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CONSIGLIO EUROPEO
IL PRESIDENTE
Bruxelles, 9 novembre 2010
PCE 256/10
"SI È APERTO UN SIPARIO"
Il presidente Herman Van Rompuy
pronuncia il primo discorso sull'Europa a Berlino
Konrad-Adenauer-Stiftung - Stiftung Zukunft Berlin - Robert-Bosch-Stiftung
Museo di Pergamo
I.
- DE Signore e signori,
mi sento onorato di parlare a voi oggi qui.
In primo luogo perché mi avete invitato come primo politico a tenere il discorso annuale
sull'Europa.
In secondo luogo perché posso parlarvi nel Museo di Pergamo, il 9 novembre.
Quante linee storiche si dipartono da questo luogo e da questa data! Si ha l'impressione di essere
sospinti da grandi forze antiche in due direzioni.
Gli dei dell'Olimpo davanti e dietro a noi, antichi di 2300 anni, ci conducono nella civiltà greca. Ci
conducono a Pergamo con i suoi templi, le sue fontane, le sue biblioteche e i suoi teatri. Per
qualcuno che ha frequentato il liceo classico essere qui è un grande momento!
E poi questo 9 novembre. Un giorno che nella storia tedesca del 20º secolo ha rivestito
un'importanza così variegata. Con momenti cupi, ma naturalmente anche con la festa della caduta
del muro di Berlino, proprio qui vicino.
S T A M P A
PER ULTERIORI INFORMAZIONI:
Dirk De Backer - Portavoce del Presidente - +32 (0)2 281 9768 - +32 (0)497 59 99 19
Jesús Carmona - Portavoce aggiunto del Presidente +32 (0)2 281 9548 / 6319 - +32 (0)475 65 32 15
e-mail: [email protected] - internet: www.european-council.europa.eu/vanrompuy
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Il "muro della vergogna", il rovesciamento dell'eredità greca, della democrazia.
A scuola ho imparato la famosa descrizione della democrazia di Pericle, in cui l'attività politica non
è il privilegio di pochi, ma il diritto di molti.
Anche per questo la data di oggi non mi lascia indifferente.
Un noto filosofo tedesco, Peter Sloterdijk, ha detto tredici anni fa - lo cito:
"Se le nazioni nel loro insieme potessero avere un collasso nervoso - nel caso dei tedeschi dovrebbe
accadere un 9 novembre. Con una regolarità che fa pensare a un tic, dal 1918 in quel giorno i
tedeschi da ormai quasi un secolo si presentano all'appuntamento per adempiere i propri doveri di
fronte alla storia, nel bene come nel male."
È proprio una serie:
1918: la fine della prima guerra mondiale.
1938: la notte dei cristalli, l'inizio di un incubo.
1989: la fine della guerra fredda, l'inizio di una Germania riunita.
Per me il 9 novembre 1989 è forse lo spartiacque più importante, non solo per la storia tedesca, ma
anche per la nostra storia europea più recente. Ha fatto di Berlino una città europea.
(Vi prego di scusarmi se continuo il discorso in inglese.)
- EN Il muro di Berlino è caduto 21 anni fa.
Alcuni di voi c'erano, dall'uno o dall'altro lato.
Alcuni di voi non erano nemmeno nati.
Io allora ero presidente del mio partito. Ricordo che pochi mesi dopo la caduta del muro
incontrammo a Salisburgo con i primi ministri democristiani dell'Italia e dei paesi del Benelux il
cancelliere Kohl per parlare della riunificazione tedesca. Sentivo che in quel piccolissimo gruppo,
su tra le montagne, era presente la storia.
Prima del 1989 non avevo mai visto direttamente questo lato del muro.
