e alle turbe di esuli da soccorrere e da dirottare verso il Wyoming e il Montana, dato
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che il Canada, membro del Commonwealth britannico e, di riflesso, satellite dell’U.N.E., aveva
chiuso le frontiere da Vancouver a Emerson, isolando la C.L.S.A. in una specie di riserva destinata a
decadere negli anni. Le ragioni del blocco canadese, oltre alla politica di Lussemburgo, dovevano
però ricercarsi nell’aborto di una Comunità Economica nordamericana che sarebbe dovuta nascere
nel 2005 e che la Guerra Caucasica aveva rinviato. Ottawa, infatti, già pregustava l’accordo, adducendolo come pretesto per sganciarsi definitivamente dal Commonwealth. Ed ora, la chiusura delle
frontiere canadesi non aveva fatto altro che contribuire al collasso del commercio del bestiame dei
due Stati aderenti alla Confederazione, schiacciati dalla crisi e dall’onda di profughi che, da nord-est
e con notevoli disagi, si erano spinti fino a ridosso di Helena e, da est, avevano raggiunto e congestionato Cheyenne fino a sconfinare nel Colorado. Su Worldnet, Coltrane pregava di tenere duro e
di attendere le mosse di Los Angeles; la stessa esortazione era stata diramata a Lincoln e a Topeka,
forse prossime prede di Grant. Tuttavia, il fatto che Pierre ancora reggesse era confortante. Nonostante la periferia della città fosse già persa, gli abitanti avevano eretto barricate e si erano asserragliati nei grattacieli del centro, rispondendo ancora colpo su colpo ai tentativi di sfondamento per
non darla vinta a quei banditi di Washington.
Grant andò in bestia, fino a minacciare che se in due giorni la città non fosse capitolata, ci avrebbe pensato lui a ridurla in un cumulo di macerie radioattive. Informato di ciò, Coltrane perse il sonno; se l’escalation fosse degenerata fino a ricorrere alle armi nucleari sarebbe stata la fine e la condanna perenne della Storia nei confronti degli Stati Uniti o di ciò che ne sarebbe rimasto. Frenetico,
lo staff entrava e usciva dalla sala-controllo con, sotto braccio, grossi faldoni contenenti informazioni sugli sviluppi dell’assedio. Il mormorio insistente, che fungeva da colonna sonora a quelle ore
concitate, testimoniava l’ansia che aleggiava nella sala e che si rivelava nelle tempie imperlate di
sudore del Presidente, il quale, anche se in apparenza calmo, esternava la sua angoscia con lunghe
boccate di sigaro e con le mani che, a tratti, si passava sugli occhi per riprendere lucidità.
“Stiamo perdendo Pierre, Signore!” – disse un generale dopo aver letto l’ultimo dispaccio proveniente dalla città assediata – “È la fine!” – aggiunse scoraggiato; quindi lo porse a Coltrane.
Il Presidente lo prese e cominciò a leggerlo dopo aver inforcato degli occhiali dalla spessa montatura. Più apprendeva quanto scritto, più le mani gli tremavano dalla rabbia. Finito di leggere,
l’uomo lasciò scivolare il dispaccio che, leggero, cadde a terra; chiuse poi i pugni e li sbatté con le
nocche sul tavolo appoggiandovisi con tutto il suo peso. Capo chino ed occhi fissi sui documenti
davanti a lui, Coltrane tentò di infondersi coraggio per comunicare la sua sofferta decisione.
“Signori...!” – esordì affranto, mentre alzava la testa per poi volgersi a Michael Ford, suo braccio
destro – “...capitoliamo! Generale Jefferson... avverta Washington che è mia intenzione cedere Pier-
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re, a condizione che le sue truppe non infieriscano sulla città! Signor Duke, immetta una s-mail su
Worldnet da diffondere all’intero pianeta! Scriva che... per evitare altro spargimento di sangue fratello e nell’intendimento di salvare la vita degli abitanti di Pierre dalla soverchiante arroganza degli Stati dell’Est, la Confederazione dei Liberi Stati Americani decreta di desistere dalla resistenza
ad oltranza e cede ad Arthur Grant, principale artefice di questo massacro, la Capitale del South
Dakota! Scriva... scriva così!”
“Sissignore!” – rispose il funzionario della Presidenza.
Stanco e rassegnato, Coltrane si abbandonò sulla poltrona e celò i suoi occhi con una mano affinché nessuno potesse vedere l’impulso di pianto che lo assalì. Il funzionario, addolorato per la sconfitta del suo Presidente, lentamente si allontanò e uscì per eseguire quanto ordinato. Ford si avvicinò
a Coltrane e si pose dietro di lui; quindi gli appoggiò una mano sulla spalla per rincuorarlo, mentre
gli altri ufficiali gettavano in aria i fax e i dispacci in segno di resa. Tutto era ormai perduto.
“E se chiedessimo aiuto a chi so io?” – propose Michael.
“Non so... non so! Il fatto che Grant stia calpestando i trattati internazionali e la Costituzione...
non credo mi dia il diritto di fare altrettanto e...!”
“Ma Cristo Santo...!” – sbottò Ford attraendo l’attenzione dei presenti; inviperito, aggirò la poltrona e si mise davanti al Presidente appoggiandosi ai braccioli della poltrona – “...sai qual è la
prossima vittima di quest’assurda guerra?” – mormorò con gli occhi che scavavano l’anima di Coltrane.
“Penso di sì, Mich!” – rispose pacatamente il Presidente, mettendo la sua mano su quella del suo
braccio destro; gli occhi dell’uomo si inumidirono di lacrime in procinto di traboccare.
Ford se ne accorse e, calmatosi, si rizzò sulla schiena. I due si volsero poi verso lo schermo e fissarono la geografia degli U.S.A. e i confini del Nebraska e della capitale Lincoln segnata in rosso.
“Indugiamo ancora un po’! Poi si vedrà! Avverti il Governatore del Nebraska di un possibile attacco di Grant e di rafforzare le difese al confine con la sua polizia e la Guardia Nazionale!”
“Come ordini, Presidente!” – borbottò Ford, frustrato per non averlo persuaso della sua idea;
Mich si allontanò e raggiunse l’uscita della sala ma, proprio sulla soglia, si volse ancora verso Coltrane – “Pensaci Adam... pensaci! Io lo conosco bene e non può nulla se non glielo chiediamo noi!”
Ma il Capo della Confederazione sembrò non averlo neanche sentito, assorto com’era a fissare
ciò che appena un anno prima era la sua Patria. Ford scosse il capo e lo abbassò, quindi uscì via, carico di pensieri derivanti dalle sue responsabilità che, sapeva bene, erano nulla in confronto a quelle
del suo Presidente.
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LA MORTE DI CLAUDIA CORDELLI
La donna fissava l’orologio appeso alla parete. Per l’intera mattina aveva riflettuto su ciò che era
accaduto la sera precedente, certa che Claudia avesse assistito al brutale omicidio dei due balordi,
come era altrettanto sicura che l’amica fosse l’unica testimone. Doveva perciò assolutamente negare
il loro coinvolgimento anche davanti all’evidenza più pura e confutare l’eventuale deposizione di
Claudia alla Procura offrendo come pretesto una crisi psichica della collega dovuta all’aggressione;
sempre che si fosse riusciti a risalire a loro. Aveva anche dormito male quella notte, sognando ancora la folla in divisa che, atterrita, pregava poco distante all’uomo appeso al ramo di una quercia. Assonnata, Gloria sbadigliò davanti al monitor che, stanco di attendere, aveva attivato una bizzarra
impostazione dello screen saver dove Topolino, con l’indice puntato, invitava l’operatore a svegliarsi. La donna si mise una sigaretta spenta alle labbra e, dopo uno sbadiglio, si inserì di nuovo nel sistema. Subito venne attratta da una notizia che in parte si aspettava, ma che la turbò comunque: verso l’alba i netturbini del Comune avevano rinvenuto i cadaveri dei due balordi da lei uccisi ed avevano avvertito le forze dell’ordine.
Scossa, Gloria chiuse gli occhi e cambiò pagina senza avere il coraggio di leggere quanto era stato riportato circa quelle morti; sapeva, però, che se la polizia avesse avuto almeno un indizio su di
lei, sarebbe già stata sulle sue tracce. Con mille diavoli in testa, la donna si guardò attorno e fissò di
nuovo l’orologio: le 10,30 e Claudia non era ancora giunta al lavoro. In cuor suo, Gloria sperava che
le ferite patite la sera prima avessero indotto l’amica ad assentarsi. Ma, allora, perché non chiamarla
per dirle che quel giorno non sarebbe venuta a lavorare? Che fosse ancora terrorizzata di lei? O forse, dopo una notte trascorsa a macerarsi la testa, era corsa di buon ora al commissariato di zona a
spifferare l’accaduto?! Gloria iniziò a sudare freddo, immaginando quattro piedipiatti che, su indicazione di Claudia, piombavano in redazione per arrestarla con l’accusa di omicidio. Posò la sigaretta spenta sul tavolo e, presa la cornetta del telefono, con angoscia compose il breve numero interno dell’ufficio del personale.
“Pronto, Aldo? Ciao... sono Gloria!” – mormorò affinché nessuno la sentisse – “Ascolta! Claudia
ed io avevamo oggi un importante incontro per la nostra inchiesta, ma qui lei non si è ancora fatta
viva e mi chiedevo se vi avesse comunicato... non so... di essere in malattia o in ferie!” – chiese
guardando i colleghi con diffidenza – “Sì? Niente? Va bene, Aldo! Proverò a chiamarla a casa per
vedere che fine ha fatto! Ti ringrazio! Ciao!”
Gloria chiuse la telefonata e, titubante, rimase qualche attimo assorta con la cornetta alle labbra;
si infuse poi coraggio e compose il numero di Claudia. Ma il telefono squillò a vuoto. Gloria iniziò
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a fremere; che Claudia fosse davvero andata dalla polizia a vuotare il sacco e ad indicare lei quale
autrice del duplice, feroce omicidio? Con il telefono incollato all’orecchio, Gloria si cacciò i lunghi
capelli indietro, rivelando un viso carico di ansia; poi, finalmente, qualcuno rispose con tono grave e
inquisitorio. Non riconoscendo quella voce, la donna si rizzò sulla schiena.
“Pronto... ma chi parla?” – chiese con insistenza l’uomo dall’altra parte del telefono.
“Pronto...? Ma... è casa Cordelli?”
“Sì, è l’abitazione di Claudia Cordelli! Ma chi parla?”
“Sono Gloria Silvestri, una sua collega! E chi è lei?”
“Mi scusi signorina... ma devo chiederle il motivo della sua chiamata!”
