R. MENEGHINI, Edilizia pubblica e riuso dei monumenti

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R. MENEGHINI, Edilizia pubblica e riuso dei monumenti
EDILIZIA PUBBLICA E RIUSO DEI
MONUMENTI CLASSICI A ROMA
NELL’ALTO MEDIOEVO: L’AREA DEI
TEMPLI DI APOLLO SOSIANO E BELLONA E
LA DIACONIA DI S. ANGELO IN PESCHERIA
di
ROBERTO MENEGHINI
Nel lungo periodo di passaggio tra antichità e medioevo che vide la trasformazione topografica e urbanistica di
Roma da capitale dell’impero a centro della cristianità, a
caratterizzare il paesaggio della città fu senza dubbio la presenza dei monumentali resti delle fabbriche di età classica
con cui dovettero convivere e svilupparsi nuove strutture.
Di ciò rende testimonianza la descrizione dell’Anonimo di
Einsiedeln che all’inizio del IX descrisse molti grandi edifici imperiali ancora integri a fianco dei quali sorgevano
ormai stabilmente chiese, monasteri e diaconie. L’area monumentale centrale conservava la sua imponenza e il gran
numero di memorie del passato mantenute in buono stato
spingeva Procopio di Cesarea ad elogiare i romani impegnati a salvaguardare le testimonianze superstiti della loro
storia (Proc. B. G. IV, 22). Il Foro Romano era in posizione
preminente ancora nel IX secolo quando vi convergevano
tre degli itinerari del pellegrino di Einsiedeln. Le due basiliche che delimitavano a oriente e ad occidente il perimetro
della piazza: l’Emilia e la Giulia, erano in piedi. La prima,
andata distrutta per un incendio nel V secolo (BARTOLI 1912),
era stata riadattata a semplice quinta scenica della piazza
abbandonandone l’interno che si andò via via interrando e
che rimase certamente scoperchiato, mentre gli ambienti
della facciata furono decorati con ricchi pavimenti marmorei nel VI (GUIDOBALDI-GUIGLIA 1983) e poi occupati da un
edificio non identificato realizzato nel tipico opus
quadratum di tardo VIII-IX secolo. All’interno della Basilica Giulia si insediarono invece laboratori di artigiani e un
oratorio, tra il VII e il IX secolo (MAETZKE 1991). I templi
sottostanti il Campidoglio: quello di Saturno e gli altri del
Divo Vespasiano e della Concordia costituivano, ancora in
età carolingia, lo sfondo del Foro verso nord-ovest (GASPARRI 1979; DE ANGELI 1992) e al loro fianco si ergevano,
immutate, le moli dell’Arco di Settimio Severo e della Curia Senatus dioclezianea, trasformata in chiesa di S. Adriano da papa Onorio I (625-638). A sud-est i rostri orientali,
risalenti alla tetrarchia, erano stati sede di officine nel VIVII secolo e, forse solo nel IX, avevano perduto la decorazione architettonica (GIULIANI-VERDUCHI 1987) mentre il
tempio di Antonino e Faustina rimaneva intatto. Nel VII
infine, lungo la media Sacra Via, doveva essersi sviluppato
un quartiere residenziale del quale sono state rinvenute due
abitazioni ricavate all’interno della Regia (AA.VV. 1989) e
dell’Atrium Vestae (LANCIANI 1883). I vicini Fori Imperiali
offrono un panorama assai più disomogeneo giacché le vicende dei diversi complessi sembrano talora profondamente dissimili. Come infatti un recente studio sembra dimostrare (MENEGHINI-SANTANGELI VALENZANI 1996a) il Foro di
Augusto fu precocemente abbandonato e destinato a divenire una vera e propria “cava” di materiale edilizio con le
strutture soprabasamentali del tempio di Marte Ultore già
quasi completamente demolite durante gli anni della dominazione gota; lo stilobate fu poi rioccupato e trasformato
nel monastero di S. Basilio in Scala Mortuorum tra l’inizio
del IX e il X secolo. Al contrario il Foro di Nerva, confinante a sud con quello di Augusto e solcato da una strada di
comunicazione tra Foro Romano e Viminale, rimase intatto
sino agli inizi del IX secolo quando fu occupato dalle ricche domus di un quartiere residenziale, distribuite ai lati
della via e realizzate con i materiali di spoglio dei lati lun-
ghi della piazza (SANTANGELI VALENZANI in questo stesso volume). Ad oriente lo sfondo della strada era costituito dal
tempio di Minerva che fu lasciato in piedi assieme alle
“Colonnacce” e che sopravvisse in ottimo stato di conservazione fino al 1606 quando fu raso al suolo da papa Paolo
V per ricavarne materiale da costruzione. Per il Foro della
Pace possediamo unicamente la testimonianza di Procopio
(Proc. B.G. IV, 21) che ce lo descrive come ancora intatto
con il solo edificio templare in stato di leggero degrado;
proprio negli stessi anni papa Felice IV (526-530) inserì in
alcuni ambienti del complesso monumentale la chiesa dei
SS. Cosma e Damiano. Infine il più ricco ed esteso dei Fori,
quello di Traiano, sembra non aver subìto consistenti rialzamenti di livello prima della fine del IX-X secolo (MENEGHINI 1993) e se si escludono possibili episodi di spoliazione, anche massicci, verificatisi precocemente (IV secolo)
nel settore a nord della Basilica Ulpia (MENEGHINI 1996) si
può ipotizzare la sopravvivenza della stessa Basilica o di
gran parte di essa e delle strutture affacciate sulla piazza
sino al basso medioevo (MENEGHINI 1989).