Quando avevo circa quindici o sedici anni un insegnante mi aveva raccomandato di leggere Karl
Marx. Nella nostra scuola cattolica poteva sembrare uno strano consiglio, ma l'insegnante disse:
"Comunque non diventerai marxista!". Aveva ragione… Per me il comunismo era la negazione dei
valori europei. Perciò quando arrivai all'università, poco prima del maggio '68, ero già immunizzato
rispetto a tutti i movimenti marxisti e ad altri movimenti "rivoluzionari". Da allora le mie
convinzioni anticomuniste sono sempre rimaste forti.
Ecco perché gli eventi del 9 novembre hanno segnato per me, come per tutti noi, la fine di un'era di
ideologie distruttive. Questa storia viene spesso raccontata, e bisogna continuare a raccontarla.
Tuttavia la caduta del muro ha segnato non solo una fine (del comunismo) ma anche un nuovo
inizio.
Ecco perché siamo qui stasera.
La caduta del muro ha creato un movimento in Europa e per l'Europa.
Il nostro continente diviso e raggelato si è messo in movimento, un desiderio di libertà ha afferrato
milioni di persone. Prima ha colpito tutti coloro che stavano sul lato orientale della cortina di ferro;
cortina che, secondo Churchill, andava "da Stettino a Trieste". Hanno potuto scuotersi di dosso la
tirannia e scoprire il grande vento della libertà. Ma anche la gente del lato occidentale è stata
toccata. Il vento del cambiamento ha preso a soffiare non solo "da Stettino a Trieste", ma anche da
Cork a Capri, e da Stoccolma a Siviglia.
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Fino al 1989 la Comunità europea rappresentava soprattutto l'integrazione economica - il mercato
interno in formazione, Schengen che muoveva i primi passi -, ma ora la nostra avventura comune
riceveva nuovi impulsi.
Con il 9 novembre l'Unione europea è diventata quello che è ora, e da questo evento dobbiamo
anche trarre ispirazione per capire come agire oggi.
Prima del 1989 tutta l'Europa era metaforicamente dietro una cortina, dietro un sipario!
Il mappamondo conteneva solo Est e Ovest nelle nostre menti.
Nel mondo concettuale della guerra fredda non c'era un ruolo da svolgere per l'Europa di per se
stessa.
Solo quando il sipario si è sollevato nel 1989 la vecchia Europa è uscita da dietro le quinte ed è
entrata sulla scena mondiale, sul podio. Un passo dopo l'altro,
•
prendendosi il suo spazio,
•
rafforzando i suoi legami interni,
•
trovando la propria voce.
Questi sono i tre temi europei che vorrei illustrare stasera: il nostro spazio, la nostra forza, la nostra
voce.
II.
Il giorno dopo la caduta del muro Willy Brandt pronunciò le famose parole: "Ora può crescere
insieme ciò che è nato per stare insieme".
Anche se parlava della Germania, lo stesso vale anche per l'Europa.
Anche noi siamo "cresciuti" insieme.
Non c'era un progetto, ma non è stato neanche un accidente della storia.
Il movimento è venuto dalla gente, dalla base, a partire dalle manifestazioni per la libertà in
Polonia, in Ungheria, in Cecoslovacchia.
Ciò che era iniziato come fuga dalla tirannia si è trasformato in libertà di circolazione. Venditori e
studenti, commercianti e turisti, uomini e donne dell'Est e dell'Ovest, tutti hanno cominciato a
cogliere occasioni al di là dei confini non appena è caduto il muro. Oggi, dopo l'ingresso nell'UE di
dieci Stati dell'Europa centrale e orientale, questi flussi di libertà sono stati assicurati. È più di un
elemento di un'unione economica. È uno spazio di libertà e di stato di diritto, tanto per i viaggiatori
instancabili quanto per i cittadini sedentari: è un segno di civiltà.
L'allargamento non è solo un processo burocratico avviato a Bruxelles, si tratta di stare al passo con
gli eventi dopo il 1989. Aprendosi ai nuovi membri, l'Unione forse non è "cresciuta insieme", ma ha
realizzato qualcosa di altrettanto essenziale: ha sancito il fatto che noi europei siamo "nati per stare
insieme".