“Veramente... per lavoro! È tardi e poiché al personale non è giunta alcuna comunicazione della
mia collega per un giorno di astensione, mi chiedevo il motivo del ritardo! Ma insomma... si può sapere con chi sto parlando?”
“Sono l’ispettore di polizia Imposimato!”
“Ispettore? E che ci fa lì?” – chiese Gloria, colta dal panico; la polizia in casa dell’amica stava
davvero avvalorando l’idea che Claudia non fosse riuscita a mantenere il silenzio.
“Mi dispiace di doverle dire che abbiamo rinvenuto il cadavere della signora Cordelli appena
un’ora fa e...!”
“Cadavere? Mio Dio!” – gridò la donna attirando l’attenzione dei colleghi i quali, sorpresi, si
volsero verso di lei.
Gloria fece uno scatto indietro e mollò la cornetta sul tavolo come se fosse percorsa da corrente
ad alta tensione. Con gli occhi sbarrati e fissi, si portò le mani sulla bocca, mentre le lacrime iniziavano a traboccarle dalle palpebre. Stordita, si abbatté poi sulla scrivania mandando a terra diversi
fogli di carta. I colleghi si precipitarono per soccorrerla e, raggiunta, la tirarono su.
“Cristo, Gloria! Ma che è successo?” – chiese un collega adagiando la donna sullo schienale della poltrona – “Fate spazio, porco Giuda! Fatela respirare!” – urlò poi verso gli altri compagni di lavoro che, intanto, avevano già circondato la scrivania.
“Il telefono...!” – mormorò Gloria in lacrime; con la mano pesantemente sollevata, indicò la cornetta: il collega allora la prese di scatto e se la portò all’orecchio.
“Pronto? Ma chi parla?” – chiese l’uomo; nell’apprendere della morte di Claudia, il cronista accelerò il respiro e sgranò gli occhi fissando Gloria che, riavutasi, lo guardava piangente mentre gli
altri le massaggiavano le mani e la nuca – “Ma com’è successo? Gesù... è orribile!” – disse sdegnato
– “Avvertirete voi i familiari? D’accordo, come vuole! Riferiremo al nostro Direttore! Certo... è logico! Grazie ispettore! Addio!” – concluse. Schifato dal racconto di Imposimato, l’uomo abbassò il
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ricevitore e lo fissò, mentre tutti attendevano di sapere cosa era capitato di tanto terribile a Claudia –
“Per la Madonna!” – mormorò.
Ci volle molta forza e un profondo respiro per riprendersi da tanto orrore. Poi, con gli occhi, fece
un cenno ad un collega per parlargli in disparte e non procurare paura e ribrezzo agli altri, specie alle donne.
“Marco... che ti ha detto...?” – mormorò Gloria.
“Nulla che non abbia raccontato a te!”
“Non prendermi in giro, Marco! Ti ho visto fare segni a Guido! Cos’è che non dovrei o non dovremmo sapere?”
“Cristo, Gloria! Claudia è morta, capisci?” – urlò il giornalista. I colleghi presenti sgranarono gli
occhi, mentre le donne, sgomente, si portavano le mani alla bocca per soffocare un grido di dolore –
“Non c’é più! Cos’è che dovrei dirti oltre? Comunque ci sto andando personalmente per riferire al
giornale, ai lettori e... forse anche a me stesso! Credimi... non avrei mai voluto stendere un articolo
riguardante la morte della mia ex-ragazza, Dio del Cielo!” – disse poi, sbattendo il pugno sul tavolo.
Incapace di dire altro e acceso in viso, l’uomo uscì fuori dopo aver pregato un collega di avvertire il Direttore dell’accaduto. Guido allora lo seguì, curioso di sapere cosa Marco aveva di tanto riservato da dirgli. In corridoio, Marco si appoggiò di spalle alla parete e incrociò le braccia; lontano
dai colleghi, iniziò dapprima a singhiozzare per poi abbandonarsi al pianto, ma sopraggiunse Guido,
il quale, anche lui affranto, gli diede una pacca sulla spalla per rincuorarlo. Marco si rizzò sulla
schiena e tentò di frenare il suo dolore in gola.
“Ma come si fa...!” – sussurrò l’uomo fissando, con occhi gonfi, il soffitto – “L’hanno massacrata, ti rendi conto?”
“Ma che dici?”
“Me lo ha detto l’ispettore Imposimato che è lì ad assistere allo schifo che hanno trovato!
L’hanno sventrata come una vacca da macello! Hanno trovato le sue viscere e il sangue... il sangue
sparsi per mezza camera da letto...!”
“Cristo Santo...!”
“L’hanno ammazzata... l’hanno...!” – mormorò Marco balbettante – “Povero amore mio... che ti
hanno fatto!”
Marco chinò la testa, mentre Guido lo abbracciava per sollevarlo e per celargli il volto affranto
dagli occhi dei colleghi, i quali si chiedevano cosa fosse accaduto di terribile.
“È passato, Guido! È passato!” – riprese Marco rialzando la testa; quindi sospirò e si asciugò le
lacrime con una mano.
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“Senti, Marco! Sei troppo sconvolto! Andrò io a casa di...!”
“No, vengo anch’io! Se avessi avuto problemi del genere, avrei cambiato mestiere!”
“Sicuro di sentirtela?”
“Sì... tutto a posto! Dai... andiamo a vedere questo disastro!” – concluse deciso Marco; quindi si
allontanò dal collega.
“Come vuoi!” – disse Guido, sapendo che Marco stava recandosi sul posto più per rabbia che per
senso del dovere.
Anche se a malincuore, lo seguì. La professione glielo imponeva, al di là dell’amicizia che li legava. Era doveroso per sorreggerlo davanti a ciò che, di lì a poco, entrambi avrebbero visto.
I SENSI DI COLPA DI GLORIA – LA FINE DI CASSIO
L’omicidio di Claudia Cordelli sconvolse la gente, soprattutto per l’efferatezza con la quale venne trucidata una donna dall’apparente vita tranquilla. Naturalmente, il Direttore del giornale, in un
suo editoriale, non giunse ad alcuna ipotesi, ma risaltò le qualità della collega divulgando il suo
pezzo sotto la forma di un toccante elogio funebre. In ossequio a Claudia, e dopo i dovuti accertamenti sul suo cadavere da parte della Procura, i funerali si celebrarono senza clamore e senza il tormento di telecamere e reporter armati di microfoni per ottenere, da genitori e amici, una qualche dichiarazione da costoro: era il minimo che si potesse fare per venerarla. Ma gli inquirenti dovevano
comunque fare il loro dovere ed era ovvio che questi avrebbero disposto di buttare all’aria la vita
privata della vittima pur di trovare indizi che potessero portarli a qualche pista.
L’appartamento di Claudia divenne teatro di parecchi sopralluoghi della polizia, ma, a sei giorni
dal delitto, nulla era stato scovato per dargli una logica, specie per la crudeltà con la quale questo
era stato consumato. La donna venne, infatti, trovata dalla vicina di casa, ricoverata all’ospedale
Vannini perché colta da malore, con gli occhi fissi e atterriti, come se avesse ancora impresso il dolore fisico subìto. Un preciso fendente all’inguine, proprio sopra l’osso pubico, bastò per ucciderla;
non contento, l’omicida la squarciò poi fino all’altezza dello sterno, rinvenuto tagliato a metà nel
senso della lunghezza. Ma la cosa più repellente fu che la Belva, dopo averle aperto il ventre, le
strappò le interiora per poi scagliarle ovunque, perfino sul lampadario. Ovviamente, la Procura non
divulgò questi particolari, non solo per mantenere il segreto istruttorio, ma anche non creare allarmismo. Alcuni criminologi sostennero che poteva trattarsi di qualche folle che colpiva a caso le sue
prede: altri, invece, con molta più malizia, affermarono che forse Claudia conoscesse il suo carnefi-
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ce. Al di là di ogni ipotesi, prima di fuggire via chi la uccise impiegò comunque parecchio per togliere ogni traccia che potesse portare la Procura al colpevole del massacro.
Gli inquirenti erano però concordi nel giudicare sadica la fine di Claudia. Si pensò perfino a trofei demoniaci per qualche rito satanico, ma quest’ipotesi decadde poiché nessuna parte delle viscere
di Claudia mancava all’appello, per quanto tumefatte fossero state ritrovate. Che nessuno avesse poi
sentito o visto qualcuno entrare o uscire dall’appartamento della donna rendeva il caso ancor più oscuro. Solo un particolare faceva riflettere la Procura: il lavandino del bagno, trovato incrinato da
chissà quale forza. Qualcuno, si pensava, lo aveva dapprima preso di mira per poi, incapace di controllarsi, sfogare la sua ira contro la povera Claudia; una rabbia irrefrenabile quanto lucida poiché la
Belva si era presa la briga di cancellare le impronte anche dall’orlo del lavandino. Solo i solchi rotondi di otto dita più due subito sotto il suo bordo, e contornati da piccole e profonde crepe nella ceramica, lasciavano supporre che si trattassero di mani umane, ma nulla più.
Seduta sul letto, Gloria leggeva avidamente i vari quotidiani che riferivano la morte dell’amica
per conoscere quanti più dettagli possibili. Approfittando di essere stata colta da un malore appena
appresa la notizia dell’uccisione di Claudia, la donna si era astenuta dall’andare al giornale dove avrebbe potuto tradirsi in qualche modo. Lei si sentiva infatti colpevole di tutto ciò; non riusciva a
dimenticare la mancanza di scrupoli con la quale aveva fatto fuori i due bruti né, tanto meno,
l’immagine feroce apparsa sul suo viso la sera stessa dell’omicidio della collega, quando proprio per
questo Claudia l’aveva cacciata fuori di casa con il terrore stampato negli occhi. I sensi di colpa la
stavano divorando; aveva vomitato parecchie volte al ricordo di come aveva ucciso i due malviventi
e di ciò che leggeva sulla morte dell’amica. Si guardava le mani e le sembravano sporche del suo
sangue, convinta che il mostro appena scoperto albergare in lei si fosse affrettato a tappare la bocca
di una pericolosa testimone. Così era però troppo spietato. Ma quegli occhi, quel ghigno e quella
forza con la quale aveva quasi stritolato un lavandino la portavano ad una sola ipotesi: era stata lei
stessa a ritornare sui suoi passi, ad irrompere nell’appartamento di Claudia e ad ammazzarla.
