01 M6 Voglia - Deutscher Werkbund NW

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01 M6 Voglia - Deutscher Werkbund NW
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A Giacomo e Giuliana,
Valentina e Max,
e a tutti i giovani
che cercano in Europa
la loro nuova
cittadinanza attiva
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Grazie, Enzo.
Un ricordo, un pensiero riconoscente
a Enzo Biagi, che mi indicò la strada
dell’Europa e il suo sogno
di un’Italia normale.
E che già ci manca tanto
Un giorno Enzo Biagi, zittito dalla Rai, prima di tornare per sempre
nella sua Pianaccio, mi consegnò durante uno degli incontri settimanali per la sua rubrica, amatissima dai lettori di «Oggi», una direzione e un sogno.
La prima: «Vai in Europa, racconta che cosa è oggi questa nostra
casa comune. Se avessi trent’anni in meno, ripartirei subito per aggiornare la geografia e l’identità del vecchio continente dove abita la
speranza comune dei giovani.
«In una stagione in cui la politica sta declinando, i giornalisti hanno un dovere in più verso il paese e verso i lettori: quello di assumersi il peso di indicare una strada per uscire da questo pantano e
rilanciare la democrazia».
Per il sogno, cedo a lui la parola.
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Il mondo normale che vi auguro
di Enzo Biagi
Io mi auguro che l’Italia possa finalmente diventare un paese normale, un paese in cui sia abolita la doppiezza. Io sono dalla parte di
Zavattini che diceva: «Con buongiorno intendo buongiorno e basta». E, aggiungo io, liberale vuol dire veramente liberale e basta.
Un paese dove funzionino scuole e ospedali: entrare in corsia e
vedere che c’è la scritta «SOLVENTI», cioè quelli che pagano, e quelli
che non pagano, mi pare poco bello.
Un paese dove treni e aerei arrivino in orario, perché la puntualità
non è mica una prerogativa fascista. Con una politica normale, che
(oltre a non ammettere l’intolleranza e la paura per l’altro) non contempli il trasformismo: vedere della gente che non cambia neanche
gabbana perché ha già un corredino dove ci sono tutte le giacche
che vanno di moda in quel momento è uno spettacolo da cancellare. Con un giornalismo che torni a consumare la suola delle scarpe,
guidato da quel sentimento potente che è la curiosità, e dalle chiare
tendenze ma sempre dalla buona fede e attento al lato umano.
Un paese normale dove non si interpellino i divi della televisione
per conoscere il loro parere su qualsiasi argomento, dalla solitudine
dell’uomo all’allevamento dei canarini. È normale un paese dove
non ci sia l’emergenza come a Napoli o in Sicilia, dove la paura
«marca» persino le arterie (come mi hanno detto una volta i medici
che effettuano le autopsie).
Un paese normale è un paese in cui l’unico punto di riferimento
non è la geografia con i suoi confini, ma la legge uguale per tutti. «La
rovina dell’Impero romano – scrisse inutilmente Ranuccio Bianchi
Bandinelli – fu facilitata dal clientelismo amministrativo e dal caos
delle leggi e non dalle orge del Satyricon.» Ma chi studia la storia?
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È normale il paese che aiuta quelli ai quali la natura e la politica
hanno dato di meno. Un paese normale è quello in cui gli aiuti non
si danno per beneficenza, grazie alle collette per soccorrere chi è colpito dalle sciagure, ma si prevedono con il bilancio dello Stato, con
voci apposite.
Un paese normale è quello dal quale non emigrano più i giovani
migliori perché non trovano un lavoro retribuito dignitosamente. È
quello in cui non c’è spazio per il grande tormento di oggi, che è
l’apparire. Un’ossessione: chi non entra nello spettacolo ha la sensazione di essere escluso dalla vita.
Un paese normale è quello in cui per stare a galla, per affermarsi,
non bisogna più far parte del gruppo, avere il sostegno della corporazione.
Un paese normale è quello in cui nessun bambino sia privo di cibo e cure. Ho incontrato in Romania i piccoli che vivono nelle fognature, come i topi, per sfruttare i tubi di riscaldamento.
Un paese normale, un’Europa normale, un mondo normale, è
quello in cui i bambini finiscono le loro giornate in un lettino, con
le lenzuola che profumano di pulito.
Capodanno 2005
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Viaggio nella «meglio Europa»
Ho visto un paese che ha quasi azzerato le morti bianche, conquistando il primato mondiale della sicurezza sul lavoro in fabbriche e
cantieri.
Ho visto costruire, in un altro paese, case e quartieri popolari di
pregio.
Ho visto come, con quattro semplici mosse, hanno dimezzato in
dieci anni le stragi sulle strade.
Ho visto affiancare alla mobilità sul lavoro una straordinaria sicurezza sociale.
Ho visto politici tornare a scuola, sui banchi dell’università, per
aggiornarsi sulla materia a loro delegata.
Ho visto bruciare i rifiuti, in regola con le leggi, nel cuore di una
capitale.
Ho visto al lavoro la macchina dell’industria turistica che, con
dolce efficacia, ha stracciato tutti gli altri concorrenti.
Ho visto un Parlamento ricco di donne alla pari di uomini.
Ho visto senza ingorghi l’autostrada in entrata e in uscita da una
capitale, grazie alla trovata di una corsia dinamica.
Ho visto alberghi completamente free oil, funzionanti senza una
goccia di petrolio, e case e fabbriche alimentate a energia solare e con
altre fonti «dolci».
Ho visto i cittadini dire no a una fonte di energia pericolosa per
l’attuale e le nuove generazioni ma contemporaneamente dire sì ad
altre fonti e partire senza indugi per le nuove frontiere.
Ho visto grandi fiumi risanati e tornati a essere sede ambita di pesci pregiati.
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Ho visto l’equivalente di una Cassa per il Mezzogiorno creare il
miracolo della rinascita di una nazione.
Ho visto madri e neonati allontanati dalla depressione e dalla
morte.
Ho visto amministratori pubblici pagati quanto normali dirigenti
e non di più.
Ho visto politici che parlano chiaro, senza parole «notabili per la
mancanza di contenuti» (linguaggio deprecato già da uno dei padri
della nostra Repubblica, Luigi Einaudi) né messaggi in codice destinati a collegare politico a politico passando sulla testa dei cittadini.
Ho visto applicare senza proteste il divieto di usare in pubblicità
il corpo delle donne come oggetto per vendere qualsiasi cosa.
Ho visto cittadini contenti di pagare le tasse perché ripagati a loro volta da servizi efficienti.
Ho visto funzionare i controlli dell’apparato statale sui doveri dei
cittadini e i cittadini mobilitarsi per chiedere l’applicazione puntuale dei propri diritti.
Ho visto ministri dimettersi per non aver pagato il canone della
televisione pubblica oppure per non aver versato i contributi per la
colf.
Ho visto ministri e amministratori pubblici comportarsi con moralità, e non solo parlare in Tv di moralità.
Ho visto la Tv sottratta al potere delle segreterie dei partiti. E come un premier ha chiesto a un comitato di saggi di riformare la radiotelevisione pubblica in modo che torni a essere prima di tutto un
meraviglioso mezzo di conoscenza e non solo un ricettacolo di business e vanità.
Ho visto capi di governo stringere la mano alle autorità della
Chiesa e poi, con rigoroso rispetto, invocare la laicità dello Stato.
Ho visto paesi che hanno speso per ammodernarsi, al cui confronto il nostro paese sfigura con il suo generale ritardo del rinnovamento nelle sue strutture portanti, a causa di una lunga e colpevole imprevidenza: se almeno una parte dell’enorme debito pubblico fosse
servita non a tappare i buchi nel bilancio della spesa corrente, ma a
migliorare servizi e infrastrutture, non ci troveremmo oggi in questa
difficile situazione.
Insomma, ho visto che cosa può fare la buona politica unita alla
cultura e all’istruzione quando, come accade da noi, non diventa,
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per dirla con il titolo del bestseller del 2007, La Casta (Sergio Rizzo
e Gian Antonio Stella, Rizzoli, Milano 2007).
Ho visto cose che gli italiani amerebbero vedere concretizzate nelle proprie città, nel proprio paese. Amerebbero vedere realizzate da
chi li governa, a ogni livello istituzionale, memori di quelle quattro
parole con cui Alcide De Gasperi, altro padre della nostra Repubblica da riscoprire per la sua attualità, sintetizzava il suo pensiero sulla
politica: «Politica vuol dire realizzare».
Ho visto soluzioni semplici e spesso poco costose ai problemi che
ci assillano ogni giorno da tanti anni, così tanti da sembrare impossibile da noi trovare soluzioni. Così tanti da suscitare palliativi e rinvii, materie in cui siamo maestri in Europa. Così tanti da far crescere antipolitica e lamenti. Da far temere una deriva qualunquista; o,
per dirla con un ossimoro, la «rassegnazione speranzosa» (speranzosa perché siamo caduti così in basso che ora possiamo soltanto risalire, no?).
Ogni giorno aumentano gli italiani che si lamentano. Mentre altrove ai lamenti hanno sostituito i progetti ad ampio respiro, la democrazia che decide e il controllo sui comportamenti dei politici
(ha suscitato scalpore l’invocazione del presidente francese Nicolas
Sarkozy a una pagella sull’operato dei ministri del governo) e il conseguente premio o rimprovero con il voto: come a scuola. Oppure il
rinnovo della fiducia o la sfiducia, come in azienda ai co.co.co, perché i politici sono, o dovrebbero essere, come i co.co.co, al lavoro
per un progetto: se lo realizzano, meritano la riconferma; altrimenti,
a casa.
Come scrive Eugenio Scalfari su «la Repubblica», in un editoriale
scritto nel cuore dell’emergenza rifiuti a Napoli e in Campania, nell’inverno durissimo del governo Prodi: «Chi ha commesso questo
macroscopico errore sui rifiuti? I responsabili principali sono il governatore Bassolino e il sindaco di Napoli, Russo Iervolino. Ho avuto in passato simpatia e stima per entrambi, ma adesso sia la stima
che la simpatia si sono molto attenuate. Penso che dovrebbero andarsene. Scusarsi e andarsene. Mi auguro che il presidente del Consiglio glielo chieda. La loro uscita di scena non è certo la bacchetta
magica per far sparire la montagna di rifiuti che ammorba la città e i
paesi del circondario, ma rappresenta comunque la doverosa punizione dell’errore strategico compiuto e nel quale per anni hanno
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perseverato. La disistima della gente per la politica si deve principalmente a un sistema perdonatorio che premia l’insipienza e le clientele. Il contrario di una democrazia efficiente e trasparente».
La classifica dei paesi più felici
Il volto della buona politica (degli altri) mi si è presentato a sorpresa, dopo un supplementare viaggio in treno attraverso la verde campagna inglese, in uno stanzino piccolo piccolo, un metro per tre, al
secondo piano della facoltà di Economia dove le targhette evocano
nomi laureati con il Premio Nobel, in quell’università di Cambridge
che dal 1284 contende a Oxford la palma di miglior ateneo inglese.
Qui un computer mi ha disegnato, tessera dopo tessera, il mosaico delle virtù del vecchio continente. Qui incontro per prima colei
che ha passato molte ore delle sue giornate lavorative a cercare di individuare la «meglio Europa»: la giovane ricercatrice italiana, Luisa
Corrado, docente all’università romana di Tor Vergata.
Monitorando per due anni eccellenze e soddisfazioni in centottanta aree di quindici paesi europei, Luisa e i suoi collaboratori di
Cambridge hanno potuto identificare i modelli virtuosi dell’Europa, quelli che vedono i cittadini più soddisfatti nei vari segmenti
della società, per concludere che una forte componente del benessere della popolazione è la fiducia e l’identificazione che la gente ha
nella politica e nelle istituzioni. Ha potuto illuminare le buone pratiche degli altri che noi potremmo utilizzare in Italia. Copiandoli,
importandoli, adattandoli: perché quel che c’è di buono in Europa
può aiutare a indicare strade per un’Italia più efficiente, più fiduciosa nella politica e nelle istituzioni, meno pessimista e disincantata.
In base a questa ricerca risulta che gli italiani sono all’ultimo posto per quanto riguarda fiducia nel futuro e felicità. Sotto i miei occhi sono sfilati tabelle e grafici elaborati a partire dai dati della European Social Survey che, ribaltando i luoghi comuni dell’antropologia climatica e del Belpaese, portano in vetta alla fiducia e alla felicità i danesi, seguiti dai finlandesi, irlandesi, svedesi e olandesi.
In coda alla classifica? Proprio noi italiani. Se qualcuno aveva delle illusioni, adesso deve ricredersi. Lo stereotipo dell’Italia paese
spensierato e della dolce vita è ormai ufficialmente da cancellare: il
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sole, il mare e la buona cucina non bastano più a essere felici. Anche
se su una scala da zero a dieci riportiamo in media un livello di felicità e di soddisfazione oltre la sufficienza, risultiamo tra i popoli
meno felici e soddisfatti in Europa, e anche i più sfiduciati verso la
classe politica. Mentre i cittadini dei paesi del Nord Europa, Danimarca in testa, infischiandosene del clima rigido, dei cieli sempre
nuvolosi e della cucina grassa e monotona, risultano i vincitori assoluti del campionato europeo della politica: un’altra indagine mette i
danesi addirittura in testa alla graduatoria mondiale.
Questo libro nasce con l’ambizione di aiutare a individuare un
orizzonte possibile per uscire dalla crisi di molti italiani. Vuole fornire una dose di ossigeno a chi respira sfiducia a pieni polmoni. Per
molti, Beppe Grillo in testa, gli italiani sono stufi della politica. Sbagliato. Gli italiani sono stufi di «questa» politica: della politica che
non decide e che non risolve i problemi (tranne poche e perciò più
lodevoli eccezioni, anche perché non hanno voce tra la logorrea e le
frequenti urla esagitate dei salotti televisivi); della politica che ha fatto crescere il distacco tra istituzioni e cittadini e, in questi ultimi, la
voglia di allontanamento dalla cosa pubblica. Vorrebbero «riaffezionarsi alla politica», come ci invita a fare il presidente Napolitano. E
ne vorrebbero una diversa, più giusta, più moderna, più efficace, più
europea, che realizzi di più e meglio. Una politica meno autoreferenziale, meno bulimica (a partire dal 2008 il finanziamento pubblico
dei partiti salirà dagli attuali duecento milioni a duecentocinquanta
milioni di euro l’anno, una cifra pari al doppio del tetto massimo
previsto per i contributi pubblici alla politica in Germania: paese che
ha ottantadue milioni di abitanti, contro i circa sessanta milioni dell’Italia). Una politica meno egoista, più attenta al bene comune. Una
politica che se dice no ad alcune soluzioni, deve avere contemporaneamente il coraggio di dire sì ad altre e affrontare strade alternative.
Una politica come la vedono fare in molte parti d’Europa; come la
vedrebbero volentieri presa a esempio.
In queste pagine incontrerete scelte, comportamenti virtuosi e storie vere narrate qualche volta con l’aiuto di diapositive immaginarie.
Ed è con una serie di diapositive immaginarie che mi piace introdurvi a questo lungo viaggio in Europa alla scoperta della buona
politica, per soddisfare la voglia di cambiare e combattere la mancanza di fiducia nel futuro di molti giovani.
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Vediamo cosa hanno fatto i nostri cugini europei. Vediamo come funzionano questi modelli di eccellenza. Importiamo quei metodi, adattandoli alle nostre necessità. E, a proposito di spiriti animali, teniamo presente una lezione che ci viene da uno dei più importanti etologi italiani. Può esserci utile.
Elogio della buona emulazione
Danilo Mainardi, docente alla Ca’ Foscari di Venezia e autore di testi fondamentali di divulgazione scientifica, ci fa capire quanto può
essere importante lo spirito di emulazione negli animali, in particolare tra i topi: «Nel mio vecchissimo laboratorio dell’istituto di
Zoologia dell’università di Parma avevo tanti topolini che sapevano
risolvere complicati problemi. Li chiamavamo topi maestri. Poi c’erano i topolini osservatori. Questi guardavano risolvere il problema
e, come per incanto, anche loro imparavano. Fantastico. Da osservatori si trasformavano in maestri e, quando l’esperimento avveniva coinvolgendo una popolazione, noi potevamo assistere al progressivo, rapido, dicevamo epidemico, espandersi della conoscenza.
Non occorreva che ogni topo ripartisse da zero con la noiosa, lunga
trafila dei tentativi e degli errori: c’era l’apprendimento sociale. Il
sapere del singolo si espandeva, a macchia d’olio, nel gruppo. La
popolazione, in breve, non era più quella di prima. Assistevamo,
nella vecchia soffitta di quel glorioso palazzo, a uno degli esempi
più primitivi di evoluzione culturale. Così, e per questo, i topi hanno conquistato il mondo. Sapendo trasmettere il sapere delle soluzioni. Uno scopre la nuova soluzione, gli altri lo copiano. Così vanno le cose nel mondo degli animali culturali».
Trasmettere il sapere delle soluzioni: ecco il messaggio che arriva
da quei sapienti spiriti animali.
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Strage continua
Nella saletta d’attesa dell’aeroporto di Bari, nelle prime ore d’agosto del 2007, i titoli della «Gazzetta del Mezzogiorno» colorano di sangue l’alba di un giorno vacanziero. Un giorno che, con i
suoi numeri, simboleggia l’ormai quotidiano bollettino di guerra
di una strage continua. Sei morti bianche in appena ventiquattro
ore. Quattro vite stroncate nella sola Puglia. Giovanissima la vittima di Taranto. Domenico Occhinegro, Mimmo per gli amici,
aveva soltanto ventisei anni e una vita davanti a sé. Doveva sposarsi nell’ottobre del 2008. Era felice, e nel suo paese, Palagiano,
vicino al capoluogo jonico, lo ricordano come un ragazzo dolce,
pieno di entusiasmo. A Domenico era stata promessa una piccola
promozione e per questo si dava da fare ancora di più. Mimmo è
morto per un incidente sul lavoro nel reparto TUL /2 (Tubificio
Longitudinale 2) dello stabilimento siderurgico Ilva. È stato investito da un tubo d’acciaio rimanendo schiacciato. Dai resoconti si
precisa che il corpo è stato stritolato tra il tubo e la sella di una
trave che fa parte di un sistema di movimentazione chiamato
walking beam.
Quello costato la vita a Domenico Occhinegro è l’ultimo di una
lunga serie di incidenti avvenuti all’Ilva di Taranto, incidenti che
hanno contribuito al record negativo nazionale della città pugliese, capitale dell’acciaio (le città dove si muore di più sul lavoro, secondo un’indagine Eurispes del 2006, sono Taranto, seguita da
Gorizia e da Ragusa).
Trentacinque morti dal 1993 a oggi, sei dei quali negli ultimi
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due anni. Il 9 giugno era morto un operaio di diciannove anni,
Andrea D’Alessano, di Oria (Brindisi), dipendente della ditta Modomec appaltatrice dei lavori di manutenzione. Il giovane, mentre
stava per prendere un ascensore per raggiungere alcuni colleghi di
fatica impegnati nei lavori di fermata straordinaria dell’altoforno
4, fu colpito in testa da un pesante martello, chiamato in gergo
«mazzetta», piovuto dall’alto.
Il 3 luglio, per un incidente capitato nell’Agglomerato 2 dello
stabilimento siderurgico, un operaio dell’azienda Tecnoprogress,
Giuseppe Cavallo, trentanove anni, è rimasto orrendamente mutilato: gli hanno dovuto amputare la gamba sinistra. Nello stesso
reparto TUL/2 un altro giovane, Vito Antonio Rafanelli, originario di Molfetta, era morto nell’agosto del 2006, schiacciato tra
un tubo e una macchina maledetta, spesso al centro di analoghi
incidenti: una «cianfrinatrice» usata per smussare le imperfezioni
sui tubi. Era il giorno del compleanno di Vito, compiva trentatré
anni.
«Morti fisiologiche»: così sono stati definiti tutti quei decessi dell’Ilva, secondo quanto riferito in una puntata televisiva di Annozero
nel dicembre 2007.
Come ricorda la coraggiosa newsletter ligure «Oli», «L’Ilva era
allora ed è oggi la siderurgia in Italia. Di proprietà dell’Ilva di Stato erano gli impianti di Terni, Taranto, Bagnoli, Piombino e anche lo stabilimento torinese, poi acquistato dalla ThyssenKrupp,
dove sono morti sette operai. Non si tratta di storia antica. Venduti ai privati, gli stabilimenti hanno conosciuto una gestione diversa. La forbice ha tagliato gli sprechi, ma pare sia andata ben
oltre. Fisiologico è il modo di porsi nei confronti della mano d’opera. Fisiologiche le conseguenze quando l’utile la fa da padrone».
Quel drammatico 1° agosto 2007 la Puglia ha pianto altri morti
nei cantieri edili di Otranto e di Brindisi. Nella prima città un operaio, Andrea Sindaco, di trentatré anni, è stato schiacciato dal braccio meccanico di una gru, che gli è piombato addosso. Andrea stava
lavorando in un cantiere di via Renis per realizzare, ironia della sorte, il centro benessere di un albergo. Sulla tabella dei lavori era prevista la realizzazione di un piazzale in cemento. Operazioni del genere richiedono l’impiego di una betoniera e di una elettropompa,
montata su una gru meccanica di circa trenta metri. Per eseguire un
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getto a regola d’arte, all’estremità del braccio meccanico c’è un tubo
flessibile. Chissà quante altre volte Andrea, fratello del proprietario
dell’impresa edile, aveva effettuato quell’operazione. E, com’era abitudine, Andrea s’era sistemato vicino al tubo per controllare gli spostamenti. A manovrare la gru, invece, era un operaio di un’altra ditta che aveva fornito sia la betoniera sia la pompa. All’improvviso,
però, il braccio meccanico si è spezzato ed è franato su Andrea ammazzandolo sul colpo.
Di Taranto era anche Cosimo Perrini, precipitato per otto metri
dal tetto di un cinema in costruzione senza alcuna fune di trattenuta a proteggerlo.
Aveva sessantatré anni, lavorava per la ditta tarantina Cover-tech,
amministrata dal figlio Renato Perrini, trentacinque anni.
La Cover-tech aveva ricevuto l’incarico dalla Cogi di Brindisi,
che sta realizzando una multisala nel quartiere brindisino di Bozzano, di eseguire l’impermeabilizzazione di una porzione dell’edificio. Cosimo ha perso l’equilibrio mentre predisponeva le guaine
sul lastrico solare. È precipitato in un lucernaio. Forse, a spingerlo
in quella maledetta apertura, è stata una forte raffica di vento. È
stato ipotizzato che Cosimo possa aver avuto un «infarto pindarico», ossia durante il volo di otto metri. Ma non c’è dubbio che
avrebbe avuto salva la vita se ci fosse stata la regolamentare fune di
trattenuta.
Il nome di Perrini, simbolo delle centinaia di lavoratori che
muoiono per caduta, di Sindaco e di altri vanno ad aggiungersi alle
migliaia, sparsi nelle cronache di tutti i giorni alla voce, meno allarmante di omicidi, «disgrazie sul lavoro» o «morti bianche». All’Inail
ne hanno contate milleduecentosettantaquattro nel 2005. Sono aumentate a milletrecentodue nel 2006, con la Lombardia che, con le
sue duecentodiciassette vittime, detiene il triste primato nazionale,
seguito da Veneto (centosei) e dall’Emilia Romagna (centocinque).
E non è andata meglio nel 2007. Un milione di incidenti l’anno e
più di mille morti, un lavoratore ucciso ogni sette ore: è il bollettino
della «guerra a bassa intensità» che denuncia l’Anmil, l’Associazione
dei mutilati e invalidi del lavoro.
Li abbiamo già dimenticati, gli Occhinegro, i Sindaco, i Perrini e
tutti gli altri caduti dell’estate 2007. Presto saranno dimenticati anche i sette caduti sulla trincea della ThyssenKrupp di Torino.
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Un lavoro sicuro è possibile
Il traguardo allora da indicare per i nostri politici è, almeno a parole, un lavoro sicuro. A Stoccolma scopro che non è un sogno. Scopro una terra dove abita il buon lavoro, quello con le migliori tutele
al mondo.
Nei giorni del mio arrivo, un’operaia ha bloccato la produzione nella sua fabbrica perché ha segnalato delle mancanze nel sistema di sicurezza. Alcuni colleghi l’hanno accusata di aver esagerato, ma l’ispettore del lavoro le ha dato ragione e la produzione è ripresa solo dopo aver sistemato la falla nella sicurezza. Il
pensiero corre di nuovo all’Italia. Sentite come è andata a un
operaio nella fonderia Officine Pilenga di Comun Nuovo nel
bergamasco. Avendo segnalato ai suoi capi condizioni rischiose
per i lavoratori, è stato accusato di mobbing per aver messo a rischio la salute del suo caporeparto: sospeso tre giorni dal lavoro,
senza stipendio. E a nulla è valsa la denuncia del responsabile
per la sicurezza dell’azienda, Valter Albani, sindacalista Cgil. Nel
suo reparto officina, dove operano torni, frese e foratori, questo
lavoratore, diligente e con alta professionalità, ha cominciato a
segnalare ai responsabili condizioni di pericolo oggettivo: mancanza di carter, sistemi di purificazione dei vapori non funzionanti, olio e acqua chimica sul pavimento. Risultato: nessuno.