Che siamo un'Unione.
Questo capitolo della storia dell'Unione non è ancora completato.
Nei primi dieci mesi del mio mandato ho visitato sette paesi dei Balcani occidentali, per confermare
le loro prospettive europee.
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Il loro desiderio di aderire al nostro club è subentrato a un periodo di barbarie e di violenza che tutti
noi avevamo pensato fosse impossibile in Europa dopo il 1945.
Questo dovrebbe incoraggiarci ancor più a dar loro il benvenuto.
Perché?
Perché quasi tutti coloro che fanno ora parte dell'Europa hanno vissuto grandi sconvolgimenti a
memoria d'uomo.
Ciò vale per la Germania, la Francia e gli altri paesi fondatori dopo le distruzioni della seconda
guerra mondiale.
Vale per la Grecia, la Spagna e il Portogallo dopo la fine delle rispettive dittature.
Vale per i paesi ex-comunisti che si sono uniti a noi dopo la caduta del muro.
Ad ogni allargamento l'Unione ha assorbito il colpo.
Come un'ancora di stabilità.
Come un'oasi di prosperità e di libertà.
Come una garanzia di pace.
L'ingresso dei Balcani occidentali nell'Unione suggellerà la fine dell'ultima guerra civile nella lunga
storia d'Europa: niente di più, niente di meno.
Perciò a chi dice che la guerra appartiene a un'epoca così remota nel nostro passato che la pace non
può più essere una questione chiave in Europa, che non è un'attrattiva per le giovani generazioni,
rispondo: andate laggiù e chiedete alla gente di lì! Chiedete anche ai giovani!
Per raggiungere questo obiettivo ci vorrà coraggio politico da ambo le parti. L'idea dell'adesione
non è popolare in tutti gli attuali Stati membri. Naturalmente i paesi candidati devono soddisfare
tutti i requisiti e devono rompere completamente con il loro passato di guerre civili.
I governi e i partiti proeuropei non dovrebbero perdere l'entusiasmo.
I cittadini che anelano alla pace e alla riconciliazione non dovrebbero perdere la speranza.
I paesi della regione meritano il nostro aiuto per realizzare il loro destino europeo.
Perché anche questi movimenti di adesione sollevano il sipario dall'insieme dell'Europa?
Pensate solo ai due diversi significati di "Europa": da un lato il nostro bel continente, la nostra ricca
cultura, dall'altro l'oggetto politico chiamato UE.
L'Europa geografica e culturale contro l'Europa politica.
Guardiamo che cosa succede nel corso del tempo.
Quando negli anni 50 sei soli paesi si raggrupparono e si chiamarono "Europa", forse era un po'
pretenzioso, o magari era un'allusione al futuro. Tuttavia questa promessa originaria sta ora
avverandosi!
Grazie ai successivi allargamenti, l'Unione europea si espande fino a diventare l'espressione politica
del nostro continente.
Dopo il 1989 cominciamo ad assomigliarci, finalmente i nostri vestiti ci vanno bene.
Quando parliamo dell'Europa come continente dei valori, oggi questo è vero non solo per una
piccola parte d'Europa, non per una metà dell'Europa, no, oggi è vero per l'insieme del continente!
Questo ci dà credibilità.
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Tutti i nostri paesi devono far fronte a una nuova diversità. I tempi dello stato-nazione omogeneo
sono passati. Ciascun paese europeo dev'essere aperto a culture diverse. Tuttavia abbiamo un'unica
civiltà: quella della democrazia, dei diritti individuali, dello stato di diritto.
Accanto alla diversità - diversità che è certamente una forza delle nostre società - c'è ancora
bisogno, in ciascuna delle nostre società, di un senso di unità, di appartenenza reciproca. Questo
senso di unità può risiedere in una serie di valori condivisi, o in una lingua, una storia condivisa,
una volontà di convivere (come diceva Ernest Renan). E questa volontà scaturisce soprattutto dalle
storie che ci raccontiamo.