Al ricordo del suo viso, Gloria pianse e si lasciò andare soffocando i gemiti contro il cuscino bagnato di lacrime. Sdegnata di se stessa, meditò anche di vuotare il sacco affinché la polizia la fermasse prima di commettere crimini peggiori. Ma chi le avrebbe dato retta? Chi mai avrebbe creduto
che una donna così minuta e a prima vista inerme avesse una forza tanto erculea da liquidare due
bestioni come quei balordi? D’altronde, stentava a crederci lei stessa. Piangente, Gloria si alzò in
piedi, si denudò e raggiunse il bagno; aprì il rubinetto e si sciacquò il viso. Rizzatasi sulla schiena, si
riflesse allo specchio e provò disgusto verso la sua immagine, mentre rivoli d’acqua scivolavano fra
i seni segnati da quelle cicatrici che la rendevano tanto insicura. Anni fa, stesa su un letto del Poli-
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clinico Gemelli, un medico le disse che un incidente stradale le aveva procurato le ferite e una temporanea amnesia. Ma nonostante i tentativi di ricordare la sua vita prima del sinistro, il suo cervello
sembrava averla rimossa; non rammentava neanche l’incidente. Ciò che la assillava da allora era però sempre lo stesso sogno: i soldati, la nebbia e l’uomo appeso come un salame ad una quercia e una
prepotente voglia di infierire su di lui.
Il viso delicato e quasi infantile, a dispetto dei suoi trentacinque anni suonati, era diventato uno
spettro. Ciò la faceva soffrire; sarebbe bastata solo un po’ di fortuna per superare l’ostacolo della
sua vita non vissuta. Poi, all’improvviso, le balzò in mente Alberto, il quale l’aveva mollata per una
donnicciola che si concedeva meglio di lei, stupida e così ingenua da credere che l’affetto potesse
derivare solo dalla verità di un sentimento. Rattristata per un destino avverso e convinta che la sua
vita fosse tutto fuorché brillante, Gloria avvertì un acuto dolore alle tempie. Così, per non scoppiare,
decise di uscire e di vagare per la città, nonostante il pericolo di essere beccata da qualcuno
dell’ufficio e rischiare una denuncia per frode ai danni dell’istituto di previdenza. Era meglio godersi la bella giornata e gli ultimi giorni di libertà, prima che la polizia la ammanettasse come una criminale incallita. Chissà, forse si sarebbe decisa ad entrare al primo commissariato capitato a tiro e a
confessare, evitando così che qualcuno le piombasse in casa e diventasse la notizia del momento.
Verso sera la donna rincasava più confusa di quanto non lo fosse prima di essere uscita. Era tardi, e
Gloria capì che se la Procura fosse già risalita a lei, l’avrebbe ormai prelevarla e rinchiusa in una putrida cella di Rebibbia a fare compagnia ad altre detenute arrabbiate a morte. Aprì la porta di casa,
quando scorse, al buio, un’ombra sgattaiolare dalla finestra e correre giù per le scale antincendio.
Scossa, la donna prese la prima cosa capitata a tiro, accese la luce e corse alla finestra lasciata
aperta, quindi si affacciò, ma dell’ombra nessuna traccia. Chiuse gli occhi pensando al periodaccio
che stava passando; dopo tutte quelle emozioni ci mancava pure l’irruzione di un topo
d’appartamento. Ripresasi, si ritirò in casa e serrò la finestra con un chiavistello che credeva potesse
garantirle un po’ di sicurezza. Turbata dai brutti pensieri che la assillavano e che un giorno passato a
gironzolare non era riuscito a scacciare, decise di prepararsi una camomilla e di andare subito a letto
senza neanche mangiare. Doveva riposare, anche a costo di imbottirsi di barbiturici. Sorbita la sua
tisana, Gloria si chiuse in camera, si spogliò e si cacciò sotto le lenzuola, convinta che avrebbe fatto
il tiro alla fune con il sonno, ma, fortuna per lei, si addormentò di schianto. Proprio di fronte al caseggiato dove lei abitava, un uomo richiudeva un potente teleobbiettivo. Ormai Gloria non si sarebbe più svegliata ed era perciò inutile sorvegliare il suo sonno. Ancora affaticato per la corsa forzata,
il tale si versò del caffè caldo, si sedette e aprì il suo notebook. Connesso con Worldnet, digitò un
numero lungo. Attese. Poco dopo, i contorni di un viso nascosto dal buio apparvero sullo schermo.
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“Nessuna novità rilevante, Princeps!” – esordì l’uomo salutando il padrone con il pugno chiuso
accostato al torace.
“Va bene, Cassio! Riposati... ma ricordati di essere...!”
“Prudente!” – interruppe l’uomo scostando lo sguardo dal monitor per volgerlo alle persiane
dell’appartamento di Gloria e al portone d’ingresso del caseggiato – “Come ordini, Cesare!”
“Ok! Tienila d’occhio! Da ciò che mi hai riferito nel tuo ultimo dispaccio, credo che la Persona
stia per esplodere!”
“Lo penso anch’io, oh divino! Spiegami cosa dovrei fare...!”
“Niente... per l’amor di Dio!” – intimò quel volto senza occhi – “Non rischiare! Non potresti
fermarla, anzi... stalle lontano!”
“Come tu ordini, Domine! Se ci saranno novità, mi metterò in contatto!”
“Bravo! Cerca di riposare, ma rimani sempre all’erta! Il vulcano potrebbe eruttare da un momento all’altro e non possiamo permettercelo! Che ore sono lì a Roma, Cassio?”
“Manca un quarto a mezzanotte!”
“Qui è ancora più tardi! Comunque, stai attento d’ora in avanti! Potrebbe riconoscerti!”
“Non temere per me! Mi so guardare le spalle!” – ribatté l’uomo mentre sorseggiava ciò che rimaneva del suo caffè, guardandosi però bene dall’informare il suo Signore che per poco non si faceva sorprendere da Gloria.
“Buona notte, Cassio!”
“Buona notte, Princeps!”
L’uomo pigiò un tasto e quel volto oscuro sparì dal monitor. L’agente, dopo il solito rapporto
notturno con il suo Principe, finì il suo caffè e diede di nuovo un’occhiata alla camera di Gloria, dalle cui persiane filtrava della luce. Cassio si alzò di scatto e si diresse verso il teleobbiettivo.
“E così non vuoi dormire! E non vuoi far riposare neppure me, vero sgualdrina?” – pensava
l’uomo agguantando l’apparecchio per aprirlo e puntarlo ancora di fronte.
Cassio, occupato a spiare la donna, tastò il tavolo alla ricerca delle sigarette. Ad un tratto, percepì
un’ombra alle sue spalle. Cassio non riuscì neppure a girarsi che una mano tesa gli si conficcò dietro
l’orecchio e un denso fiotto di sangue parve esplodergli dalla testa e schizzare sul notebook, imbrattandolo orribilmente. Ciò che di vitale rimase in quel corpo grondante sangue fu qualche spasmo
scomposto dei muscoli delle braccia. Poco dopo, l’ombra estrasse la mano, intrisa di sangue e di
materia cerebrale, dal cranio dell’agente imperiale. Cassio crollò a terra di schianto e una pozza rossastra si espanse velocemente sul pavimento logoro e malandato. Come se pesasse una piuma, la
Belva lo agguantò per i piedi e lo roteò sul pavimento, costringendo i bordi del maglione a sollevarsi
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e a scoprire un’aquila dalle ali aperte su una mano tesa e rivolta all’ingiù impressa accanto
all’ombelico. Nel buio e nel silenzio, l’ombra lo trascinò fuori lasciando una repellente impronta di
sangue solcata dal peso del cadavere che tracciò, poi, un’irregolare scia rappresa. La Belva sarebbe
tornata a ripulire e a rimuovere quelle apparecchiature, come se l’ucciso mai avesse soggiornato in
quei luoghi.
ULTIME TATTICHE DI COLTRANE
IL BUIO ACCECA LOS ANGELES
Gli uomini erano di nuovo riuniti attorno allo stesso tavolo dal quale assistettero alla capitolazione di Siuox Falls e di Pierre. I dispacci giunti dagli avamposti distaccati ai confini del Nebraska
riferivano di assembramenti di truppe corazzate pronte a sconfinare e a dilagare nello Stato. Coltrane sapeva bene dove quelle divisioni volevano arrivare. Intuendo le mosse di Grant, e per bloccare
perciò il nemico proveniente da Pierre e da Yankton, già dieci brigate di fucilieri e tre divisioni corazzate erano state ammassate a ridosso di Valentine. Los Angeles non poteva permettersi altri fallimenti; la perdita di Pierre pesava ancora come un macigno. Ma il suo esercito era molto limitato.
Coltrane dovette, infatti, spostare in gran segreto le sue truppe dal confine del Kansas al Nebraska,
certo che Grant avrebbe proseguito nella sua strategia da nord a sud, seguendo una linea retta.
L’assembramento delle divisioni di Washington nel meridione del South Dakota, confermato dai dispacci provenienti da Valentine e da Yankton, era avvalorato dalle immagini infrarosse inviate dalla
sonda di cui la C.L.S.A. si era impadronita. Lo spostamento di truppe dal Kansas al Nebraska aveva
però sguarnito parte del fronte e Coltrane temeva che se Grant ne fosse stato informato non avrebbe
esitato un attimo ad ordinare un’operazione diversiva per poi, nel giro di pochi giorni e a furia di
marce forzate, aggirare le truppe ribelli, sorprenderle ed ingabbiarle in una sacca. Ma, grazie al Cielo, la sonda non aveva fornito dati sufficienti per confermare ciò; anzi, tale strategia era nei piani di
Los Angeles.
Da giorni, infatti, era stato predisposto un piano audace, quanto difficile. Ispirandosi ad Annibale
Barca e al suo genio di varcare le Alpi per cogliere Roma alle spalle, Coltrane aveva deciso di impiegare la sua flotta militare per circumnavigare il Canada. Costeggiata la penisola del Labrador,
questa si sarebbe poi divisa in tre tronconi, di cui due avrebbero puntato su Boston e su New York
mentre il terzo, con a capo l’ammiraglia seguita da due portaerei e tre incrociatori, sarebbe penetrato
nella Chesapeake Bay, avrebbe risalito il Potomac e assalito Washington di sorpresa. Scopo del piano era di scuotere psicologicamente l’Usurpatore della Casa Bianca, portando la guerra proprio al
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cuore del suo Stato Maggiore. Grant sarebbe morto di rabbia e d’imbarazzo nel vedersi bombardato
da navi da guerra avvistate dalla finestra dell’Oval Office e, per paura di uno sbarco di truppe
dall’Atlantico, avrebbe di certo ordinato ai suoi uomini di ripiegare per soccorrere la Capitale. Mossa molto ardita ma che, in caso di successo, poteva imprimere una svolta al conflitto.
