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Daniele Balicco
PER LA FORMAZIONE POLITICA DELLE NUOVE GENERAZIONI.
Sarebbe troppo facile e, in senso storico e politico, immorale, che i
figli fossero giustificati – in ciò che c’è in loro di brutto, repellente,
disumano – dal fatto che i padri hanno sbagliato. L’eredità paterna
negativa li può giustificare per una metà, ma dell’altra metà sono
responsabili loro stessi. Non ci sono figli innocenti.
(P.P.PASOLINI, Lettere Luterane, p.10)
La Storia dei marxismi in Italia di Cristina Corradi è un libro importante, necessario
ed eccentrico. Anzitutto eccentrico perché, in controtendenza rispetto alle derive
intellettuali, politiche e perfino psicologiche delle ultime generazioni intellettuali,
ricostruisce in uno stile adulto, asciutto, serrato, attraverso uno sguardo assolutamente
privo di risarcimenti narcisistici e, per questo, oggi più che mai necessario, il quadro
pressoché complessivo della riflessione teorica marxista italiana. Ed è il gesto
intellettuale, sedimentato in questa forma di interrogazione conoscitiva e politica, ad
essere oggi importante: perché la passione implicita, eppure potente di questo volume,
costringe finalmente il lettore ad un ripensamento non più differibile sullo spessore
intellettuale di un’intera comunità politica, ma, soprattutto, sul significato storico della sua
sconfitta.
Essendo un libro che ricostruisce storicamente la riflessione marxista italiana, è
inevitabile che il discorso della Corradi segua le tappe di questo progressivo franare
politico e teorico di un’intera comunità intellettuale, osservandole dall’interno della teoria.
Questo, pressappoco, è l’itinerario disegnato, quanto meno a partire dal secondo
dopoguerra: ad un’elaborazione teorica che cerca, dall’inizio degli anni sessanta, di
ristabilire creativamente un rapporto fra marxismo e lotte sociali - e i nomi sono
naturalmente quelli di Della Volpe, Luporini, Panzieri, Tronti, Timpanaro fino ad un
certo Colletti e ad un certo Napoleoni; segue, dalla seconda metà degli anni settanta in
poi, un discorso teorico che, non più persuaso della necessità politica di questa
contiguità, separa, proprio come ad inizio secolo, riflessione marxista e pratica politica.
All’intreccio complessivo e contraddittorio dell’economico nel politico, nel sociale e nel
simbolico, a cui costringe un pensiero teorico che abbia in Marx un punto di riferimento
obbligato, seguono paradigmi operativi che, privilegiando ora l’autonomia del politico
(Tronti, Cacciari, un certo gramscismo fino al neocontrattualismo di Veca), ora
l’autonomia del sociale (Negri e il post-operaismo), ora l’autonomia del simbolico
(Vattimo, Rovatti e tutto il pensiero debole), propongono eterogenei itinerari di
emancipazione, anche se tutti in qualche modo accomunati da un disinteresse - non
apparente, ma sostanziale - dell’economico come piano dirimente di lavoro teorico ed
intervento politico. Del resto, è dei medesimi anni, e non a caso, il ritorno egemonico
dell’ortodossia neoclassica all’interno della stessa economia politica. L’immagine che se
ne ricava è quella di un tutto complesso, non più configurabile se non per piani separati,
autonomi, specifici, illusoriamente indipendenti.
Se osservato dall’interno della teoria, dunque, quello che accomuna il divenire di
queste posizioni, anche distanti e in conflitto fra loro, sembra essere la convinzione
dell’insostenibilità operativa della categoria del capitale come totalità, interpretata ora come
aporetica categoria affermativa, quando in Marx è piuttosto categoria critica. Eppure, il
dissolversi teorico di un’intera comunità intellettuale e politica, se osservato dall’esterno
della teoria e collocato nell’insieme del processo storico di cui è stato parte, mostra,
depositate nella coerenza dei piani di fuga, le tracce di un rimosso profondo e unitario:
questa progressiva disarticolazione dei piani di intervento politico, come delle proposte di
elaborazione teorica, può anche essere interpretata come compensazione simbolica della
sconfitta feroce di quel progetto di emancipazione totale - abbozzo di rivoluzione voluta
all’altezza del presente – incarnato in Italia dalle lotte studentesche e operaie della
seconda metà degli anni sessanta. In un certo modo, ed è questa la tesi da sostenere, nel
collasso teorico di quella comunità politica va cercato come Ersheinung, come distorsione
simbolica necessaria, l’apologia teorica inconsapevole di una rivoluzione passiva.