Pensate ai greci antichi: le storie di Omero hanno creato legami attraverso i secoli. Ci hanno avvinto
nel loro incantesimo stasera. Possono essere storie di guerra e di pace, di prodezze olimpiche o di
sacrifici di santi, di assalti di prigioni o di cadute di muri.
Queste storie rappresentano quello che un trattato sui "valori" non può realizzare: incarnano delle
"virtù" in modo comprensibile, virtù praticate da uomini e donne in situazioni reali. Coraggio,
rispetto, responsabilità, tolleranza, sentimento del bene comune.
Tener vive queste virtù europee, trasmettere queste qualità secolari ai nostri figli e nipoti sarà una
delle grandi sfide del futuro.
Dobbiamo essere un'Unione dei valori ma anche un'Unione delle virtù civiche, una comunità di
valori come un'unione del coraggio civile.
III.
Vengo adesso al secondo tema della nostra storia, iniziato quando il sipario si è alzato.
Sto parlando dell'euro, il nostro grande simbolo di unità e stabilità.
Provate ad immaginare la grande recessione del 2008-2009 con le vecchie valute: sarebbe finita in
un tumulto monetario e con la fine del mercato unico! Una guerra valutaria finisce sempre nel
protezionismo.
La scorsa primavera, all'apice della crisi del debito pubblico, Lei, signora Cancelliera, ha detto: "Se
fallisce l'euro, l'Europa fallisce."
Parole che sono rimaste impresse nella mente della gente.
Ha infatti messo in luce la saggezza che sottende la creazione della moneta unica, un'intuizione che
recitava: creando una moneta, costruiamo l'Europa.
Dopo la caduta del muro, in un momento di potenziale conflitto tra la nuova Germania e i suoi
partner, gli uomini di Stato del 1989 – Helmut Kohl, François Mitterrand, Jacques Delors e gli altri
– hanno afferrato l'ancora dell'Europa e accelerato i progetti della moneta unica. È stata la grande
conquista del trattato di Maastricht.
Da allora il destino dell'Europa è intrecciato al destino dell'euro.
L'euro è il simbolo più visibile e tangibile del nostro comune destino; è anche il nostro più potente
strumento.
Condividere una moneta significa che le decisioni di uno si ripercuotono su tutti gli altri.
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E abbiamo visto in che misura! Questa primavera, la crisi di un paese di 10 milioni di abitanti è
diventata la crisi di 350 milioni di cittadini; ai primi di maggio è diventata perfino una minaccia
globale.
L'andamento delle pensioni o del debito di un paese incide sulle banche e i contribuenti di un altro
paese, in tempi buoni come in tempi difficili; i colpi che riceve Atene feriscono Amsterdam, e se
Barcellona fiorisce, Berlino prospera: l'interesse nazionale e quello europeo non possono più restare
separati, perché coincidono.
Fino all'anno scorso tutto questo era noto sì, ma era pura teoria.
Nella crisi della primavera scorsa la teoria è diventata esperienza vissuta, indelebile.
Oggi dobbiamo agire in base a quanto è accaduto, in modo responsabile.
Per questo due settimane fa il Consiglio europeo ha preso importanti decisioni: abbiamo concluso
un patto forte per rafforzare l'euro.
Le nostre decisioni -- e penso in particolare alle raccomandazioni della mia task force sulla
governance economica -- fanno capire e sentire a ciascuno Stato membro che le sue decisioni si
ripercuotono su tutti gli altri e sull'insieme dell'Unione. Non si può mantenere un'unità monetaria
senza un'unione economica.
È per me motivo di grande soddisfazione il fatto che il Consiglio europeo del 29 ottobre abbia
avallato la relazione finale della task force: è un bel passo avanti.
Permettetemi di menzionare tre punti cruciali.