Ma questi erano ancora sogni: allo stato attuale, le truppe di Grant già premevano al confine del
Nebraska; appena cento miglia li separavano da Yankton e da Valentine, fatte evacuare per sicurezza da Coltrane. Al posto degli abitanti, spostati in fretta e con considerevoli difficoltà verso l’interno
dello Stato, i soldati ribelli attendevano l’urto delle armate di Grant, pronti ad affrontarle per distrarle dalla vera strategia di Coltrane: trattenerle quanto più possibile alla frontiera dei due Stati, poiché
la flotta aveva già superato le coste dell’Alaska, fedele a Los Angeles, ed aveva raggiunto Pearce
Point, proprio all’imbocco dello Stretto di Amundsen. Già si avvistavano le coste della Wollaston
Peninsula, dove la flotta si sarebbe incuneata per poi raggiungere il Coronation Gulf. I dispacci riferivano costantemente Coltrane circa l’avanzata dell’esercito di Grant: sembrava un rullo compressore che nel giro di poche ore aveva già divorato trenta miglia, facendosi sempre più pressante lungo
le due direttrici d’attacco.
Intento a seguire le manovre dal grande schermo posto di fronte a lui, Coltrane guardava a tratti
l’orologio e attendeva; con quel passo, poco mancava perché le sue divisioni e quelle di Washington
venissero a contatto. L’uomo già immaginava il massacro, poiché in una s-mail aveva ordinato, con
l’aiuto di Dio, una resistenza ad oltranza. Era ormai questione di tempo. Sarebbero bastati cinque
giorni affinché le sue sparute eppur agguerrite truppe compissero il miracolo e permettessero alla
sua flotta di superare l’Artico e di dirigersi, a tutta velocità, verso i punti nevralgici degli Stati
dell’Est. Tesissimo, Coltrane seguiva sul monitor l’evolversi delle manovre inviate dalla sonda ed
elaborate dal computer che, con luci dai colori diversi, segnava le sue truppe e quelle di Grant.
Ad un tratto il video si spense, così come l’illuminazione del Palazzo; l’intero impianto elettrico
saltato, come se una mano sinistra avesse provocato il black-out per far piombare il quartier generale nel buio. Un brivido scivolò lungo la schiena di Coltrane, il quale, rizzatosi in piedi, si guardò intorno per capire cosa stesse accadendo. Come tante formiche impazzite, gli ufficiali e gli uomini
dello staff presidenziale iniziarono ad urlare e a correre spaesati lungo le scalette e i corridoi fra un
bancone e un altro. Intanto, il lampeggiante sopra la porta d’ingresso e attivato dal black-out emanava la sua luce intermittente, aggravando il panico. Coltrane intuì subito il pericolo; erano rimasti
del tutto ciechi e sordi, incapaci di impartire ordini alle truppe al confine con il Nebraska e ai battelli
in navigazione nel Mar di Beaufort.
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Non ci voleva un guasto del genere proprio in quel momento, poiché la squadra era pronta a penetrare negli intricati stretti ghiacciati del nord-ovest canadese. Coltrane capì che anche il satellite
era stato oscurato. Una trappola; la sua flotta e le forze di contrattacco al confine dello Stato Centrale stavano trasformandosi in tanti topi senza occhi, pronti per essere ingoiati da un manipolo di gatti
famelici. Coltrane chinò il capo e ordinò all’ufficiale addetto-radio di insistere nel tentativo di contattare l’ARIZONA per metterla in guardia contro eventuali attacchi improvvisi. L’ufficiale tentò disperatamente di avvertire l’ammiraglia della flotta dell’imminente pericolo, ma nessuna risposta
provenne dalla corazzata. Sempre più turbato, Coltrane ordinò al maggiore di inviare un messaggio
alle truppe al confine con il Nebraska, con la speranza che almeno il generale Samuelson rispondesse; ma neppure dallo Stato Centrale giunse alcun cenno di risposta. Coltrane si sedette di schianto e
si fece il segno della croce. Ma sia Samuelson, Comandante dell’operazione di resistenza contro le
armate di Grant, sia l’ammiraglio Mac Allister, Comandante della flotta e a bordo dell’ARIZONA,
non riuscirono neppure loro a comunicare con Los Angeles.
Coltrane sperava che i due Comandanti, intuendo il pericolo, agissero di conseguenza con il piano evasivo; ma l’uomo era ormai disilluso. Le sue forze armate, di terra e di mare, stavano cadendo
in un’imboscata e lui non poteva far altro che pregare affinché i suoi ufficiali limitassero le perdite.
Solo dopo ripristinate le trasmissioni, l’uomo avrebbe confermato o meno il timore dalla sconfitta,
proseguendo nella lotta o diventando il capo di uno Stato disarmato e alla mercè di Grant e del suo
piano di TERRA BRUCIATA, anticamera della resa incondizionata e della dissoluzione di qualunque
altro tentativo di rinsaldare l’Unione e di riprendere il suo posto alla Casa Bianca. Sarebbe stato lui,
allora, ad apparire in TV e su Worldnet e dichiarare la caduta della Confederazione.
LA BATTAGLIA DEL GOLFO DELL’INCORONAZIONE
COLTRANE SCONFITTO
Il cielo nuvoloso e minaccioso di furiosi temporali si spaziava davanti ai nove cacciatorpediniere
che fungevano da fronte d’attacco all’assetto imposto dall’ammiraglio Mac Allister. A tratti, dai
densi cumulonembi, alti e spessi all’orizzonte, scoccavano spaventosi fulmini accompagnati da tuoni assordanti, come se anche il tempo, sinistro e intimidatorio, volesse ostacolare i battelli in navigazione. Ai fianchi della squadra, otto rompighiaccio attendevano l’ordine di attestarsi davanti ai
cacciatorpediniere per aprire un varco fra i ghiacci ed evitare così collisioni con lo scafo delle navi
da guerra, specie degli incrociatori. Pur di farsi spazio nello Stretto di Dease, che sapevano ormai
ghiacciato, questi ultimi non avrebbero esitato di sparare i loro siluri. Da lì sarebbero risaliti e si sa-
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rebbero insinuati nella lingua di mare fra l’isola di Somerset e la Penisola di Boothia, per poi ridiscendere e uscire nel bacino di Foxe, dove la flotta avrebbe guadagnato il canale omonimo e raggiunto, così, lo Stretto di Hudson, sfociante proprio nel Mare del Labrador.
Vestito della sua uniforme blu piena di fregi e seduto sulla poltrona di comandante, Mac Allister
attendeva che l’ufficiale alle trasmissioni si mettesse in contatto con Los Angeles; tentativi andati a
vuoto da oltre due ore che accrebbero la tensione in Plancia. L’ARIZONA continuava comunque
tranquilla la sua crociera, scortata su ogni fianco dagli incrociatori e dalle corvette nell’ordine di due. Superata Read Island e giunti al 65° parallelo, un violento fortunale minacciò di prenderli di mira.
L’Ammiraglio ordinò perciò alla timoniera e alle macchine l’assetto da tempesta.
Il moto ondoso aumentava sempre più, mentre i fulmini si ripetevano con terrificante successione. Mac Allister era tuttavia contento del sopraggiungere del maltempo; anche se era rischioso affrontare una burrasca, specie a quelle latitudini, l’Ammiraglio sapeva bene che questa li avrebbe coperti da attacchi nemici. Impassibile, impartì l’ordine di incunearsi proprio in mezzo all’imminente
fortunale. Con gli occhi seminascosti dal berretto e fissi all’orizzonte, Mac Allister assegnò ad ogni
ufficiale in Plancia un comando da eseguire, quindi avvertì il timoniere di stare attento ai blocchi di
ghiaccio alla deriva e affioranti delle acque. Il radar non segnalava nulla di allarmante e, a meno che
non fossero attaccati da qualche flotta fantasma, un raid aereo con quel tempo era da escludere, anche perché l’aviazione militare di Grant era quasi inesistente. La battaglia di Agra aveva, infatti, decretato la fine della Guerra Indiana e degli stormi militari di Washington, ora detentrice di pochi
trabiccoli. Mac Allister sembrava di pietra; impartiti gli ordini generali, di tanto in tanto dispensava
qualche altro comando per aggiustare l’assetto della flotta o per correggere la rotta della nave.
La USS ARIZONA era stata varata a tempo di record e scelta quale ammiraglia per il suo alto grado di tecnologia. All’epoca, Washington non aveva badato a spese. La nave possedeva i più avanzati sistemi di sicurezza e, a parità di dislocamento, deteneva il primato di velocità mai raggiunto da
una corazzata; senza contare l’impianto di assetto automatico che le permetteva di navigare a velocità costante indipendentemente dalle condizioni del mare. Anche se la II Guerra Mondiale aveva
decretato la fine dell’era delle titaniche navi da guerra a vantaggio delle unità leggere e delle portaerei, la battaglia di Mangalore, e l’ecatombe di queste, aveva rivalutato i possenti battelli di superficie e i loro impieghi. Magari Washington avesse avuto simili unità; anche se colpite, avrebbero potuto incagliarsi e continuare a combattere come inespugnabili roccaforti terrestri. Ecco perché
l’ARIZONA disponeva di nove cannoni da 499 mm disposti in tre batterie primarie, due a prua e una
a poppa, e 12 da 189 mm sistemate accanto alle torri di tiro principali, rafforzati da 85 mitragliere
contraeree da 98 mm lungo lo scafo, a dritta e a babordo. Inoltre, il battello si avvaleva di dieci tubi
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lanciasiluri, tre per ogni lato di prua e due per quelli di poppa. Al di là dell’armamento in dotazione,
la nave era appunto considerata una specie di fortezza per la sua pelle d’acciaio di 873 mm alla linea
di galleggiamento e di 506 sul ponte di coperta; senza contare i 307 mm di corazzatura al torrione di
comando che la rendevano praticamente inaffondabile.
Grant avrebbe voluto che quel capolavoro d’ingegneria fosse dalla sua parte e non contro. La nave, infatti, era stata sottratta dalla Confederazione poiché al momento dell’assembramento delle
truppe di Washington ad ovest degli Appalachi, e il conseguente inizio delle ostilità, Mac Allister
navigava al largo delle Hawaii. Apprese le scellerate mosse di Grant, l’Ammiraglio, veterano della
guerra dei Balcani nel XX secolo e della guerra civile libanese nei primi anni del XXI, non esitò un
istante a schierarsi con Coltrane. Messo ad ammuffire su una poltrona del Pentagono appena tornato
dal Libano, Mac Allister, affatto entusiasta della decisione del Presidente di allora, si era rassegnato
a lucidare la sedia di un ufficio governativo, causa l’irruenza e la boria che lo contraddistinguevano
e che avevano indotto l’inquilino dell’Oval Office a metterlo in disparte durante il conflitto indiano.
Guerriero fino al midollo, Mac Allister fremette nell’assistere, impotente, al tracollo della Marina al
largo di Mangalore e alla disfatta di Agra, che obbligarono poi Washington alla resa.