Così il dipendente ha deciso di evidenziare i problemi sugli spazi
liberi dei fogli di produzione giornalieri che devono essere compilati a ogni turno. L’effetto in questo caso c’è stato. L’uomo è
stato convocato dal caporeparto: «Gli è stato detto che non era
quello il modo di segnalare i rischi. Bisogna farlo verbalmente, o
tramite apposite schede, che però io non ho mai visto», spiega
Albani. Niente scandalo in Italia, non siamo svedesi...
L’esempio della Scania
Nei nostri incontri settimanali, Enzo Biagi mi diceva spesso: «Sono
un cronista che, più delle statistiche e delle analisi sociologiche, privilegia le storie». La Svezia del buon lavoro ha la storia e il volto dell’operaio che mi viene incontro in una fabbrica di Soedertaelje, a
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mezz’ora d’auto da Stoccolma. Tommy Baecklund, cinquantotto
anni, è uno dei più anziani ombudsman dei lavoratori1 operante al
nord, responsabile della sicurezza alla Scania, la principale azienda
di veicoli industriali. A lui approdano i reclami di ognuno dei tremilaquattrocento dipendenti filtrati da centoventi altri ombudsman
che lavorano tra queste mura. La partecipazione dei lavoratori alla
politica di prevenzione qui è più sviluppata che altrove in Europa.
Sono circa duecentomila i delegati alla sicurezza. La nomina di un
delegato alla sicurezza è obbligatoria per tutte le imprese con almeno cinque dipendenti. I delegati regionali sono invece circa millecinquecento e coprono centosettantamila piccole e piccolissime imprese.
Tommy è entrato in fabbrica a ventitré anni come collaudatore.
Ricevette per la prima volta questo incarico nel 1978. L’incarico valeva per tre anni, ma da allora è sempre stato riconfermato: la fiducia dei suoi colleghi ha premiato il costante calo degli incidenti in
fabbrica.
Dal suo computer, sovrastato da un piccolo casco giallo simbolo
della sicurezza, estrae le cifre puntuali: l’ultimo incidente mortale
c’è stato quindici anni fa. Da allora alla Scania hanno registrato meno infortuni e sempre più lievi. Nel 1989 per un milione di ore lavorative ci sono stati quarantacinque incidenti. Nel 1990 gli incidenti sono scesi a trentasette; un anno dopo a ventiquattro; poi a
venti; poi a dodici. Nel 2007, hanno toccato la punta più bassa finora: dieci. «E ci battiamo per cancellare anche questa piccola cifra
residua», sottolinea orgoglioso Tommy.
Nel suo ufficio angusto, in cui si fatica a stare in tre (io, lui e il
fotografo), Tommy ricostruisce una giornata tipo nella sua vita.
Ogni mattina all’arrivo in fabbrica trova nel computer segnalazioni di eventuali inconvenienti che richiedono il suo intervento risolutivo. Un operaio ha avuto il dito del piede fratturato da una lamiera scivolata di mano? Uno «scudo» d’acciaio proteggerà d’ora
in poi la parte superiore delle scarpe di chi lavora in quel reparto.
Una fiammata della fornace ha sfiorato un lavoratore che si è avvicinato troppo al fuoco? Viene posizionato un raggio laser a pochi
metri dalla fornace: se qualcuno lo supera, automaticamente cala
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I delegati alla sicurezza. Ombudsman in svedese significa «persona che fa da tramite».
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un portellone per chiudere la bocca della fornace e renderla così
inoffensiva.
Tommy mi informa che da parte dei dirigenti della Scania c’è la
massima collaborazione nel trovare antidoti ai rischi: più che le
norme di legge (i codici svedesi prevedono multe salate e anche
l’arresto dei responsabili aziendali, evenienza mai successa) in Svezia vale il confronto continuo e l’accettazione comune delle priorità in fabbrica. Che, nel caso specifico della Scania, vedono al primo posto la sicurezza e l’ambiente, seguiti dalla qualità del prodotto, dalla puntualità nella consegna e, infine, dai profitti che
non mancano proprio perché sono stati rispettati sicurezza, tempi
e qualità. «In Italia, dove pure gli strumenti legislativi sono buoni,
mi risulta che queste priorità siano in molti casi rovesciate. E questa esasperata attenzione al profitto e disattenzione verso il decisivo capitale umano spiega quella mostruosità del dato statistico dei
tre-quattro morti che piangete ogni giorno. Voi italiani dovreste
chiedere la tolleranza zero verso chi sbaglia. E dovreste far funzionare al meglio i controlli, dall’interno della fabbrica e dall’esterno,
tramite gli ispettori.
«E magari sviluppare il sistema dei premi per le aziende e gli operai che raggiungono obiettivi non solo di fatturato ma anche di sicurezza. Così avverrà quel cambiamento di cultura necessario anche
da parte di molti lavoratori che tendono a sottovalutare l’applicazione delle norme di sicurezza», le parole dell’ombudsman chiariscono
meglio di tante esternazioni la nostra situazione in materia.
La graduatoria che monitorizza le condizioni di lavoro, a cura dell’Ufficio internazionale del lavoro, assegna alla Svezia la medaglia
d’oro: al secondo posto c’è la Finlandia, seguita da Norvegia, Danimarca, Olanda, Belgio e Francia. Al nono posto è la Germania, al
tredicesimo la Spagna, al ventesimo si piazza l’Italia, preceduta da
quasi tutti i paesi dell’Europa occidentale, ma davanti agli Stati Uniti, in venticinquesima posizione. Chiudono la classifica dei novanta
Stati monitorati, la Sierra Leone e il Nepal.
La Svezia vince il Nobel dei diritti dopo che sono stati esaminati,
oltre alla flessibilità e all’occupazione, anche tutele antilicenziamento, livello e continuità salariale, accesso delle donne, sicurezza
dei lavoratori. Prendiamo quest’ultima voce: nel 2006 in tutta la
Svezia ci sono state sessantasette morti bianche, equivalenti a 1,6
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morti per centomila occupati. La stessa proporzione (quella «proporzione minima possibile» evocata da Romano Prodi) farebbe abbassare in Italia la media da milletrecentodue morti in un anno a
«soli» trecentonovanta.
Come ricorda Samuel Engblom, un avvocato specializzato in
diritto del lavoro che ha il suo ufficio nel centro storico di Stoccolma, «trent’anni fa il bilancio delle morti in fabbrica era tre volte più alto. La maggiore sicurezza da noi rispetto a tanti altri paesi
del mondo è il risultato del dialogo costante tra sindacati e datori
di lavoro».
Oggi le migliaia di ombudsman in azione in fabbriche e nei cantieri edili dove elmetti e controlli sono la regola rispettata, in scuole
e nell’esercito, insomma in ogni posto dove ci siano più di cinque
lavoratori, oltre a trovare soluzioni per prevenire gli incidenti, hanno il potere/dovere di bloccare il lavoro quando c’è un pericolo potenziale. E non sono esagerazioni.
Ho informato Tommy che proprio nei giorni in cui lo incontravo, in quell’agosto 2007, era stato dato il via libera definitivo della
nostra Camera (duecentottantaquattro i sì del centrosinistra, un no,
duecentodieci astenuti del centrodestra) al disegno di legge sulla sicurezza sul lavoro: con questa legge delega entrata in vigore il 25
agosto, il governo Prodi si era impegnato ad adottare entro nove
mesi un testo unico che doveva prevedere, con l’assunzione di trecento nuovi ispettori e l’inasprimento delle pene, un maggior rilievo
ai «rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza» (per il testo integrale della legge si veda: www.lavoro.gov.it).
La sera, in albergo, tiro fuori carte d’archivio che ho portato da
Milano. C’è chi in Italia teorizza un calo di attenzione di settori della società civile italiana verso gli operai, da qualche anno considerati
marginali. In quei settori certamente non figurava Enzo Biagi: ho
ritrovato gli appunti riguardanti uno dei colloqui settimanali con
lui, nel suo ufficio al primo piano della libreria Rizzoli a Milano.
Quel giorno, erano gli inizi di marzo del 2006, il colloquio verteva
proprio su questo tema.
L’innesco dell’attualità era dato dalla festa a Rimini per il primo
centenario di vita della Cgil, il principale sindacato italiano, e lui
aveva mandato ai convegnisti un video registrato con parole chiare: «Ho ricevuto una grande lezione da mio padre operaio... Il mio
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pensiero va ai tanti operai che ho conosciuto nella mia vita... L’Italia è grande non solo per Leonardo da Vinci o Marconi, ma anche
per gli operai, e per la loro umanità, quegli operai che oggi sono
diventati quasi invisibili e senza voce».
Quel giorno del mio incontro con Biagi, il tributo consueto di vite umane fu dovuto a una frana che seppellì vivi alle porte di Milano due carpentieri che lavoravano per costruire la fogna: un muratore di ben sessantanove anni e un giovane albanese. Oggi che Biagi
non c’è più, rileggo con emozione gli appunti presi durante quell’incontro in cui il grande vecchio del giornalismo si domandava
sconcertato se erano concepibili più di un migliaio di funerali di
Stato all’anno per i martiri del lavoro. Ormai si va in molti cantieri
italiani come si va in guerra – sottolineava Biagi. E le cifre confermano l’emergenza nazionale: quattro morti al giorno sono un bilancio agghiacciante.
Che fare? Ricette sono state avanzate da tempo e da più parti,
sindacati compresi. Io mi limito a lanciare un appello al prossimo
ministro del Lavoro: introduca la patente a punti per le imprese,
sulla scia di quella introdotta per gli automobilisti e che ha provocato la riduzione degli incidenti stradali. Una patente a punti in
questo settore a rischio dovrebbe penalizzare le aziende che non rispettano le regole e la sicurezza dei lavoratori, escludendole dagli
appalti e addirittura arrivando a ritirare il permesso di lavoro in caso di ripetute irregolarità nel rispetto delle norme infortunistiche e
previdenziali. E, ministro del Lavoro prossimo venturo, aumenti e
faccia funzionare bene i controlli. Perché quando funziona il controllo finiscono il lavoro nero e gli infortuni. Una prova degli effetti benefici dei controlli? Eccola: qualche tempo fa un sindacato, la
Filca Cisl, ha avuto l’idea di un documento unico per facilitare il
dialogo tra gli enti pubblici e quelli sociali. Un documento comprendente le certificazioni dell’Inps, dell’Inail e delle Casse Edili
per attestare i versamenti effettuati da parte delle imprese sia in
campo previdenziale sia fiscale. Un esperimento fatto in Umbria,
per la ricostruzione delle aree colpite dal terremoto del 1997, ha
dato risultati straordinari ed è la prova evidente dell’efficacia dei
maggiori controlli. Il bilancio: le imprese del settore sono raddoppiate e non si è verificato nemmeno un incidente mortale nei circa
dodicimila cantieri.
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Sicurezza e parità sessuale
Nel Parlamento svedese la metà dei membri sono donne. Il lettore
mi conceda un ampliamento dell’orizzonte del buon lavoro in Svezia. Qui la sicurezza non è tutto. In Italia la parola lavoro è prevalentemente al maschile. Un recente studio dell’Eurispes sulle donne
che lavorano pone l’Italia all’ultimo posto in Europa: 45,1 per cento
contro il 71,6 della Svezia. Qui l’intelligenza e la professionalità delle donne sono ritenute una risorsa chiave del paese e lo Stato si è organizzato perché questa sia messa a disposizione del lavoro attraverso una fitta rete di servizi, a partire dagli asili: perché il figlio non è
solo della donna, ma una risorsa per il futuro dello Stato. Questo secondo, ma non secondario, aspetto del pianeta del buon lavoro in
Svezia è reso evidente dalle centosessanta donne parlamentari su trecentoquarantanove membri complessivi presenti nella massima istituzione politica della Svezia: il Parlamento unicamerale svedese (detto Riksdag), che in base alla Costituzione ha autorità suprema: una
sorridente nuvola rosa che orienta le linee di uno Stato verso la parità totale tra i due sessi. Nel Parlamento le donne sono a quota 46
per cento, contro il 18 per cento della nostra Camera e il 13 per
cento al Senato. Dà una sensazione piacevole vedere, in un salone
del Parlamento di Stoccolma, il signor Per Waetberg, presidente del
Parlamento, posare davanti al fotografo con le centosessanta rappresentanti femminili, alcune delle quali per l’occasione hanno portato
i loro bambini.
La Svezia è forse il paese da più lungo tempo interessato al tema
della parità tra uomini e donne. Già dal 1932 uno dei fondamenti
del Patto di Saltsjobaden, formato dal governo socialdemocratico e
dai rappresentanti dei lavoratori (sindacati, patronati eccetera) è il
principio «a lavoro uguale, salario uguale». Tale principio, originariamente formulato al fine di riconoscere la pari dignità del lavoro
manuale e non, è stato rapidamente esteso alla necessità di offrire
pari possibilità agli uomini e alle donne.
Svezia e Norvegia sono stati i primi paesi ad aver legiferato su
questo tema. Di quel Patto, fondamentale per la socialdemocrazia
scandinava e del tutto ignoto in Italia, c’è da ricordare il principio
base: «Voi imprenditori siete bravi a far soldi. Vi incoraggeremo,
purché paghiate le tasse. E noi con le tasse faremo il welfare state».
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La sfida della parità dei sessi nei luoghi di lavoro e nelle istituzioni è ancora all’ordine del giorno. Me la sintetizza, nel suo ufficio interno al Parlamento, Gunilla Upmark, una giurista passata dal tribunale di Stoccolma a capo della commissione del Lavoro del Parlamento svedese. Gunilla si serve, invece che di molte parole, di soli
quattro numeri chiave:
– 100 per cento del salario: oltre mezzo secolo fa la donna guadagnava la metà, oggi siamo all’80 per cento. Lo stesso discorso vale per l’Italia, dove non conta la bravura e nemmeno l’anzianità.
Conta il sesso: se sei donna guadagni meno, il 9 per cento in meno
di un collega «maschio» e fino al 26 per cento nel ruolo di manager. Essere donna non paga. Sull’Italia pesa il fatto che solo una minoranza di donne lavora fuori casa: il 46,3 per cento, penultima in
Europa, segue Malta, secondo il rapporto della Ue sullo stato di attuazione della strategia di Lisbona, il cui obiettivo è il 60 per cento
di occupazione femminile entro il 2010 in Europa (obiettivo cui si
sta avvicinando sempre più la Spagna di Zapatero, che punta sulle
donne – 53,2 per cento di occupazione femminile – per rivitalizzare l’economia).
– 50 per cento di occupate nelle istituzioni e nelle imprese. E
qui, nonostante alcuni picchi, c’è ancora strada da percorrere. «Dagens Industri», l’equivalente svedese di «Il Sole 24 Ore», mette in
prima pagina una «donna potente», Lena Treschow Torell (plurilaureata in materie scientifiche, professoressa universitaria, amministratrice delegata e membro di svariati consigli d’amministrazione, tra cui quelli di Gambro e Saab) con l’indice minacciosamente
alzato a sottolineare che il processo di inserimento delle donne nell’università e nel mondo della finanza va lentamente, troppo lentamente. Un misero 16 per cento di cattedre femminili nelle università di Svezia, un lillipuziano 1,5 per cento ai vertici della Borsa di
Stoccolma. E lei, che è inclusa in entrambe le percentuali, inizia a
ripensare la sua precedente opposizione alle quote rosa in questi
due settori. In Italia le donne ai vertici sono ancora considerate
«simpatiche eccezioni» (solo il 5 per cento siede nei consigli d’amministrazione).
– 50 per cento dei congedi per paternità (qui il cammino è duro,
ma l’asticella sale: venti padri su cento usufruiscono oggi di questa
opportunità, fino a pochi anni fa si contavano sulle dita di una ma-
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no. Come si contano oggi, nel 2008, in Italia: solo quattro mariti
su cento utilizzano la legge del congedo di paternità nata otto anni
fa).
– E infine lo zero per cento di violenze contro le donne: gli ultimi dati indicano in cinquecento, su nove milioni di abitanti, i condannati per casi di violenza (in Italia invece l’Istat fornisce cifre da
choc: quattordici milioni le donne vittime di violenza fisica e psichica, sette milioni gli stupri e abusi, per il 70 per cento colpevole è
il partner).
Saluto Gunilla e vado a trovare il magnate italo-svedese simbolo
della nuova imprenditoria: Salvatore Grimaldi, sessantadue anni,
duemila dipendenti in tutto il mondo, una casa museo affacciata
sulle acque baltiche dove una volta l’anno organizza un festoso convivio alla ripresa dei lavori dopo la pausa estiva. Emigrato dall’Italia
quando aveva sette anni, dopo aver lavorato come operaio in Volvo
e Scania è cresciuto forte con le sue industrie di biciclette (oggi sono suoi i marchi storici Bianchi e Legnano) e dei macchinari di precisione (l’ultimo gioiello è un bonificatore che elimina le particelle
d’olio nell’aria delle officine). «Lo spazio che ho avuto per far crescere la mia creatività imprenditoriale è stato garantito qui in Svezia da buone leggi e dal rispetto comune di queste. In Italia, purtroppo, non servono solo buone leggi: serve la coscienza collettiva
della legalità, la voglia di rispettare le regole, una forte dose di autocontrollo, e così si potrà arrivare pure alla riduzione delle morti
bianche: a cominciare da Taranto. Io a Taranto ci sono nato e, come figlio di marinaio, mi piacerebbe tornare a portare l’esperienza
arricchente del buon lavoro scandinavo. Taranto, come l’Italia, ha
risorse per trovare finalmente spazio sui giornali in chiave positiva.»
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Per saperne di più
Anno di adesione all’Unione europea: 1995
Sistema politico: monarchia costituzionale
Capitale: Stoccolma
Superficie: 449.964 km2
Popolazione: 8,9 milioni
Capo dello Stato: re Carl XVI Gustaf
Capo del governo: Fredrik Reinfeldt
Tasso di nascita: 10,2 nati ogni 1000 abitanti
Mortalità infantile: 2,76 morti ogni 1000 nati
Età media: 41,1 anni (in Italia, 42,5)
Aspettativa di vita: 80,63 anni in media
Tasso di disoccupazione: 4,5 per cento
Il modello politico
Il re ha esclusivamente poteri di rappresentanza. La riforma costituzionale del
1971 cambiò il sistema bicamerale in uno monocamerale. Il potere legislativo
spetta al Parlamento monocamerale (Riksdag) di 349 seggi, assegnati con il sistema proporzionale con sbarramento. 310 seggi sono assegnati in 29 collegi
plurinominali, i restanti 39 sono distribuiti tra i partiti. Per entrare in Parlamento, ogni partito deve ottenere almeno il 4 per cento dei suffragi. Le elezioni si svolgono ogni quattro anni. Nella consultazione del settembre 2002, il
partito socialdemocratico ha conquistato 144 seggi (40 per cento dei suffragi)
e ha costituito un governo di minoranza, sotto la guida di Goran Persson, con
l’appoggio esterno di Verdi e Partito di Sinistra.
Alle ultime elezioni del 17 settembre 2006 i quattro partiti di centrodestra
hanno ottenuto una vittoria di stretta misura, contando una maggioranza di 7
seggi, mentre il Partito Socialdemocratico ha fatto peggio che nel 1998, rimanendo pur sempre (con 130 seggi) il primo partito del Riksdag. I Moderati
hanno conseguito un grosso successo (97 seggi, rispetto ai precedenti 55), ma i
Liberali non sono riusciti a bissare l’exploit del 2002, perdendo notevolmente
terreno (da 48 a 28 seggi). Il primo ministro socialdemocratico Persson ha riconosciuto la sconfitta e ha rassegnato le dimissioni. Il suo posto è stato preso
da Fredrik Reinfeldt, segretario del Partito Moderato, eletto con 175 su 349
voti.
Prossime elezioni: settembre 2010.
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L’economia
La Svezia ha un reddito pro capite tra i più alti in Europa. Il settore pubblico rappresenta un’importante risorsa sia in termini di occupazione (assorbendo circa il 34 per cento della forza lavoro) sia di valore. L’industria, in
particolare nei settori siderurgico, chimico, dell’elettronica e delle telecomunicazioni, dell’auto e dei veicoli pesanti e in quello della lavorazione del
legno e della carta conta per il 29 per cento del Pil, l’agricoltura per il 2 per
cento.
Gli incidenti sul lavoro. Svezia e Italia a confronto
1 per cento su 100.000 occupati. In Italia invece è il 2,5 per cento.
57 i morti registrati in un anno. L’Italia, invece, ha il primato europeo di cui
volentieri si farebbe a meno: quello del lavoro meno sicuro.
In dieci anni gli infortuni mortali in Svezia sono diminuiti del 56,6 per cento
e nel nostro paese del 25,49 per cento; in Germania del 48,3 per cento, nell’Unione europea del 29,41 (fonte: Eurostat).
Questi i numeri più recenti, relativi al 2007: in Italia 832.037 sono stati gli
infortunati sul lavoro (l’87 per cento dei casi ha riguardato lavoratori maschi);
208.588 sono stati i casi di invalidità grave, 27.466 quelli molto gravi, 7761
quelli di assoluta gravità; un morto ogni sette ore, questa è la drammatica media registrata nel corso dell’anno; mille i morti sul lavoro, anche se la tendenza
segna una leggera diminuzione degli incidenti mortali rispetto agli anni precedenti. Tra i morti, uno su sei (16,5 per cento) è immigrato, a conferma del fatto che «gli immigrati risultano tra i lavoratori più deboli ed esposti agli infortuni, solitamente meno pagati e inquadrati a livelli più bassi».
In Svezia alla crescita economica contribuiscono in maniera determinante i lavoratori immigrati: la loro quota è la più alta d’Europa (11,2 per cento), quasi
cinque volte più che in Italia (2,8 per cento).
Come negli anni passati, in Italia si muore più al Nord, con in testa la Lombardia. E con il personale a disposizione per le verifiche, se si dovessero controllare tutte le aziende italiane, ognuna di esse riceverebbe un controllo ogni
ventitré anni (fonte: secondo Rapporto sulla tutela delle vittime del lavoro,
consegnato al capo dello Stato Giorgio Napolitano nel febbraio 2008 da Pietro
Mercadelli, presidente dell’Anmil, Associazione nazionale invalidi sul lavoro).
Le donne al lavoro: 70,7 per cento. Il tasso di occupazione delle donne in Svezia. Nel panorama europeo questo dato è superato solo dalla Danimarca (73,4
per cento). La media continentale si attesta al 57,4 per cento; nel caso dell’Italia si registra solo un 46,3 per cento.
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Voglia di cambiare
Link utili
Il portale nazionale della pubblica amministrazione: www.sverige.se è un portale d’accesso a tutti i siti web del settore pubblico nazionale ed è un ottimo
punto di partenza per chiunque desideri cercare un’istituzione o un organismo
pubblico. Il sito descrive inoltre in maniera particolareggiata il funzionamento
del settore pubblico svedese, fornisce link utili ai siti del Parlamento svedese,
del governo, dei consigli di contea, dei comuni e delle autorità, degli uffici della previdenza sociale e delle università.
Il sito internet ufficiale dell’Ente svedese per viaggi e turismo www.visitsweden.com (in italiano) contiene una guida pratica e dettagliata al paese. Le pagine forniscono guide apposite a seconda del paese di origine selezionato dall’utente. Le rubriche «Cosa fare», «Dove pernottare» e «Dove andare» aiutano gli
utenti a organizzare il proprio soggiorno in Svezia.
Per un quadro aggiornato sugli infortuni sul lavoro in Italia, si suggeriscono i
portali www.inail.it dell’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, e www.anmil.it dell’Associazione nazionale mutilati e invalidi
del lavoro.
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La «flessicurezza» della Danimarca
Francescani e trasparenti
Fino a ieri Anders Fogh Rasmussen, riconfermato capo del governo di centrodestra nel 2007, era conosciuto dagli italiani soltanto
per la frase dell’allora presidente del Consiglio italiano, Silvio Berlusconi, lanciata in un’affollata conferenza stampa a Palazzo Chigi e
destinata a restare negli annali della piccola storia: «Rasmussen è il
premier più bello d’Europa. Penso di presentarlo a mia moglie Veronica perché è molto più bello di Massimo Cacciari». Da oggi la notorietà del beautifuliano premier danese, sposato con la pedagogista
Anne Mette e padre di tre figli, è destinata a crescere per un motivo
meno frivolo: il sondaggio degli economisti di Cambridge sui livelli
di soddisfazione dei cittadini di quindici paesi europei pone al primo posto per il più alto tasso di fiducia nel proprio governo, nelle
leggi e nei propri concittadini esattamente lei, la Danimarca, idealmente rappresentata dal cinquantaquattrenne leader del Partito liberale (nome danese Venstre, letteralmente «sinistra», ma in realtà
con il tempo diventato un partito liberale).