Primo: terremo sotto più stretta osservazione le economie dei nostri paesi, la competitività, i rischi
di bolle immobiliari e altri punti deboli; reagiremo per rettificare il tiro laddove necessario. Si tratta
di una profonda innovazione: avessimo avuto in mano questo strumento nei primi dieci anni di vita
dell'euro, la crisi nella zona euro avrebbe potuto essere evitata.
Secondo: rafforzeremo il patto di stabilità e crescita, per aumentare sostanzialmente la
responsabilità di bilancio e sanzionare l'irresponsabilità. Le sanzioni saranno decise in modo più
agevole, interverranno prima e in modo più esteso. La mancanza di una maggiore "automaticità"
nel processo decisionale ha deluso alcuni; ebbene, grazie al nuovo principio della maggioranza
invertita, la nostra proposta va proprio verso una maggiore "automaticità"!
È una svolta decisiva.
Terzo: istituiremo "un meccanismo permanente di gestione delle crisi per salvaguardare la stabilità
finanziaria della zona euro nel suo insieme". Come presidente del Consiglio europeo, avvierò
consultazioni con i capi di Stato e di governo e con il presidente della Commissione sulla modifica
limitata del trattato necessaria per raggiungere questo traguardo. Tutti vogliamo poter contare su un
sistema forte e credibile nel 2013.
È un dovere, per noi.
Prese nel loro insieme, queste proposte costituiscono la più grande riforma dell'Unione economica e
monetaria dalla creazione dell'euro; renderanno le nostre economie più resistenti alle crisi e potremo
allora portare a termine l'edificio che abbiamo iniziato nel 1989, senza trasferirci in un nuovo
castello immaginario, ma rafforzando invece le nostre fondamenta.
Nello spirito autentico del trattato di Lisbona, tutte le istituzioni e gli Stati membri hanno
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collaborato per raggiungere questi risultati: è stato uno straordinario esempio di quello che la
Cancelliera la scorsa settimana a Bruges ha battezzato il "metodo dell'Unione".
Il leitmotiv è "collaborazione", che è anche stato sempre il mio stile di vita politico. Ad esempio,
dal mio primo giorno in carica, ho stabilito contatti informali e strutturali con Commissione,
Parlamento europeo e presidenza di turno del Consiglio. Senza collaborazione tra le istituzioni e tra
queste e gli Stati membri, il trattato di Lisbona non può funzionare.
L'euro ci porta dunque stabilità; ma abbiamo bisogno anche di progredire, perché la stabilità da
sola, in un mondo in movimento, ci porterebbe al declino. Abbiamo bisogno inoltre di crescita
economica più strutturata.
Nella maggior parte dei paesi europei -- che demograficamente non crescono, al contrario,
specialmente la Germania -- la crescita economica è sostanzialmente il risultato di un aumento del
lavoro o di un aumento della produttività, della qualità del lavoro: costruire auto migliori,
macchinari più competitivi, sviluppare servizi più intelligenti o diventare un immenso museo, ma
non uno nel quale si entra volentieri come questo!
Le riforme che interessano la previdenza sociale o i regimi pensionistici sono essenzialmente affare
degli Stati membri. L'Unione europea può dare orientamenti, specialmente nella zona euro, ma
l'applicazione è ‘decentrata’ (è il principio di sussidiarietà). In condizioni normali, l'Unione può
tener d'occhio la situazione, dare raccomandazioni agli Stati membri sull'equilibrio dei conti
pubblici e sul debito, ma non può imporre misure concrete. Quando però le politiche di un paese
creano rischi per l'intera zona euro, è possibile imporre sanzioni già in fase precoce.
Nel Consiglio europeo la crescita economica è stata un tema dominante sin dalla prima riunione che
ho presieduto nel febbraio 2010 e nei prossimi sei mesi intendo accogliervi anche il tema gemellare
dell'innovazione e dell'energia.