Perché il problema vero sta nel fatto che l’insegnamento depositato, seppur in
modo confuso, in quella breve esperienza politica antiautoritaria di massa, entra
prepotentemente in rotta di collisione proprio con il capitale come totalità, essendo
conquista di un’egemonia culturale che lo delegittima sul piano simbolico e politico, e,
insieme, conflitto sociale orientato contro il cuore dell’accumulazione: il comando sul lavoro
vivo. Posto in questi termini il conflitto sociale è insostenibile. E, non a caso, contro di
esso verrà scatenata un miscela composta di ristrutturazione economica, violenza
militare, industria culturale, capace di ristabilire, in poco più di un decennio, ma solo con la
forza, comando sul lavoro, controllo politico ed egemonia culturale.
Ed è solo a questo punto che si aprono due strade: la prima, come si è visto,
cerca ipotesi alternative rifugiandosi infine in uno specialismo del pensare e dei piani
operativi che, per altro, in questi ultimi vent’anni - è bene ricordarlo - è stato capace di
interpretare: a) come fine del lavoro una ristrutturazione economica mondiale giocata sulla
creazione di una nuova disoccupazione di massa, controllata in Occidente attraverso
l’erogazione di lavoro intermittente; b) come postfordismo – inteso come nuovo modo di
produzione leggero, flessibile, decentrato, ecologico ed informatizzato - una poderosa
ristrutturazione industriale orientata su decentramento produttivo e concentramento
finanziario; c) come lavoro immateriale – letto come tendenza dominante, ed è lavoro
intelligente, ad alta soggettività relazionale ed emotiva, niente meno che la realizzazione
compiuta del General Intellect - quella nuova forma di lavoro astratto mentale di massa che
la rivoluzione informatica ha subordinato a sé negli ultimi vent’anni.
La seconda strada, eterodossa e minoritaria, ritorna, all’opposto, a
quell’insegnamento depositato nel laboratorio italiano dei tardi anni sessanta; ed è un
ritorno critico, non certo archeologico, né tanto meno nostalgico. Alcune
sperimentazioni sociali di quegli anni, alcune ipotesi teoriche convergenti su una certa
lettura di Marx e del Capitale possono essere criticate, integrate, superate, ma,
sostanzialmente, continuate. Perché ritenute efficaci. Ai pochi autori che scelgono, in una
posizione culturale non certa egemonica, questa seconda strada, è dedicata l’ultima parte
del volume della Corradi; gli autori discussi, oltre alla ricostruzione dell’itinerario
filosofico dell’ultimo Negri, sono sei: Preve, Losurdo, La Grassa e Turchetto, Bellofiore,
Finelli.