I cittadini danesi hanno tanti motivi per essere soddisfatti del loro premier (che spesso incontrano in palestra, oltre che a fare jogging per le vie del porto). Soddisfatti del premier ma anche dei loro
politici, degli amministratori a ogni livello e di coloro che operano
nella pubblica amministrazione. Una volta chiamati a incarichi
pubblici, politici e amministratori frequentano corsi di specializzazione universitaria, il life long learning (l’aggiornamento continuo)
non è una formula e basta, perché la loro massima ambizione è
quella di essere dichiarati competenti nella materia in cui esercita-
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no il loro legittimo potere. «Quanto più sono competenti – dice
Luisa Corrado – tanto più risultano credibili e autorevoli. Da qui
l’investimento nel continuo aggiornamento di parte del loro tempo
libero. E nel regno di Andersen sì che ne hanno del tempo a disposizione: soprattutto le lavoratrici madri, favorite dall’alta percentuale di asili nido sui posti di lavoro (ben quindici imprese su cento, contro l’appena 2 per cento in Italia, fanalino di coda in questo
settore). Perché questa è la risposta non retorica alle esigenze delle
famiglie: creare strutture in modo da favorire i servizi pubblici e gli
asili nido.»
Conferma tutto il primo autorevole testimonial che incontro in
Danimarca: Bruno Amoroso, economista e scrittore di origine italiana, professore emerito (e critico) nella storica università di Roskilde, a trentacinque chilometri da Copenhagen. Ma Amoroso aggiunge una qualità che sarà musica alle orecchie degli italiani,
scioccati dai faraonici costi dei loro politici e, soprattutto, dei loro
scarsi risultati concreti: «I politici danesi devono essere francescani
e trasparenti, altrimenti è meglio che cambino mestiere, la casta
italiana non abita qui». Francescani non è un aggettivo esagerato:
qui i deputati sono quasi poveri, e quasi umili nell’apparire, e
ognuno di loro ha un sito internet per dialogare con elettori e non.
Nel Parlamento danese i centosettantanove membri (l’80 per cento
sono impiegati, trentotto su cento sono donne, uno su tre va al lavoro in bici) guadagnano 72,4 mila euro lordi annui. E le spese del
Parlamento sono di 79,3 milioni di euro, contro i 1589 milioni
dell’Italia.
«La politica danese sarà pure noiosa», ha scritto il quotidiano inglese «Times», «ma ai danesi piace così. Hanno un alto prodotto interno lordo, bassa disoccupazione e amano la famiglia reale» (i cui
figli hanno sempre frequentato asilo e scuole pubbliche).
Cifre alla mano, la Danimarca è diventata il paradiso degli economisti. I primi dati del bilancio statale del 2007 «mostrano segni
di un’altra buona annata con un attivo (potenzialmente di undici
miliardi di euro) superiore al 2006», dicono le statistiche della
Handelsbanken. «È molto piacevole – dice l’economista Steen Bocian – constatare che l’economia danese si trova nella situazione di
avere un debito pubblico esiguo e allo stesso tempo con il più alto
numero degli ultimi vent’anni di persone che lavorano, con buoni
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stipendi, e il più basso tasso (3,3 per cento) di disoccupati. Questo
è quasi il paradiso degli economisti».
Alta tecnologia e ricchezza
Esagerazioni? I severi esperti del World Economic Forum (Wef ) arrivati nella primavera del 2007 a Davos, in Svizzera, per il convegno
annuale hanno reso noto che gli studi di settore relativi all’informatica e alle nuove tecnologie conferiscono per la prima volta la palma
del miglior paese alla Danimarca, che l’anno scorso era terza.
La Danimarca ha beneficiato della lungimiranza del suo governo
in tema di nuove tecnologie. Ha livelli eccezionali nell’uso di internet e dei personal computer. Formazione, ricerca e sviluppo hanno
contribuito al potenziarsi di un’industria high-tech d’eccellenza (per
i più curiosi, l’Italia segue distaccata di molto, trentottesima, anche
se negli ultimi due anni ha guadagnato quattro posizioni).
Il primo ministro Rasmussen ha condotto l’ultima campagna
elettorale su Facebook e MySpace («Vuoi diventare mio amico?» era
l’inedito invito con cui Rasmussen apriva il suo sito internet ufficiale www.andersfogh.dk su cui ha messo foto, lista di interessi – jogging, canzoni di Springsteen, l’ultimo libro di Khaled Hosseini – facendo appunto «rete» con tanti ragazzi danesi o scambiandosi
«poke», pagine, contatti). È la prima volta che il social network è diventato terreno di caccia politica.
Il primo esempio di campagna elettorale unicamente sul web è
quella del cyber politico Bent Soelberg, che non ha investito una
corona per spot, affissioni o spazi pubblicitari. Soelberg, quarantacinque anni ed esperto di informatica alla Business School di Copenhagen, si è fatto campagna soltanto attraverso le varie comunità
del web. In Danimarca, l’80 per cento delle famiglie ha una connessione a internet (il 100 per cento nei redditi medio-alti). «A parte i soldi – racconta il parlamentare liberale – ho economizzato
molto tempo. Sul web i contatti sono sempre utili, sono tutti potenziali elettori.» Buona intuizione, la sua: è stato eletto senza aver
speso un euro e oggi occupa un seggio di deputato nel Parlamento
danese.
Lo specchio della nazione felice è la stessa capitale, Copenhagen,
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diventata la città più attenta alle nuove tecnologie e allo sviluppo
sostenibile e anche tra le più ricche d’Europa.
Danimarca tecnofila ma anche facoltosa, dicevamo: l’ufficio Eurostat di statistiche dell’Unione europea ha reso noto nell’estate del
2007 che la zona più ricca del continente è la City di Londra, il centro finanziario regno delle banche, con il reddito annuo pro capite
di circa sessantacinquemila euro, seguita al secondo posto proprio
dalla capitale danese (reddito pro capite: cinquantottomila euro, gestiti con convenienza per i risparmiatori dalle banche locali: il mantenimento del conto corrente costa mediamente trentacinque euro
l’anno, contro i centottantadue in media dell’Italia) che anticipa di
gran lunga, nell’ordine, Lussemburgo, Bruxelles, Amburgo, Vienna,
Utrecht e infine, la prima metropoli italiana: Milano.
Flessibilità e sicurezza
Sono questi primati (volete sapere l’ultimo? Un gruppo di esperti
dell’aviazione europea il 27 giugno ha assegnato all’aeroporto di Copenhagen il premio quale migliore scalo d’Europa) che fanno guardare a questo paese lillipuziano (5,4 milioni di abitanti in tutto, all’incirca come il Lazio o la Campania) come al grande modello per
tutto il continente. Non lo dice il cronista, ma la Commissione europea: il presidente José Manuel Barroso, portoghese, succeduto nel
2004 a Prodi, raccomanda ai paesi membri «di imparare dal modello
danese perché pone l’accento sulla creazione di posti di lavoro» e si
dice portavoce convinto della invenzione danese, la flexicurity, in italiano «flessicurezza», neologismo che indica la felice alchimia tra la
grande flessibilità sul mercato del lavoro e l’elevata sicurezza sociale
per i cittadini. Una invenzione che ha il grande vantaggio di enfatizzare la protezione delle persone invece che dei lavori.
Ne è convinto anche l’ex presidente degli Stati Uniti Bill Clinton, reduce da una missione in Danimarca «per imparare qualcosa
che possiamo utilizzare in America». E invita a guardare alla Danimarca, «come esempio da contrapporre agli Stati Uniti, paese ricco
di gente povera», anche l’americano Joseph Stiglitz, premio Nobel
per l’economia.
L’associazione di sicurezza e flessibilità può creare nuove opportu-
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nità e, rafforzandosi l’un l’altro, può provvedere a un maggiore equilibrio tra lavoratori e datori di lavoro. Allo stesso tempo, assistiamo
in Italia e in Europa all’aumento del lavoro precario e a pratiche
abusive, specialmente per le fasce più deboli (donne, giovani, anziani, immigrati, disabili ma anche adulti con livelli bassi di istruzione), soggetti a una maggiore pressione sul lavoro. Le ineguaglianze
sempre più profonde della nostra società pesano soprattutto su queste categorie, ma è possibile affrontarle attraverso il miglioramento
delle condizioni materiali (il salario, l’ambiente sicuro, il riconoscimento di diritti e di status, regole) e migliorando anche le condizioni culturali dei lavoratori. Per questo è fondamentale un approccio
alla flessicurezza che accresca l’eguaglianza sociale, la protezione del
lavoro, la parità di genere e posti di lavoro di buona qualità. La contrattazione collettiva è altrettanto fondamentale, così come la rappresentanza, essendo evidente il legame tra debole protezione del lavoro e ineguaglianze.
In questo approccio globale, secondo Giovanni Berlinguer occorre lottare contro l’analfabetismo e l’analfabetismo di ritorno anche
tramite programmi di apprendimento durante tutto l’arco della vita. Questi programmi (life long learning) sono essenziali ai fini della dinamicità del mercato del lavoro e possono permettere ai lavoratori di restare competitivi nel corso della carriera e della vita. È necessario accrescere i livelli d’istruzione, quindi, e investire maggiormente nell’istruzione e nella formazione, in quanto il possesso di
abilità e il loro costante aggiornamento è la vera ricchezza di cui
possono disporre i lavoratori più deboli, in un’ottica «avanzata» di
flessicurezza.
Come funziona la ricetta danese
Lo ricostruiamo con l’aiuto di una italiana che l’ha provata (felicemente) sulla propria pelle, Adriana Gliozzo, già impiegata all’Ansaldo di Copenhagen e oggi (dopo il licenziamento e una laurea in
Economia più una maternità) dirigente all’Istituto del commercio
estero nella capitale danese.
Immaginate di poter essere licenziati con un preavviso di soli cinque giorni, ma che questo non vi precipiti in un dramma esistenziale.
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Perché da subito riceverete un’indennità di disoccupazione mediamente dell’80 per cento della retribuzione (l’attuale governo tende ad
abbassarla fino al 60 per cento) sulla quale, se necessario, potrete contare per quattro anni: ma, attenti, chi rifiuta offerte di lavoro perde
l’assegno pubblico. E poi, entro tre mesi, l’Ufficio pubblico del lavoro preparerà un job plan su misura per voi, cioè un piano di reimpiego che, al massimo entro un anno dal licenziamento, dovrà cominciare a produrre offerte di occupazione o di formazione volte a farvi
avere non solo un nuovo lavoro ma un buon lavoro.
Possibilmente migliore di quello precedente. Un sistema, insomma, dove a dire dei suoi fan, la flessibilità richiesta dalle aziende per
migliorare la competitività si coniuga con la sicurezza del lavoratore
che lo Stato sociale aiuterà, ma non tanto per assisterlo quanto per
trasformare la perdita del posto in un’occasione per migliorare la sua
condizione e utilizzare in un altro contesto le sue competenze. Per
dirla con Benedetto Croce: «Far di difficoltà sgabello».
Certo, ci sono differenze strutturali tra la Danimarca e il resto
dell’Europa.
Prendiamo l’Italia: senza considerare alcuni aspetti di fondo (bisognerebbe avere il senso civico dei danesi, la loro propensione all’uguaglianza e all’equità, uno Stato corretto, trasparente ed efficiente),
ci sono almeno tre fattori che rendono «complesso» il percorso verso
la flessicurezza.
1) La situazione della finanza pubblica: contro il nostro 100 per
cento del rapporto debito pubblico/Pil, loro sono a meno del 30 per
cento. Questo brillante risultato è raggiunto attraverso pareggi di bilancio realizzati tenendo alte le tasse (lo Stato danese preleva fino al
52 per cento a cittadini e il trenta alle imprese, e qui i controlli dello
Stato funzionano: l’istituzione può contare sulla solidale collaborazione dei cittadini che segnalano sospetti arricchimenti illeciti). Ma
queste tasse alte non provocano malumori perché ricadono su ogni
singolo cittadino sotto forma di servizi sociali molto efficienti e investimenti in ricerca e non sono dirottate a pagare i debiti, com’è stato
costretto a fare l’ex ministro Padoa Schioppa.
2) L’alto livello medio d’istruzione facilita il reimpiego dei lavoratori danesi, mentre in Italia le indagini condotte dall’Ocse dal 1997
pongono sistematicamente la nostra scuola in fondo alle classifiche
di qualità.
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3) Il clima di cooperazione che pervade tutto il sistema danese.
Paolo Borioni, economista della Fondazione Istituto Gramsci di Roma, che ha curato un libro1 dopo un viaggio studio a Copenhagen
con Tiziano Treu (responsabile per il Lavoro della Margherita) e Cesare Damiano (Ds, sindacalista, poi chiamato nel governo Prodi come ministro del Lavoro), è rimasto colpito proprio da quest’ultimo,
decisivo fattore storico culturale: «Gli Uffici del lavoro danesi sono
cogestiti da autorità pubbliche, sindacati e imprese. Alla base di tutto c’è quella che gli studiosi scandinavi chiamano “l’economia negoziata”. Le parti sociali coordinano gli interventi per i disoccupati e
questo fa sì che l’80 per cento dei lavoratori sia iscritto al sindacato.
Insomma, gli Epifani di lì hanno maggiori pesi di gestione, ma ricevono più consenso rispetto ai nostri che non entrano in maniera così sistematica nei meccanismi del mercato del lavoro». «Ecco perché
– conclude Borioni – da noi ci vorrà molta gradualità per introdurre la ricetta danese, ma l’importante è cominciare. La Danimarca
insegna che ci vuole più consenso generale per produrre merci a più
alto valore di conoscenza. Ciò dà più soddisfazione a imprenditori e
lavoratori, e aiuta a pagare i costi del debito pubblico e dei servizi
sociali, finalmente anche da noi più efficienti.»
I sette princípi della flessicurezza
Non può essere trasferito tout court il modello della flessicurezza,
ma alcuni punti si possono tenere a mente per ben cominciare: se
ne dicono convinti i deputati del Gruppo socialista al Parlamento
europeo che in un documento redatto nell’autunno del 2007, dopo
un incontro con il Commissario europeo responsabile degli Affari
sociali Vladimir Spidla e il segretario generale della Confederazione
europea dei sindacati John Monks, mettono in evidenza i sette
princìpi comuni da considerare per evitare che il termine flessicurezza possa essere la foglia di fico per coprire un fles-sfruttamento,
cioè una generale tendenza a una selvaggia deregulation attuata dai
datori di lavoro a danno dei lavoratori. Ecco i sette punti del docu1 P. Borioni, T. Treu, C. Damiano, Il modello sociale scandinavo, Ed. Unità – Europa,
Roma 2006.
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mento, rintracciabile sul sito internet del Gruppo socialista www.socialistgroup.eu:
1) una manodopera qualificata e capace di aggiornarsi, soprattutto grazie al principio che bisogna continuare a imparare permanentemente, per tutta la vita;
2) misure contro il lavoro precario e le pratiche occupazionali
abusive;
3) riduzione della segmentazione del mercato del lavoro;
4) dialogo con i sindacati per promuovere i contratti collettivi e
una maggiore partecipazione sindacale;
5) parità tra donne e uomini, ovvero misure volte a conciliare la
vita professionale con quella familiare;
6) promozione della crescita e l’occupazione nazionali grazie a un
migliore coordinamento delle politiche macroeconomiche e di bilancio degli Stati membri;
7) integrazione delle strategie nazionali di flessicurezza nei programmi nazionali della «strategia di Lisbona» adottata dai capi di
Stati o di governo riuniti in Portogallo nel marzo 2000 con lo scopo
di fare dell’Unione europea l’economia più competitiva del mondo
e di aumentare il tasso di occupazione globale dell’Unione europea
al 70 per cento e quello di occupazione femminile a più del 60 per
cento entro il 2010.
L’accenno alla strategia di Lisbona merita un approfondimento,
nel paese che l’Europa guarda come a un faro. Sviluppata nel corso
di diversi Consigli europei successivi a quello di Lisbona, questa
strategia si fonda su tre pilastri: uno economico che deve preparare
la transizione verso un’economia competitiva, dinamica e fondata
sulla conoscenza (l’accento è posto sulla necessità di adattarsi continuamente alle evoluzioni della società dell’informazione e sulle iniziative da incoraggiare in materia di ricerca e di sviluppo); uno sociale che deve consentire di modernizzare il modello sociale europeo
grazie all’investimento nelle risorse umane e alla lotta contro l’esclusione sociale (gli Stati membri sono invitati a investire nell’istruzione e nella formazione, e a condurre una politica attiva per l’occupazione e a tagliare la burocrazia, che grava su piccole e medie imprese, nella misura del 25 per cento); infine uno ambientale aggiunto
in occasione del Consiglio europeo di Göteborg nel giugno 2001 e
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che attira l’attenzione sul fatto che la crescita economica va combinata con un uso non dissennato delle risorse naturali e con l’incremento dell’energia da fonti rinnovabili del 20 per cento entro il
2020 e il corrispettivo taglio di emissioni di gas serra nell’atmosfera.
Ma a febbraio 2007, in occasione del terzo incontro interparlamentare dei deputati europei e nazionali sull’attuazione della Strategia di
Lisbona, il ministro tedesco Jurgen Trittin ha voluto sottolineare
che «non si sono avanzate proposte concrete su come raggiungere
l’obiettivo delle energie rinnovabili».
Nessuna proposta concreta, dice con modestia il ministro Trittin. Sì, perché lui su questo campo avrebbe potuto aggiungere, senza essere accusato di immodestia, che gli unici segnali forti nel campo delle energie rinnovabili vengono proprio dal suo paese, la Germania, e in particolare dalla sua città simbolo in questo settore: Friburgo (in tedesco Freiburg). Sarà proprio questa la prossima tappa
del nostro viaggio.
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Per saperne di più
Anno di adesione all’Unione europea: 1973
Sistema politico: monarchia costituzionale
Capitale: Copenhagen
Superficie: 43.094 km2 (è il più piccolo Stato della Scandinavia)
Popolazione: 5,4 milioni
Capo dello Stato: regina Margrethe II
Capo del governo: Anders Fogh Rasmussen
Tasso di nascita: 10,91 nati ogni 1000 abitanti
Mortalità infantile: 4,45 morti ogni 1000 nati
Età media: 40,1
Aspettativa di vita: 77,96 anni in media
Tasso di disoccupazione: 2,7 per cento
Il modello politico
La Danimarca è una monarchia costituzionale parlamentare democratica (dal
1901). Con oltre mille anni di durata la monarchia danese è la seconda più antica del mondo, dopo quella giapponese.
Il potere legislativo è affidato al Parlamento monocamerale (Folketing), composto da 179 membri, due dei quali eletti in Groenlandia e nelle isole Faer
Oer. Le professioni più rappresentate: il 40,6 per cento sono impiegati pubblici; il 38,9 per cento impiegati privati; il 13,7 per cento liberi professionisti; il
6,9 per cento persone senza un una qualifica, compresi i disoccupati. 37,7 su
cento sono donne.
Guadagnano 72,4 mila euro l’anno, pari a poco più di 6 mila euro al mese. Il
trattamento economico dei politici italiani, invece, è il seguente: per ognuno
dei 630 deputati, 5488,5 euro di indennità mensile; 4003,11 diaria mensile;
4190 rimborso spese mensile per i rapporti con gli elettori; 3323,70 rimborso
trasferimenti; 3098,74 rimborso annuale spese telefoniche. Nella busta paga
dei 322 senatori si legge questo: 5419,46 indennità mensile; 4003,11 diaria
mensile; 4678,36 rimborso spese mensile per i rapporti con gli elettori;
15.979,16 rimborso trasferimenti; 4150 rimborso annuale spese telefoniche.
Le spese del Parlamento sono di 79,3 milioni annui (in Italia 1589 milioni, così divisi: 1023 milioni per la Camera dei deputati, 566 milioni per il funzionamento del Senato, dato 2006).
La legislatura dura quattro anni e il sistema elettorale è di tipo proporzionale
con soglia di sbarramento al 2 per cento. Le elezioni legislative del novembre
2005 hanno confermato la fiducia dell’elettorato danese nella coalizione di governo di centrodestra (Partito liberale e Partito conservatore) guidata dal liberale Anders Fogh Rasmussen, primo ministro dal novembre 2001.
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Se si eccettua un periodo, durato circa un decennio, a cavallo degli anni Ottanta, i governi danesi del dopoguerra sono stati perlopiù guidati dai socialdemocratici.
Il modello fiscale
Se il Parlamento è il lato visibile del potere, il lato nascosto si trova invece in
un isolato anonimo, con una targa breve Cpr. Sta per Centrale personregister, è
una divisione del ministero degli Interni ed è l’istituzione cui i danesi, nel
1968, hanno fatto un grande regalo: le hanno consegnato la propria identità
per favorire la massima trasparenza della «casa Danimarca». All’epoca il governo voleva introdurre una nuova tassa e allo stesso tempo riorganizzare il fisco. È cominciata così la registrazione centralizzata dei dati personali di tutti i
cittadini. Questo censimento ininterrotto non ha scatenato nessuna grande
polemica nel paese: l’hanno gradita anche i politici, in modo da sottrarsi a
eventuali, possibili ricatti. Da allora, a ogni danese viene assegnato il numero
Cpr, un codice di dieci cifre valido dalla «culla alla bara», dalla nascita alla
morte (come il nostro codice fiscale). Chi non ha il numero Cpr non può lavorare e difficilmente riesce ad avere un appartamento, l’allacciamento del telefono, un appuntamento dal medico e perfino un libro in prestito dalla biblioteca. Lo Stato registra continuamente indirizzi, date di nascita, conti bancari, numeri telefonici, redditi annuali, numero di figli... I dati vengono archiviati in un centro computerizzato collocato in un edificio di massima sicurezza alla periferia di Copenhagen. Una copia del database è custodita in un
luogo segreto. Il computer del Cpr, a maggio 2007, secondo un’inchiesta «Die
Zeit/Internazionale», conteneva ventisette gigabyte di dati sulla popolazione:
è il cervello della Danimarca. Ogni giorno le autorità inviano al Cpr informazioni sui cittadini: nascite, traslochi, pagamenti. All’inizio dell’anno i danesi
ricevono a casa una dichiarazione dei redditi già compilata, che devono firmare e alla quale in genere apportano solo piccole correzioni. I ministeri chiedono agli uffici del Cpr quante donne in età fertile vivono in Danimarca o
quanti bambini andranno a scuola nei prossimi anni, e in base a questi dati
decidono le loro politiche. Il Cpr è usato dalla polizia per le indagini. Gli
ospedali vengono automaticamente informati quando un donatore di organi
cambia indirizzo. Le leggi sulla privacy sono molto rigide, ma tecnicamente il
ministero degli Interni potrebbe sapere con una certa facilità quali libri ha acquistato un cittadino o quante volte si è sottoposto a esami clinici particolari.
«I danesi si fidano del loro Stato che li tratta con paternalismo illuminato, i livelli di controllo sociale e amministrativo verso i cittadini e tra i cittadini sono altissimi, e per gli italiani sarebbero intollerabili», sintetizza Amoroso.
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Il lavoro e l’economia
Il sistema produttivo danese è fortemente sindacalizzato; il 75 per cento dei lavoratori è iscritto a un sindacato. La maggior parte delle organizzazioni sindacali fa parte di un vasto sistema coordinato, e la federazione più grande è la cosiddetta Lo, la Confederazione dei sindacati danesi. I rapporti tra i sindacati e i
datori di lavoro sono improntati alla collaborazione e fiducia reciproca: i sindacati si occupano quotidianamente della gestione dei luoghi di lavoro e i loro
rappresentanti siedono nel consiglio di amministrazione della maggior parte
delle aziende. La regolamentazione degli orari di lavoro e la determinazione
delle paghe sono contrattate direttamente tra sindacati e datori di lavoro, e il
coinvolgimento dello Stato è davvero marginale. Nel dicembre del 2007 il tasso di disoccupazione era del 2,7 per cento della popolazione attiva, pari a circa
74.900 persone. Si prevede che nel 2015 il numero dei disoccupati sia destinato a scendere a 65.000. Nello stesso periodo il numero di persone in età lavorativa crescerà di 10.000 unità passando a 2.860.000, e quello dei posti di lavoro di 70.000 passando a 2.790.000. Questa cifra include i posti di lavoro
part-time.