Dunque l’area monumentale centrale mostrava, almeno fino all’età carolingia, un volto sostanzialmente immutato pur con la presenza del grande cantiere di smontaggio
del Foro di Augusto che comunque non pare costituire un
episodio isolato. Abbiamo infatti notizia dell’esistenza di
almeno altre due cave urbane che sfruttavano edifici pubblici di età imperiale: è il caso del tempio del Sole di
Aureliano nel Campo Marzio, dal quale, negli anni 532533 sotto il regno di Amalasunta, furono asportate otto grandi colonne di porfido rosso inviate a Costantinopoli per essere impiegate nella costruzione di S. Sofia (MONETI 1993).
Come dimostra un documento epigrafico di recentissima
individuazione (PANI-REA 1995), anche al Colosseo toccò
una sorte analoga giacchè in età teodericiana, poco prima o
poco dopo gli ultimi spettacoli del 523, esso fu in buona
parte trasformato in cava di materiale edilizio. Colpisce,
senza dubbio, l’addensamento degli interventi demolitori
nel periodo della dominazione gota, indice di un più spregiudicato rapporto dei nuovi sovrani con le antichità
dell’Urbe rispetto, ad esempio, al ruolo di “conservatore”
tradizionalmente attribuito a Teoderico nei confronti di
Roma (DELLA VALLE 1959; PANI ERMINI 1995). Altri due importanti fattori, la cui combinazione contribuì non poco ai
mutamenti della città furono il progressivo spopolamento e
la comparsa delle necropoli all’interno delle mura Aureliane.
Entrambi i fenomeni hanno probabilmente un’origine
comune che risale agli assedi e al sacco di Alarico del 408410. Durante questo episodio infatti le stesse fonti (Zosimo,
Nea Isofia, V, 39) descrivono i primi casi forzati di sepolture in città che poco a poco divennero vere e proprie necropoli organizzate e gestite dalla chiesa sino al momento
della loro massima diffusione, tra la metà del VI e l’inizio
del VII secolo, nel quadro di un generalizzato cambiamento di rapporto nei confronti della morte che, da allora e per
tutto il Medioevo, entrò a far parte integrante del mondo
dei vivi (MENEGHINI-SANTANGELI VALENZANI 1993; ID. 1994;
ID. 1995). Contemporaneamente si verificò un calo massiccio e costante del numero degli abitanti che si ridussero dai
500.000-1.000.000 del IV secolo alle poche decine di migliaia dei tempi di Gregorio Magno (MAZZARINO 1951;
BAVANT 1989; MENEGHINI-SANTANGELI VALENZANI 1993). L’interpretazione delle sepolture urbane come indicatori della
presenza di nuclei umani (e non soltanto di chiese) e la parallela, capillare diffusione di questi siti funerari all’interno
delle mura Aureliane costituiscono, a fronte della caduta
verticale della densità abitativa, una traccia sicura per ricostruire la tipologia degli insediamenti romani nell’alto medioevo. Secondo tale chiave di lettura la città doveva estendersi ancora sino agli stessi limiti di quella tardoantica, senza
contrazioni alla fascia lungo il Tevere e con totale assenza
di zone rurali (VIEILLARD 1959; KRAUTHEIMER 1980), oltre
ad essere caratterizzata da una marcata e diffusa alternanza
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tra aree ed edifici occupati e altri vuoti e abbandonati o utilizzati come cave di materiali o per l’inserimento di cimiteri. Paradigmatico appare in tal senso il caso, recentemente
analizzato, di un isolato presso la Porta Viminalis dell’aggere
serviano a ridosso delle terme di Diocleziano (attuale Piazza dei Cinquecento) (MENEGHINI-SANTANGELI VALENZANI