Depresso per le cocenti sconfitte, il Governo lo richiamò in servizio attivo. L’Ammiraglio sapeva
di poter chiedere qualsiasi cosa. Da uomo di mare qual era, e con un’abile mossa di finta modestia,
Mac Allister chiese di essere messo al comando di una nave, qualunque essa fosse stata. Anche il
più sfasciato rimorchiatore del più sozzo porto americano sarebbe stato buono per lui. E invece
quest’uomo alto e severo, granitico nell’imporre gli ordini e irascibile solo quando qualcuno lo contraddiceva nel suo lavoro, fu messo a capo della US NAVY. Ma ora le cose erano cambiate; lui era
legato a quella bandiera e al giuramento che garantiva l’indivisibilità della Nazione. Il piano TERRA
BRUCIATA, tanto vantato da Grant, andava di certo contro quel giuramento. Era, infatti, felice di aderire alla C.L.S.A. e che la sua strategia di circumnavigare il Canada era stata approvata da Coltrane. Quest’ultimo ne intuiva il coraggio e l’astuzia, che ne faceva uno dei pilastri della Marina degli
Stati Uniti prima, e della Confederazione ora. Ripensando a tutto ciò, Mac Allister guardava fisso
davanti a lui; dalla Plancia, scorgeva la prua della sua nave e la poppa degli incrociatori BALTIMORA
e ATLANTA che la precedevano a distanza, celando le forme dei cacciatorpediniere naviganti in prima linea.
Qualche cavallone si faceva sentire a tratti, sbattendo con forza contro le murate della corazzata;
fessa dalla prua come una lama, l’onda marina si disperdeva in mille spruzzi biancastri, superando
gli orli della nave per poi perdersi sulla coperta allagata. Mac Allister era sempre più teso e concentrato sull’operazione. Anche se Coltrane aveva ordinato il silenzio radio, l’ARIZONA deteneva un
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impianto all’avanguardia con il quale poteva collegarsi con l’Alto Comando di Los Angeles sfruttando l’aria ionizzata come fionda verso il satellite. Ciò nonostante, nessuna risposta giungeva, aumentando la tensione del Comandante e dell’equipaggio. L’Ammiraglio aveva pure provato con
Worldnet, ma il server sembrava rimosso. La tempesta iniziava intanto a sferzare i battelli con ancor
più terribili staffilate d’acqua.
“Signor Lincoln...!” – sussurrò Mac Allister facendo scorgere gli occhi, azzurri come il mare che
tanto amava, dalla visiera del berretto – “...scandagli il fondale fino ad una distanza di dieci miglia
marine dalla prua e dalla poppa del battello!”
“Solo un branco di narvali a quattro miglia da noi, Signore!”
“Signor Jackson, continui a chiamare Los Angeles!”
“Nulla, Signore! È come se il satellite fosse stato oscurato!”
“Worldnet?”
“Nessuna risposta! La rete sembra inesistente!”
“Signor Jackson, comunichi ai Comandanti della flotta di porsi in assetto di difesa! Allarme giallo! Chiamata generale!” – ordinò calmo l’Ammiraglio, mentre agguantava la cornetta per le comunicazioni interne, senza però staccare gli occhi dall’orizzonte plumbeo, ma a tratti rischiarato da
spettrali saette – “A tutto l’equipaggio della USS ARIZONA! Qui è il Comandante! Siamo nel Golfo
di Amundsen, a dodici miglia al largo di Read Island! Fra dieci minuti ci incuneeremo nel Golfo
dell’Incoronazione, posizione 68,70° latitudine Nord, velocità 18 nodi! Stiamo andando incontro ad
una tempesta polare! Chiudere i boccaporti delle stazioni inferiori alla linea di galleggiamento! Tenersi ai posti di manovra per eventuali operazioni di tenuta della nave! Avverto l’equipaggio che attualmente ci è impossibile comunicare con l’Alto Comando di Los Angeles per cause ancora a noi
ignote! Plancia ad Armi! Portarsi subito alle batterie e attendere ordini! Tutte le astensioni dalle incombenze in quest’unità sono sospese fino a nuovo ordine! Siamo in assetto di difesa! È tutto!” –
finì l’Ammiraglio, perplesso; sentiti gli ordini, gli uomini in Plancia si guardarono in faccia, preoccupati – “Signor Jackson! Ordini ai rompighiaccio di disporsi davanti alla flotta fra due minuti!”
“Sissignore!” – rispose Jackson.
Mac Allister ebbe un brutto presentimento. Con occhi impenetrabili fissò l’orizzonte, come se
qualcosa di terribile si aspettasse oltre quelle dense nubi illuminate, a tratti, da fulmini spaventevoli.
L’ARIZONA iniziò a beccheggiare, poiché le onde si facevano sempre più alte e violente. Alcuni
spruzzi raggiunsero, infatti, anche il Primo Ponte; altre si limitarono invece a traboccare dall’orlo di
prua per congiungersi con l’unico lago spumoso qual era la coperta. Stessa sorte stava toccando alle
altre navi che si scorgevano dai vetri punteggiati di gocce della Plancia. Mac Allister sentiva il san-
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gue agitarsi come quelle onde e avvertiva una sensazione di pericolo mai conosciuta prima d’allora;
con la sonda fuori uso era come essere ciechi di fronte a quella tempesta. Lo confortava solo il fatto
che se il nemico fosse davvero venuto a conoscenza del suo piano, questi avrebbe dovuto affrontare
gli stessi rischi. Con quella burrasca era di certo impensabile far decollare quei catorci che tanto
pomposamente Grant chiamava caccia da combattimento. I ponti di decollo delle portaerei erano,
infatti, sgombri di velivoli, stoccati negli hangar sottocoperta e nell’attesa dell’attacco appena usciti
dal Golfo di San Lorenzo.
Preceduta dai rompighiaccio andati a disporsi in prima linea per allontanare eventuali porzioni di
banchisa polare alla deriva, la squadra navigava in mezzo ai cavalloni divenuti veri e propri muri
d’acqua. Mac Allister si alzò dalla sua poltrona e strabuzzò gli occhi. Un banco di nubi si scostò e
l’Ammiraglio credette, a torto, di scorgere navi da battaglia. Dovette però ricredersi; le nubi assumevano forme strane e mutevoli, tanto da ingannarlo facendogli vedere cose che in realtà non esistevano. Miraggi frequenti a scorgersi in alto mare, e questo Mac Allister lo sapeva bene; ciò era,
però, prova della tensione del momento. Se solo la sonda avesse potuto ridare segni di vita.... Ma,
nonostante le esortazioni del Comandante, Jackson continuava a tentare senza esito. Ad un tratto,
però, un violento e improvviso boato attirò l’attenzione dell’equipaggio, Ammiraglio compreso.
“Cristo... cos’è stato?” – urlò Mac Allister tentando di intravedere se le navi appoggio avevano
subìto danni da quell’esplosione; ma nulla di strano si riusciva a scorgere dalla Plancia.
“Signore...!” – gridò Jackson sconvolto, mentre stringeva la cuffia-radio con il palmo della mano
– “...ci comunicano dal KENNEDY che l’unità è stata colpita al timone!”
“Stia calmo, Jackson! Mi dica dove si trova il KENNEDY?”
“Proprio dietro di noi, Signore! Sette gradi a babordo!”
“Si accerti se l’esplosione è stata innescata da qualche fulmine!” – ordinò Mac Allister, sapendo
però bene che il boato sentito nulla aveva e che fare con una saetta. Nemmeno a supporlo, infatti,
che una seconda, più violenta deflagrazione venne avvertita alle spalle della corazzata. Un energico
spostamento d’aria investì in pieno l’ARIZONA, tanto che il timoniere dovette faticare per correggere
la rotta e l’assetto dell’unità già sballottata dalle onde – “Per Dio... questo non è stato un fulmine!”
“Signore... il KENNEDY è sparito dal radar!” – urlò Lincoln.
“Come sparito! Signor Lincoln si accerti bene!”
“È scomparso il segnale radar, Comandante!”
“Allarme Rosso!” – urlò Mac Allister. Le sirene echeggiarono nei corridoi e nelle stazioni della
nave, mentre i lampeggianti roteavano freneticamente – “Signor Jackson! Tenti di mettersi in contatto con il Comandante dell’incrociatore KENNEDY!”
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“Subito, Ammiraglio! Nessuna risposta, Signore!!”
“L’hanno colpito! L’hanno affondato!” – mormorò Mac Allister scattando in piedi e rivolgendosi
al Secondo.
“Santo Cielo, Signore... ma in così poco tempo?”
“Appunto! Hanno centrato la santabarbara e l’incrociatore è saltato in aria! Farabutti... sapevano
dove colpire! Chiamata Generale!” – gridò l’Ammiraglio – “A tutto l’equipaggio! Siamo attaccati!
Il KENNEDY è già colato a picco! Ordino al salvataggio di sondare le acque per recuperare eventuali
sopravvissuti! Plancia a Manutenzione! Rapporto danni alla murata sinistra dell’unità per probabili
schegge del KENNEDY conficcate nello scafo!”
“Signore... è terribile!”
“Che succede Jackson?”
“Il Comandante Gere del SEATTLE ci comunica di essere stato colpito al timone in concomitanza
con l’esplosione del KENNEDY! È del tutto immobilizzato e chiede soccorso all’ARIZONA! Il Capitano sostiene che l’incrociatore è esploso per l’impatto, sulla murata di tribordo, con... un missile!” –
rivelò Jackson, atterrito.
“Dove diavolo sono, maledetti!” – mormorò Mac Allister con i masseteri irrigiditi e con gli occhi
che si agitavano senza sosta.
Ma un altro boato gli fece capire che anche il SEATTLE era spacciato. Erano senz’altro ordigni ad
alto potenziale, poiché solo quattro erano riusciti ad affondare entrambi gli incrociatori. Ma da dove
erano stati lanciati i missili? Dalla terraferma era da escludere; non erano stati segnalati, dalla sonda
in funzione appena quattro ore prima, postazioni fisse o mobili sulla costa canadese. E, in più, che
interesse poteva avere Ottawa nel colpirli senza preavviso? Da dove provenivano allora quei confetti? Lincoln insisteva che non vi fossero unità navali o aeronautiche per un raggio di duecento miglia
marine, doveva quindi essere Dio a fargliele piombare dal cielo. Mac Allister si sentì impotente; la
situazione stava sfuggendogli di mano, incapace di capire chi fosse ad attaccarlo. Finché non ebbe
un lampo di memoria.
“Cristo... sono STEALTH!”
“STEALTH? Ma gli F75 erano stati tutti distrutti nella disfatta di Agra, Signore!”
“Sul serio?” – rispose Mac Allister guardando fisso all’esterno, mentre stringeva i pugni dalla
rabbia. Allorché cercò di ragionare sulla provenienza di quegli aerei invisibili e tentare un contrattacco, ad un tratto lui stesso vide un missile infuocato dalla coda piombare sul torrione di comando
del BALTIMORA.