Turn over: è il più alto al mondo: ogni anno, su 2,8 milioni di lavoratori, oltre
ottocentomila cambiano lavoro, più di un terzo. Neanche in America il mercato è tanto flessibile.
1 su 3: i danesi che vanno al lavoro in bicicletta.
17 settimane: la media per trovare un nuovo lavoro.
630 euro circa: il presalario ricevuto dagli studenti universitari.
220 euro ogni tre mesi: il bonus ai genitori per ogni figlio.
Incidenti mortali sul lavoro: 1,1 per cento (su 100.000 occupati, variazione
negli ultimi 10 anni: -66,7 per cento, fonte Eurostat).
70 per cento: i danesi per i quali la globalizzazione è un’opportunità, contro
una media dell’Unione europea che è inferiore al 40 per cento.
70 per cento: la quantità dei rifiuti riciclati, record nazionale europeo (contro
il 15 per cento dell’Italia).
600 chilogrammi: rifiuti per abitante destinati ai termovalorizzatori (l’Italia
dieci volte meno, 60 chilogrammi).
E in Italia...
Al 30 settembre 2007, secondo l’Istat, risultavano senza lavoro 5,6 residenti
(italiani o stranieri) su cento, mentre erano nove nel 1992, l’anno più lontano
di cui l’istituto di statistica fornisce i dati, e più di undici nel 1998 (le massime
punte di disoccupazione giovanile in Campania e Calabria, al 35 per cento, e
in Sicilia al 40 per cento, secondo Renata Polverini, segretaria generale dell’Unione generale del lavoro).
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Tra il 2003 e il 2007 sono stati regolarizzati tra settecento e ottocentomila lavoratori stranieri che erano parte dell’economia sommersa.
Lavoratori in nero: tre milioni di persone, secondo il ministro del Lavoro del
recente governo Prodi, Damiano.
Lavoratori flessibili: 2,7 milioni, tanti ma percentualmente allineati al resto dell’Europa, dove sono intorno al 12 per cento. L’assegno di disoccupazione è stato
adottato recentemente dalla regione Friuli Venezia Giulia guidata da Riccardo Illy (centrosinistra): prevede fino a cinquemila euro l’anno e per un massimo di
ventiquattro mesi, con l’obbligo di frequentare corsi professionali e con la sospensione in caso di rifiuto di un posto di lavoro adeguato. Il «welfare alla friulana» sta aprendo un dibattito a livello nazionale per introdurre in maniera estesa
una copertura sociale già diffusa in Danimarca e nei principali paesi europei.
... mentre in Europa
Più di tutti gli europei, i danesi vedono rosa mentre gli italiani vedono nero.
È il risultato del sondaggio sul livello di soddisfazione e felicità su un campione di ventimila cittadini di quindici paesi europei (fonte Luisa Corrado e
Aqib Aslam, università di Cambridge). In testa alla graduatoria finale si pone
la Danimarca con un voto medio di 8,31 (su un massimo di 10). Seguono
con 8 la Finlandia e con 7,98 l’Irlanda. Nella fascia successiva troviamo la
Svezia (7,84) e l’Olanda (7,78). In fondo alla lista compaiono invece la Grecia, tredicesima, con 6,79; il Portogallo con 6,53 e l’Italia con 6,27. Una curiosità: l’Italia è prima soltanto per quel che riguarda il livello di solidità dei
rapporti familiari.
I danesi si piazzano al terzo posto nella classifica dei «paesi più tranquilli del
mondo», preceduti dalla Norvegia (la nazione più pacifica della Terra) e dalla Nuova Zelanda. Quarto, quinto e sesto posto sono occupati da Irlanda,
Giappone e Finlandia. L’ultima posizione della graduatoria è occupata dall’Iraq, preceduto da Sudan e Israele. Sono questi i risultati del rapporto Global Peace Index sulla tranquillità della vita nelle nazioni del mondo. La ricerca è stata effettuata dall’Economist Intelligence Unit, prendendo in considerazione 24 indicatori che variano dalle spese militari alle relazioni con i
paesi vicini, dal rispetto per i diritti umani al livello di democrazia e trasparenza, al grado di istruzione e benessere della popolazione alle tensioni etniche e religiose.
Link utili
Il portale nazionale della pubblica amministrazione, Denmark.dk , fa accedere
ai siti internet di tutte le istituzioni pubbliche danesi. Destinato al grande pubblico, fornisce informazioni pratiche per tutti i tipi di situazioni legate al lavoro, alla sicurezza sociale, allo stato civile eccetera. La rubrica «News» aggiorna
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gli utenti sulla legislazione nazionale più recente. La rubrica «Guest in Denmark» fornisce informazioni utili per chi viaggia, lavora e studia in Danimarca.
VisitDenmark è dedicato al turismo e offre tante informazioni utili per chi
viaggia.
www.ilponte.dk è il sito internet della rivista italiana in Danimarca, diretta da
Grazia Mirabelli.
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Le dolci energie della Germania
Un confronto impari
Tra Italia e Germania, nel campo dell’energia pulita, non c’è partita:
i tedeschi già producono il 55 per cento dell’energia solare del mondo (anche se l’elettricità tedesca prodotta dal sole è ancora solo al 4
per cento della produzione nazionale, percentuale che sale al 13 per
cento comprendendo tutte le energie rinnovabili). Sono al primo
posto nella graduatoria mondiale dei produttori di energia solare,
seguiti da Giappone, Stati Uniti, Australia, Spagna, Olanda. Il volume dell’energia prodotta è ancora limitato, ma non è questo il punto: il punto è che il suo prezzo è competitivo.
I tedeschi continuano la loro incredibile marcia solare, investendo intelligenze e risorse sulla scia del traguardo indicato dal cancelliere (già ministro dell’Ambiente) Angela Merkel, la donna venuta
dall’Est a rimpiazzare il leader dei cristiano democratici Helmuth
Kohl: 27 per cento entro il 2020. Intanto il 30 luglio 2007 hanno
appuntato una nuova medaglia sul petto già pieno di record: a Bürstadt, nel sud del paese, è stato installato il tetto solare più grande
del mondo, nientemeno che quarantamila metri quadrati di pannelli fotovoltaici. E lì vicino, a Mulhausen, da due anni funziona la
più grande delle venti centrali di produzione di energia dal sole,
stazione di servizio inesauribile (splenderà per almeno quattro miliardi di anni): i pannelli coprono un’area di duecentocinquantamila metri quadrati, l’equivalente di cinquantasei campi di calcio, e
hanno una capacità produttiva pari a dieci Megawatt. A Ulm è stato inaugurato un enorme silo per la raccolta della farina, alto centodue metri, con la più ampia facciata coperta da moduli al silicio,
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tanto da renderlo il secondo simbolo della città dopo il grattacielo
di Minster.
Sole e non solo: a Schwandorf, in Baviera, un’azienda innovativa
(Schmack Biogas) si è inventata un ruolo di «allevatore di energia»,
produce elettricità e calore bruciando il gas metano ottenuto dalla
fermentazione di biomassa vegetale; e a Gross Schnebeck, piccolo
centro del Brandeburgo, sta nascendo una centrale che ha scoperto
l’acqua calda. Sarà la prima centrale che trasformerà in energia elettrica le risorse idriche del sottosuolo, un giacimento che gli scienziati definiscono sterminato e inesauribile se si adotta il sistema di restituire l’acqua estratta al suo luogo d’origine dopo l’utilizzazione.
L’impianto arriva a cinque chilometri di profondità, dove ci sono
falde acquifere con temperature superiori ai centoventi gradi: il vapore viene trasformato in energia.
Insomma, c’è da rimanere di stucco, per il cronista-testimone che
arriva dalla soleggiata Italia in questa terra fredda e piovosa priva di
proprie risorse energetiche, a parte gli esigui giacimenti di carbone.
La Germania (assicura il climatologo Gerard Müller Westermeyer),
resta coperta pressoché permanentemente da nuvole, e i giorni di
bel tempo in un anno sono davvero scarsi. In parecchie città tedesche non si superano le milleottocento ore annuali di luce solare: in
Italia e in Spagna sono almeno il doppio. Tutto ciò non è bastato a
fermare i tenaci tedeschi. Sì, qui O sole mio non è soltanto una canzone, è diventato l’inno di una rivoluzione industriale. Dov’è il loro
segreto? E perché noi siamo rimasti al palo? Perché i nostri governi
non alzano gli occhi al di là delle Alpi e guardano cosa fanno di pregevole gli altri?
Le risposte arrivano dall’esperienza della capitale del sole: Friburgo, con duecentocinquantamila abitanti è il principale centro
della Foresta Nera, la regione al confine con la Francia e la Svizzera. Foresta Nera. La città partecipa a una competizione tra oltre
mille comuni tedeschi che ogni anno stabilisce qual è la cittadina
più dotata di energia solare. Nel 2006, con i suoi 21.223 metri
quadrati di impianti solari termici, è arrivata prima nella classifica
dei centri con più di centomila abitanti. E allora ricostruiamola,
questa storia, che può essere tradotta quasi in una favola, con l’avviso che si tratta di una ricostruzione documentata e basata sulla
realtà.
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Tutto cominciò con una rivolta popolare
In principio fu una rivolta popolare contro il nucleare. A poca distanza da Friburgo, a Wyhl, era stata programmata nel 1975 la costruzione di una nuova centrale nucleare. Ma per la prima volta
nella storia della Repubblica federale la protesta ecologica ostacolava la nascita di un nuovo reattore atomico. Per un anno il terreno
fu occupato dagli abitanti di Friburgo e dell’Alto Reno: agricoltori
e docenti universitari, studenti e impiegati, professionisti e commesse. Per allentare la resistenza degli oppositori, il governo utilizzò tutti i metodi a sua disposizione, incluso la riduzione della
corrente elettrica e l’interruzione del servizio telefonico per impedire che i contestatori si collegassero tra loro e facessero massa all’arrivo della polizia. Persino i parroci scesero in campo aiutando i
contestatori, dando loro l’aiuto della più antica forma di comunicazione: il suono delle campane, che informava dell’arrivo delle forze dell’ordine.
Il «caso Wyhl» contribuiva all’affiorare di una forte e diffusa sensibilità per le questioni ambientali, rafforzata nel 1986 dal disastro
della fuga radioattiva dalla centrale nucleare di Chernobyl, in Ucraina. Da allora a Friburgo il consiglio comunale ha fatto della politica
energetica «dolce» (risparmio, energie rinnovabili, tecnologie efficienti) il suo cavallo di battaglia. In una Germania impegnata come
pochi altri Stati nella lotta all’inquinamento, la capitale della Foresta Nera si è data da fare per diventare un modello ecologico, anche
per via dei suoi obiettivi ambiziosi: ridurre i gas nocivi del 40 per
cento entro il 2030.
La difficoltà stimola la creatività, sorella gemella della scienza e
delle tecnologie. Rolf Disch, pioniere dell’architettura solare, una
leggenda locale per via della casa che si è costruito nel 1992 (l’Heliotrop, a forma cilindrica, su un gigantesco pilone, che gira come
un girasole alla ricerca della migliore insolazione) racconta: «Ero già
architetto: quella protesta contro il reattore di Wyhl si distinse dai
movimenti di opposizione di quegli anni perché stimolò la creatività di moltissima gente di Friburgo e dell’Alto Reno. Per la prima
volta nella storia, e ben prima dell’incidente atomico di Chernobyl,
si impedì la costruzione di una centrale nucleare. Ma la gente non si
limitò a dire: “Siamo contro”, come succede quasi ovunque (e in
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particolare in Italia). Si chiese subito dopo: “Sono a favore di che
cosa?”».
Così la città di Friburgo diventò un grande laboratorio alla ricerca di soluzioni tese a sperimentare energie integrative, in primo luogo il solare. Ci fu chi si costruì lo scaldabagno, chi al comune pensò
di mettere in funzione parchimetri funzionanti a sole, chi a riempire di impianti fotovoltaici prati e bordi delle autostrade. L’affetto
verso le tecnologie dolci cominciò ad appartenere come cultura alla
popolazione tanto da comparire in forma decorativa persino su vassoi e gioielli. Fu la scintilla che fece nascere movimenti civici e istituti di ricerca specializzati.
Anche Disch iniziò a fare esperimenti, per la precisione con le automobili elettriche. «Ho cominciato a costruirle agli inizi degli anni
Ottanta e nel 1985 abbiamo organizzato il primo Tour del Sole. Alla terza edizione sperimentammo una traversata dell’Australia: non
avevo i soldi per sviluppare la macchina che avevo in testa, così vendetti la casa. Per fortuna arrivai primo.» Disch non crede molto nel
futuro delle auto solari, perché «abbiamo standard troppo elevati,
siamo troppo viziati. Solo per accendere il quadrante di una Bmw
serie 7 servono quattro chilowattora di energia elettrica: io con un
chilowattora ho attraversato l’Australia». Invece Disch puntò molto
sull’architettura e sviluppò Heliotrop, il prototipo di una casa dove
il sole ti sveglia all’alba e ti accompagna alla fine della giornata con il
tramonto.
Oggi Disch è fortemente impegnato a perseguire un progetto
territoriale di distacco dalle reti dei grandi colossi energetici: «Se
qui in più quartieri diventiamo autonomi, se produciamo su vasta
scala l’energia che ci serve in proprio, in futuro possiamo reinvestire i miliardi che oggi vanno nelle tasche dei colossi del settore.
Così prendiamo due piccioni con una fava: riduciamo il ricorso al
nucleare e alle fonti fossili. E ci teniamo i soldi».
Tenersi i soldi... questo accenno fa ricordare che per le famiglie
italiane c’è un elemento che suona come una beffa. Da quattordici
anni gli italiani, nella loro bolletta, pagano un «Contributo per la
costruzione di fonti rinnovabili»: 0,92 centesimi di euro per chilowattora. Gli oltre ventiquattro miliardi di euro (secondo Legambiente) raccolti complessivamente non si sono però trasformati in
pannelli solari e turbine eoliche. Per l’80 per cento, infatti, i con-
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tributi alle fonti alternative sono finiti a finanziare inceneritori di
rifiuti di vario tipo, fra cui prevale il catrame di raffineria, trasformato grazie a un’aggiunta dell’ultimo momento al testo della legge
del 1992, in una fonte «assimilabile» a quelle rinnovabili. Un bel
regalo ai petrolieri, che hanno subito fiutato l’affare.
I tedeschi invece hanno percorso un’altra strada per convincere a
investire nelle fonti integrative. «Semplice – dice Herman Scheere,
deputato socialdemocratico, uno dei padri della legge tedesca sull’energia – abbiamo individuato le fonti veramente rinnovabili e abbiamo fissato per ognuna tariffe adeguate, in modo da renderle redditizie, tariffe pagate dalle società di distribuzione elettrica. Il sovrapprezzo viene finanziato a sua volta da tutti i cittadini, con un
piccolo aumento tariffario delle bollette.» Insomma, la differenza
con il nostro paese è che in Germania i soldi prelevati in bolletta finiscono ai veri produttori di elettricità rinnovabile, e più elettricità
questi sfornano, più guadagnano.
Ma non finisce qui. «Il sistema è flessibile. Via via che una fonte si diffonde e diventa più redditizia. Grazie ai miglioramenti
tecnologici e alla produzione su vasta scala, l’incentivo si riduce.
Così si mantengono costanti sia gli esborsi per i cittadini sia i profitti per i produttori.» Qual è il costo pagato dai tedeschi? Verrebbe da pensare che sia molto alto, ma non è così. Per sostenere le
fonti rinnovabili, pagano meno di un terzo degli italiani: 0,24
centesimi per ogni chilovattora.
«Oggi, nel 2007, abbiamo centrali elettriche termiche e nucleari per
circa settantamila Megawatt di potenza – conclude Sheer. Ma continuando con questo ritmo, fra vent’anni avremo impianti a fonti rinnovabili per settantasettemila Megawatt e potremo spegnere l’ultima
centrale nucleare. Nel 2050, infine, la produzione elettrica “pulita” arriverà a centotrentasettemila Megawatt e almeno il 50 per cento dell’energia tedesca verrà direttamente o indirettamente dal sole.»
Un sindaco atipico e rivoluzionario
Torniamo a Friburgo, la tappa scelta per capire la rotta virtuosa della Germania. Dopo il blocco della centrale nucleare, si saldò l’alleanza tra la ricerca e la buona politica, tra architetti e artigiani, uni-
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versità e banche, tra scienziati e amministratori: Friburgo ha eletto
nel 2002, con il 64,4 per cento dei voti, un sindaco atipico. Si chiama Dieter Salomon, ed è atipico non solo perché è stato il primo
sindaco dei Verdi in una grande città tedesca, ma anche perché è nato, il 9 agosto del 1960 dall’altra parte del mondo, a Melbourne in
Australia. A quel tempo suo padre lavorava tra i canguri per un’impresa tedesca. Tornato con la famiglia in Europa, Salomon ha studiato scienze politiche, scienze finanziarie e filologia, concludendo
gli studi con un dottorato dell’università di Friburgo con una tesi
sull’ecologia nella politica. È sposato con Helen, ha avuto una figlia
(oggi venticinquenne) dalla prima moglie. Fin da giovanissimo ha
militato tra i Verdi, diventando nel Baden-Württemberg un personaggio centrale dello scenario politico.
Oggi il sindaco Salomon si dice orgoglioso delle scelte energetiche e dei cinquecento chilometri di piste ciclabili a disposizione degli abitanti, molte delle quali si inseriscono armoniosamente nel bosco della città (il 43 per cento dell’area friburghese è formato da superfici boscose). «La nostra strategia si basa su tre pilastri: risparmio
energetico, uso sempre più efficiente dell’energia e attenzione particolare alle fonti rinnovabili, specialmente il solare. La chiave del nostro successo sta nel fatto che puntiamo sul progresso e premiamo
con il dovuto merito le tecnologie innovative. Tra l’altro, sapere che
in questo modo si aiuta anche a prevenire il riscaldamento del pianeta è un incentivo non da poco. Il nostro obiettivo? Entro il 2010
il 10 per cento dell’energia elettrica utilizzata, oggi siamo al quattro,
deve provenire da fonti rinnovabili.»
Un centro di ricerca per l’energia solare
Il «motore» virtuoso della sfida di Friburgo è il più grande centro di
ricerca europeo tutto dedicato all’energia solare, una costola del noto Fraunhofer Institut, organizzazione che conta dodicimilacinquecento dipendenti in ottanta centri di ricerca diffusi in tutta la Germania. Nato nel 1981, la città coccola il Fraunhofer Institut für Solare Energie, guidato oggi dal fisico Eicke R. Weber. «Quando iniziammo il nostro lavoro, il Fraunhofer contava appena venti ricercatori», mi spiega Karin Schneider, portavoce dell’ente di ricerca,
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mentre passeggiamo in una galleria-museo che mette in mostra i
passi avanti compiuti nell’individuare fotocellule sempre più piccole
e sempre più efficienti. Lei stessa porta un gioiello al collo a norma
del suo lavoro: è un micropannello con gallio, arsenite e silicio.
«Oggi abbiamo uno staff di centottanta ricercatori fissi più trecentosettanta collaboratori, assistenti e laureandi. Alcuni di loro ci hanno lasciati per creare delle piccole imprese. Altri invece sono arrivati
dall’estero, anche dall’Italia, per esempio Mario Motta poi emigrato
al Politecnico di Milano.» Il budget nel 2006 è stato di 29,2 milioni
di euro.
Il frutto del lavoro dei ricercatori viene messo a disposizione di
imprese private, autorità istituzionali e cittadini. L’albergo a quattro
stelle Victoria, per citare un caso esemplare, costruito centotrenta
anni fa nel cuore della città e ristrutturato con grande cura dagli eredi della famiglia Spath, è oggi il primo hotel al mondo completamente free oil, cioè va avanti a fonti rinnovabili, sole, vento (ha investito in una centrale eolica sulla vicina collina di Ettenheim che si
scorge dal terrazzo riempito di pannelli solari), biomasse e un giacimento d’acqua calda da una falda sotterranea, con zero emissioni di
anidride carbonica (i bravi albergatori della solare Romagna prendano atto e imitino questo hotel privato più rispettoso dell’ambiente
al mondo, come rivendica orgogliosamente un cartello all’ingresso:
the most environmental friendly private-hotel in the world ). Accanto
al cartello un segnalatore digitale indica la produzione al momento
di chilowattora (1960), la produzione complessiva dall’anno 2000
(45.927 chilowattora) e i chili di anidride carbonica risparmiati,
cioè non immessi nell’atmosfera: 33.927.
Fanno ricorso al Fraunhofer, in numero crescente, le istituzioni locali e centrali: grandi edifici pubblici come il palazzo del Reichstag,
sede del Parlamento federale, o quello del consiglio regionale a Berlino coprono il 6 per cento del loro fabbisogno energetico e termico
(riscaldamento). Lo stesso avviene per tutti gli edifici pubblici di Friburgo: i moduli per la raccolta dell’energia solare sono stati installati
per primi sulla Rathaus, il palazzo comunale risalente al Cinquecento.
E i riflessi colpiscono gli occhi del visitatore fin dall’arrivo in stazione.
I pannelli solari li ritrovi ovunque: nelle due torri che sovrastano i
binari ferroviari e la vicina «stazione delle biciclette», come sul tetto
dell’ospedale, sulla piscina e a corredo dell’ostello della gioventù, degli
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studi televisivi della Swr come dei palazzi storici del centro. E ancora
su scuole e stadi, sui bordi dell’autostrada, perfino nei prati dove pascolano le greggi, sui parchi di divertimento (l’Europa Park è visitato
da 3,5 milioni di visitatori annui: è la seconda meta turistica tedesca
dopo il duomo di Colonia) e sulle strutture fieristiche: nel 2000 Friburgo ha fondato la più importante fiera europea nel settore dell’energia solare, nel 2006 la manifestazione ha accolto trentaduemila visitatori e oltre cinquecento espositori (InterSolar è stata paradossalmente vittima del proprio successo: è cresciuta talmente tanto che l’evento si è trasferito a Monaco, città molto più grande, anche se le autorità di Friburgo continueranno a organizzarlo).
Il business dell’ecologia
In un colpo solo chi vuole dotare la propria casa di energia solare o
ridurre il consumo energetico o costruire una casa passiva (con un
consumo energetico molto basso grazie all’utilizzo passivo dell’energia solare, un isolamento termico ottimale e il recupero del calore nell’aerazione) può valutare diversi preventivi, capire quale sarà
il possibile risparmio, chiedere l’autorizzazione comunale a una
delle sessanta ditte presenti al suo interno, con circa quattrocento
lavoratori.
A completare il mosaico virtuoso ci sono anche le banche (Cassa
di risparmio di Friburgo-Bresgovia in testa) cui sta molto a cuore
l’incremento sostenibile dell’economia locale e perciò rifornisce i
cittadini e i comuni della regione con favorevoli servizi finanziari,
promuovendo le innovazioni e la nascita delle aziende; le scuole (un
quarto delle scuole cittadine ha presentato progetti a energia solare
che sono stati realizzati da insegnanti, gruppi di studenti e genitori);
e rinomate associazioni ambientaliste, a cominciare dall’Öko Institut (Istituto ecologico) che costituisce un’importante agenzia indipendente e di consulenze, ricerche e riferimento in Germania e anche in Europa: fondato nel 1977, sforna più di cento progetti nazionali e internazionali all’anno.
Porta la firma dell’architetto Disch pure l’innovativo quartiere di
Vauban, una zona di trentotto ettari occupata per decenni da varie
caserme dell’esercito francese. Colorato e pieno di bambini, nato a
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metà degli anni Novanta, oggi conta cinquantotto Plushauser, le case «più» (più ecologiche e più redditizie), con i tetti ricoperti di pannelli, le facciate principali rivolte a sud e la distanza tra case pensata
per garantire sia d’inverno sia d’estate la massima esposizione al sole. Qui una norma comunale impone di non parcheggiare per strada, di limitare il rumore, di conservare e accrescere l’antico patrimonio verde, di utilizzare a pieno le nuove tecnologie amiche dell’ambiente persino per la raccolta dell’acqua piovana. Barbara Schweer,
commercialista, e Martin Hoyer, designer, che abitano in questo
sobborgo-modello, sono contenti: «Qui dentro viviamo con una
temperatura media di ventidue-ventitré gradi sia d’estate sia d’inverno. Rispetto alla “normale” casa precedente risparmiamo sulla bolletta di corrente elettrica e gas circa il 60 per cento. Oggi paghiamo
trecento euro l’anno, più mille per ammortizzare l’impianto. In
compenso, avremo incentivi economici per vent’anni».