1996a; IID. 1996b). Si tratta di un edificio con domus e stabilimento termale pubblico annesso, entrambi costruiti intorno alla metà del II secolo d.C., che si trovava inserito in
antico in un fitto tessuto urbanistico e che fu scavato a più
riprese tra il 1862 e il 1948. L’esame dei dati di scavo rimasti inediti permette oggi di stabilire che la terma cessò di
funzionare tra la seconda metà del V e l’inizio del VI secolo, contemporaneamente all’abbandono e al deliberato interro del corpo principale della domus dalla quale venne
ritagliata una abitazione di dimensioni molto più ridotte,
articolata su di un cortiletto laterale che in origine doveva
costituire il quartiere della servitù. Durante il VI anche questa
piccola casa venne abbandonata e un settore del balneum
subì un innalzamento di livello di circa un metro legato ad
una evidente continuità di occupazione da parte di qualcuno che ne utilizzò la latrina come ricovero per animali. Tra
la fine del VI e gli inizi del VII secolo alcune tombe inserite
nella medesima latrina documentano la presenza di un nucleo umano nello stesso edificio o in uno vicino mentre tra
il VII inoltrato e il IX-X, in un’età non maggiormente precisabile a causa della mancanza di dati stratigrafici, tutta la
zona risulta abbandonata, obliterata sotto cumuli di terra di
riporto e dunque probabilmente “ruralizzata”. Una ulteriore testimonianza della convivenza con le antiche fabbriche
è data nuovamente da sepolcreti che potrebbero indicare la
presenza di gruppi umani all’interno di alcune terme pubbliche imperiali ormai in disuso a causa della loro sproporzione rispetto al sempre più ridotto numero di abitanti (MENEGHINI-SANTANGELI VALENZANI 1993; ID. 1995).
In questo paesaggio, che era sostanzialmente ancora
quello del basso impero, si inserirono le nuove fabbriche
cristiane. Sono ormai note le vicende dell’insediamento,
anche precoce, di numerose chiese all’interno degli ambienti
principali di ricche abitazioni tardoantiche passate per vie
diverse nel patrimonio ecclesiastico (GUIDOBALDI 1986).
Ugualmente conosciamo dalle fonti l’esistenza e l’ubicazione di molti monasteri, uno dei quali è stato di recente
identificato tra i ruderi dell’area sacra di Largo Argentina
dove fu fondato tra la fine del V e l’inizio del VI secolo
(SANTANGELI VALENZANI 1994).
Anche le diaconie, centri di assistenza organizzati dalla
chiesa per il sostegno dei poveri, nacquero secondo modalità analoghe; di esse a Roma si hanno le prime esplicite
menzioni nelle fonti a partire dal VII secolo mentre veri e
propri riferimenti alle rispettive chiese sono disponibili solo
in quello seguente (BERTOLINI 1947). La maggior parte delle diciotto diaconie urbane delle quali abbiamo notizie
nell’VIII secolo risulta insediata all’interno di grandi edifici di età imperiale (MATTHIAE 1962) come, per citare solo le
più note, quella di S. Maria Antiqua che occupò un settore
della pendice della domus Tiberiana verso il Foro Romano
o quella, molto vicina, di S. Teodoro che si inserì negli horrea
Agrippiana. Le diaconie di S. Adriano e dei SS. Cosma e
Damiano furono annesse alle omonime chiese già esistenti
nella Curia Senatus e nel Templum Pacis mentre quella di
S. Maria in Via Lata occupò un complesso orreario; S. Lucia in Septem Vias si stabilì tra il Circo Massimo e il
Settizodio, S. Maria in Aquiro forse nella Basilica Matidiae
e quella dei SS. Sergio e Bacco sub Capitolio tra i templi
del divo Vespasiano e della Concordia.