I primi due lavorano anzitutto ad un’autocritica profonda della riflessione
marxista italiana, tanto nell’insieme del suo itinerario (Preve), quanto soprattutto nei suoi
approdi teorici finali (Losurdo). È forse possibile sostenere che, nel disegno della
Corradi, i lavori di Preve e Losurdo servono come attraversamento dei limiti, ma
soprattutto dei falsi modi di rappresentazione di sé, della sinistra marxista italiana:
seguendo questa linea diventano preziose le analisi di Preve su togliattismo e operaismo,
il primo interpretato come stalinismo liberale, il secondo come idealismo soggettivista malgré soi - gentiliano, mentre l’autonomia del politico viene ricondotta ad una forma di
neoleninismo privo di frattura rivoluzionaria. E preziosi, per le stesse ragioni, i lavori di
Losurdo su Heiddeger e Nietzsche che ricollocano il pensiero di questi autori nel cotê
reazionario loro proprio, contro letture che derivano da entrambi improbabili progetti di
emancipazione; ma così pure dello stesso gli studi sul revisionismo storico, nonché la
controstoria del liberalismo, implicitamente diretti contro quella diffusa, superficiale,
generica egemonia culturale, di sinistra e non, che fatta propria la tradizione liberale,
avanza revisioni storicamente e filosoficamente infondate sull’insieme dei progetti di
emancipazione comunista del Novecento. E se Losurdo indica in una costellazione che,
nella dialettica di Hegel, nel socialismo scientifico di Marx, nella critica del colonialismo
di Lenin, nel comunismo critico di Gramsci, trova i momenti imprescindibili di un
pensiero radicale capace di pensare adeguatamente i concetti di libertà, di democrazia e di
dignità di ogni singolo uomo; Preve, dopo aver criticamente puntato sull’ultimo Lukács e
Althusser, propone infine un ritorno a Marx, alla sua idea di un’antropologia storica della
libera individualità, ma soprattutto alla necessità di una riflessione compiutamente
filosofica capace di pensare il comunismo come espansione passionale della potenza della
natura umana all’interno di una relazione sociale consapevolmente assunta e sviluppata.
Se il lavoro filosofico e teorico di Preve e Losurdo libera il campo dalle false
immagini di sé, dalle distorsioni simboliche necessarie attraverso cui la sinistra italiana,
istituzionale e non, tuttora si autorappresenta, gli studi di Turchetto/La Grassa e di
Bellofiore, seguendo prospettive diverse, ripartono invece da quel laboratorio teorico
marxiano degli anni sessanta, cercando soluzioni, integrazioni, alternative per riformulare
una critica dell’economia politica all’altezza del presente. Il lavoro coordinato di Maria
Turchetto e Gianfranco La Grassa mette al centro della propria attività di ricerca tre
insegnamenti di Marx, ritenuti irrinunciabili: il concetto di rapporto sociale di
produzione, il riconoscimento del processo lavorativo capitalistico come motore della
riproduzione delle classi e dei ruoli sociali, la critica all’individualismo metodologico.
Dall’uso sistematico di questi tre strumenti teorici deriva un’interpretazione della società
contemporanea come realtà solo apparentemente frammentaria, essendo per contro un
tutto strutturato che, nel controllo del modo sociale di produzione, riproduce la totalità
della società, frammentandola in classi diversificate e in ruoli sociali gerarchicamente
divisi fra posizioni direttive e posizioni esecutrici. Comune è pure la critica all’evoluzione
teorica della sinistra radicale italiana, condotta, tuttavia, non più sul lato specificamente
filosofico, come in Preve e Losurdo, quanto direttamente sul piano della critica
dell’economia politica: si prendano, come esempio, gli attacchi concentrici alla teoria del
valore-lavoro, tanto nella versione Negri, per il quale la medesima è estinta dallo sviluppo
tecnologico, sopravvivendo solo come comando politico; quanto nella versione
Tronti/Cacciari, che viceversa ne attribuiscono l’estinzione al passaggio storico dal
capitalismo concorrenziale al capitalismo monopolistico di Stato. Per La
Grassa/Turchetto, entrambe le versioni si fermano, nell’analisi del Capitale, al primato
della circolazione; infatti, interpretano come presunta estinzione del valore la caduta del
presupposto di una connessione circolatoria puramente mercantile; dimenticando, cioè,
che la dimensione del valore appartiene alla riproduzione complessiva del rapporto di
produzione capitalistico, se esprime la dinamica dello sfruttamento inscritto nel processo
lavorativo.