Queste riunioni sono elementi di una strategia economica a lungo termine.
In marzo valuteremo per la prima volta – nell'ambito del cosiddetto semestre europeo – gli sforzi
compiuti da tutti gli Stati membri per attuare la strategia UE2020 volta alla crescita e
all'occupazione. Insistiamo su questo: crescita e occupazione sono il nostro traguardo.
La gente a volte lamenta la mancanza di coraggio politico in questi tempi (ammesso che un paio di
generazioni fa questa fosse una qualità assai diffusa!).
Io invece sono rimasto assai colpito quest'anno dal coraggio politico dei nostri governi. Tutti
prendono misure profondamente impopolari per riformare l'economia e risanare il bilancio,
oltretutto in un'epoca di populismo rampante. Alcuni capi di governo devono affrontare
l'opposizione in parlamento, le proteste nelle strade, gli scioperi sul lavoro (magari le tre cose
insieme!), sono pienamente consapevoli dei rischi elettorali che corrono -- eppure vanno avanti.
Se questo non è coraggio politico, cos'è?
Supereremo le divergenze all'interno della zona euro che sono state alla radice della crisi della
nostra moneta. Le attuali differenze nei tassi di crescita economica sono dovute alle misure
economiche draconiane prese dai paesi in difficoltà, ma tutto ciò avrà una fine e tra qualche anno
potremo mostrare una maggiore convergenza, non solo in politica ma in cifre.
E per rassicurare il pubblico tedesco, sto parlando di recuperare velocità, non di rallentare!
Se l'euro è oggi più forte di qualche mese fa, è proprio grazie alla determinazione politica della
nostra azione.
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Rendo omaggio qui a Berlino al ruolo eccezionale svolto dalla Cancelliera tedesca e dal suo
governo sin dall'inizio della crisi dell'euro.
L'amicizia franco-tedesca è una condizione di riuscita necessaria, ma non sufficiente per la zona
euro. Occorre tener conto degli interessi di tutti, ed è mio compito far sì che sia questo il caso. E lo
è.
A mio avviso la modifica limitata del trattato che tutti i capi di Stato e di governo hanno convenuto
dieci giorni fa è fondamentale, ma non dovrà riaprire l'intero "dibattito interno" sulla natura, gli
obiettivi e l'architettura dell'Unione: abbiamo affari più urgenti da sbrigare.
Del pari, non credo sia prioritario ridefinire le modalità delle entrate dell'UE. Il regime attuale
rispecchia generalmente la capacità contributiva degli Stati membri. I contributi sono basati sul
reddito nazionale lordo e considerati pertanto equi. C'è chi ha suggerito di sostituire il sistema con
un'imposta diretta dell'UE, ad esempio sulle operazioni finanziarie o sul CO2, argomentando che
queste risorse effettivamente proprie renderebbero "più responsabili" le istituzioni di Bruxelles.
Personalmente sono aperto a nuove idee, ma poiché la maggior parte delle fonti alternative di
reddito rischiano di ripercuotersi in maniera ineguale sugli Stati membri, l'equità del sistema attuale
risulterebbe indebolita, così come l'intrinseca solidarietà. Quindi prudenza, ma possiamo discuterne.
La questione più importante è come spendiamo i soldi dell'Europa. Dobbiamo concentrarci in
settori in cui la spesa europea, evitando doppioni e grazie alle economie di scala, produce valore
aggiunto per i contribuenti.
IV.
E questo mi porta al terzo tema della nostra storia, iniziato in questa città 21 anni fa.
Come ho detto, da quel memorabile giorno il sipario si è alzato sull'intera Europa:
•
abbiamo accolto nel nostro club il resto del continente (grazie agli allargamenti);
•
abbiamo aumentato la nostra forza interna (grazie soprattutto all'euro)
•
e, terzo punto, abbiamo aumentato la portata della nostra voce sulla scena mondiale.