Assai rappresentativa di questa categoria di edifici pubblici altomedievali appare la diaconia di S. Angelo in Foro
Piscium (odierna S. Angelo in Pescheria), inizialmente dedicata all’apostolo Paolo e fondata assieme alla chiesa omonima nel 755 o nel 770 dal primicerius Teodoto, così come
testimonia un’epigrafe della seconda metà dell’VIII secolo
conservata nella chiesa attuale (HUELSEN 1927; BOGGI BOSI
1929; LESTOCQUOY 1930; BERTOLINI 1947; LORI SANFILIPPO
1994). L’intero complesso occupò l’antica Porticus Octaviae
mentre la chiesa originaria, a tre navate con coro articolato
su altrettante absidi, fu addossata al lato interno del monumentale propileo posto al centro del braccio meridionale
del portico (Fig. 1). Degli edifici che dovevano costituire la
diaconia conosciamo oggi soltanto pochi brandelli di muro
oltre a due delle tre absidi della chiesa di Teodoto, rimesse
in luce e rese praticabili a circa m 2,00 al di sotto del moderno altar maggiore da uno scavo realizzato all’inizio del
nostro secolo (GROSSI GONDI 1920). Le due strutture sono
costituite da tre filari di blocchi ciascuna che nell’abside
minore occidentale sono di solo tufo giallo mentre in quella
maggiore centrale si alternano ad altri di tufo marrone rossastro. Nella prima abside i blocchi nel filare più basso variano in altezza da m 0,40 a 0,60, nel secondo da 0,40 a
0,50 mentre nel terzo sono tutti di circa m 0,40; nella seconda, dal basso, le altezze sono rispettivamente di m 0,50,
decrescenti da 0,35 a 0,52 e di 0,40; le larghezze dei blocchi vanno indifferentemente da m 0,50 a 1,10. Tra le absidi
resta un tratto del muro della navata formato da un paramento in laterizio poggiato sui blocchi, con modulo per tre
filari di mattoni di 18-20 cm e per 5 di 26-30 cm , conservato per 19 filari e con letti e giunti maltacei lisciati a filo.
Dietro l’abside maggiore esistono resti di un muro rettilineo ad andamento obliquo, anch’esso in blocchi di tufo
marrone rossastro, conservato per tre filari alti rispettivamente dal basso: m 0,60, 0,52 e 0,40, con larghezze comprese tra m 0,55 e 0,60. La tecnica costruttiva utilizzata in
tutte le strutture descritte è la tipica opera quadrata realizzata a Roma con materiali di recupero tra la fine dell’VIII e
il IX secolo. Nel caso specifico essa è comunemente considerata come l’esempio più antico di questa tecnica, in perfetto accordo con la datazione tradizionale della chiesa e
della diaconia al terzo quarto dell’VIII secolo (KRAUTHEIMER
1937; AA.VV. 1976).
Negli immediati dintorni di S. Angelo in Pescheria,
compreso tra Piazza Campitelli e il Teatro di Marcello, esiste un importante complesso archeologico costituito da due
templi di età augustea, identificati con quelli di Apollo Sosiano (o in Circo) e di Bellona, che fu rimesso in luce tra gli
anni Venti e i Quaranta nel quadro delle demolizioni per
l’isolamento del Teatro di Marcello (Fig. 2) (DE NUCCIO
1995; VISCOGLIOSI 1995; ID. 1996). Gli edifici erano circondati da un piccolo portico ad arcate, in laterizio e pietra con
pilastri ornati da semicolonne (COLINI 1941; CIANCIO ROSSETTO-GIUSBERTI-VIRGILI 1993) cui si connettevano numerose strutture ancora in buona parte esistenti e quasi completamente inedite, costituite da muri in blocchi di tufo e opera
vittata assai tardi che, come vedremo, sono probabilmente
da ricongiungere alla fase iniziale di S. Angelo.
Di notevole interesse appare il gruppo di strutture poste
sul retro dei templi che per la sua evidente unitarietà merita
un’analisi più approfondita e puntuale (Fig. 3).