Ed è proprio sulla centralità della teoria del valore in Marx che si originano gli
studi economico/filosofici di Riccardo Bellofiore: partendo da una critica serrata alle tesi
di Colletti, Napoleoni e Rubin, rilette attraverso le indicazioni di Augusto Graziani sul
circuito monetario e di Roberto Finelli sul circolo del presupposto-posto, Bellofiore
propone un’interpretazione originale e rigorosa della marxiana teoria del valore da
intendersi, contemporaneamente, come teoria macroeconomica dello sfruttamento,
nell’ambito di un’economia monetaria di produzione; e come teoria microeconomica del
conflitto e dell’innovazione all’interno del processo di lavoro capitalistico. Per rendere
intelleggibile la trama del capitale, il suo essere totalità imperfetta a cui si oppone, come
unica non-identità, il lavoro vivo, è imprescindibile per Bellofiore, ricostruire ciclo del
capitale e sequenza del lavoro astratto. Posto che la produzione capitalistica è anzitutto, e
soprattutto, produzione di denaro organizzata come circuito monetario, è possibile
rileggere il processo capitalistico, nel suo schema elementare D-M-D’, nella seguente
sequenza: all’inizio abbiamo un finanziamento alla produzione - da parte del capitalista
monetario al capitalista industriale - dove il capitale prestato in forma monetaria acquista
forza lavoro. Nel passo successivo si entra nella produzione immediata, dove il capitale
comanda il lavoro all’interno di una data tecnologia e di una data organizzazione del
lavoro. Da ultimo, si ha la vendita sul mercato finale dei prodotti dei risultati della
valorizzazione e, quindi, il recupero delle somme iniziali stanziate, la loro restituzione al
finanziatore e l’ottenimento di un sovrappiù di valore. Naturalmente, come risulta anche
solo da questa breve ricostruzione, il credito e il suo accesso privilegiato da parte dei
capitalisti costituisce un nodo teorico, sociale e politico centrale. Si osservi ora la seconda
sequenza. Posto che il lavoro astratto è da intendersi come processo messo in atto dalla
produzione capitalistica di denaro, essendo niente meno che il valore nel movimento della
valorizzazione fra produzione e circolazione, si potranno intendere, anche per esso, tre
diverse trasformazioni di stato: anzitutto, come forza-lavoro che è semplice capacità
lavorativa venduta sul mercato; quindi come lavoro vivo, vale a dire attività erogata nella
produzione immediata; infine, come lavoro morto oggettivato nella merce quale denaro
in potenza da attualizzare nello scambio effettivo. Se si sovrappongo i due circuiti,
diventa evidente che lo sfruttamento capitalistico attiene all’insieme del movimento di
valorizzazione come processo di astrazione del lavoro: è in questa qualità specifica di
sfruttamento che, secondo Bellofiore, deve essere cercata la peculiarità del capitalismo.
Lo sfruttamento, infatti, non è da intendersi come semplice appropriazione di un
pluslavoro o di un plusprodotto, fenomeni presenti anche in altre formazioni sociali;
quanto come imposizione e controllo, diretto e indiretto, che preme su tutto il lavoro con
l’unico scopo di ottenere pluslavoro. Bellofiore, del resto come tutti gli studiosi di
quest’ultima parte, è anche autore di numerosissimi saggi di critica politica e filosofica, fra
cui un’analisi dell’operaismo italiano portata direttamente sul terreno della critica
dell’economia politica, nonché una magistrale ricostruzione storico/economica della crisi
italiana degli anni sessanta/settanta.
Il volume di Cristina Corradi si conclude con la discussione del lavoro teorico di
Roberto Finelli. Questo pensatore è autore di un’importante ed innovativa rilettura di
Marx quale primo teorico in grado di mettere a soggetto della modernità un principio
sintetico non antropomorfo ed empiricamente non evidente: l’accumulazione
dell’astrazione capitalistica. Se l’influenza di Feuerbach costringe il giovane Marx in un
pensiero incapace di pensare l’astratto, decifrandolo esclusivamente come
compensazione proiettiva illusoria; è solo con l’attraversamento maturo del pensiero di
Hegel che Marx riesce ad affrancare la propria strumentazione teorica dal materialismo
fallace, perché spiritualistico, di Feurbach, e ad attribuire all’astratto valore di realtà
effettuale. Mentre è nell’epistemologia della verità scientifica come circolo del
presupposto/posto la seconda lezione hegeliana che trascorre nel Marx dei Grundrisse e
del Capitale, fondandone l’architettura teorica ed espositiva. È in questo preciso