“Mio Dio!” – urlò il Secondo.
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L’equipaggio assistette atterrito all’esplosione che spazzò via la robusta torre e parte della coperta dell’unità, lasciandola senza controllo. I missili puntavano ai punti nevralgici delle navi: torrioni,
santabarbare e timoni erano le loro prede preferite. E così lo fu anche per l’incrociatore ferito e
fiammeggiante che, ormai alla deriva, puntava contro l’ATLANTA obbligandolo a compiere disperate
manovre evasive per evitare la collisione con il relitto. Ma un altro missile dritto di poppa lo colpì in
pieno alle eliche e al timone, arrestandolo. L’impatto fu inevitabile. Mentre la carcassa fumante del
BALTIMORA finiva la sua deriva cieca addosso all’ATLANTA, un altro ordigno piombava sull’unità
immobilizzata, proprio un istante prima che le due navi collidessero. L’esplosione fu catastrofica. I
rottami infuocati dei due incrociatori investirono i battelli vicini. Neppure l’ARIZONA rimase indenne da quella palla di fuoco e di metallo che si sparse ovunque e che mandò in frantumi perfino i vetri blindati della Plancia. Vi fu il panico. Molti marinai rimasero uccisi da quell’impeto d’acciaio
rovente; altri invece, se la cavarono con qualche scheggia conficcata nelle gambe o nelle braccia.
Mac Allister ordinò ai medici di bordo di soccorrere i feriti e recuperare i cadaveri, poiché dai vetri
infranti, dai quali penetravano folate di vento gelido e vigorose staffilate di pioggia mista a nevischio, si vedevano uomini orribilmente mutilati e in balia delle onde impetuose.
L’Ammiraglio cercò di riprendere in mano la situazione, quando Jackson, anch’egli ferito ad un
braccio e sempre più sconvolto, riferì che un siluro aveva centrato e sventrato la prua e l’hangar di
sottocoperta della COLUMBIA, distruggendo sette caccia e danneggiandone altri nove, a cui seguì un
furioso incendio lungo la pista di decollo dell’unità. Mac Allister ordinò allora di visualizzare lo
specchio di mare alle spalle dell’ARIZONA. Appena il monitor della Plancia trasmise le immagini,
l’equipaggio fu preso dal panico: otto corvette erano inclinate su un fianco e alla deriva e dai loro
scafi si vedevano spaventosi squarci infuocati. Di quattro incrociatori leggeri non vi era più traccia,
di certo colati a picco, mentre la portaerei COLUMBIA, ormai preda di fiamme altissime e voraci, non
aspettava altro che il colpo di grazia.
Tuttavia, nessun missile aveva osato colpire l’ARIZONA. Rabbioso, Mac Allister vide impotente
la distruzione della squadra. Parecchi battelli, ormai fuori controllo, collisero fra loro incrociando i
loro fuochi di distruzione e aspettando che ad uno ad uno saltassero in aria; cosa che avvenne con
successione spaventosa. Le unità non esplose, ma ridotte a carcasse fumanti, beccheggiavano in
mezzo alle onde imbarcando acqua, finché alcune di esse non si spezzarono in due. I tronconi si impennarono in aria per poi inabissarsi portando con loro centinaia di uomini; non solo cadaveri, ma
anche superstiti impossibilitati dal mettersi in salvo per il risucchio dai battelli in affondamento. Intanto, gli F75 seguitavano a lanciare i loro missili anche sulle acque e sui naufraghi, contravvenendo
ad ogni convenzione internazionale. Tormentato dall’idea di non aver potuto reagire all’attacco, che
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sembrava una seconda Pearl Harbor, Mac Allister dovette assistere alla demolizione della flotta senza aver avuto la possibilità di esprimere la potenza di fuoco della sua nave.
“Ci stanno annientando! Maledetti!” – mormorò a denti stretti – “Comando ad Armi! Batterie secondarie 9,12 e 6 a tribordo, angolo 69° sud-ovest! Correzione batterie principali! Angolo di tiro
12° babordo batterie 1 e 2 di prua! 24 ° tribordo batteria 3 di poppa!”
“Armi a Comando! Ordine eseguito!”
“Fuoco! Seguire traiettorie di missili di provenienza ignota, con spostamento orizzontale di 105°,
direzione sud-ovest!” – ordinò Mac Allister nel tentativo di contrattaccare.
Le bocche da 499 mm si mossero lente eppur decise, emettendo uno stridio che echeggiò minaccioso nell’aria fortemente ionizzata. Poco dopo, violente e ripetute detonazioni esplosero dai cannoni della corazzata, lanciando i colpi a parecchi metri di distanza e lasciando lingue di fuoco e di fumo rincorrersi. Le deflagrazioni squarciarono rabbiosamente l’aria: i cannoni andavano avanti e indietro per l’urto e per il rinculo, mentre le bocche da 159 mm urlavano colpi furiosi nel tentativo di
spaventare qualche aereo fantasma, se non addirittura colpirlo. La contraerea quindi reagì con raffiche di grosso calibro per dar man forte alle batterie principali e a quelle secondarie. Anche le altre
navi, nonostante fossero gravemente danneggiate, esplosero le loro granate per imbastire un fronte
di difesa contro chi si celava dietro la tempesta.
La COLUMBIA, ferita ma ancora galleggiante, dopo aver messo in salvo l’equipaggio con un rompighiaccio a lei accostatasi, superò le altre navi per fare da esca; ma un missile la colpì in pieno e la
fece saltare in aria con il suo Comandante e gli uomini rimasti per la manovra. Altri rottami infuocati caddero come pioggia sulle acque artiche intrise di carburante fiammeggiante. L’ARIZONA continuava ad esplodere colpi in cielo, finché Mac Allister non vide scie di fuoco cadere in mare come
meteoriti. Un urlo di felicità risuonò in Plancia, segno che qualche aereo nemico era stato abbattuto.
Gli altri F75 intensificarono perciò ancor di più il loro attacco, concentrando la mira sulla corazzata
e sulla portaerei superstite che tentava, nonostante le impossibili condizioni atmosferiche, di far decollare gli aerei dal suo ventre. Tre missili, però, ararono letteralmente le piste di decollo e centrarono l’isola, mentre un altro squarciò la murata destra penetrando nello scafo fino al serbatoio del carburante, che esplose con una violenza devastante. Una selva di rottami si allargò scompostamente e
a forte velocità in tutte le direzioni, colpendo anche l’ARIZONA. Furioso, Mac Allister ordinò alla
timoniera di schivare quei proiettili infuocati per evitare altri danni alla corazzatura, ma una granata
colpì il timone del battello, immobilizzandolo. Mac Allister si vide perduto; urlando come un matto
ordinò di evacuare la nave, mentre ancora le batterie principali esplodevano colpi dalle loro bocche
di 499 mm. L’Ammiraglio avrebbe venduto molto cara la pelle. Poi, però, ci ripensò: vide la pioggia
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di missili farsi sempre più incessante verso le unità d’appoggio all’ARIZONA senza, tuttavia, che gli
STEALTH osassero attaccare la corazzata.
Mac Allister capì che il bersaglio non era la sua nave, bensì il resto della flotta; l’ARIZONA era
seriamente danneggiata e un missile ben mirato alla santabarbara sarebbe bastato per demolirla. Il
Comandante provò quindi ad imitare la COLUMBIA, facendo da esca per sviare gli F75 dai veri obiettivi, ma non riuscì nell’intento. Gli aerei nemici continuarono, infatti, ad infierire sulle unità divenute relitti galleggianti, non curandosi affatto dell’ammiraglia, la quale, dopo essere riuscita a ripartire, incrementò la sua potenza di fuoco, tanto che uno STEALTH uscì infuocato dalle nubi e rivelò
la sua sagoma oscura. L’aereo, dall’ala rosa dal fuoco e dal fumo, tentò di riprendere quota, ma inutilmente; il velivolo era ormai fuori controllo e in traiettoria verso la corazzata. Ma una granata di
159 mm lo colpì in pieno e lo disintegrò in una palla di fuoco, che precipitò in mare a dieci metri
della murata destra della grande nave. Il pilota, ormai spacciato, fece tuttavia in tempo a lanciare il
suo ricordino, il quale centrò una delle batterie principali. Una densa coltre di fumo si spanse proprio davanti alla Plancia. Appena la nube si dissipò, Mac Allister vide la torre di tiro n. 2 distrutta e i
cannoni contorti e inutilizzabili.
“Signor Parker, rapporto danni! Wilde!”
“Sissignore!”
“Recuperare l’eventuale superstite dell’aereo abbattuto e i resti della carlinga per studiarli appena
cessato quest’inferno! Ammesso di uscirne vivi!” – ordinò Mac Allister, mentre assisteva all’agonia
della sua flotta; agonia straziante che sembrava non avere fine, perché per altre due ore i missili precipitarono sulle navi e sulle gelide acque dell’Artico zeppe di cadaveri e di naufraghi, distruggendo
tre quarti della squadra e degli equipaggi.
18,27, ora di Greenwich; l’ARIZONA navigava alla ridotta velocità di 10 nodi. Era passato appena
un quarto d’ora dall’ultima esplosione delle sue bocche da 499 mm, ed ora regnava il silenzio più
assoluto e surreale interrotto dal fragore di alcuni fulmini saettanti all’orizzonte. L’afflizione
dell’equipaggio era palpabile: si dovevano ripescare i cadaveri dei marinai uccisi o mutilati dai missili lanciati apposta contro i loro corpi inermi e in balia delle onde. La nave aveva subìto parecchi
danni allo scafo e al secondo ponte dopo l’esplosione della batteria n. 2, ma quello peggiore era toccato al timone e ai motori primari. Anche se la manutenzione di bordo era riuscita lo stesso e in piena battaglia a ripristinare la timoniera, i propulsori principali erano ormai fuori uso: solo quelli ausiliari garantivano una discreta velocità.
Ora l’ARIZONA, con quattro fregate e due incrociatori, proseguiva la sua rotta a ritroso verso Los
Angeles. Tutto distrutto: delle ventinove unità impiegate, appena sette erano a malapena in grado di
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rientrare con i propri mezzi. L’ARIZONA era stata risparmiata, nonostante il tentativo di utilizzarla da
diversivo affinché le altre unità si mettessero in salvo. Ma la tattica del nemico, oscuro quanto spietato, era precisa e risoluta: la corazzata doveva salvarsi per essere umiliata di fronte all’Alto Comando della Confederazione. Gli squarci allo scafo e al ponte, oltre la torre di tiro mutilata, dovevano simboleggiare cicatrici difficili da risanarsi. L’ARIZONA era adesso la ferita ammiraglia di appena
sette navi sfuggite alla pioggia di fuoco precipitata sulla flotta nel Coronation Gulf, appena costeggiata la Wollaston Peninsula.