È anzitutto da sottolineare che il tardo intervento si concentrò sulle parti superstiti dei pilastri con arcate del portico ed ebbe consistenza diversa a seconda dello stato di conservazione di essi. In alcuni punti infatti si notano veri e
propri episodi di ricostruzione che rivelano quale fosse al
momento lo stato di profondo degrado del portico, forse ai
limiti della rovina. Lo stretto spazio compreso fra quest’ultimo e il lato posteriore del tempio di Bellona fu trasformato in un ambiente (A), largo m 3,00 e lungo 25,00, tramite
la tamponatura delle arcate. Al momento dello scavo furono rilevati soltanto tre di questi tramezzi: i nn. 50-51 e un
altro che chiudeva l’arcata fra i pilastri 41-42, subito demolito. I primi due sono ancora conservati per una altezza di
circa m 3,00 e a partire da m 2,10 dal piano di calpestio,
mostrano i resti di due feritoie strombate che attraverso il
portico B davano una fievole luce all’ambiente A. I paramenti delle tamponature sono costituiti da un opus vittatum
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Fig. 1 – Planimetria generale dell’area della Porticus Octaviae e del Teatro di Marcello.
Fig. 2 – Planimetria generale dell’area dei templi di Apollo e Bellona (da VISCOGLIOSI 1996).
Fig. 3 – Planimetria delle strutture poste sul retro dei templi di Apollo e Bellona (da VISCOGLIOSI 1996 con numerazione e aggiornamenti
dell’autore. Il tratteggio alternato a linea intera e spezzata indicata il vittato e l’opera quadrata di VIII secolo; quello a sola linea
intera indica le strutture di età imperiale. Il tratto a linea - punto definisce il perimetro delle strutture moderne.
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Fig. 4 – Particolare del muro 2 / lato ovest (foto dell’A. ).
Fig. 5 – Particolare del muro 3 / lato sud (a sin. il lato est del muro 2) (foto dell’A. ).
Fig. 6 – Assonometria ricostruttiva delle strutture poste sul retro dei templi di Apollo e Bellona e pertinenti alla diaconia di S. Angelo
in Pescheria ( disegno dell’A. ).
con pochi ricorsi, accentuatamente inclinati di mattoni di
recupero (5 in 50 e 3 in 51, di cui uno interrotto) tra i quali
sono disposti filari di tufelli, rari e diversi, mescolati senza
regola con numerosissimi blocchetti ricavati da nuclei di
malta e cocciopesto di riutilizzo, profilati sulla dimensione
dei tufelli stessi. Il muro 51 reca sul lato sud, ossia verso
l’interno dell’ambiente A, tracce di intonaco su cui furono
individuati lacerti di pitture a linee di colore su fondo bianco oggi scomparsi (COLINI 1941). Il tratto di portico B sembra non aver subìto suddivisioni e da esso si accedeva all’ambiente A mediante una porta, di cui resta la soglia, ricavata fra i pilastri 46-47 e alla strada C, più bassa di circa m
1,00 e pavimentata con grandi lastre di travertino, attraverso le arcate del lato nord che rimasero sempre aperte. La
strada confinava a settentrione con un’insula genericamente datata al I secolo d.C. Attraverso un portone arcuato di
cui restano i piedritti (53-54) e parte della ghiera, si accedeva dalla strada C al piccolo cortile triangolare E. Le strutture 53-54 si conservano per circa m 2, 60 di altezza e sono
costruite in laterizio con mattoni di recupero e tegole intere
inserite in punti diversi del paramento. Le imposte dell’arco sono caratterizzate da cornici di tegole intere e mattoni
arrotati. Il modulo per 5 filari è di 33 cm . Il lato meridionale del cortile E era occupato da un edifico a pianta trapezoidale (F), delimitato da pareti in opus vittatum che si addossavano al portico in corrispondenza dei pilastri 26 e 34 e
che poggiavano direttamente sul lastricato. Di tutta la costruzione rimane solo il lato corto est con lo spigolo e l’inizio di quello lungo nord (52). Anche da un esame superficiale delle strutture risulta chiara la recenziorità del piedritto 53 rispetto al muro 52 al quale si appoggia. Il vittato di
questo muro 52 presenta sulla faccia esterna orientale la
seguente alternanza di filari, dal basso in alto: (M–mattoniT–tufelli-Numero arabo–numero dei filari-T+M–filare misto di mattoni e tufelli) M-T-3M-T-2M-T-2M-T-M-T-2MT-2M-T-2M-T-2M-T-2M-T-2M; piccole variazioni si osservano su quella interna occidentale: 4M-T-3M-T-2M-T-MT-2M-T-2M-T-2M-T-2M-T e su quella interna settentrionale: T-5M-T-M-T-M-T+M-T-2M-T-2M-T-2M-T-2M-T-2M-TM. Sulle due ultime facce è possibile rilevare il modulo per
3 filari di mattoni che è di 20 cm mentre quello per 5 è di
28. I filari risultano ad andamento piuttosto ondulato. All’interno dell’edificio fu rinvenuto durante lo scavo un grosso frammento di crollo ancora in situ che ne fece ipotizzare
la copertura a volta. Lo spezzone murario, tutto in laterizio,
non mostra però alcuna analogia con la parete 52 che è, fra
l’altro, troppo sottile (m 0,45) per sostenere il peso di una
volta e pertanto se ne deve dedurre l’appartenenza a un piano alto della vicina insula D se non addirittura all’elevato
del tempio di Bellona. Non è chiaro se le arcate comprese
fra i pilastri 31-34 rimasero aperte quando fu costruito l’edificio F ma è certo che questo comunicava con il cortile E
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tramite una porta collocata lungo il lato settentrionale.