confronto con Hegel che deve essere letto, secondo Finelli, il Marx della maturità e la
rivoluzione scientifica che il suo pensiero inaugura: perché sta nell’innesto di questa
precipua epistemologia su una realtà non certo essenzialista, bensì storico sociale, la
mossa che consente a Marx di identificare nel capitale - come movimento ininterrotto di
accumulazione di ricchezza monetaria, dunque solo quantitativa - quell’astratto universale
capace di organizzare l’intero mondo qualitativo della natura e degli esseri umani
presupposto alla sua logica in un posto, in un risultato cioè della sua accumulazione; essendo,
di quella totalità, contemporaneamente, produttore di beni materiali, produttore di
rapporti sociali e produttore di rappresentazioni ideologiche attraverso cui l’intero
movimento soprasensibile che lo anima si autodissimula in uno scenario sensibilmente
percepibile. Partendo da questa conquista teorica propria solo del Marx adulto, Finelli
legge come sostanzialmente regressive e distorcenti le tre versioni più rappresentative del
marxismo italiano, quella umanistica dell’alienazione/divisione del genere umano, quella
positivista della contraddizione fra forze produttive e rapporti di produzione, e infine
quella idealista della potenza trasformatrice della prassi: ciò che accomuna, nella solo
apparente eterogeneità, queste tre tradizioni, è infatti una metafisica del soggetto umano
presupposto, quando - per contro - sta proprio nella scoperta che soggetto del moderno
è un’astrazione capace di realtà, la lezione imprescindibile dei Grundrisse e del Capitale.
Quello italiano è stato, dunque, un marxismo “senza capitale”: per un verso, riflessione
teorica priva di un’adeguata rappresentazione dei meccanismi di riproduzione del
moderno, e perciò poca critica nei confronti, per esempio, dei processi di trasformazione
dell’uso della forza-lavoro; per un altro, attività politica non in grado, perché modellata su
un’antropologia organicista incapace di individuazione, di pensarsi come costruzione di
una soggettività collettiva contro un intero sociale dominato da un principio astratto di
socializzazione.
Come si è detto all’inizio di queste brevi note, il merito di questo impegnativo e
faticoso volume della Corradi sta nel costringere il lettore ad un giudizio complessivo
sullo spessore teorico e sulla sconfitta politica di un’intera tradizione: quella marxista
italiana. È bene tuttavia ricordare che nel libro mancano completamente pensatori che
hanno avuto un ruolo decisivo nella sua diffusione ed elaborazione: penso, soprattutto
per la cultura umanistica, a figure quali Cesare Cases, Franco Fortini, Danilo Montaldi,
Renato Solmi; mentre non riesco a comprendere il senso dell’esclusione, restando
all’interno dello spazio specificamente politico, di una figura comunque di primo piano
come Amedeo Bordiga o del gruppo del Manifesto. Detto questo, a me pare chiaro che
anche nell’elaborazione di chi non si è rifugiato nell’autonomia del sociale, del politico o
del simbolico, e ha cercato di proseguire dal punto di vista teorico l’esperienza straordinaria
di quel laboratorio italiano dei tardi sessanta, che fu fermato solo con la forza, il
significato storico di quell’interruzione resti, dal punto di vista politico, se non incompreso,
eluso. Anche ammesso, infatti, che il massimo di conoscenza teorica, come di
decifrazione dei meccanismi di colonizzazione dello spazio, del tempo e dell’inconscio
messi in atto dal capitalismo contemporaneo, riesca a riattivare forme di lotta e di
partecipazione capaci di egemonia culturale, di delegittimazione politica e di conflitto
sociale all’altezza del presente; in quale forma è pensabile un ribaltamento dei rapporti di
forza tale da non implicare, nuovamente, l’annientamento? E ancora: chi oggi può
ragionare, ma in termini realistici, su forme ancora possibili di transizione? Non so se la
banalità di questa osservazione meriti comunque il silenzio dentro cui da trent’anni è
costretta. Altrimenti resta solo la persuasione di Walter Benjamin, il quale, come è noto,
sosteneva che la possibilità di una trasformazione radicale del modo di produzione
capitalistico potesse essere pensata solo prima di un certo passaggio nel tempo
matematicamente pronosticabile: Benjamin era persuaso che nel divenire della storia
contemporanea esistesse un punto di non ritorno, oltre cui un certo sviluppo militare e
chimico, portato ad un certo livello tecnologico, avrebbe reso il monopolio della violenza
tale da rendere impensabile qualsiasi forma di emancipazione dal dominio capitalistico.