Le cifre si susseguono senza soste: a Friburgo il business dell’ecologia rappresenta diecimila posti di lavoro, millecinquecento imprese e
un fatturato di cinquecento milioni di euro. E se ancora nel 1997 in
Germania non esisteva alcun grande produttore di pannelli solari,
oggi operano quarantasette grandi aziende di questo tipo, che occupano quarantaduemilacinquecento persone (e si arriva a duecentocinquantamila, una volta e mezzo gli impiegati Fiat nel mondo, includendo tutti i settori delle energie rinnovabili), producendo un giro d’affari di quattro miliardi di euro, il 1000 per cento in più rispetto a soli sette anni fa. Aziende che hanno realizzato trecentomila installazioni fotovoltaiche. Mi portano a visitare alcune delle fabbriche
tra le principali di Friburgo, la Solar Fabrik e due che hanno aperto
da poco filiali anche in Italia, a Milano e a Padova dove prevedono
una grande crescita della domanda: la Solarstrom e la SolarMkt.
Nella strategia per l’ampliamento del mercato, perché con le tecnologie ambientali bisogna saperci fare, è prevista la trasmissione
del know-how e così alla SolarMkt stanno insegnando ad artigiani
di tutt’Italia ma anche ai costruttori di autostrade in Svizzera o ad
agricoltori in serra del Medio Oriente, come si installa un impianto
in modo sicuro. «Siamo certi che in Italia, grazie alle nuove politiche ambientali, si svilupperà una crescita record», sostiene Carlo Alberti, manager della SolarMkt creata nel 1985 grazie a un progetto
patrocinato dal Fraunhofer Institut.
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Sì, c’è un futuro per il sole anche in Italia. Per fortuna dopo gli anni di scherno sopportati dalla comunità fotovoltaica, anche nella nostra penisola ci sono segni di risveglio: nel 2006 i collettori termici per
l’acqua calda sono aumentati del 46 per cento e nel 2007 andrà meglio grazie alla detrazione fiscale del 55 per cento prevista in Finanziaria. Il boom del fotovoltaico pare più netto: al 1° luglio 2007, settemilaquattrocento impianti avevano avviato i lavori di costruzione.
Daranno una potenza di duecento Megawatt, quattro volte quella
installata in trent’anni.
Tracciamo un bilancio con Marco Pinetti, direttore di «Fv Fotovoltaici», l’unica rivista italiana dedicata esclusivamente all’energia
solare, edita da Artenergy Publishing (www.zeroemission.eu), l’azienda leader in Italia nella promozione delle energie rinnovabili,
del risparmio energetico e della lotta ai cambiamenti climatici: «Nel
2007 il mercato fotovoltaico ha registrato in Italia un vero e proprio
boom. Basti pensare che nei venti anni precedenti erano stati installati sul territorio nazionale impianti per quaranta Megawatt (quarantamila kilowatt), mentre solo l’anno scorso abbiamo raggiunto la
ragguardevole cifra di sessanta Megawatt (l’equivalente di ventimila
impianti da tre kilowatt, il consumo medio di una famiglia).
«Stiamo assistendo a una vera e propria rivoluzione, che ha preso
l’avvio grazie al “conto energia”, il sistema approvato nei primi mesi
del 2007 e che incentiva le installazioni fotovoltaiche a un costo praticamente uguale a zero per l’utente finale, sia per quelle civili di piccola taglia sia per quelle industriali di grande taglia. Nel 2007 l’Italia
si è così collocata al terzo posto in Europa, dopo Germania e Spagna;
anche le previsioni sono molto buone: in base al trend registrato a
gennaio, entro il 2008 dovremmo arrivare a 120-150 Megawatt installati. L’Italia sembra quindi in grado di recuperare una leadership
che deteneva fino al 1997, anno in cui a Serre l’Enea costruiva il più
grande impianto del mondo di ben tre Megawatt, e in cui la Germania inventava e adottava il “conto energia”, creando un mercato e
un’industria che sarebbero diventati i più importanti al mondo.
«Se in Italia nel 2007 sono stati installati sessanta Megawatt fotovoltaici, il mercato globale di questa fonte energetica è cresciuto di
oltre il 40 per cento con una nuova capacità pari a 2,3 Gigawatt (e
cioè l’equivalente di oltre due centrali nucleari).
«Il sole può essere dunque la fonte del futuro. Ne sono convinte
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Greenpeace e l’Epia, l’Associazione europea dei produttori di moduli fotovoltaici: il settore raggiungerà infatti un giro d’affari di trecento miliardi di dollari all’anno entro il 2030, sarà in grado di dare
lavoro a 6,5 milioni di persone e contribuirà a coprire il 9,4 per cento del fabbisogno mondiale di energia elettrica.
«Non solo: ben 2,9 miliardi di abitanti dei paesi in via di sviluppo
faranno uso di energia solare. La rivista statunitense “Scientific
American” si spinge oltre: ha elaborato un “grande piano solare” con
cui sarebbe teoricamente possibile produrre il 69 per cento dell’energia elettrica di un grande paese come gli Stati Uniti soltanto utilizzando il sole e a costi competitivi con quelli attuali.»
Nel nostro paese il sole ha contato da molti anni tanti nemici. In
una terra ricca di sole, la politica è stata più amica dei vecchi e nuovi padroni dell’energia e delle multinazionali che dei cittadini.
La ricerca è vana senza leggi adeguate
Nel 2005 il premio Nobel per la Fisica, Carlo Rubbia, presidente
dell’Ente per l’energia, è stato licenziato da un ingegnere-fantasma.
Proprio così. Il governo di centrodestra nominò vicecommissario
dell’Enea un ex senatore della Lega, Claudio Regis, beneficiato del
titolo di «ingegnere» perfino nel decreto di nomina presidenziale
senza che l’Ordine degli ingegneri abbia idea di dove si sia mai laureato.
Il cammino del nostro Piano energetico è figlio di un disinteresse generale nei confronti delle energie alternative. Riscritto dopo
Chernobyl e il referendum a maggioranza antinucleare (1987), il
Piano viene presentato nel maggio 1990 dal ministro Adolfo Battaglia in un Senato deserto (erano presenti solo in nove) e dieci giorni dopo venivano tagliati dalla legge Carli-Pomicino i milleduecento miliardi dei fondi destinati al risparmio energetico e alle fonti
rinnovabili, segno eloquente del disinteresse italico per i nuovi modelli. Se avessero alzato gli occhi al di là delle Alpi, i nostri politici
avrebbero assistito al varo della normativa tedesca sulle fonti rinnovabili. Siamo nel 1991. Le norme vengono perfezionate nel 2000
grazie alla legge vincente voluta dal governo rosso-verde di Gerhard
Schroeder, l’Einspeisegesetz, che obbliga le società energetiche a
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comprare dai gestori di impianti fotovoltaici l’energia pulita a prezzo politico (nello stesso anno il governo Schroeder ha deciso di dare il via alla chiusura progressiva degli impianti nucleari). Il principio base è semplice: chiunque produca corrente dai pannelli fotovoltaici, dalle risorse idriche o da quelle eoliche ha la garanzia di
avere compensi dall’ente locale dell’energia. Le compagnie sono
obbligate a comprare la corrente elettrica prodotta dal sole a 49
centesimi per chilowattora, quasi quattro volte tanto la tariffa sul
mercato. Insomma, quasi meglio che depositare i soldi in banca.
Quindi, malgrado il «tempaccio» tedesco, l’energia solare è un investimento sicuro e in dieci anni o poco meno diventa una fonte di
guadagno. O, per dirla con la pittoresca espressione usata da un viticoltore di Müller Turgau e Pinot bianco, Heinz Scherb, che ha rivestito di pannelli il tetto della stalla nella frazione di Opfingen: «È
come ricevere una seconda pensione».
Gli altri paesi
Alla questione energetica gli elettori, i Parlamenti e i governi dovranno prestare sempre maggiore attenzione. L’inarrestabile crescita
dei prezzi dei combustibili pesa sull’economia. Per via dell’effetto
serra e del cambiamento climatico diminuire i gas da combustione è
anche una necessità ecologica. C’è poi la dimensione politica: la dipendenza dalla Russia e dai paesi arabi può avere effetti indebiti e
sgraditi sulle nostre scelte di politica estera, comprese quelle sul piano della tutela della democrazia e dei diritti umani. Esiste infine la
dimensione sociale del problema: l’aumento dei prezzi del riscaldamento domestico e del trasporto pubblico e privato dell’energia ha
le peggiori conseguenze sui cittadini più poveri. Il Parlamento europeo ha approvato di recente una risoluzione sulle fonti energetiche
convenzionali e le tecnologie.
Insomma, si tratta di un cambiamento culturale che sta avanzando prioritariamente a Friburgo e in Germania, ma che tocca anche
noi (il governo Prodi aveva richiamato a collaborare con il ministero
dell’Ambiente Carlo Rubbia proprio per dare sviluppo all’energia
solare) e gli altri paesi a noi vicini. Come, per esempio, in Gran Bretagna dove, come vedremo nella prossima tappa, persino le case po-
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polari si riempiono, dentro e fuori, di segni particolari di attenzione
alle energie dolci e a un intelligente risparmio.
La lezione di Giorgio Nebbia
A lui si devono le prime scoperte su studi e ricerche riguardanti
l’energia solare. Lo incontrai per la prima volta nel 1978, all’università di Bari, dove insegnava merceologia.
Trent’anni dopo lo ritrovo nella sua casa romana e gli racconto
dell’esperienza di Friburgo. Non avverto la delusione per il tempo
perduto dall’Italia, ma la volontà di rilanciare l’invito al nostro paese di ritrovare la strada del sole.
«Le ricerche in questo campo procedono così a rilento perché
vanno contro gli interessi di vecchi e nuovi padroni dell’energia, dei
grossi monopoli, delle multinazionali e dei corrispondenti centri di
potere pubblici che temono di vedersi sfuggire la gestione centralizzata dell’energia elettrica. L’energia solare presenta due problemi
ben distinti. Uno è politico. Questa fonte energetica è gratuita, non
è di nessuno, non è appropriabile da nessuno, né da privati né da
monopoli. In più, può essere utilizzata dove è disponibile grazie a
piccoli impianti, con unità decentrate e autogestite diffuse sul territorio. Resta però il pericolo di un colonialismo tecnologico perché,
per ricavare energia dal sole, occorrono macchine, impianti, sistemi
complessi. Ed è di questi impianti che il capitale può appropriarsi.
L’altro problema è pratico. L’energia solare è scomoda perché la sua
disponibilità è irregolare, la sua intensità varia nel corso del giorno,
nel corso dell’anno. Scomoda e per ora costosa. Dovrebbe essere intrapreso un grande sforzo di ricerca scientifica per ridurre il costo
delle fotocelle.
«È possibile, basta trovare nuovi materiali più convenienti. Ma in
Italia non ci sono ricerche intense. Mancano i finanziamenti. Eravamo partiti bene, con il nostro laboratorio per lo studio delle fonti di
energia, grazie ai finanziamenti del Consiglio nazionale delle ricerche. Poi, a un certo punto, questa fonte si è inaridita. È coinciso con
gli anni dell’illusione petrolifera, che ha portato al disinteresse verso
le altre fonti energetiche.
«Sarebbe un peccato rimanere fuori da questa disputa scientifica,
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perché proprio l’alto contenuto tecnologico della produzione delle
fotocelle potrebbe porre il nostro paese in condizione di correre una
gara internazionale il cui premio è un mercato enorme, soprattutto
nei paesi in via di sviluppo. Il tempo perduto è recuperabile. Basta
intensificare le ricerche, usare fantasia e coraggio su questa nuova
strada. La prospettiva è allettante.
«L’esperienza tedesca dimostra che non si trattava di utopie e a questa si sono rivolti gli studiosi nella seconda “età dell’oro”, quella degli
anni Cinquanta del Novecento, quando c’è stata una nuova ondata di
studi solari, e dopo la crisi energetica degli anni Settanta, e ogni volta
la passione è diminuita quando il petrolio è tornato abbondante a
basso prezzo e, se non fosse stato per le cittadelle delle ricerche solari
come l’Istituto Fraunhofer, che hanno tenuto desto l’interesse, non si
capirebbe la nuova ondata di frenesia odierna per le fonti rinnovabili.
«Anche oggi la passione solare è figlia di un’età di scarsità del
petrolio. Affrettata e superficiale perché le fonti rinnovabili possono
dare molto più di quanto si pensi, non solo pannelli fotovoltaici o
riscaldatori solari o torri con caldaie con specchi: elettricità e calore
ed energia meccanica possono essere ottenuti dalla forza del vento
(che è tenuto in moto dal differente riscaldamento solare delle varie
parti dei continenti e degli oceani) dal moto ondoso, a sua volta figlio del vento, dalla differenza di temperatura dei vari strati degli
oceani.
«Ma c’è di più: il sole “fabbrica” ogni anno sulle terre emerse cento miliardi di tonnellate di materiali vegetali (zuccheri, cellulosa,
grassi eccetera) che si rivelano continuamente materie prime rinnovabili, suscettibili di sostituire le materie plastiche e i prodotti chimici e i carburanti oggi ottenuti dal petrolio. La biomassa fabbricata in tre anni dal sole sulle terre emerse ha “dentro di sé” tanta energia quanta ne contiene tutto il petrolio presente nelle riserve mondiali.
«Con tale biomassa è possibile sviluppare una nuova chimica e
merceologia, e anche questa produzione di “merci dalla biomassa”
affonda le radici nella cultura mitteleuropea di studiosi della natura,
come il tedesco Beckmann che alla fine del 1700 ha “inventato” le
parole “tecnologia” e “merceologia” proprio partendo dalle prospettive di trasformazione, con la tecnica, appunto, delle risorse naturali, tutte “solari” in prodotti e fonti energetiche commerciali.»
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Incultura e interessi economici
Risorse naturali, «solari», merci, merceologia: prima di tornare a
Friburgo, Nebbia ci fa cogliere un altro sintomo della incultura, o
meglio degli interessi economici, che sono stati alla base di decisioni politiche negli ultimi anni in Italia: a poco a poco il nuovo corso
delle scienze economiche, divenute scienze dei soldi e della finanza,
ha espulso le conoscenze materiali e merceologiche e la merceologia ha trovato sempre meno spazio nelle facoltà universitarie (in alcune non si insegna più del tutto da anni) e negli istituti tecnici
commerciali, dove talvolta esistevano laboratori di analisi e musei
merceologici.
«Avendo passato tutta la vita nella merceologia, riconosco bene lo
scopo dell’operazione, atto finale di un lungo e lento progetto mirante a far credere, a coloro che dovranno operare nel campo dell’economia, che contano solo gli aspetti finanziari, immateriali, “virtuali”, a far dimenticare che l’economia e l’occupazione sono invece
basate essenzialmente sui grandi processi tecnici della produzione di
merci agricole e industriali e sul loro uso, sulla grande circolazione
della materia e dell’energia dalla natura, alle merci, alla natura.
«È ironico che la merceologia scompaia proprio adesso che dilagano sempre più raffinate frodi e adulterazioni nelle merci e negli
alimenti. Ma già, buttiamola via, questa merceologia, scienza sovversiva, che potrebbe indurre i lavoratori a chiedersi che cosa stanno
producendo, i consumatori a chiedersi che cosa stanno comprando,
lasciamoli istupidire dagli spot pubblicitari a volume frastornante,
in modo che le scelte merceologiche e industriali siano fatte ai grandi centri di potere senza che nessuno ci ficchi il naso. Andiamo pure
avanti così, in Europa e nel mondo, e non lamentiamoci se l’ignoranza dei fatti produttivi, tecnici, merceologici, gli unici con cui l’economia va avanti, distrugge posti di lavoro e fa peggiorare la qualità delle cose che acquistiamo.»
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Per saperne di più
Anno di adesione all’Unione europea: membro fondatore della Comunità economica europea dal 1951
Sistema politico: repubblica federale
Capitale: Berlino
Superficie: 356.854 km2
Popolazione: 82,6 milioni
Capo dello Stato: Horst Köhler
Capo del governo: Angela Merkel
Tasso di nascita: 8,2 nati ogni 1000 abitanti
Mortalità infantile: 4,08 morti ogni 1000 nati
Età media: 43 anni
Aspettativa di vita: 78,95 anni in media
Tasso di disoccupazione: 9,1 per cento
Il modello politico
La Germania è una Repubblica federale costituita, a seguito della riunificazione del 1990, da sedici Stati (Länder, uno dei quali è la capitale Berlino) dotati
di propri organi legislativi ed esecutivi. A livello federale, il potere legislativo è
esercitato da un Parlamento composto di due Camere dotate di diversi poteri:
1) il Bundestag (Dieta federale), con seicentotré deputati eletti ogni quattro
anni a suffragio diretto (la soglia di sbarramento dei partiti è al 5 per cento, il
numero degli eletti cambia ogni legislatura perché i partiti possono guadagnare seggi suppletivi nelle circoscrizioni);
2) il Bundesrat (Consiglio federale) con sessantanove membri designati dai governi dei Länder in proporzione alla popolazione.
Il capo dello Stato è il Presidente federale che viene eletto dalla Convenzione
federale (organo formato da rappresentanti del Bundestag e da rappresentanti
dei Parlamenti dei Länder) con un mandato di cinque anni.
Il potere esecutivo è affidato a un governo federale, nominato dalla camera
bassa (Bundestag) e presieduto da un cancelliere.
Dopo le ultime elezioni politiche del Bundestag (anticipate a settembre 2005)
è stato formato un governo di grande coalizione tra Unioni cristiano democratiche (Cdu, rappresentata in tutto il paese e Csu, presente solo in Baviera), che
hanno raccolto complessivamente il 35,2 per cento dei voti, e il Partito Socialdemocratico (Spd), che ha ottenuto il 34,2 per cento dei voti. Alla guida del
nuovo esecutivo, per la prima volta nella storia della Germania, una donna: la
cristiano democratica Angela Merkel.
Oggi il Bundestag conta seicentoquattordici deputati, tredici in più rispetto
alla legislatura precedente: duecentoventisei appartengono alla Cdu/Csu (cen-
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tottanta Cdu e quarantasei Csu), duecentoventidue alla Spd, sessantuno sono
i liberali Fdp, cinquantaquattro quelli della sinistra radicale e cinquantuno i
Verdi.
La Grosse Koalition fra Cdu/Csu e Spd può, quindi, contare su una solida
maggioranza di quattrocentoquarantotto deputati.
Energie rinnovabili
55 per cento: la Germania produce questa quota di tutta l’energia solare prodotta nel mondo.
La Germania guadagna la medaglia d’oro nella classifica del fotovoltaico in
Europa. Seguono, molto distanziati: Olanda, Spagna, Italia, Francia, Austria,
Gran Bretagna, Svezia. Altra medaglia d’oro se la aggiudica anche nella graduatoria del solare termico in Europa. Seguita a distanza da: Grecia, Austria,
Francia e Italia. Una terza medaglia d’oro i tedeschi la vincono per gli impianti eolici, seguiti a distanza da spagnoli, danesi e italiani (Fonte: European Wind
Energy Association).
13 per cento: la quota di energia ottenuta da tutte le fonti rinnovabili in Germania. La torta energetica tedesca è completata dal 51 per cento di petrolio e
carbone, dal 27 per cento di nucleare, e da quote minori di idroelettrica e gas.
In Italia, le quote della torta energetica sono invece così ripartite: 42,2 per cento petrolio; 9 per cento carbone; 7,8 per cento rinnovabili (se prendiamo questa torta e la tagliamo in ulteriori fettine, scopriamo che per oltre la metà, 52
per cento, è ricavata dalla vecchia e tradizionale energia idroelettrica prodotta
dalle dighe; l’energia dai rifiuti il 10 per cento e quella dalla geotermia 9 per
cento); 5 per cento elettricità importata; 36 per cento gas (fonte: Enea, 2007).
40 per cento di riduzione dell’anidride carbonica rispetto al livello del 1990:
l’obiettivo da raggiungere con il piano del cancelliere Angela Merkel entro il
2020, che prevede in quell’anno la copertura delle esigenze nazionali con il 20
per cento delle energie da fonti rinnovabili.
Un miliardo di euro: l’investimento lanciato nel 2007 dal ministro della Ricerca, Annette Schavan, per tenere insieme ricercatori e affari e tagliare i tempi di
sviluppo dei prodotti innovativi nel campo delle energie rinnovabili.
18.685 impianti eolici installati a fine 2006 in Germania, con una potenza di
20.621 Megawatt. Un dato che pone la Germania ampiamente in testa alla
classifica mondiale dei paesi produttori di energia eolica, davanti a Spagna,
Stati Uniti, India e Danimarca. L’Italia, pur producendo una potenza di 3,2
miliardi di kilowattora (+37 per cento nel 2006), vede ostacolato il ricorso a
questa fonte integrativa di energia da un lungo iter per l’autorizzazione: occorrono da ventiquattro a trentasei mesi per la realizzazione degli impianti, poi
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una volta messa a norma la struttura, si può cominciare a produrre energia,
sempre che si riescano a evitare veti e ricorsi da parte delle associazione e dei
comitati locali.
E in Italia...
Sei impianti di produzione di energia solare che dovrà costruire la Solar di Berlino in Puglia, considerata «dal punto di vista climatico e della burocrazia semplificata», la nuova frontiera del fotovoltaico in Italia. E casi del genere di imprese tedesche che vincono contratti nelle energie rinnovabili sono sempre più
frequenti in tutto il mondo.
Seicento impianti fotovoltaici installati in Lombardia, e una potenza installata
di oltre quattromila chilowattora: è il più alto dato fra le regioni italiane, seguono Trentino ed Emilia Romagna. Il record provinciale se lo aggiudica Trento, seguito da Alessandria e Brescia, Bologna e Palermo, Cosenza, Bolzano,
Mantova, Forlì, Verona. Nel Sud, dove la materia prima non manca, la Sicilia
si ferma a 897 chilowattora, la Calabria a 370, Sardegna a 354.
792,40 metri quadrati per mille abitanti: con questa densità di impianti solari
(in tutto duemila metri quadri) Selva di Val Gardena (Bolzano) si piazza al primo posto nella classifica dei «comuni virtuosi» e amici del solare termico, secondo il censimento di Legambiente 2007. Al secondo posto c’è Piazzolo (Bergamo, con 707,07 metri quadri). Sono novecento i comuni italiani che hanno
investito nel solare termico in Italia, e ben centosettantacinque sono piccoli
comuni. Tra i comuni con più di cinquemila abitanti è Maratea in testa alla
classifica con 500 metri quadri e una media di 95 metri quadri ogni mille abitanti. Invece la più alta diffusione di energia da fotovoltaico in rapporto alla
popolazione si ha a Cirigliano (Matera). Il primo grande comune con la più alta presenza di impianti installati è Lecce. Confrontando i dati del solare termico e fotovoltaico dei comuni italiani e quelli dei comuni tedeschi secondo i parametri della Solarbundesliga (il campionato nazionale dell’energia solare a cui
possono partecipare tutti i comuni tedeschi, senza distinzione di numero di
abitanti), il primo comune italiano che troviamo in classifica è sempre Cirigliano che conquista il 78° posto tra gli oltre mille comuni tedeschi.
250.000 edifici con la certificazione energetica previsti entro il 2009 in Italia
(stima del fisico Gianni Silvestrini, dirigente del ministero dell’Economia e direttore del Kyoto Club in Italia).
44-49 centesimi di euro: l’incentivo economico messo a disposizione dal governo italiano per ogni kilowatt di potenza prodotto usando il fotovoltaico.
Ventitremila euro: la spesa totale per installare un impianto solare in Italia. Il
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Le dolci energie della Germania
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60 per cento se ne va per i pannelli (servono 3 moduli da 8 metri quadrati l’uno), il 15 per cento per la manodopera e il resto per l’inverter (che trasforma la
corrente continua in alternata a 220 volt, ha una vita media di tredici anni e
vale il 10 per cento del costo dell’impianto), la progettazione e la messa in sicurezza. «Si ripaga tutto in dodici anni e il resto è guadagno pulito, considerando i vent’anni di contratto con Gse (la società controllata dal ministero dell’Economia e che gestisce i servizi elettrici in Italia) e la vita media di un impianto tra i venticinque e i trent’anni» (Caio Pezzola, marketing manager della
Sun Technics, Brescia).
Trecentomila metri quadrati l’anno: la capacità produttiva di collettori solari
nel nuovo stabilimento che la Merloni Termosanitaria ha deciso di realizzare
nelle Marche. L’azienda sta fornendo seimila metri quadrati di sistemi solari al
Villaggio Olimpico di Pechino 2008.
970 firme di scienziati, ricercatori, medici in un appello partito dall’università
di Bologna «per favorire le energie rinnovabili in Italia, non il nucleare». Capofila illustre: il chimico Vincenzo Balzani, che si occupa da quarant’anni di fotosintesi artificiale (www.ciam.unibo.it/photochem/energia2007.html).