Nel tratto centrale del portico, in corrispondenza dello
spazio fra i due templi, fu ricavato un ambiente rettangolare di m 4,5×7,5 (G) mediante la tamponatura (23) dell’arcata compresa tra i pilastri 24-25 e la sostituzione del n. 30
e, forse, anche del 26, con un muro continuo in opus vittatum
(22). Il muro 22 è attualmente conservato, per tutto il lato
sud e per metà di quello ovest, sino ad una altezza massima
di m 2,42 e i suoi filari, caratterizzati da un andamento ondulato, hanno sui paramenti delle pareti esterne la seguente
alternanza: 11M (il 5° e l’8° filare diventano di tufelli sul
lato sud)-T-2M-T-2M-T-3M-T+M-T-2M-T+M-2M (il filare superiore si sdoppia sul lato sud)-T-2M; all’interno la
situazione è più confusa giacché l’alternanza è diversa sulle due pareti; a sud risulta (a partire da 20 cm di altezza a
causa di un mucchio di frammenti marmorei che non permette l’esame della base di questo lato del muro): M-T-2MT-3M-T-2M-T-2M-T-3M-2T (l’inferiore, da un certo punto, diventa M)-2M (si sdoppiano in 4M)-T-2M, mentre a
ovest è: 11M-T+BM (BM–blocchetti ricavati da nuclei di
malta di riutilizzo)-2M-T-2M-T+BM-4M-T-2M-T-2M-T2M. Il modulo per tre filari di mattoni varia da 19 a 23 cm
mentre quello per 5 si aggira costantemente sui 35-36. Purtroppo la metà settentrionale del muro 22 fu demolita poco
dopo gli scavi ma, dalle foto dell’epoca, non sembra esservi traccia di porte di comunicazione con l’adiacente sala H.
Lo spazio tra i pilastri 26 e 27 fu tamponato con blocchi di
riutilizzo uno dei quali, in tufo marrone rossastro, di m
1,14×0,62×0,60, è ancora in posto accanto a 27. Analogamente l’arcata tra 24 e 25 venne chiusa con il muro 23 che
verso l’interno presenta ancora tre blocchi di recupero in
tufo marrone rossastro, oltre all’impronta di un quarto, disposti su due filari e misuranti circa m 0,7×0,6×0,5-0,4.
Sopra il secondo filare rimane traccia di alcuni mattoni. Il
lato est dell’ambiente era formato da due mazzette addossate ai pilastri 25 e 31, ormai scomparse, con al centro una
porta larga m 0, 8 di cui rimane solo traccia del foro circolare di incasso del cardine nel pavimento.
All’atto dell’insediamento del tardo complesso architettonico che si sta esaminando, l’estremità occidentale del
portico imperiale doveva essere in completa rovina giacchè
i pilastri 14-16-18 furono ricostruiti in vittato, con alternanza regolare di un filare di mattoni e uno di tufelli, e rinfiancati dai contropilastri 15-17-19 che alla base recano 1011 filari di laterizi sormontati da un vittato regolare simile
al precedente. Il modulo per tre è di 15-18 cm mentre quello per 5 è sui 28-29.