“Ci hanno distrutto!” – esordì Mac Allister, ancora scosso, nella sua cabina con gli altri Comandanti delle unità scampate al disastro, di cui alcuni feriti alla testa e alla spalla – “Il contatto con Los
Angeles è ancora interrotto e credo che non sarà più ripristinato! Ci hanno accecato mentre il leone
era in agguato!”
I Comandanti annuirono: il piano dell’Ammiraglio era stato subito scoperto, giusto il tempo perché il nemico si organizzasse e approfittasse della tempesta per rendere gli STEALTH ancora più invisibili di quanto non lo fossero già ai radar.
“Gli aerei erano F75 STEALTH Versione 408! Non c’è dubbio!”
“Ammiraglio...!” – intervenne il Comandante della PHOENIX – “...ma gli STEALTH erano stati tutti distrutti ad Agra e...!”
“Capitano...!” – interruppe Mac Allister – “...io non ho parlato di F75 classici, ma di STEALTH
Versione 408! Non so se ha capito!”
“Mio Dio...!” – riprese il Comandante del BERKELEY dopo aver aspirato una boccata dal suo sigaro – “...la Versione 408 era appena un prototipo al tempo della guerra dell’India!”
“Appunto Signori! Era un prototipo che ora è diventato operativo e micidiale! Credo che tutti noi
abbiamo assaggiato la potenza di quei gingilli!”
“Ma Ammiraglio... Grant non ha in dotazione aerei simili!”
“Se è per questo, Grant non ha nessun velivolo tecnologicamente avanzato che possa chiamarsi
tale, a parte qualche trabiccolo scassato... tanto per imporre il nome ai suoi caccia e alle sue brigate
avio-trasportate!” – disse Mac Allister alzandosi.
“Ma allora... chi diavolo ci ha attaccati?”
“È proprio ciò che vorrei tanto sapere!” – mormorò l’Ammiraglio, rabbioso – “Tutto potevamo
immaginare fuorché un attacco aereo con un temporale simile e con un’aria tanto ionizzata!”
“Cristo... ce n’era così tanta che pure le scoregge mi uscivano elettrizzate!” – borbottò il capitano
del MILWAUKEE, accennando un sorriso per alleggerire il momento tanto deprimente.
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“Per l’appunto! Quei velivoli sono stati studiati per affrontare condizioni meteo estreme! Neanche se fossero beccati da un fulmine potrebbero precipitare! Ammesso che il fulmine riesca a centrarli! Sono un vero capolavoro di ingegneria aeronautica, ma troppo costoso per le tasche di
Grant!”
“In pratica... possiamo escludere un suo coinvolgimento?”
“Credo di sì! Il piano di circumnavigare il Canada e di aggirare Washington era top secret, perciò...!”
“Una talpa?”
Mac Allister annuì.
“Mi domando... una talpa al servizio di chi?”
“Signore... forse Grant si è fatto furbo e ha reclutato qualche mercenario che...!”
“...che possiede moduli STEALTH Versione 408? Capitano Dreyfuss... sa quanto costano quei volatili? Chi mai potrebbe mantenere aerei del genere che...?”
“Certo... noi no!” – interruppe Dreyfuss fissando Mac Allister e gli altri colleghi – “Ma l’Unione
delle Nazioni Europee... sì!”
Cadde il silenzio. Tutti iniziarono a riflettere per qualche attimo, come se il Comandante del
PHOENIX avesse illuminato le loro menti con quella frase buttata lì per caso. Mac Allister, con
sguardo basso e quasi nascosto da folte sopracciglia, annuì e si girò per agguantare una bottiglia di
bourbon piazzata, come una reliquia, sulla mensola alle sue spalle.
“Signori... credo che sia giunto il momento di una bella sbornia! Almeno tenteremo di scordare
ciò che abbiamo vissuto e...!”
“...e, rientrati a Los Angeles, cercheremo di trovare le parole per giustificare questa disfatta allo
Stato Maggiore!”
“Convengo, Signor Dreyfuss!” – sussurrò Mac Allister fissando un punto qualunque sul tavolo,
mentre svitava il tappo della bottiglia; proprio allora, un bussare discreto si udì da dietro la porta
della cabina dove gli ufficiali Comandanti cercavano di affogare le loro frustrazioni nell’alcool –
“Avanti!” – disse l’Ammiraglio con tono altisonante, dopo aver celato la bottiglia sotto il tavolo.
“Signore...!” – esordì Jackson entrando timidamente nella cabina – “...mi rincresce disturbarla,
ma la informo che siamo riusciti a ripristinare le trasmissioni con l’Alto Comando!”
“Signor Jackson, la radio interna non funziona? Comunque... non fa niente! Vada avanti! Siamo
dietro di lei!”
“Sissignore!”
“Signori... andiamo a prenderci questa sonora lavata di testa!” – disse mestamente Mac Allister.
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L’Ammiraglio si alzò in piedi e, sistematosi il berretto, aggirò il tavolo. Cinque minuti dopo, i
sette Comandanti erano in Plancia, mentre Jackson, seduto nella sua postazione, tentava di modulare
la frequenza per comunicare con Los Angeles.
“Credevo avessimo aggiustato quella maledetta radio...!”
“Si, Ammiraglio! Purtroppo la frequenza è molto debole e abbiamo subìto danni alle parabole
dopo l’esplosione del missile lanciato dell’aereo abbattuto!”
“Alto Comando a USS ARIZONA... rispondete!” – esordì una voce metallica, interrotta poi da un
fastidioso fruscio.
“USS ARIZONA ad Alto Comando, vi sentiamo!”
“Ammiraglio Mac Allister, sono Micheal Ford! Finalmente riusciamo a sentire la vostra voce!
Grazie al Cielo!”
“È quello che diciamo pure noi, Signor Ford!”
“Come state? Spero bene!”
“Noi sì... abbastanza!”
“Abbiamo temuto il peggio, Ammiraglio! Come prosegue la navigazione!”
“Abbiamo riparato alcuni danni e...!”
“Danni? Quali danni, Comandante?” – chiese Ford, turbato.
“Signore... è lì con lei il Presidente Coltrane?”
“Sì, è qui!”
“Sia gentile... vorremmo discorrere personalmente con lui!”
“Sono Coltrane, Ammiraglio! La sento profondamente scosso! Cosa è successo?”
“Signor Presidente... ci hanno scoperto! Eravamo attesi e ci hanno attaccato senza alcuna possibilità di poterci difendere e...!”
“Qual è la vostra posizione, Ammiraglio?”
“Stiamo uscendo dal Golfo di Amundsen con velocità 10 nodi! Precisamente adesso stiamo oltrepassando Capo Bathurst Baillie! Fra un paio d’ore dovremmo avvistare le coste dell’Alaska!”
“State tornando?”
“Sarà un miracolo se non rimarremo in mezzo al Mar di Beaufort senza energie, Presidente!”
“Quante unità sono andate perdute, Ammiraglio?”
“È più semplice riferirle quante unità sono sopravvissute! Siamo appena sette battelli, alcuni dei
quali piuttosto danneggiati! Hanno lanciato tonnellate di missili! Le condizioni meteo erano impossibili e non siamo riusciti a contrastare...!”
“Ammiraglio... cosa dice?” – proruppe Coltrane.
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“Capisco la sua rabbia, Signore... e sono pronto a riferire davanti alla corte marziale appena rientrato! Ma deve sapere che qualcuno era a conoscenza del nostro piano e ha approfittato della tempesta al largo del Golfo dell’Incoronazione per sferrare l’attacco a sorpresa, impedendo ogni nostra
manovra!”
“Ma i radar, Ammiraglio?”
“Signore, abbiamo perso il contatto con la sonda alle ore 12,52 a.m.! Eravamo del tutto ciechi,
anche perché hanno impiegato aerei STEALTH per distruggerci!”
“STEALTH?”
“Sissignore! Siamo riusciti ad abbatterne un paio e a recuperare qualche rottame per esaminarlo
appena tornati alla base!”
“D’accordo, Ammiraglio! Rientrate!”
“Roger!” – mormorò Mac Allister.
Il Comandante serrò i denti e i pugni dalla rabbia, sapendo di aspettarsi grossi guai al suo ritorno.
Folate di vento gelido, che entravano dai vetri frantumati, lo costrinsero ad alzare il bavero del suo
cappotto pieno di decorazioni. Proprio allora, il Secondo entrò in Plancia e sussurrò all’Ammiraglio
che forse qualcosa era emerso dal primo esame dei rottami dello STEALTH abbattuto. Mac Allister
annuì e fece cenno al Secondo che di lì a poco lo avrebbe raggiunto per sentire le ultime novità.
“Plancia a Macchine! Novità sui propulsori principali?”
“Inutilizzabili, Comandante!”
“Quanto potranno resistere i motori ausiliari?”
“Non saprei, Ammiraglio!”
“Signor Brubaker... faccia del suo meglio e ci riporti a casa!”
“Farò il possibile!”
“Lo so... lo so!” – mormorò Mac Allister chiudendo la comunicazione; dopodiché uscì nel corridoio dove trovò il Secondo che, appoggiato ad una paratia, fumava una sigaretta.
“Allora, Signor Jones! Di cosa voleva parlarmi?”
“Ammiraglio... poco fa è stato supposto che solo uno Stato come l’Unione delle Nazioni Europee
potrebbe permettersi F75 STEALTH tecnologicamente avanzati, sbaglio?”
“È un’ipotesi, Capitano! Solo un’ipotesi!”
“E tale deve rimanere, Signore!”
“Che intende, Jones?”
“Abbiamo esaminato i rottami dell’aereo colpito...!”
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“Già! Troppo tardi! Quel figlio di puttana del pilota è riuscito a lanciare il suo cadeau contro la
mia nave!”
“Appunto, Comandante! Abbiamo recuperato l’ala sinistra! Era ancora integra e siamo riusciti a
distinguere un emblema verniciato sulla parte inferiore!”
“Un emblema?”
“Sì, qualcosa del genere! Un’Aquila!”
“Un’Aquila?”
“Esatto!” – bisbigliò il Secondo affinché nessuno potesse sentire ciò che i due ufficiali si stavano
dicendo – “Un’aquila sopra una mano aperta rivolta all’ingiù!”
“E con questo? Vorrebbe dirmi che quel volatile stampigliato su un’ala scagionerebbe Lussemburgo qualora...?”