Link utili
Portale nazionale della pubblica amministrazione: www.bundesregierung.de. Il
sito internet ufficiale del governo tedesco è ricco di informazioni particolareggiate sulla Germania, riguardanti tra l’altro la storia, la popolazione, la situazione economica e il programma politico del governo. Un’ampia rubrica è dedicata agli affari europei. La sezione stampa offre agli utenti una sintesi dell’agenda del governo e l’accesso alla banca dati dei comunicati stampa.
www.germany-tourism.de. L’Ente nazionale tedesco per il turismo è un portale d’accesso ai siti web locali in cui gli utenti possono trovare informazioni ad
hoc in base al rispettivo paese d’origine. Tra le varie rubriche del portale principale si segnalano gli itinerari di viaggio, i siti storici e gli eventi futuri.
Il Fraunhofer Institut Solare Energiesysteme (Ise) ha questo indirizzo: Heidenhofstr. 2 – 79110 Freiburg, Germania.
Email: [email protected]. Sito internet: www.ise.fraunhofer.de.
Per la città di Friburgo, consigliamo di contattare: Freiburg Wirtscharft Touristik & Messe.
Tel. 0049-76.13.88.18.06. Email: [email protected].
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La «mia» casa nel Regno Unito
La casa ideale a costi sostenibili
«Lavorate meno e godetevi la vita» è l’ultimo slogan di David Cameron, quarantun’anni, leader del Partito conservatore e aspirante
premier inglese, un leader giovane che si preoccupa del futuro... e
del voto degli anziani. Per la sua foto ufficiale ha scelto uno scatto
veramente popolare: davanti alla finestra a doppi vetri di una delle
case di BedZed, il primo eco-quartiere sorto nel 2002 per dare
ospitalità a trecentoventi abitanti in ottantadue case iniziali, nella
periferia sud di Londra a venti minuti di treno dalla Victoria Station, che ha saputo proporre un modello di lottizzazione dove le
varie fasce sociali (deboli, medie e ad alto reddito) convivono nel
rispetto dell’estetica e dell’ambiente. Sullo sfondo dell’immagine, si
intravedono le caratteristiche ciminiere colorate, quasi dei giganteschi segnavento futuristi, con alla base una distesa di pannelli solari: erano i pennacchi di un’antica centrale elettrica oggi diventata
icona della architettura che crea case in zone di archeologia industriale.
La scelta può sembrare eccentrica in un paese come l’Italia in cui
le case popolari rimandano a tristi scenari: da noi sono brutte, cadono a pezzi, sono ammalate di abusivismo cronico, rappresentano un
problema per l’ordine pubblico perché, anche se esteticamente qualificati, sono un concentrato delle fasce più deboli della società, tanto che non sorprende se oggi illustri architetti lanciano l’idea di raderle al suolo, eliminando quei veri e propri mostri urbanistici.
No, qui in Inghilterra l’argomento della casa, e in particolare della «casa per tutti a costi sostenibili», è la chiave di volta per conqui-
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stare Downing Street, la «casa del potere» in Gran Bretagna. Sicché
a Cameron che lancia il piano di «una casa per tutta la vita: la casa
ideale per gli anziani», il premier in carica Gordon Brown (che ha
promosso a ministro per l’Edilizia abitativa l’ex sottosegretario del
governo Blair, Yvette Cooper, trentotto anni, ex giornalista e moglie
del ministro dell’Infanzia e alla Scuola Ed Balls) risponde con la promessa di portare da centocinquanta a duecentocinquantamila le case popolari da costruire per ogni anno a venire. E di fare di BedZed,
l’oasi «con la coscienza verde» e il «mix sociale giusto» sorta sulle rive del Tamigi, il modello da replicare in tutto il Regno Unito, con
tanto di nuovo regolamento per rendere obbligatorio nel giro di un
anno le norme sul risparmio energetico: presto nessuna casa potrà
essere più costruita in Gran Bretagna senza un certificato di garanzia ecologica.
Ogni anno si costruiscono quasi centocinquantamila nuove case,
un terzo delle quali diventa council flats, l’equivalente delle nostre
case popolari, il cui affitto mensile è irrisorio. Ne hanno diritto le
mamme single, chi ha un reddito annuo inferiore a sedicimila sterline (ventiquattromila euro), i senza tetto e gli studenti full time che
hanno figli o handicap. Queste categorie sono esentate anche dal
versare la council tax, una specie di Ici che però nel Regno Unito si
paga ogni mese e il cui ammontare dipende dalla metratura dell’appartamento in cui si vive e dalla zona in cui è dislocato (in centro a
Londra, per esempio, la tassa è piuttosto cara).
Ma gli aiuti statali vengono offerti anche a chi vorrebbe acquistare una casa pur non avendone i mezzi. Il governo in questi casi
può pagare l’ammontare del mutuo, o una parte di esso, lasciando
ai proprietari solo l’onere degli interessi.
Per gli anziani che hanno superato i sessantacinque anni esistono anche le retirement houses. Non sono ospizi né ospedali, ma abitazioni acquistabili tramite mutui agevolati, con speciali servizi.
Per esempio gli anziani vengono visitati giornalmente da medici e
infermieri, hanno a disposizione aree di ricreazione e ogni tipo di
supporto di cui possano avere bisogno. E proprio per conquistare
il voto, oltre che dei giovani, della terza età (nel 2030 saranno
quindici milioni i britannici censiti come anziani) il campo di battaglia scelto dai due principali leader inglesi è la casa e la cancellazione dell’apartheid edilizio.
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Case fatte su misura
Basta case a due piani, dice Cameron, sono invivibili per gli anziani.
La casa adeguata per tutte le fasi della vita, preferibilmente su un
piano solo, invece di costare farebbe risparmiare al contribuente oltre otto miliardi di euro nei prossimi sessant’anni. Perché ridurrebbe
la necessità di ristrutturazioni da parte di anziani non più in grado
di fare le scale o di stare da soli e abbatterebbe le spese a carico della
comunità per pensionati e ospizi.
Come deve essere la casa ideale per gli anziani? Eccola: posto auto
fino a 3,3 metri di larghezza. Sentiero che porta dal box alla casa,
così come tutti gli ingressi, a livello strada. Porte larghe almeno 75
centimetri e corridoi almeno 90 centimetri. Spazio per girare in carrozzella in tutte le stanze. Sala da pranzo e una stanza da letto a pianterreno. Bagni accessibili con la sedia a rotelle e provvisti di corrimano. Possibilità di mettere un ascensore per disabili sulle scale.
Prese, interruttori e altri comandi accessibili a tutti.
In attesa delle case per tutti (oggi il 71 per cento degli inglesi è
proprietario della casa in cui vive, e l’obiettivo del governo è di
portale la percentuale all’80 per cento entro il 2010), mi sorprendo a leggere queste due notizie «edilizie» sui giornali locali.
La prima riguarda lo sbarco del colosso svedese Ikea in Gran Bretagna con la società Boklok che, dopo i mobili, vuole vendere agli
inglesi il proprio modello Live-Smart di casa alla portata di molte
tasche già acquistato, dal 1997, in oltre duemila esemplari dagli svedesi. L’accordo con il governo, firmato ai tempi di Tony Blair, prevede la costruzione, da un capo all’altro del Regno Unito, di interi
villaggi prefabbricati.
La seconda novità riguarda l’idea di un falegname scozzese, John
Andrew Harris, che incuriosisce i visitatori dei grandi magazzini
londinesi Harrods. Qui si accettano ordinazioni per case comode e
originali e anche a un prezzo non esagerato. Tra novemila e centocinquemila euro. L’importante, per chi acquista, è che disponga di
un albero sufficientemente robusto.
Sì, perché le case che l’azienda Pear Tree costruisce facendo ottimi
affari sono case sugli alberi per bambini e adulti. Dalle semplici piattaforme per cocktail ad alloggi con veranda, sala da pranzo, cucina,
bagno con idromassaggio, letto, scala a chiocciola, studio di regi-
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strazione e soggiorno. Il falegname Harris ha copiato l’idea della
tribù indonesiana dei Kuruwai, che vive ancora oggi in abitazioni
sugli alberi, e il mercato lo sta premiando.
Mentre in Italia...
Torniamo con i piedi a terra. Se avete un’idea delle case popolari
italiane (quelle legate agli scomparsi Istituti delle case popolari,
Ina-Casa, Gescal), ribaltatela. Perché in Italia, dove nel 2003 l’edilizia popolare ha compiuto cent’anni di vita (la legge che la inaugura porta la firma di Luigi Luzzatti ed è datata 31 maggio 1903),
mancano almeno seicentomila case popolari, secondo l’ultimo
rapporto della Federcasa (associazione che raggruppa Iacp ed ex
Iacp).
Da noi l’edilizia sociale, cancellata dall’ideologia liberista, è un
elenco di inadempienze, di disinteresse e di voracità dello Stato. La
tassazione porta via agli enti di gestione delle case popolari fino al
35 per cento degli introiti degli affitti con il peso sociale di un’emergenza che rischia di sfuggire di mano: perché aumentano gli
abusivi (un inquilino su cinque), i delinquenti, i taglieggiatori, i
clandestini, quelli che fanno paura agli anziani soli e agli onesti
barricati nei casermoni delle perfierie urbane, costretti a rendere
conto a improponibili capibastone, i nuovi boss del mercato degli
affitti. La politica ha usato le case popolari come una mangiatoia
per i voti, senza contrastare con un piano vero il degrado e il fabbisogno abitativo. Nelle case popolari italiane ormai un abitante su
due è un anziano che fa fatica a tirare a fine mese. Ma c’è una massa crescente di richieste inevase, a Roma mancano almeno ventitremila alloggi e a Milano quasi diciassettemila. Gli enti sono soffocati, non ci sono i soldi, i fondi statali sono prosciugati e anche le regioni, cui spetta un ruolo decisivo, avviano pochi programmi e badano a gestire il patrimonio esistente: se ne vanno per un terzo in
Irpef, Irpeg, Ici e altro. E poi aumenta la pressione degli immigrati:
in certe case di cinquanta metri quadrati dormono anche in otto
nei letti a castello.
Per citare un altro esempio di una città importante, Torino, il 26
novembre 2007 sono state aperte le iscrizioni al bando triennale per
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l’assegnazione di duemila case popolari e nella prima cintura: scadenza, 29 febbraio 2008. «Il primo giorno utile c’era già la coda.
Sono stati distribuiti dal comune in ventiquattr’ore circa tremila
moduli, stimo che alla fine le domande saranno più di diecimila»,
leggo una previsione di Giorgio Ardito, dal 1996 presidente dell’Agenzia territoriale per la casa (Atc) che gestisce 31.702 appartamenti. E «la Repubblica», nel gennaio 2007 («A Milano gli affitti più cari d’Italia»), lancia un allarme forte: «Serve una diversa politica abitativa a Milano. Ci sono 1810 alloggi vuoti in città (326 del comune e 1484 dell’Aler). Case che potrebbero coprire il fabbisogno di
quei milanesi a reddito medio basso che non possono permettersi il
“libero” mercato».
L’edilizia sociale inglese, comunque, è tutta un’altra cosa. Intanto
come quantità: l’Italia ha una percentuale di case popolari bassissima: appena il 18 per cento di tutte le case in affitto, mentre la media europea è del quarantatré, in Olanda si arriva a sessantanove, il
record è appunto della Gran Bretagna dove si sale al 76 per cento.
Al 2005 gli appartamenti gestiti in Italia dai centosedici enti che si
occupano delle case popolari sono novecentomila (un numero esiguo rispetto agli altri paesi europei: 3,5 milioni in Francia e 4 milioni in Gran Bretagna), quarantamila euro è il valore medio delle case
al Centro; trentacinquemila al Nord e ventiquattromila al Sud. E
poi come qualità: soprattutto i nuovi edifici, quelli costruiti negli
ultimi dieci anni, sono belli da vedere, confortevoli ed ecosostenibili. Si trovano in aree ben servite dai mezzi pubblici, non lontane da
scuole e ospedali. Nel citato piano Green houses, un capitolo apposito prevede che a partire dal 2016 tutte le nuove abitazioni siano a
emissione zero di anidride carbonica. Un esempio concreto su tutti
è la lottizzazione di BedZed, la prima cittadella simbolo di una «urbanizzazione sostenibile»: è diventata, nel giro di pochi anni, un’attrazione turistica, con tanto di museo e visita guidata (costa trenta
euro). Tutto è stato progettato dall’architetto Bill Dunster per danneggiare il meno possibile l’ambiente.
Ma i realizzatori hanno pensato anche a come favorire un ideale
mix sociale.
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Le case sostenibili
«BedZed significa Beddington Zero Energy Development (zero
impiego di idrocarburi) – spiega Jennie Organ, portavoce di BioRegional – Lo scopo? Ridurre quanto più possibile l’inquinamento atmosferico.» Qui nulla si crea, nulla si distrugge e soprattutto... nulla si spreca. Per costruire BedZed sono stati usati perlopiù
materiali di recupero: le strutture d’acciaio di una vecchia stazione
e di una centrale per la depurazione delle acque, il legno e il vetro
provenienti dai cantieri della zona. I materiali nuovi sono stati acquistati a non più di cinquanta chilometri, per facilitare il trasporto e ridurre le emissioni nocive di auto e camion. «Questo concetto sta alla base di tutto: ridurre i consumi d’energia e l’impatto
sull’ambiente – dice l’architetto di BedZed, Bill Dunster – un
esempio? Una delle principali cause dell’inquinamento è il riscaldamento. Per questo si è puntato sull’isolamento: i muri sono
spessi settanta centimetri, cioè due o tre volte quelli delle normali
costruzioni. Sono formati da due strati di mattoni, E tutte le case
sono orientate verso sud, per poter immagazzinare il massimo del
calore.»
La caldaia, comune all’intero complesso, è alimentata con legno
di alberi abbattuti. L’acqua piovana viene raccolta dalla grondaia
verso un serbatoio, pronta per essere riutilizzata per l’irrigazione o
gli usi domestici. I bagni funzionano grazie a speciali raccoglitori
dell’acqua piovana, che viene purificata e riciclata biologicamente
su un letto di canne. Le pareti delle case sono ermeticamente coibentate per impedire lo scambio di calore con l’esterno, non solo
tramite l’installazione di doppi e tripli vetri alle finestre ma anche
e soprattutto nella scelta dei materiali di costruzione. Gli abitanti
di qui producono localmente il 20 per cento dell’energia elettrica
e, grazie ai minori sprechi energetici, abbattono del 25 per cento
la restante bolletta di gas ed elettricità, e del 50 per cento il consumo di acqua rispetto a una normale abitazione inglese.
Laddove non arriva l’architettura subentrano le regole del vivere
civile. Per esempio ci si sposta con il car sharing, cioè con l’affitto
delle quattroruote: alcune vetture elettriche sono gestite in comune
dagli abitanti. Una miniflotta di scooter elettrici consente di soddisfare le esigenze di brevi spostamenti. Ci si trova allo Zed Bar, il ve-
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nerdì sera specialmente, per discutere e partecipare al club di lettura. Al centro di tutto si pone la socializzazione, elemento insostituibile per creare l’equilibrio sostenibile del quartiere. La spesa viene
fatta tramite internet privilegiando gli acquisti su scala e in comune.
Eppure i trecentoventi abitanti di questa minicittà non sono ecologisti militanti ed estremisti. Qui abitano insegnanti, quadri che
operano nel settore delle telecomunicazioni o dei media, madri di
famiglia e pensionati. Sì, perché i realizzatori hanno pensato anche a
raggiungere un obiettivo di ecologia umana: così hanno siglato un
accordo con la Peabody Trust, una fondazione filantropica di supporto all’edilizia sociale per i lavoratori (gestisce centottantamila alloggi), che opera a stretto contatto con le collettività locali per favorire la soluzione dei problemi abitativi delle fasce più deboli della
società.
La Peabody Trust, che ha finanziato con centottanta milioni la
costruzione di BedZed congiuntamente all’amministrazione locale
di Sutton, si è occupata anche della distribuzione: un terzo degli alloggi è stato destinato agli insediamenti sociali, con le facilitazioni
già descritte; un terzo ai locatari con redditi medi mentre l’ultimo
terzo è stato messo in vendita. Questo mix sociale era una delle priorità dei creatori di BedZed, per evitare il rischio di ritrovarsi con
una «comunità di hippy» o una «comunità di disperati». Per favorire
questa mescolanza, hanno previsto diversi luoghi destinati alla vita
comune: un asilo nido, un club di lettura, lo Zed Bar...
«Il mio impegno nei confronti della natura è piuttosto ridotto –
ammette Marleen Stumpel, una casalinga che lo scorso anno ha acquistato qui una piccola casa – come tutti, vorrei fare qualcosa per
l’ambiente, ma non trovo mai il tempo. E comunque, quando faccio qualcosa, voglio che sia pratico e indolore. È esattamente quello
che succede qui: riusciamo a vivere senza danneggiare la natura, ma
anche senza fare troppa fatica.»
Era questo l’obiettivo dell’architetto che ha dato vita a questo
progetto: dimostrare che è possibile vivere in modo ecologico senza
condannarsi a una vita d’asceta e senza privarsi di televisione e riscaldamento. Tutte le case sono fornite di computer, connessioni
wi-fi ed elettrodomestici. «E soprattutto, hanno un look davvero
straordinario – precisa Steve Trabard, che vive qui dal 2002 – ciò
che colpisce soprattutto di questo posto, è la sua architettura. I suoi
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tetti, i suoi giardini, le terrazze, le vetrate, ma anche gli alti soffitti e
questa straordinaria mescolanza di materiali. Ci sono bastati cinque
minuti all’interno di uno degli appartamenti-campione per capire
che era il posto adatto a noi. E in più, potevamo anche permetterci
un ambiente più grande rispetto ad altri quartieri.»
Metteh, trentadue anni, suo marito Cristopher e la loro figlia
Marleen hanno lasciato la loro casa di Wandswoth, a sud di Londra,
per venire ad abitare qui nel 2002. È stato un colpo di fulmine: Cristopher si è trovato a passare davanti a queste case ed è stato conquistato dall’architettura innovativa. Metteh, originaria della Danimarca, ha invece apprezzato il basso impatto ecologico: «Venendo qui
abbiamo aumentato lo spazio a nostra disposizione e risparmiato
sulla bolletta elettrica di più di un terzo».
Emma, socia dell’associazione Amici della terra, e Stephan, ventisette anni, impiegato di una società di telecomunicazioni con uffici
nella stazione Victoria, hanno avuto notizia su internet di questo
luogo e sono venuti a visitarlo. Dopo aver trascorso anni nel quartiere londinese di Brixton, a sud di Londra, si sono installati definitivamente e felicemente qui in un appartamento di tre vani.
BedZed interessa il mondo intero
La fama di BedZed si sta espandendo e qui arrivano molti giornalisti e turisti. Racconta il sociologo Paul Miller, uno dei residenti di
BedZed: «Stavo stendendo i panni quando mi sono reso conto che
un gruppo di giapponesi mi stava filmando. Spero che non sia per
un programma in prima serata, mi son detto». Paul ha una certa
dimestichezza con i media: la settimana precedente un’équipe televisiva era sbarcata da lui e la sera prima la sua casa era apparsa sulla
prima pagina di un giornale locale.
Nel progetto iniziale, si parla anche di insediare qualche azienda a
BedZed, affinché gli abitanti possano andare a lavorare a piedi. Anche se tutti questi progetti non sono ancora stati completati, gli abitanti del villaggio si dichiarano entusiasti della loro nuova vita: hanno realizzato una newsletter, organizzato un corso di yoga comunitaria e persino un blog «bedzediano».
A poco a poco, molti hanno cambiato le proprie abitudini di vita.
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Qui i pannolini lavabili e altri prodotti biodegradabili sono molto
più diffusi che altrove, «anche se nessuno ci obbliga a farlo», precisa
Julie, assistente presso una società di produzioni audiovisive, trasferitasi qui da poco. A Wellington, il comune vicino, si sono abituati
alla loro presenza. E il loro esempio interessa il mondo intero.
Bio Regional, una Ong ambientalista fondata da Pooran Desal
che ha preso parte al progetto, vorrebbe creare in tutto il mondo
una rete di cinque comunità «Zero-carbonio, zero-rifiuti» da qui al
2009 (sono già stati scelti i primi siti: a Mata de Sesimbra, a sud di
Lisbona in Portogallo; in Francia; in Cina; in Africa del Sud; e il governo inglese si vuole ispirare a BedZed per rigenerare tutta la vallata del Tamigi). Nome del progetto, in collaborazione con il Wwf:
Vivere con una sola Terra. «Perché se tutti gli abitanti della Terra vivessero come gli europei, l’umanità avrebbe bisogno di tre pianeti
per soddisfare le nostre necessità. Di cinque pianeti, se adotassero i
consumi degli statunitensi.»
Intanto, a distanza di cinque anni dall’inaugurazione, BedZed
può vantare il merito di funzionare: gli alloggi (case, ma anche mansarde, ville e qualche ufficio) sono tutti occupati, gli spazi pubblici
ben tenuti, il mix sociale garantito grazie alla strategia filantropica
Peabody Trust... Quale «nuova città» potrebbe dire altrettanto?
Mutui facili da ottenere
Mutui? In salita, ma ancora convenienti. It is the British dream to
own the roof over one’s head, «è il sogno di ogni cittadino britannico
possedere un tetto sopra la propria testa», titola il «Guardian» del
maggio 2007, rafforzando questo concetto con le prime rime di un
componimento di inizi Novecento: «I tedeschi abitano in Germania, i romani abitano a Roma, i turchi abitano in Turchia, ma gli inglesi vivono nella propria casa».1 Come tanti altri, molti abitanti di
BedZed hanno comprato con mutuo. Le condizioni offerte sul mercato variano notevolmente da una banca all’altra e, anche se ultimamente si registra una tendenza all’aumento del tasso, vi è ancora una
grande scelta di condizioni, modalità di pagamento, incentivi sotto
1
J.H. Goring, The Ballad of Lake Laloo and other Rhymes, 1909.
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forma di sconti, anticipo di contanti, assicurazioni sulla casa eccetera. I mutui sono perlopiù a tasso variabile con un periodo iniziale a
tasso fisso che va dai due ai sette anni. Ve ne sono di due tipi fondamentali in Gran Bretagna: quello con ammortamento del principale
e quello in cui si pagano solo gli interessi e il principale viene rimborsato interamente a maturità.
Per il consumatore di prestiti è possibile mischiare diversi tipi di
mutui in modo da permettere a chi prende il prestito di meglio soddisfare le proprie esigenze. Per esempio è possibile estinguere rapidamente una parte del mutuo su cui si decide di applicare un tasso variabile e di pagare più tardi un’altra parte su cui si sceglie invece un
tasso fisso. Il tenore dei mutui è in genere di venticinque anni (in Italia di solito il tenore si aggira sui dieci-quindici anni), con il risultato
che le rate da pagare sono meno onerose.
Ottenere un mutuo ipotecario è molto semplice. Basta dichiarare
il proprio reddito, presentando la busta paga o la dichiarazione dei
redditi) e, nel caso dei lavoratori dipendenti, fornire alla banca una
referenza del datore di lavoro (alcune istituzioni vogliono che il richiedente abbia l’impiego attuale da almeno due anni). Di solito le
banche concedono mutui su un ammontare pari fino a 3-3,5 volte
il reddito annuo e fino al 95 per cento del valore dell’immobile da
acquistare, ma le condizioni offerte sono migliori se si scende al di
sotto del 70-75 per cento del valore dell’immobile. Non è necessario essere già clienti dell’istituto creditizio, né è necessario essere cittadino britannico: basta dare prova di un reddito locale stabile
(quindi un soggetto non britannico, ma con una fonte di reddito
nel paese adeguata a sostenere il prestito richiesto può ottenere un
mutuo senza difficoltà).
Ti danno i soldi in meno di una settimana dal momento in cui
si entra per la prima volta nella banca o nella Building Society,
istituzione specializzata nei prestiti ipotecari. In realtà non è assolutamente necessario andare in un’agenzia: si possono benissimo
sbrigare per telefono tutte le formalità per la concessione del mutuo, il che permette a chi lavora di non doversi assentare dal posto di lavoro per seguire le pratiche necessarie.
La facilità di ottenere mutui, la relativa economicità delle condizioni di riscatto e le basse spese amministrative fanno sì che vi sia
una grande disciplina tra gli istituti creditizi: un cliente insoddisfat-
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to del tasso pagato può facilmente estinguere il mutuo e ottenerne
un altro da una diversa banca in meno di una settimana.
A facilitare ancor più l’acquisto, c’è il mercato dell’informazione
che qui è molto efficiente: in edicola, infatti, si può acquistare una
delle tante riviste dedicate esclusivamente ai mutui. Riportano ogni
mese il listino di tutti i mutui presenti sul mercato con novità, confronti tra vari mutui e condizioni di offerta.