Lo spazio tra il lato posteriore del tempio di Apollo e il
portico fu delimitato a sud-est dal muro in vittato 2 (Fig. 4)
che denota come tutta quest’area fosse divenuta una grande
sala a due navate (H) separate dai pilastri. Il muro 2, poggiato contro il pilastro 1 anch’esso in vittato, è conservato
sino ad un’altezza massima di m 3,25 e appare costituito da
una base di due filari di blocchi di tufo marrone rossastro
alti circa m 0,6 e di larghezze variabili da m 0,5 a 1,4. Il
paramento soprastante mostra sul lato interno occidentale
la seguente successione di filari leggermente ondulati: 2MT-M-T-M-T-M-T-M-T-M-T-M-2T-M-2T-M-2T. Sul lato
esterno (Fig. 5) è rilevabile il modulo per tre che è pari a 20
cm .
Tramite una stretta porta risparmiata tra 1 e 22 si entrava in un ambientino semicircolare (M), di circa m 2,00 di
diametro, delimitato dal muro in vittato 3 (Fig. 5) addossato a 2, i cui filari all’esterno si alternano come segue: 8MT-4T-M+T-M-T+BM+CP (CP–blocchetti ricavati da nuclei
di cocciopesto di riutilizzo)-T+M-M-T+BM-3MT+M+BMM-T+M+BM+CP-T+BM+CP-M-M+BM-T+M+BM+CPM-T+BM+CP-M+BM-T+M-M. Il modulo per 3 è di 17-20
cm , quello per 5 di 27-32. La presenza di uno spesso cordolo in cocciopesto alla base del muro 3 e il foro di ingresso di una fistula acquaria al centro di esso, a ca. m 1,4 dal
pavimento, permettono di identificarlo come balneum. Tor-
nando nella sala H si nota che il suo lato settentrionale, composto da fasi diverse ma cronologicamente ravvicinate, si
addossò esternamente ad un interro dello spessore di circa
m 1,00 che aveva obliterato un ambiente più antico caduto
in rovina, generando così lo spazio aperto N che fu inglobato nella tarda ricostruzione e usato forse come orto o scarico. La sala comunicava con il cortile E attraverso una porta larga m 0,8 ricavata a fianco dello spigolo esterno di G e
si nota una croce greca inscritta di m 0,6 di diametro incisa
sul pavimento al centro della navata nord. Infine una soglia
addossata ai pilastri 18-16 e i resti di un rozzo muro di pietrame poggiato contro quest’ultimo sembrano rivelare la
presenza di una cella (L) all’interno della sala H.
Una constatazione preliminare a qualsiasi tentativo di
collocazione cronologica del complesso riguarda l’evidente contemporaneità di tutte le strutture che ne fanno parte.
Caratteristiche comuni sembrano infatti essere la lisciatura
a filo dei letti di malta (tranne poche eccezioni riscontrate
nei paramenti di 52-53-54 dove in alcuni punti appare anche la rifinitura a sottosquadro che lascia in vista il margine
superiore del filare inferiore), la malta stessa che risulta quasi
ovunque grigio chiara, spesso tendente al rossastro per forti
concentrazioni di inclusi pozzolanacei di questo colore, la
provenienza di riuso del materiale costruttivo con tufelli
principalmente marroni e giallo chiari e la diffusa presenza
di blocchi di tufo marrone rossastro e di blocchetti ritagliati
da nuclei riciclati di malta e cocciopesto. Le leggere variazioni dei moduli sono più che altro da imputare alla notevole irregolarità delle cortine. Per la datazione del complesso
possono essere utilizzati sia l’evidente parentela di moduli
e materiali con le strutture della primitiva chiesa di S. Angelo che la presenza stessa dei blocchi di tufo alla base dei
muri oltre la tipica leggera ondulazione dei filari: tutti elementi che riconducono alla seconda metà dell’VIII-inizi del
IX secolo (AA.VV. 1976; COATES-STEPHENS 1995). Ad essi
possono aggiungersi l’evidente terminus post quem costituito da un mattone con bollo di Teoderico trovato durante
gli scavi in opera nelle tamponature 50-51 (COLINI 1941) e
l’ancor più significativo rinvenimento, da parte di chi scrive, nella muratura del pilastro 14, di mezza lucerna ovoidale “a ciabatta” in nove frammenti combacianti, databile con
una certa precisione alla seconda metà dell’VIII-inizi del
IX secolo (CECI 1982).