Anche qui il 1989 è stato un anno di svolta. L'evoluzione del mondo ci ha obbligato ad assumere
una responsabilità crescente verso la nostra propria sicurezza. Dopo la guerra fredda, ci siamo
svegliati dal letargo, non solo per asserire principi comuni, ma anche per definire e difendere i
nostri comuni interessi.
A quanti parlano con sufficienza o masochismo di "declino dell'Europa sulla scena internazionale"
chiedo: dov'era l'Europa su quella scena prima del 1989?
Non siamo solo NOI ad esser cambiati da allora: guardate il mondo d'oggi! Finita la divisione
est/ovest, con il terzo mondo in un angolo e noi dietro le quinte. Quelle vecchie categorie sono
sparite.
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Gli impressionanti cambiamenti economici e politici che vanno sotto il nome di "globalizzazione"
non solo hanno tolto centinaia di milioni di persone dalla povertà, ma nel processo hanno anche
disegnato una nuova carta. Il terzo mondo si è ridotto ad un'ampia parte dell'Africa, mentre la
maggior parte dell'Asia, con la Cina e l'India, dà segni di nuova fiducia in se stessa, così come il
Sudamerica.
QUESTA è la scena globale su cui deve muoversi l'Europa.
Nel nuovo mondo, che può riservare molte sorprese, dobbiamo sbrigarci a prender posto. I capi di
Stato e di governo devono svolgere un ruolo importante nel definire insieme gli interessi strategici
dell'Unione, deciderne le priorità, stabilire la nostra direzione comune.
Illustrerò brevemente alcuni sviluppi.
Primo: potere e influenza nel mondo sono sempre più determinati dall'economia e meno dalle armi.
I conflitti regionali recenti, come l'Iraq e l'Afghanistan, hanno mostrato chiaramente i limiti
dell'intervento militare. Le potenze emergenti stanno anch'esse imparando che non possono contare
sulla propria crescente forza militare senza rischiare di isolarsi. Inoltre, con l'economia mondiale in
crescita ad un ritmo di circa il 4%, aumenterà la pressione sui prezzi dell'energia, dei prodotti
alimentari, delle materie prime. L'accesso a questi prodotti di base sarà fondamentale negli anni a
venire. Come Unione dobbiamo difendere i nostri interessi nel mondo in evoluzione.
Secondo, per questo mondo in piena globalizzazione abbiamo bisogno di una governance globale
più forte. Per questo occorre che il G20 assuma una guida più politica. Due importanti riforme sono
bloccate: il cosiddetto Doha Round per una maggiore libertà degli scambi nel mondo e il seguito
della conferenza di Copenaghen sul clima. Per fortuna il mese scorso i ministri delle finanze hanno
raggiunto un accordo sulla riforma del Fondo monetario internazionale. Tuttavia, il sistema
monetario internazionale in quanto tale non funziona più così bene.
Solo tassi di cambio basati sul mercato possono tradurre accuratamente i "fondamentali"
dell'economia e assicurare correttezza nella concorrenza tra i paesi e le aree valutarie. Anche i
fondamentali economici, come la riduzione dell'inflazione e del disavanzo, devono essere solidi,
pena il ritorno dello spettro del protezionismo. L'evoluzione verso tassi di cambio più flessibili e
fondamentali solidi sarà progressiva, ma è necessaria.
Questo sarà pertanto un punto fondamentale al vertice del G20 che si terrà a Seoul verso la fine
della settimana.
Terzo, l'Unione europea vuole riconoscere il ruolo politico delle nuove economie emergenti. Gli
europei hanno quindi istituito il G20 al massimo livello e rinunciato a due seggi nella riforma
dell'FMI. Riteniamo tuttavia che a loro volta i paesi emergenti debbano sentirsi più responsabili nei
confronti dell'economia mondiale ed essere più attivi nella "governance mondiale". Spero che
capiscano che è difficile godere simultaneamente dei diritti di un paese sottosviluppato e di quelli di
un'economia avanzata.