Se non si vuole accettare, come è lecito, questo piano di discorso, sarà bene
ragionare sul significato storico profondo della violenza sistemica attraverso cui le lotte
sociali italiane furono arrestate. Solo così sarà possibile comprendere il senso politico di
questi ultimi trent’anni e le ragioni sostanziali per un verso di un collasso teorico incapace
di criticare, nella distorsione oggettiva di cui è risultato, l’ennesima rivoluzione passiva
italiana; per un altro, negli autori che lavorano ad una critica radicale all’altezza del
presente, la non casuale irrilevanza politica subìta. Eppure questo nodo è dirimente. Mi
sembra chiaro, infatti, che uno dei limiti più seri, nella formazione politica delle nuove
generazioni, stia proprio in questa difficile conoscenza e interpretazione degli ultimi
trent’anni, il cui senso profondo, rimosso e neutralizzato, avanza come un interdetto, un
incantesimo che imprigiona il presente e il futuro in un delirio di immobilità, impedendo
a questa generazione l’accesso all’età adulta come forma di vita posta sotto il segno di
un’autonomia economica, psicologica, intellettuale; e finalmente politica. Un autore che
non amo, Pier Paolo Pasolini, ha potuto scrivere nelle Lettere Luterane, interpretando
metaforicamente l’inizio di questo trentennio, che «uno dei temi più misteriosi del teatro
tragico greco è la predestinazione dei figli a pagare le colpe dei padri. Non importa se i
figli sono buoni, innocenti, pii: se i loro padri hanno peccato, essi devono essere puniti».
Un quadro sommario di quello che è diventata la società italiana, e dell’adolescenza
invalicabile imposta ad un’intera generazione come verdetto non conosciuto, può essere
intesa anche solo da alcune semplici annotazioni di materialismo volgare: una statistica
pubblicata di recente sul Sole 24 Ore (febbraio 2006) fotografa con queste proporzioni la
distribuzione anagrafica del potere nei centri di comando politico, intellettuale,
economico e finanziario italiano: negli ultimi anni il peso dei settantenni nell’élite
dirigenziali è cresciuto dal 18,8 % al 23,4 %; quello degli ultrasessant’enni dal 27,4% al
30,4%, mentre i cinquant’enni occupano solo il 24,3%. Una semplice addizione rivela che
più del 50% della classe dirigente italiana ha un’età compresa fra i sessanta e i
settant’anni. Solo il 4,5% dei “giovani” fra i 30 e i 40 anni occupa una posizione di
rilievo. Non stupisce che una ricerca pubblicata da Eurispes, solo di qualche giorno
successiva, riveli che più della metà degli intervistati fra i 25 e i 34 anni lascerebbe
volentieri l’Italia per vivere all’estero, soprattutto in Spagna, in Francia e in Inghilterra.
Esistono delle responsabilità storiche, politiche, personali, precise e ricostruibili,
se il presente che abitiamo appare vorticosamente regredire a forme gerontocratiche e
neofeudali di gestione del comando e di organizzazione del consenso; e se chi avrebbe
dovuto, per consapevole scelta politica, educare politicamente le nuove generazioni
usando il proprio sapere per ricostruire i nessi occultati di questa ennesima
modernizzazione repressiva, ha preferito parlarci di società trasparente, pensiero debole, fine
del lavoro, società post-industriale, rivoluzione cibernetica e altre ireniche assurdità.
Bene. La storia teorica e politica di questo recente passato deve essere ancora discussa; le
ipotesi proposte verificate praticamente; chi ha oggi trent’anni comprenda il presente nel
quale è costretto, valuti l’esclusione economica, politica, culturale che subisce come esito di
un processo storico non privo di responsabilità soggettive; ne ricostruisca le cause.
Selezioni conoscenze, scelga maestri e nemici, attribuisca responsabilità. La formazione
politica delle nuove generazioni non può che partire di qui; si riapra, fra i giovani, una
discussione adulta sul potere.