Lo spirito filantropico inglese
Questa della filantropia è una molecola antica e costruttiva nel panorama anglosassone dell’edilizia sociale. Il motivo è semplice: fin
dall’inizio del secolo scorso si levarono (ascoltate da pochi) le voci
degli scrittori contro le orride case di periferia abitate da gente di
cui era facile pronosticare la carriera con le seguenti tappe: «sporcizia, malattia, degradazione, perdite di lavoro, vizio, delitto» (John
Lloyd Thomas).
Se n’erano accorti anche in Italia, a Milano. Sentite cosa scrive
Luigi Buffoli, creatore, un secolo fa, del primo albergo diurno a Milano, nel suo libro Lo sviluppo della cooperazione in Europa 2: «La
continua immigrazione verso le città rende evidente non essere il caso di fare delle teorie o di deplorare i mali, ma insegna come convenga adoperarsi per lenire le sofferenze che tale immigrazione va
continuamente arrecando. L’umanitario, il sociologo devono quindi
dedicare la propria mente, il proprio lavoro, le proprie energie a cercare di fornire di abitazioni sane, ariose, pulite, la grande massa di
persone che dalla campagna o dalle piccole città si riversa verso i
grandi centri. Il problema diviene sempre più difficile a cagione della destinazione dei quartieri anche i più eccentrici a case di abitazioni signorili, e le non rapide e continue comunicazioni con quelli più
lontani che potrebbero offrire al modesto lavoratore, all’esercente,
all’operaio una casa sana, ariosa a buon prezzo».
Buffoli, presidente dell’Unione cooperativa di Milano, anticipando chi vi scrive di un secolo, capitò a Londra per vedere come stava2 Luigi Buffoli, Lo sviluppo della cooperazione in Europa, Tipografia degli operai, Milano
1904.
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no lavorando per affrontare e risolvere questo problema e trasmise i
particolari delle buone idee raccolte e del ruolo centrale che acquistava, «più che la beneficenza, il saggio impiego di capitale in opere
di edilizia sociale».
Fu nel 1893 che venne aperta la prima Rowton House a Vaux
Hall, quartiere popolare di Londra. Fu costruita interamente a spese
di Lord Rowton. Il successo ottenuto suggerì di costituire una società chiamata Rowton House Limited che istituì altri alloggi destinati ad accogliere lavoratori. E i bilanci non erano poi così male:
«Filantropia che rende il 5 per cento», titolò un suo rapporto uno
degli amministratori. «Nulla di più vero» conclude il commendator
Buffoli. «Questa è filantropia di assoluto adattamento alle condizioni attuali di vita delle classi meno abbienti, filantropia che aiuta e
incoraggia praticamente, senza pretendere la gratitudine particolare
del beneficato.»
In Italia
Da noi, agli inizi del Novecento, non c’è filantropia ma ci si appella
allo Stato. Negli anni Trenta e Quaranta uno degli architetti più sensibili e attivi, Piero Bottoni, sostiene l’intervento statale per dare
una casa ai ceti più disiagiati. Si occupi lo Stato di costruire abitazioni, acquisendo le aree, fissando il prezzo come fa per il pane.
Le posizioni di Pagano e di Bottoni fanno da retroterra culturale al
piano Fanfani, il progetto Ina-Casa che dal 1949 al 1963 consente la
costruzione di trecentocinquantacinquemila appartamenti. La battezzano «la grandiosa macchina dell’abitare».3 In alcuni casi (a Roma, per esempio, sulla via Tuscolana e a Torre Spaccata) l’Ina-Casa
(poi Gescal) apre il varco a terribili speculazioni, valorizzando i terreni circostanti.
I servizi non vengono realizzati, la manutenzione scarseggia e gli
spazi in comune (ingressi, scale, ballatoi e coperture) sono trascurati. E le periferie, nel frattempo dilatatesi senza controllo, inghiottiscono quegli insediamenti.
3
La storia è raccontata in un libro curato da Paola Di Biagi, La grande ricostruzione,
Donzelli, Roma 2001.
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A partire dagli anni Settanta l’edilizia popolare imbocca una strada drammatica: basta ricordare il movimento per l’occupazione delle case. Poi si va lentamente spegnendo, governata da leggi contraddittorie.
Lo Stato si affida al mercato, così costruttori e speculatori diventano i padroni delle periferie dove si è spostato un milione di residenti dalle undici maggiori città italiane, e all’abusivismo la risposta
al bisogno crescente di case economiche.
Le leggi finanziarie, dal 2002, non prevedono più un soldo. Solo
nella Finanziaria del 2007, l’ex ministro Di Pietro ha stanziato cinquecentocinquanta milioni di euro l’anno (ex fondi Gescal) a vantaggio dell’edilizia popolare. L’obiettivo è rendere disponibili undicimila nuovi alloggi, tra quelli nuovi e ristrutturati.
Da poco anche in Italia la filantropia in questo settore dà i primi
incoraggianti risultati: vedi le iniziative a Milano della Fondazione
Cariplo e a Siena della Fondazione Monte dei Paschi che nel 2005
ha dato il via all’innovativo progetto sulla casa grazie al quale sono
in costruzione nella provincia toscana centocinquanta abitazioni che
i comuni potranno concedere in affitto a un canone mensile di
quattro euro al metro quadrato.
A questa filosofia di intervento si dedica da sempre la londinese
Peabody Trust, associazione filantropica che ha fatto del supporto
all’edilizia sociale per i lavoratori il suo obiettivo principale.
Il Tamigi scorre chiaro
La più importante iniziativa in Europa che si ispira in grande a BedZed, e alla quale vale la pena di guardare da parte di noi italiani, è il
piano della London Thames Gateway Development Corporation,
compagnia di proprietà del governo (in partnership con il settore
privato), che sta riqualificando un territorio di sessantacinque chilometri (dei trecentoquarantasei complessivi) lungo le rive del Tamigi,
partendo da Londra e arrivando fino alla regione del Kent. L’area è
piena di industrie in abbandono (come a Milano, dove le aree industriali dismesse sono la maggiore risorsa territoriale esistente).
È una miniera preziosa di 3150 ettari di terreno edificabile che sarà
trasformato, entro il 2016, in centosessantamila unità immobiliari,
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dall’architettura moderna ed ecosostenibili. «Entro il 2008 saranno
pronte trentamila case da destinare alle categorie più deboli, che potranno affittarle con le medesime modalità vigenti per le case popolari», spiega Matthew Ward, dirigente della Thames Gateway (info: [email protected]). «In totale i nostri appartamenti assegnati all’edilizia sociale saranno settantacinquemila.»
Oltre a venire incontro all’ingente richiesta di alloggi, il progetto
produrrà anche centottantamila nuovi posti di lavoro. I progetti sono stati già approvati, portano la firma dell’architetto Norman Foster, autore del recupero del Reichstag di Berlino e dell’ammodernamento del British Museum a Londra.
Così, con nuovi quartieri, le rive del Tamigi stanno rifiorendo.
Com’è capitato alle acque del fiume. Una lezione che si affianca e
che merita di essere ricordata a chi da noi tifa per la buona politica,
considerando che ogni anno a fine primavera vengono rese note le
mappe della balneabilità dei mari italiani, mappe che evidenziano le
situazioni ambientali più critiche in corrispondenza proprio delle
foci dei fiumi.
C’era una volta un grande fiume europeo ridotto a una immane
fogna senza vita. Oggi l’inquinamento è ridotto del 90 per cento,
sono ricomparsi i salmoni e oltre cento specie ittiche (ai giorni nostri il Tamigi ospita centosedici specie, quasi il 50 per cento in più
rispetto al 1980), sono state allestite oasi per i birdwatcher e persino
qualche foca risale quelle acque un tempo «proibite».
L’opera di risanamento delle acque, che ha preceduto il recupero
del territorio grazie all’edilizia sociale, è stata realizzata dalla Thames
Water Authority, con circa novemila dipendenti, un migliaio dei quali ingegneri, analisti, biologi e ricercatori e una spesa di millecinquecento miliardi di vecchie lire. L’agenda di lavoro di quell’ente, portata
a conoscenza degli amministratori e degli albergatori della Romagna
in un incontro di qualche anno fa dopo la grave emergenza creata dall’eutrofizzazione dell’Adriatico, con gravi colpe dell’inquinamento del
Po e degli altri corsi d’acqua che sfociano in quel mare, e con l’affiorare delle mucillagini, è quasi un moderno decalogo per gli amministratori nostrani dai quali dipendono le condizioni malandate di salute
dei nostri fiumi. Lo ricordo, data la sua stringente attualità.
1) Per fermare l’eutrofizzazione vengono creati impianti di ossigenazione lungo le sponde del fiume;
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2) nasce una rete di depuratori efficienti (per inciso, all’epoca delle mucillagini Milano non ne aveva uno, e c’è voluto l’urlo della società civile, con in testa l’allora presidente di Italia Nostra, Mario
Fazio, che scrisse su «Airone» memorabili parole ai sindaci della metropoli lombarda). Le industrie sono obbligate a dotarsi di filtri e a
risanare le acque di scarico;
3) le centrali elettriche devono essere dotate di torri di raffreddamento per evitare l’inquinamento termico delle acque del fiume,
con conseguenti problemi di anossia ed eutrofizzazione;
4) le fognature sono ripulite e ispezionate periodicamente. Il materiale, prima di essere scaricato nel fiume, passa attraverso i depuratori;
5) viene organizzata una campagna contro l’uso spropositato dei
detersivi e a favore dell’adozione di prodotti biodegradabili;
6) il traffico fluviale viene rigorosamente controllato e severe norme colpiscono tutti coloro che inquinano, dalle navi commerciali
alle imbarcazioni da diporto;
7) tutti gli affluenti sono ripuliti, le loro acque filtrate;
8) vengono realizzati bacini di riserva e impianti di pompaggio
per evitare un drastico calo delle acque durante i mesi estivi;
9) la polizia fluviale e gli ufficiali sanitari compiono rigorosi e periodici controlli. Vengono effettuati ventimila prelievi l’anno in tredici diverse stazioni di campionatura e i dati sono costantemente
elaborati da un computer centrale.
Intervenire su un ecosistema complesso come un fiume è un’operazione titanica e mai conclusa, e agire quando l’emergenza è già
scattata rende tutto più difficile, più costoso e più lungo. L’esperienza inglese ci insegna che è possibile, ma ci ricorda anche che il
deterioramento dell’ambiente procede più rapidamente della presa
di coscienza collettiva, e quello scarto può essere fatale. Solo se si
prevede e si provvede con tempestività, si possono conseguire buoni risultati: risultati tanto migliori quanto più crescono l’alleanza e
la solidarietà di politici e ricercatori, di industriali e cittadini. Come, per citare la prossima tappa, è avvenuto in Spagna nel campo
dei trasporti.
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Per saperne di più
Anno di adesione all’Unione europea: 1973
Sistema politico: monarchia costituzionale
Capitale: Londra
Superficie: 244.820 km2
Popolazione: 60,587 milioni
Capo dello Stato: regina Elisabetta II
Capo del governo: Gordon Brown
Tasso di nascita: 10,67 nati ogni 1000 abitanti
Mortalità infantile: 5 morti ogni 1000 nati
Età media: 39 anni. Un abitante su cinque ha meno di 16 anni, uno su sei ne
ha più di 65
Aspettativa di vita: 78,7 anni in media
Tasso di disoccupazione: 5,4 per cento
Il modello politico
È la più antica monarchia costituzionale d’Europa. Il Parlamento bicamerale
britannico è composto dalla Camera dei Lord (618 seggi, di cui 500 assegnati
a pari a vita, 92 a pari ereditari e 26 a vescovi della Chiesa anglicana) e dalla
Camera dei comuni (646 seggi dalle elezioni del 2005; i membri sono eletti
dal voto popolare per una legislatura della durata di cinque anni – o meno se la
Camera è sciolta in anticipo).
Non si svolgono elezioni per la Camera dei Lord, i cui membri a vita sono nominati dal primo ministro. Occasionalmente vengono svolte elezioni per riempire i seggi ereditari rimasti vacanti.
Le ultime elezioni per la Camera dei comuni si sono svolte il 5 maggio 2005
(le prossime sono in programma nel maggio 2010), e hanno visto il partito Laburista ottenere 353 seggi (35,2 per cento dei voti; storico terzo mandato consecutivo di governo per il primo ministro Tony Blair), il partito Conservatore
194 (32,3 per cento), i Liberal Democratici 63 (22 per cento); 9 seggi sono
andati inoltre al partito Nazionale Scozzese/Plaid Cymru, altrettanti agli Unionisti Democratici, 5 al Sinn Fein e 14 ad altre formazioni.
Il Regno Unito ha attuato, a partire dal 1998, un processo di devolution, con
l’introduzione, dopo una serie di referendum locali, di un Parlamento in Scozia, a Edimburgo, e di Assemblee regionali nell’Irlanda del Nord e nel Galles.
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La politica della casa
I numeri e le idee chiave del piano Green houses recentemente approvato dal
governo.
185.000: le case che vengono costruite ogni anno in Gran Bretagna.
223.000: il numero delle famiglie che, secondo le previsioni, cresceranno ogni
anno. In questa cifra sono comprese quelle costituite da singoli individui.
240.000: le nuove case che ogni anno il governo si propone di arrivare a costruire fino al 2016, per un totale di due milioni di abitazioni.
45.000: le nuove case popolari che saranno costruite nel Regno Unito ogni
anno fino al 2011 per venire incontro alle fasce sociali più deboli, mentre per
i prossimi tre anni l’obiettivo è di affittare 50.000 case all’anno alla quota sociale. Il tutto grazie a un investimento di 6,5 miliardi di sterline nei prossimi
tre anni.
25.000: le nuove case che ogni anno, verranno inoltre messe a disposizione per
la «proprietà condivisa», in cui l’acquirente compra una quota della casa (il 25
per cento, il 50 per cento o il 75 per cento) e paga l’affitto per il resto finché
non può permettersi di acquistare anche il resto.
Case più verdi
Le nuove case in costruzione saranno sensibilmente più verdi rispetto a quelle
tradizionali. Circa un quarto delle emissioni di CO2 in Gran Bretagna (circa
centocinquanta milioni di tonnellate l’anno) è riconducibile al riscaldamento,
l’illuminazione e in generale ai consumi domestici. Il progetto del governo britannico prevede che dal 2016 in avanti tutte le nuove abitazioni siano a emissioni zero. Per raggiungere tale obiettivo ci sarà una prima restrizione delle leggi
che regolamentano le costruzioni nel 2010 (emissioni ridotte del 25 per cento),
e una seconda nel 2013 (emissioni ridotte del 44 per cento). Anche il consumo
domestico di acqua dovrà essere tagliato del 20 per cento. Per quanto riguarda
le case già esistenti, il governo ha investito oltre un miliardo di sterline per aumentarne l’efficienza energetica, anche con l’introduzione dei certificati di
performance energetica, che forniranno informazioni dettagliate.
5: le nuove ecocittà che le amministrazioni locali sono invitate a proporre al
governo britannico. L’obiettivo è quello di ridurre a zero le emissioni totali dell’intera comunità. Ogni progetto potrà prevedere da cinquemila a ventimila
nuove abitazioni, con un potenziale totale che è dunque di centomila nuove
case a zero emissioni.
L’obiettivo principale è di rendere sostenibili le comunità, creando per loro
spazi dove le persone vivano e lavorino volentieri. Una comunità sostenibile
deve essere:
– attiva, inclusiva e sicura;
– ben gestita;
– sensibile alle questioni ambientali;
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– ben progettata e ben costruita;
– ben connessa;
– prosperosa;
– con un facile accesso ai servizi pubblici;
– corretta con tutti.
Con un occhio al futuro, le case in costruzione dovranno essere più resistenti agli effetti dei cambiamenti climatici come alluvioni od ondate di calore. I progetti sono dunque stati pensati su questa base, al fine di minimizzare i rischi.
In Italia è emergenza...
270 miliardi di euro: il valore sul mercato del patrimonio di case possedute
dallo Stato. Ma che dal 2002 al 2006 ci è costato oltre novecento milioni di
euro. Tra occupazioni abusive (un inquilino su cinque), gestioni clientelari e
inquilini morosi.
1.100.000: gli alloggi disponibili in Italia, secondo Federcasa, il triplo che in
Francia e in Gran Bretagna.
62.000: le unità abitative nella sola città di Milano e provincia. Si tratta del
maggior patrimonio immobiliare pubblico. Nel 2006 nel capoluogo lombardo
sono stati aggiudicati 322 appartamenti. Altri 140 sono stati occupati.
600.000: le case popolari mancanti in Italia, in base alle domande inevase. Il piano del governo Prodi per l’edilizia residenziale pubblica (stanziati 550 milioni di
euro nel 2007) ha come obiettivo di rendere disponibili undicimila nuovi alloggi.
6,4 per cento: percentuale delle famiglie, tra le assegnatarie, composte da più
di cinque persone.
49,5 per cento: percentuale degli assegnatari con più di sessant’anni.
25,4 per cento percentuale delle famiglie, tra le assegnatarie, formate da un solo componente.
14,39: la percentuale degli alloggi dell’Istituto case popolari (Iacp) occupati in
Sicilia senza titolo rispetto al totale degli alloggi gestiti. L’isola è in testa a questo fenomeno, seguita dalla Campania (13,58 per cento).
13,6 milioni di persone (il 24,3 per cento) vivono in zone centrali mentre ben
42,6 milioni (il 75,7 per cento) abitano le periferie.
... e in Europa
3 milioni: i senza tetto (secondo un’indagine del Cechodas, Comitato europeo
di coordinamento delle abitazioni sociali).
15 milioni: le persone che vivono in alloggi precari.
76 metri quadrati: la superficie media di un alloggio.
3,6: il numero medio di stanze per appartamento.
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9,7 per cento: il peso (per spese e affitto) sul bilancio familiare nel Regno Unito. In Italia sale al 24,7 per cento.
Link utili
Portale nazionale della pubblica amministrazione: Direct.gov.uk. È il portale
del governo britannico che permette di accedere a un’ampia gamma di servizi
pubblici e informazioni della pubblica amministrazione. Gli utenti possono
visualizzare queste informazioni per argomento, gruppo di destinatari, rubriche principali o attraverso la guida. Il sito internet contiene inoltre un motore
di ricerca e una rubrica dedicata all’attualità.
VisitBritain.com offre numerosi strumenti interattivi per aiutare gli utenti a
pianificare i propri viaggi, trovare alloggio e scegliere i luoghi da visitare. Sono
inoltre disponibili diverse guide di viaggio a destinazione specifica.
Il sito internet della Thames Gateway: thames.gateway@communities.
gsi.gov.uk.
Indirizzo postale: Thames Gateway Directorate, Communities & Local government, 10th Floor, 2 Exchange Tower, Harbour Exchange Square, London,
E14 9GE.
La email della ricercatrice italiana Luisa Corrado, presso l’università di Cambridge, coordinatrice della ricerca sul benessere in Europa: lc242@econ.
cam.ac.uk.
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I trasporti record della Spagna
La corsia dinamica
Senza ingorghi. Da Madrid a El Escorial, una delle principali mete
turistiche della Spagna, ci sono quaranta chilometri di autostrada
A6: distanza che si ricopre in un batter d’occhio e senza intoppi, come ho potuto sperimentare di persona in un fine settimana estivo.
I primi sedici chilometri sono percorsi da migliaia di pendolari
che ogni mattina si recano a Madrid per andare a lavorare e alla sera
ritornano nelle loro case sparse nei paesi vicini alla capitale. Il sabato mattina la A6 vede uscire i madrileni in direzione della montagna
e delle città di Santiago de Compostela e La Coruña, sulla costa
atlantica nel nordovest della Spagna, con rientro la domenica sera
nella capitale. Ebbene, sia nei giorni feriali sia in quelli festivi non si
trovano ingorghi su questo tratto di autostrada. Tutto merito della
corsia dinamica. Io la percorro nei due sensi, di sabato mattina e di
domenica sera, sull’auto della fotografa italiana Giuditta Bussetti,
trapiantata nella penisola iberica, che mi accompagna a El Escorial.
È lei a introdurmi all’ingegnosa trovata antingorghi.
In sostanza, per agevolare i flussi del traffico senza dover costruire
nuove autostrade, l’amministrazione comunale di Madrid, in collaborazione con il ministero dei Trasporti e con la Direzione generale
del traffico, ha escogitato un sistema che ha reso e rende meno caotica la vita dei pendolari. Quella che io chiamo «corsia dinamica», è
stata battezzata dagli spagnoli «Bus-Vao»: una corsia preferenziale a
senso unico alternato con due carreggiate. La mattina dei giorni lavorativi il senso di marcia va dalla periferia al centro di Madrid, la
sera dal centro alla periferia.
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Ma attenzione, gli unici veicoli autorizzati a usare la «corsia dinamica» sono gli autobus e le automobili con almeno due passeggeri
(per questo è stata battezzata Bus-Veicoli ad Alta occupazione). Sul
traffico vigila l’Elivelox: la Spagna è stato il primo paese a sperimentare l’autovelox sugli elicotteri. Due telecamere dotate di radar e teleobiettivo rilevano, fino a trecento metri d’altezza, l’Alta velocità e
il numero di targa del veicolo che commette l’infrazione.
La trovata, a differenza di quanto immaginavo, non è degli spagnoli. Loro, applicando il metodo della buona emulazione (cioè copiando), l’hanno preso dai primi sperimentatori. La «corsia dinamica» venne infatti applicata per la prima volta in Nord America, alla
fine degli anni Settanta, con lo scopo di ridurre gli ingorghi, il numero di macchine circolanti e l’inquinamento.
La Bus-Vao è stata costruita nel 1995 riconvertendo la parte centrale che separava le due corsie della A6. Prendano nota tutti gli amministratori delle città italiane in vicinanza di autostrade perennemente ingolfate: con poco più di dodicimila chilometri al volante
all’anno noi italiani siamo secondi solo al Lussemburgo (fonte Eurobarometro 2007).
Incidenti stradali dimezzati
Viaggiando per la Spagna, avverto chiaramente che gli iberici ci stanno sorpassando. Forse non ancora nel prodotto interno lordo, ma sicuramente in quanto a qualità della vita: mercato del lavoro, sanità,
burocrazia (all’estero si muovono come una falange compatta, l’orgoglio della Nazione viene prima delle divisioni tra destra e sinistra,
hanno capito prima e meglio di noi i vantaggi dell’Unione europea)
e, soprattutto, trasporti. È su quest’ultimo capitolo che gli spagnoli
hanno fatto confluire il massimo gradimento nell’indagine degli economisti di Cambridge che ha dato origine al nostro viaggio nell’Europa da copiare. Non a caso Zapatero tiene a sottolineare che «nel
2010 saremo il paese con più chilometri di autostrada d’Europa e il
paese con più chilometri di ferrovia ad alta velocità del mondo».
La rete autostradale dal 1970 a oggi è aumentata in Spagna di
venticinque volte: da noi è cresciuta poco o è rimasta stazionaria.
Secondo l’Eurobarometro 2007 ogni italiano dispone statisticamen-
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te di centodieci metri di autostrada. Gli spagnoli ne hanno duecentoquaranta a testa, i francesi centosettanta.
E secondo il Rapporto ambiente Italia 2005 di Legambiente in
questo decennio si è consolidato nel nostro paese il dominio del trasporto su gomma (+43 per cento, pari al 77 per cento del totale)
mentre la mobilità su rotaia è stazionaria. Tra i grandi paesi europei,
l’Italia presenta il massimo squilibrio a favore del trasporto su gomma e più elevata quantità pro capite di mobilità motorizzata: quindicimiladuecento chilometri/abitante annui, +22 per cento sulla
media europea, +44 per cento rispetto alla Germania. Poiché costruire nuove strade è diventato politicamente e praticamente difficile, gli ingorghi sono destinati ad aggravarsi o lo spazio stradale deve essere razionato.
Attualmente, solo una parte dei costi connessi ai problemi ambientali, agli incidenti e al congestionamento sono sostenuti direttamente da coloro che li provocano. Ciò è inefficiente e iniquo. Un libro verde della Commissione europea dedicato alle politiche dei trasporti, stima che il congestionamento costi all’Unione europea il 2
per cento del Pil ogni anno, gli incidenti un altro 1,5 per cento e
l’inquinamento e il rumore un altro 0,6 per cento. In Italia, delle
duecentoquaranta opere definite dal governo prioritarie, meno di
una decina riguardano la mobilità urbana. E questo nonostante che
il 64 per cento del traffico automobilistico si svolga nel raggio di
cinque chilometri dal centro delle città e il 19 per cento entro un
raggio di dieci chilometri (cioè entro i sedici chilometri della spagnola «corsia dinamica»).