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In questo mondo in piena mutazione, l'Unione europea deve adattarsi in maggior misura. Dobbiamo
far sentire tutto il nostro peso. Come risulta dalle conclusioni del Consiglio europeo del 16,
dobbiamo fondare le nostre relazioni con i partner strategici sulla reciprocità e sui vantaggi
reciproci. Cominciamo allora dal nostro punto di forza: facendo leva sul nostro peso economico.
Nell'FMI i paesi della zona euro dovranno collaborare strettamente, per arrivare un giorno ad
ottenere un potente seggio euro in seno all'istituzione, un seggio forte come la nostra moneta
comune.
Se vogliamo contare nel mondo, ciascuno dei 27 Stati membri e le istituzioni dell'UE dovranno
trasmettere gli stessi messaggi chiave. Non una voce sola in sé, ma un messaggio unico, formulato
in tutti i 27 paesi.
Il trattato di Lisbona ci offre i mezzi politici e diplomatici per questo.
Dopo aver passato il primo semestre di quest'anno in modalità di gestione delle crisi, in autunno il
Consiglio europeo ha iniziato a formulare orientamenti strategici. D'ora innanzi discuteremo di
relazioni esterne ad ogni riunione.
Per concludere: il sipario si è alzato, il pubblico è in attesa, l'Europa è pronta a fare la sua parte.
V.
Dobbiamo combattere insieme il pericolo di un nuovo euroscetticismo, che non è più appannaggio
di un pugno di paesi: in ogni Stato membro ci sono cittadini che credono che il loro paese possa
sopravvivere da solo nel mondo globalizzato.
È peggio di un'illusione: è una menzogna!
Franklin Roosevelt ha detto: "L'unica cosa di cui dobbiamo aver paura è la paura stessa".
Il peggior nemico dell'Europa oggi è la paura.
La paura conduce all'egoismo, l'egoismo al nazionalismo e il nazionalismo porta alla guerra ("le
nationalisme, c’est la guerre" diceva Mitterrand). Sovente il nazionalismo di oggi non è un
sentimento positivo di fierezza della propria identità, ma un sentimento negativo di timore degli
altri. La paura dei "nemici", all'interno delle nostre frontiere e al di là; è un sentimento che percorre
l'intera Europa, non maggioritario, ma presente ovunque.
La nostra Unione è nata dalla volontà di collaborare, di riconciliare e agire nella solidarietà.
La paura è fonte di immobilismo, di mancanza di ambizione o peggio, di protezionismo in Europa e
a livello internazionale. .
Quanti hanno paura della perdita di posti di lavoro e di prosperità creano proprio quello che
volevano evitare.
- DE -
niente si è mai costruito sulla paura.
I padri fondatori dell'Europa -- Monnet, Adenauer, Spaak -- erano pieni di ambizioni, non
pusillanimi.
I cittadini della Germania orientale hanno messo da parte la paura e in questo modo hanno vinto il
terrore del comunismo.
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La nostra Europa sostiene una società aperta, non chiusa; ma una società aperta con regole e valori,
con un progetto e un'identità positiva.
In definitiva i cittadini rispettano i capi che hanno una capacità di richiamo e di unificazione della
gente intorno a sé.
Senza speranza né vigore non è però possibile raggiungere grandi traguardi.
Dobbiamo quindi essere uomini e donne di speranza.
La speranza, che affonda le radici nelle conquiste del passato,
la speranza, che dà forma al presente,
la speranza, sprone verso un futuro migliore.
L'idea europea è stata il progetto più riuscito e generoso che il mondo ha conosciuto dal 1945. Ha
unito l'intero continente ed ha portato pace e prosperità. Ha dato ai 500 milioni di uomini e donne
della nostra Unione le fondamenta su cui possono costruire un'Europa migliore per domani.
Allora serviamoci della nostra esperienza, e soprattutto viviamo le nostre speranze!.
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