“Ammiraglio...!” – interruppe Jones, accorgendosi però di aver alzato troppo la voce, poiché alcuni marinai nei corridoi si volsero verso di loro – “...un marchio simile è stato rinvenuto addosso
all’invasato che quasi un anno fa ha tentato di assassinare il Presidente dell’Unione delle Nazioni
Europee! Il folle irruppe armato di pistola e bomba a mano nel Campidoglio di Lussemburgo durante l’inaugurazione del Parlamento Federale! Morirono dieci parlamentari allora, e ora noi ce ne veniamo con l’ipotesi che sono loro i mandanti dell’attacco che ha distrutto la flotta della Confederazione con stormi militari non regolari! E con quale movente? E come sapeva Lussemburgo del nostro piano?”
“Sì... credo di aver sentito una cosa del genere tempo fa!”
“Che il loro ministro degli Esteri abbia convinto il Presidente dell’Unione a lavarsi le mani di
fronte alla nostra tragedia, non ci offre un pretesto plausibile per tirarli in ballo! Abbiamo già parecchi nemici e non credo sia il caso tirarcene dietro un altro!”
“Convengo, Jones! Vorrà dire che il mio rapporto si limiterà solo a dati di fatto senza ipotesi affrettate! Grazie, Capitano!”
“Di nulla, Ammiraglio! Anche se un altro reale e più mortale nemico lo abbiamo già!”
“L’Aquila?”
“Sì, Signore! Credo che il Presidente Coltrane debba sapere!”
“Lo saprà, Capitano! Lo saprà!”
COLTRANE MEDITA LA RESA
SECONDO E RISOLUTIVO TENTATIVO DI FORD
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7,30 p.m. ora di Greenwich: Coltrane, seduto sul suo scranno dell’Alto Comando, era affranto.
L’annientamento dalla flotta lo aveva prostrato e neppure le notizie che provenivano dal Nebraska
erano edificanti. L’oscuramento della sonda li aveva spiazzati. Il suo esercito era diventato come
una squadra di football con i giocatori bendati e l’allenatore espulso; impossibile vincere in quelle
condizioni. Due corpi d’armata di Grant, provenienti dall’Iowa e giunte a cento miglia da Omaha,
deviarono verso nord e nord-ovest e, a furia di marce forzate che permisero di divorare trenta miglia
in poche ore, aggirarono quelle di Los Angeles appostate a Yankton e a Valentine e colsero le truppe ribelli alle spalle, travolgendole. Stessa sorte toccò a quelle attestate a Fort Scott e ad Atchinson,
al confine tra il Kansas e il Missouri, isolando la città di Lincoln.
Come Annibale sbaragliò i Romani a Canne, così le divisioni di Grant aggirarono i soldati di
Coltrane e piombarono dalle retrovie e sui fianchi dello schieramento di battaglia. Accerchiate, le
truppe della C.L.S.A. si difesero con onore da quell’onda implacabile che si abbatté su di loro come
un uragano. Coltrane, ripensando alla sconfitta, si alzò dalla poltrona e raggiunse una delle finestre
al quarto piano del Palazzo del Governatore dopo che, nel 2008, la Capitale della California venne
trasferita da Sacramento a Los Angeles. Giunse le mani dietro la schiena e si rizzò sulle spalle; fosse
stato solo si sarebbe dato al pianto.
“Ci hanno annientato!” – esordì Coltrane – “Siamo disarmati e abbiamo subìto paurose perdite in
poche ore!” – proseguì girandosi verso il suo staff – “Circa 250.000 uomini, un quinto dei quali è in
pasto ai pesci nei mari gelati dell’Artico! Non abbiamo più una flotta e tutti i dispositivi e i materiali
di terra e di aria stanno fumando ai confini del Nebraska, del Kansas e del Missouri! Stasera comunicherò l’intento della Confederazione di capitolare!”
Tutti erano con le parole in gola; ma l’onere più gravoso era il dover dire ai familiari dei marinai
e dei soldati che i loro cari non sarebbero più tornati a casa e che la sconfitta, specie quella navale,
doveva essere custodita come più geloso dei segreti. Nessuno doveva sapere che un nuovo e oscuro
nemico si era aggiunto a dar man forte a Grant. Così Coltrane ebbe l’idea di spedire alle famiglie
delle vittime una lettera TOP SECRET con la quale si esternava il suo cordoglio e le ragioni della riservatezza. Mich capì che Adam voleva rimanere solo a tormentarsi, così fece un cenno con la testa
e tutti uscirono. Coltrane poteva ora sfogarsi con alcune lacrime che iniziavano a solcargli il viso,
specie quando si volgeva alla bandiera degli Stati Uniti appesa dietro di lui. Ford poteva permettersi
di vedere le sue lacrime; a Kazbek, Coltrane, allora generale della 9ª Armata, dovette la vita a chi gli
appoggiava ora la mano sulla spalla.
“Porco demonio, Mich... come è potuto accadere! Come...!” – mormorò Coltrane con le parole
mozzate dal dolore.
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“Vuoi davvero arrenderti? Sai cosa vuol dire, Adam?”
“Sì... lo so! Vogliono isolarci! Ci metteranno in una bella riserva fin quando non ci saremo scannati! Oppure ci faranno morire di fame! Perché non arriverà più nulla per noi dall’Europa e loro...
loro stanno diventando molto forti! Temibili!”
“Già! E come loro con quella mossa di non belligeranza, se comunicassimo la resa appoggeremmo le intenzioni di Grant! C’è qualcosa che non mi quadra in tutta questa storia!”
“Che intendi dire, Mich?”
“Mac Allister ha recuperato i rottami di uno STEALTH, sulla cui parte inferiore dell’ala è stato
trovato un emblema!”
“Un emblema?”
“Sì, Adam! Un’Aquila dalle ali spiegate sopra una mano aperta rivolta all’ingiù!” – ribatté Ford
fissando il profilo di Coltrane.
“E allora?”
“Semplice! Uno stemma simile, se non identico, è stato rinvenuto sul corpo di chi, quasi un anno
fa, ha fatto saltare in aria una bomba a mano nel Campidoglio di Lussemburgo durante
l’inaugurazione della Prima Legislatura! Fu una strage, allora!”
“Vuoi dirmi che qualcuno che va tatuando quel fottuto uccello cerca di destabilizzare tutto ciò
che vuol creare equilibri?”
“È ciò che ho pensato io!” – rispose Ford, come se cadesse dal cielo e ignorasse fatti a lui familiari – “Chi tenta di creare stabilità politiche è colpito da uomini marchiati da quello stemma!”
“Tutti tranne Grant! Forse è lui il tatuatore?”
“No... è troppo stupido per cose del genere! Fosse stato per lui, saremmo già in piena Chesapeake
Bay e avremmo bombardato Washington con i calibri da 499 mm dell’ARIZONA ancor prima di accorgersi che ci trovavamo di fronte al Lincoln Memorial!”
“Dove vuoi arrivare?”
“Adam... per Dio! Non ricordi?”
“Cosa dovrei ricordare?”
“Il giorno dell’attentato di Atlanta...!”
“Quando Jonathan, Valerie e due dei loro tre figli saltarono in aria con un colpo di bazooka lanciato dalle finestre del palazzo del Governo georgiano...? E chi se lo scorda!”
“Appunto! Un membro insospettabile dello staff del Governatore che, in barba a tutti i protocolli
di sicurezza, manda al Creatore il Presidente degli Stati Uniti e la moglie con un missile lanciato dal
palazzo del Governo al passaggio della Limu-One!”
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“Giunto alla Casa Bianca, misi sotto inchiesta parecchi funzionari presidenziali e decapitai il baronaggi del F.B.I. e della C.I.A.! Ma... ti prego, Mich! Vieni al sodo!”
“Quando è accaduto l’attentato?”
“Il 14 marzo del 2014! E allora?”
“Oltre tre anni e mezzo fa, quindi in tempi non sospetti!”
“Non sospetti per cosa?”
“L’attentatore, ucciso poi dagli uomini della sicurezza, aveva lo stesso tatuaggio all’altezza del
pettorale destro!”
“Cristo Santo... e tu come lo sai? Perché non sono stato informato di ciò durante la mia permanenza alla Casa Bianca?”
“Perché non era sicura né la tua candidatura né la tua vittoria, Adam! Jonathan aveva messo fine
alla Guerra Indiana dopo le grandi sconfitte! Chiese poi scusa sia all’Europa per le vicende di Kazbek, sia ai popoli coinvolti nelle battaglie di Agra e di Mangalore nel tentativo di riappacificare gli
Stati Uniti con il resto del mondo! Senza contare che voleva sapere a tutti i costi perché la nostra
macchina bellica avesse fatto cilecca! Purtroppo qualcuno glielo ha impedito!”
“In parole povere tutto ciò che è accaduto da noi...!”
“Tutto previsto e macchinato da tempo! Quelle di ora sono le ultime tattiche per chissà quale disegno concepito dal più feroce dei dittatori!” – replicò Ford, sapendo bene a chi si riferiva.
“Dovremmo denunciare tutto ciò alla stampa e...!”
“Con quali prove, Adam? Sono solo illazioni! E anche se imposti una campagna propagandistica
colossale, questa sarebbe presa come l’ultimo respiro esalato da uno spettro politico che tenta di rimanere incollato al potere con simili espedienti! Chi ti crederebbe?”
“Ma porco mondo... ci sarà pure un sistema per...!”
“Un’ultima carta da giocare ci sarebbe! Ed è la stessa che offrii a Jonathan prima di essere assassinato! Perché ricordati, amico mio, che tu farai la stesa fine!”
“Mich... per favore...! Se esiste un solo appiglio a cui aggrapparsi... beh... tiralo fuori! Allora spara... di cosa si tratta?”
“Finalmente! Da otto mesi ti imploro!”
“Lo so, Mich... lo so! Vieni al dunque! A questo punto... cosa abbiamo da perdere?”
“Conosco un tale molto lontano da qui!”
“Dove si trova questo tizio?”
“Istanbul!”
“E tu credi che costui possa risolvere questo... Inferno?”
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“Ha buone chances! Ma bada che il mio Amico non farà niente per niente e...!”
“Per Dio... un mercenario!”
“Non intendevo questo, Adam! Comunque, se mi autorizzi... vedrò come portartelo qui! Potrai
parlare con lui e trattare! Sarà allora il tempo di decidere se gettare la spugna o meno!”
Incerto, Coltrane si accese un sigaro mentre la tempesta, superato il Downtown e giunta al culmine, scaricava tutta la sua potenza sulle vette innevate delle San Gabriel Mountains che si ergevano a distanza. Ad est, il Los Angeles River, ingrossato per le piogge insistenti, si insinuava nel centro abitato e minacciava di esondare. L’uomo corrugò la fronte, espirò una densa nuvola di fumo e si
volse verso Mich, dopodiché si girò ancora verso l’esterno a contemplare la tempesta che aveva accompagnato la sconfitta della Confederazione. Quindi, si decise: – “E sia!”
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