Considerata la totale assenza di resti di scale e la relativa esiguità degli spessori murari, non sembra ipotizzabile
l’esistenza di piani rialzati in nessuno degli ambienti presi
in esame il cui insieme appare tipologicamente molto distante da ciò che conosciamo delle abitazioni private dei
secoli VII-IX (vedi supra e CAGIANO DE AZEVEDO 1972;
ZANINI 1993).
Gli edifici dovevano dunque avere una valenza pubblica, con una componente balneare, che sembra quasi imposta dall’estrema vicinanza della diaconia di S. Angelo, costruita assieme alla chiesa certamente nell’ambito di un progetto unitario. Dalle fonti dell’epoca (BERTOLINI 1947;
DURLIAT 1990) sappiamo che settimanalmente aveva luogo
la cerimonia del lusma durante la quale i poveri assistiti
dalle diaconie si recavano in processione per un breve tragitto, guidati dal pater diaconiae e recitando salmi sino al
luogo dove venivano lavati e riforniti di cibo ed elemosine.
Ammettendo che nel muro perimetrale della Porticus
Octaviae fosse stata aperta una porta di comunicazione con
H (in un punto purtroppo ancora interrato) questo ambiente
potrebbe benissimo essere identificato con la sala dove la
processione degli indigenti giungeva dopo essere partita da
S. Angelo per lavarsi, singolarmente o a gruppi di due-tre
persone, nel balneum M e poi defluire dalla porta aperta nel
muro settentrionale verso il cortile E dove avveniva la distribuzione degli aiuti. L’intero complesso sarebbe dunque
da interpretare come il settore della diaconia destinato alla
pubblica assistenza e, in quest’ottica, l’edificio F potrebbe
assumere il ruolo di refettorio, l’ambiente G quello di ma-
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gazzino o dispensa mentre il lungo e stretto vano A (una
vera e propria corsia con le pareti decorate da pitture) quello di dormitorio aperto sulla strada (C) attraverso il portico
(B).
L’analisi ricostruttiva (Fig. 6) mostra la probabile persistenza degli elevati dei templi ancora nella seconda metà
dell’VIII secolo, giacchè per ottenere un minimo di inclinazione dei tetti di A, B. G e H era necessario impostare le
travature più alte ad un livello (circa m 7,00) corrispondente alle celle dei due edifici sacri. In questo modo risulta
fortemente accentuato il senso di incombenza dei colonnati
sulle costruzioni sottostanti in stretta analogia con la vicenda della diaconia di SS. Sergio e Bacco sub Capitolio che
rimase distrutta dal crollo di parte del sovrastante Tempio
della Concordia durante il pontificato di Adriano I (772795) (Lib. Pont., n° 354, Hadrianus, XC; BONFIOLI 1974).
In conclusione sembra provato che la diaconia e la chiesa
di S. Paolo/S. Angelo in Foro Piscium siano state fondate
proprio tra il 755 e il 770, in accordo con l’iscrizione di
Teodoto e abbiano occupato con le loro diverse componenti non solo la Porticus Octaviae ma anche l’adiacente area
dei templi di Apollo Sosiano e Bellona. Ciò accadde, a quanto pare, secondo modalità simili anche per altre istituzioni
analoghe che si insediarono nel corso dello stesso secolo in
alcuni tra i principali complessi monumentali di età imperiale.
Ma perché proprio in questo periodo si assiste a un fenomeno di riuso degli antichi edifici pubblici così imponente ?
È probabile che la risposta sia veramente nei drammatici eventi degli anni 725-751, durante i quali si concretizzò
la definitiva rottura tra Roma e Bisanzio e il papa potè effettivamente disporre, in tutto e per tutto, delle strutture urbane sino ad allora di proprietà imperiale (DURLIAT 1990).
In quelle più agibili e meglio conservate fu stabilita una
vera e propria rete di centri di assistenza (le diaconie) che,
assieme alle aziende agricole del suburbio (le domuscultae),
costituì il fondamento per l’autosufficienza in materia di
produzione e distribuzione degli alimenti e per il favore
popolare di cui necessitava la nascente signoria pontificia.
Gli antichi luoghi del consenso erano stati dunque solo temporaneamente accantonati in attesa di essere riutilizzati,
come le pietre dei loro muri, nella costruzione di un nuovo
sistema di potere.
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