Quello spagnolo non è soltanto un primato in chilometri, ma
soprattutto in fluidità e sicurezza stradale. La Bus-Vao è il simbolo
della lunga marcia della Spagna postfranchista verso il primato nei
trasporti, una marcia che non tende ad arrestarsi, anzi... Il ministero de Fomento (l’equivalente dei nostri ministeri delle Infrastrutture e dei Trasporti) investirà 15.550 milioni di euro entro il 2012
per la manutenzione e l’ulteriore ammodernamento della rete autostradale. Il governo ha approvato un piano di installazione di
nuove barriere di sicurezza (guardrail) speciali in grado di attutire o
annullare danni ad auto e moto: entro il 2012 più di 1500 chilometri di guardrail saranno nuovi. La segnaletica verticale è stata resa più aggiornata con l’obiettivo di rendere i segnali più leggibili.
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Per rendere più sicure le gallerie (ed evitare tragedie come quella
nel tunnel di san Martino a Lecco: due morti asfissiati e decine di
feriti dopo un incidente stradale nel settembre del 2007), il ministero spagnolo ha pronti centoventi milioni di euro per costruire,
entro il 2014, gallerie di evacuazione, migliorare gli impianti di
ventilazione, di illuminazione e dei dispositivi antincendio. E i risultati non sono mancati: alla Dirección General de Tráfico mi fanno sapere che i morti per incidenti stradali sono dimezzati, dai
5800 del 1991 ai 3377 del 2005.
Le innovazioni introdotte a ripetizione nel sistema dei trasporti
sono molteplici e toccano tutti i settori, con punte di eccellenza nei
mezzi pubblici, ma certamente quello di cui gli spagnoli sono più
orgogliosi ha un nome breve e secco: Ave, che sta a indicare il treno
ad alta velocità.
Cinque minuti di ritardo. Rimborso assicurato
Nel cuore di Madrid, sotto il tetto di ferro e vetro in stile Art Nouveau della vecchia stazione ferroviaria di Atocha (fu costruita tra il
1888 e il 1892 sotto la direzione di Alberto del Palacio Elissague e
Gustave Eiffel, disegnatore della famosa Torre di Parigi), la gente sosta
su comode panchine. C’è chi sta aspettando un treno o un passeggero
e chi, più semplicemente, si gode in questa calda giornata d’estate la
bellezza e la frescura di uno splendido giardino tropicale: la temperatura all’interno è costantemente di ventiquattro gradi centigradi.
La memoria del terribile attentato dell’11 marzo 2004, che provocò 191 morti e 1841 feriti, sembra lontana. Gli occhi dei visitatori seguono le traiettorie degli uccelli dalle piume colorate e cercano
nelle ombre nere della vegetazione che nasconde pozze poco profonde di acqua corrente le tante piccole tartarughe. La loro lentezza dà
un ritmo più umano alla frenesia dei treni più veloci degli aerei, comodi, sicuri.
Dal terminal dei treni ad alta velocità in arrivo da Siviglia scende
Rafael Infante González, uno dei tanti pendolari che dalla città andalusa vanno a lavorare nella capitale spagnola con l’Ave (circa quindici corse al giorno, l’interno di Atocha è stato ridisegnato, nel
1992, proprio per ospitare questi treni).
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Da dieci anni la vita di Rafael ha preso questo ritmo: sveglia alle
5.45, partenza da Siviglia alle 6.30, arrivo a Madrid alle 9. «Mi fermo a dormire nella capitale solo due volte a settimana: in genere il
martedì e il mercoledì. Il resto lo passo nella mia città nativa, anche
perché il venerdì lavoro a casa. Grazie alla linea dell’alta velocità non
sono stato costretto ad abbandonare Siviglia per trasferirmi nella capitale» racconta Rafael, trentasette anni, marketing manager dell’azienda Gastromed. E assicura che in tutti questi dieci anni non ha
mai subito un solo minuto di ritardo: «È dal 1997 che prendo l’Ave
e non mi è mai capitato di arrivare tardi: quattrocentosettantuno
chilometri in due ore e mezzo spaccate». I treni Ave sono talmente
puntuali che le ferrovie spagnole, prime al mondo, assicurano sulle
tratte ad alte velocità il rimborso del 100 per cento del prezzo del
biglietto per ritardi superiori ai cinque minuti (sì, avete letto bene:
cinque minuti!).
«A voi italiani, alle prese con treni dalla puntualità incerta, sembrerà incredibile, ma è vero. È successo a mia sorella in un viaggio
da Siviglia a Madrid. Il treno ha fatto dieci minuti di ritardo e le
hanno rimborsato l’importo del biglietto di andata.»
Ma quanto costa fare il pendolare tra le due città così distanti? «Il
prezzo di sola andata è di 72,20 euro. Io spendo circa mille euro al
mese. Certo non è poco, ma se hai uno stipendio di tremilacinquecento euro al mese te lo puoi permettere. Io, pur di non rinunciare
alla qualità di vita che offre Siviglia, preferisco fare il pendolare!»
La linea tra Madrid e Siviglia è stata la prima rete spagnola ad adottare il sistema di alta velocità già in funzione in Giappone, Francia e
Germania. La costruzione di questo tratto Ave fu decisa nel 1988 dal
governo socialista di Felipe González. Il costo fu di ventisette milioni
di euro (la quarta parte finanziata dai fondi dell’Unione europea).
Dopo quattro anni di lavori la linea fu inaugurata nell’aprile 1992.
Gli ultimi tagli di nastro Zapatero li ha fatti (a opera completata, non
al varo di un progetto come si usa fare da noi, per esigenze televisive)
nel 2007 per la linea che collega Madrid a Valladolid a nord e Cordoba a Malaga a sud, e nel 2008 per la Madrid-Barcellona.
La Spagna, con le nuove inaugurazioni, al momento possiede sei
linee ad alta velocità:
1) Madrid-Siviglia (471 chilometri), dall’aprile 1992;
2) Madrid-Barcellona (630 chilometri in due ore e trentacinque
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minuti), inaugurata nel febbraio 2008. Nel 2012 sarà prolungata sino alla Francia;
3) Saragozza-Huesca (79,4 chilometri) inaugurata nel dicembre
2004;
4) Madrid-Toledo (74,5 chilometri) inaugurata a novembre
2005; i 75 chilometri che separano le due città vengono percorsi in
trenta minuti (prima erano ottanta) a una velocità di circa 270 chilometri all’ora;
5) Madrid-Valladolid (179,5 chilometri), che sarà prolungata sino ai paesi Baschi e alla Francia;
6) e infine Cordoba-Malaga (168,8 chilometri).
La rete Ave in Spagna attualmente raggiunge 1543 chilometri invece di 1621 chilometri previsti, perché i problemi in Catalogna
hanno impedito la prevista inaugurazione dei 78 chilometri tra Tarragona e Barcellona. A lavori ultimati, il percorso tra Madrid e la capitale catalana (625 chilometri) si percorrerà in centocinquanta minuti: il Velaro, il treno high-tech chiesto nel 2001 dagli spagnoli alla Siemens in sedici esemplari, farà concorrenza all’aereo. E dire che
nel 1879 la prima ferrovia elettrica in Germania raggiungeva i sette
chilometri orari.
L’obiettivo del nuovo Piano strategico di infrastrutture e trasporti
(in sigla, Pett) 2005-20, approvato dal governo Zapatero, è quello
di sostituire la vecchia rete a raggio con un sistema a forma di maglia che unisca tutti i capoluoghi di regione tramite autostrada o ferrovia. Per ottenere questo obiettivo la rete ad alta velocità dovrà passare dagli attuali 1543 chilometri a diecimila chilometri.
I treni per il turismo lento
Un occhio all’alta velocità e un altro alla lentezza: in stazione, simbolicamente evocato dalle tartarughe che incontri tra un treno superveloce e l’altro, uno sportello invita a bussare alla porta della
Fundación de los Ferrocarriles Españoles, in calle Santa Isabel 44. È
una fondazione costola della Renfe, la compagnia ferroviaria del
paese, che opera per raggiungere tre obiettivi: valorizzare il patrimonio ferroviario minore, ancora in esercizio, con tutte le sue potenzialità per il «turismo dolce»; rimettere in funzione alcune ferrovie
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da tempo soppresse ma che potrebbero svolgere ancora un utile servizio, specialmente nella prospettiva di una trasformazione in senso
ecologico della mobilità delle persone; trasformare le ferrovie dismesse in piste ciclo-pedonali. In quest’ultimo settore, che qui chiamano Vías verdes (in inglese, Greenways), la Spagna batte tutte le altre nazioni che hanno già pedalato in questo senso, incoraggiando
questa mobilità turistica ecosostenibile.
La «Vía verde del Plazaola», nella Navarra, ha ottenuto il premio
come miglior Greenway d’Europa nel 2008; la «Vía verde della
Sierra» ha ottenuto un premio d’eccellenza nello stesso concorso,
indetto dalla Associazione europea delle Greenways. La serie televisiva sulle Vías verdes, realizzata da Tve (rete televisiva pubblica spagnola), ha ottenuto per le sue dodici puntate uno degli ascolti più
alti nel settore dei documentari nel 2007. I due volumi delle Guide
delle Vías verdes sono alla quarta edizione dopo aver venduto quarantacinquemila copie. E la Fundación ha ottenuto il premio Habitat 2000, un importante riconoscimento delle Nazioni unite a favore di quei progetti che puntano al miglioramento della qualità
della vita.
Camminare lento, ferrovie dimenticate: in Italia conosco un
maestro nel settore, Albano Marcarini, creativo urbanista che avevo chiamato a raccontare (e a disegnare) i sentieri natura su «Airone». È lui a raccontarmi la formula delle Vías verdes: «Prendete
una ferrovia, che sia abbandonata da trenta-quarant’anni; accertatevi che non passino più treni; togliete con cura binari e traversine. A parte prendete le stazioni, svuotatele e metteci un ripieno di
caffé, piccoli ristori, ostelli e centri informazioni. Poi stendete sulla vecchia ferrovia una sfoglia leggera di terra battuta e lasciate
asciugare. Infine mettete assieme tutto, lasciate rassodare e servite
in bicicletta».
Ecco il nuovo piatto forte spagnolo: le Vías verdes. Un menu di
milleseicento chilometri di ferrovie dimenticate che sono state trasformate in splendide piste ciclabili per i bikers più accaniti o per le
famiglie in cerca di svago. C’è da perderci la testa o programmare
subito una vacanza su due ruote perché di Vías verdes ce ne sono in
tutta la Spagna e, insieme, formano una rete ciclabile unica nel suo
genere.
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Settemila chilometri di ferrovie dismesse
Tutto è cominciato una mattina d’estate nel 1993. A Madrid, negli
scaffali della sede della Renfe (la compagnia ferroviaria spagnola)
giacevano le pratiche relative alla disattivazione di ben novantotto
ferrovie per un totale di settemila chilometri. Cosa fare di questo
immenso patrimonio di terreni, impianti, strutture? Buttare via tutto? A Joaquín Jiménez e a Carmen Aycart Luengo, marito e moglie,
appassionati cicloturisti e funzionari della compagnia ferroviaria,
venne un’idea: proporre la cessione a titolo simbolico delle massicciate, coinvolgere i comuni e le associazioni nel loro recupero e nella trasformazione in piste ciclabili. La Fundación de los Ferrocarriles
Españoles, presso la quale i due erano impiegati, vide con favore
questa iniziativa e si costituì un piccolo ufficetto con un tavolo, due
sedie e un computer.
«Le prime riunioni con sindaci e associazioni locali furono entusiasmanti – parola di Joaquín – bastava riparlare della vecchia
ferrovia per riscoprire la memoria storica di intere regioni. In pochi mesi di lavoro con l’aiuto di volontari e associazioni si accumulò nel nostro ufficio, una incredibile mole di informazioni sullo stato di conservazione delle ex ferrovie e sulle possibili proposte
di utilizzo.»
Si identificarono subito le linee ferroviarie che si prestavano per
un’operazione di questo genere. Si trattava di un patrimonio storico
su cui nessuno, fino a poco tempo prima, avrebbe scommesso una
peseta: 954 stazioni, 501 tunnel e 1070 ponti o viadotti, quasi seimila chilometri di linea potenzialmente riciclabili.
Grazie a una non comune interazione fra enti diversi si entrò subito nella fase operativa. governo, regioni e province garantirono il
sostegno economico, le imprese ferroviarie la disponibilità gratuita
delle sedi e la Fundación il coordinamento del programma. I risultati non si sono fatti attendere. Alla fine del 2007 sono state aperte
sessantacinque Vías verdes, per un totale di milleseicento chilometri
e una spesa di circa settanta milioni di euro. Ognuna recupera un
tratto di ex ferrovia e viene mantenuta mediante un consorzio di gestione finanziato di anno in anno dalle amministrazioni locali. Il
coordinamento nazionale garantisce l’omogeneità degli interventi e
la promozione del marchio «Vías verdes». Alcune di queste vie sono
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addirittura diventate un business turistico, come la Vía della Sierra,
che ha spostato i sedentari turisti balneari delle spiagge dell’Andalusia a far birdwatching in bicicletta sulle rupi che contornano la vecchia ferrovia, il più grande sito di nidificazione dell’avvoltoio nella
penisola iberica.
«Con questa operazione» sintetizza Carmen Aycart Luengo, coordinatrice del programma, «abbiamo ottenuto tre importanti traguardi: incoraggiare la mobilità sostenibile; incentivare nuove forme
di turismo “dolce”; riabilitare la memoria e il patrimonio ferroviario
storico.» (Per saperne di più: www.viasverdes.com.)
In Italia
E da noi? Ogni tanto vado sul sito internet di Report, la trasmissione
di punta del giornalismo d’inchiesta ideata e condotta da Milena
Gabanelli, per vedere le puntate che avevo perso o semplicemente
per riguardare alcuni stralci di quelle che avevo già visto. Per esempio, in una puntata avevano parlato delle opere pubbliche, affrontando l’argomento del costo al chilometro dell’alta velocità ferroviaria. La puntata si intitolava Lavori Sfiniti, a firma di Stefania Rimini. Si parlava dei costi dell’alta velocità italiana e si confrontavano
tali costi con quelli spagnoli. Sono cifre che lasciano sgomenti.
Antonio Berrios Villalba – Direttore delle ferrovie spagnole: Includendo
le opere di infrastruttura, di sovrastruttura, i binari, le attrezzature
varie, le stazioni, gli espropri, i costi di progettazione e di esecuzione,
il costo medio è tra i dieci e i dodici milioni di euro al chilometro.
Stefania Rimini: In Italia sono trentasette milioni di euro al chilometro. Da voi costa meno fare l’alta velocità perché ci sono meno
viadotti e meno gallerie rispetto all’Italia?
Antonio Berrios Villalba: Mediamente le nostre linee ad alta velocità
viaggiano per un 10 o 15 per cento in tunnel o su viadotto, dopodiché, ci sono alcune linee che viaggiano per un 40 per cento in tunnel, come la tratta Madrid-Valladolid.
Stefania Rimini: Da noi c’è più del doppio di viadotti e gallerie e per
consumare meno territorio le nostre linee viaggiano il più possibile af-
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fiancate all’autostrada per cui bisogna adeguare tutti i cavalcavia e i
costi aumentano. Ovviamente gli enti locali ne hanno approfittato
per farsi rifare tutte le strade che potevano per cui un quarto delle spese se ne vanno in opere che non hanno niente a che fare con l’alta velocità. In più abbiamo optato per il progetto più costoso perché sulle
linee veloci ci devono anche poter viaggiare i treni merci. Abbiamo
capito che in Spagna si sono fatti due conti e hanno deciso per il progetto più rapido e meno costoso, ma i preventivi poi li rispettano?
Antonio Berrios Villalba: Fino a oggi stiamo registrando aumenti del
5 o 10 per cento rispetto al preventivo.
Stefania Rimini: Da noi invece la spesa per la linea Torino-Napoli è
esplosa da 5700 milioni di euro a oltre ventitremila milioni di euro. Non sarà invece che da noi ci hanno marciato perché non si sono fatte le gare?
Antonio Di Pietro – Ex ministro delle Infrastrutture: Se le avessimo
messe in gara avremmo potuto risparmiare molto ma molto di più,
per esempio l’unica opera messa in gara, precisamente a Bologna,
abbiamo avuto un ribasso d’asta di oltre il 50 per cento.
Stefania Rimini: Mentre noi paghiamo l’alta velocità quattro volte
quello che doveva costare all’inizio, gli spagnoli se la sono fatta in
parte anche con i soldi nostri.
Enrique De Aldama y Miñón – Presidente Seopan, costruttori esportatori spagnoli: Il sistema di finanziamento fino a oggi è stato costituito per il 25 per cento da fondi europei.
Alti costi e ritardi cronici
In rete si trovano altri documenti interessanti. Uno è sul sito internet dell’Associazione pendolari dell’Acquese e in particolare il documento di riepilogo delle inchieste de «La Stampa» sulla nostra
Tav. A pagina uno troviamo scritto, sotto il titolo «Cifre sconcertanti».
«Da noi tarda l’arrivo della supercostosa alta velocità, ma ritardano ancora i treni di ogni genere. Per usare il parametro spagno-
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lo della tolleranza (che è anche il parametro europeo, universalmente riconosciuto, dei cinque minuti), Legambiente ha fatto delle rilevazioni dal 21 al 25 gennaio 2008 in quattordici città italiane. Un terzo dei treni dei pendolari è risultato in sistematico ritardo, un fenomeno che va oltre il 50 per cento al Sud (Napoli, Palermo: in generale è la Sicilia a presentare i maggior problemi) e
che regredisce al 25 per cento a Roma. E comunque l’andazzo, anche a Milano (39 per cento), Torino e Bologna (31 per cento) non
è esaltante.
«Le Ferrovie dello Stato tengono a sottolineare che i ritardi sono diminuiti negli ultimi anni, ma di nuovo, a guardare nelle carte, ci si accorge del ventre molle della strategia italiana (qui come in altri campi): a differenza che in Spagna, si fanno progetti, si stanziano i soldi
che risultano sempre pochi per via di continui, successivi ritocchi in
alto, poi tutto si blocca. Perché sia Legambiente sia le Ferrovie dello
Stato concordano che la soluzione per avere treni in orario sta nell’aumento dei convogli e/o nell’ammodernamento della flotta tramite
l’introduzione di convogli più efficienti e capaci. Giusto.
«Tanto che il piano industriale di Ferrovie (2007-11) prevede il
faraonico investimento di 6,4 miliardi di euro sui treni per i pendolari. Lo Stato – azionista della compagnia – ha pienamente condiviso questa linea, al punto che nella primavera 2007 il governo
aveva annunciato, con dispiego di grancassa, che mille nuovi treni
per pendolari sarebbero stati acquistati. Il Dpef redatto nel giugno
successivo tramutava questo annuncio in una cifra: 1,5 miliardi in
Finanziaria per passare dalle parole ai fatti. Ma, strada facendo, la
coperta è diventata corta e i mille treni in Finanziaria non sono
mai arrivati.»
E le ferrovie dimenticate d’Italia?
Il mio pensiero corre sulla linea Foggia-Bari, alle stazioni dai nomi
poetici della mia infanzia nel Tavoliere pugliese, oggi abbandonate o
meglio «impresenziate», come dicono con falso pudore le Ferrovie:
Candida e, soprattutto, Ofantino, da dove una littorina portava sulla spiaggia e alle terme di una regina delle località balneari dell’Adriatico, Margherita di Savoia. Edifici e impianti efficienti fino a
pochi anni fa, immersi tra masserie in parte abbandonate e distese
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di vigneti a tendoni, campi di frutta e carciofi, circondati da radi
boschetti. Un giorno qualcuno ha deciso che quelle stanze non servivano più. Senza essere visto, l’ultimo capostazione ha chiuso a
chiave le porte degli edifici e se n’è andato.
Tutto è fermo, immobile, come era dopo la chiusura a chiave della stazione.
I giovani d’oggi non usano più nemmeno andarci per il giorno di
Pasquetta, che era (ed è ancora) il sinonimo di villeggiatura. Mi dicono che ogni tanto ospita ancora gente in viaggio: qualche extracomunitario trova riparo per una sosta nel suo difficile cammino.
Anche da noi, finalmente, si parla da anni di recuperare vecchie
ferrovie e trasformarle in piste ciclabili. Le realizzazioni sono però
ancora scarse e, soprattutto, non esiste un coordinamento che, come in Spagna, possa portare a una rete organica e funzionale. In Italia ammonta a 5700 chilometri il patrimonio di vecchie ferrovie abbandonate e singolarmente aumenta ancora oggi con la costruzione
di nuove varianti di tracciato. Ce ne sono in ogni parte d’Italia, più
al Sud che al Nord. «Basterebbe poco, visto che le sedi, spesso, sono
ancora di uso pubblico», dice Marcarini (presidente della Confederazione per la mobilità dolce, www.ferroviedimenticate.it). «Fra i
progetti in cantiere due sarebbero eccezionali, se venissero realizzati:
il riuso della ex ferrovia del Ponente Ligure, da Albenga a Ventimiglia; e il recupero della ex ferrovia Pontebbana, da Tarvisio a Carnia.
Quest’ultimo progetto, che sembra ormai in via di attuazione, prevede una pista ciclabile di oltre ottanta chilometri, per gran parte in
galleria o su vertiginosi viadotti. Insomma, una specie di ottovolante che porterebbe i turisti su due ruote dalla rete ciclabile della Carinzia direttamente sulle spiagge di Grado.
«In Italia c’è una grande potenzialità. Le ferrovie in disuso potrebbero diventare “strade verdi” per pedoni, ciclisti, cavalieri, bambini, anziani disabili, mettendoli al sicuro dal traffico motorizzato».
Una rete di questo tipo potrebbe unire i parchi nazionali, potrebbe collegare città a città, potrebbe valorizzare il paesaggio e mantenere viva la memoria storica di tanti piccoli territori e incentivare il
turismo. Ma da noi c’è poca volontà rispetto agli iberici, e soprattutto ci stiamo muovendo solo da poco. La legge Finanziaria per il
2008 ha previsto un fondo di due milioni di euro per favorire il recupero e la trasformazione di una decina di ex ferrovie dalla Lom-
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bardia alla Sicilia e al Senato è stata presentato un disegno di legge
della senatrice Anna Donati, con gli stessi obiettivi.
Biciclette e tricicli a noleggio
Il muscolo potente dei trasporti si conferma anche in altri settori,
dall’ampliamento dell’aeroporto di Barajas (dopo l’inaugurazione
del nuovo terminal 4, avvenuta nel 2006, lo scalo madrileno è entrato a far parte delle strutture più importanti d’Europa e il principale punto di collegamento tra il nostro continente e il Sud America) ai duecentoventotto chilometri, contro i soli settantaquattro di
Milano e trentasei di Roma, di metropolitana madrilena: di gran
lunga scelta da me come mezzo preferito, data la frequenza, per gli
spostamenti in città e per le visite ad Aurelio, Sonia e agli ospitali
colleghi del quotidiano «El Mundo».
E il vento dell’ammodernamento è soffiato anche lontano da Madrid.
Per rimanere nel campo dei trasporti urbani, meritano una citazione le iniziative per vivere in maniera più dolce, da parte dei locali e dei turisti. La città di Barcellona, che dopo i giochi olimpici del
1992 s’è fatta bella ed è tornata a essere il più attraente polo d’attrazione dei giovani da tutta l’Europa del Sud (specie per i giovani italiani: la mia collega e amica Francesca Serva ha fondato, due anni
fa, insieme a un altro giornalista, Marco Bozzer, una rivista per gli
italiani di Barcellona «.it magazine», www.puntoitmagazine.com).
Le realizzazioni più recenti hanno nomi esotici per i locali: Bicing e Trixi. Il primo è il sistema lanciato dalle autorità comunali,
investendo i soldi delle multe e dei parcheggi, per ridurre l’inquinamento e sfoltire il congestionamento del traffico: il bici sharing
(www.bicing.com). Chi fa spostamenti quotidiani di meno di
trenta minuti può usufruire di questo comodissimo mezzo di trasporto che costa soltanto ventiquattro euro l’anno. In tutta la città
catalana hanno installato duecento stazioni-parcheggio per un totale di tremila biciclette. Da quando è entrato in funzione, dal
marzo 2007, Bicing conta già più di centomila abbonati e sta diventando il mezzo di trasporto favorito per andare al lavoro o per
uscire.
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Il servizio è totalmente automatico: basta andare a un parcheggio
Bicing, far passare la propria scheda al lettore ottico e aspettare che
sullo schermo compaia il numero di bicicletta che si può prendere.
Una volta arrivati a destinazione basta recarsi alla più vicina stazione
Bicing e incastrare la bicicletta in una postazione libera (come da
noi con i carrelli della spesa nei supermercati). Se si superano i primi trenta minuti si paga un plus di trenta centesimi per i trenta minuti successivi (fino a un massimo di due ore). Bicing funziona dalle 5 del mattino alle 24 (il venerdì e sabato 24 ore su 24).
Barcellona è stata anche la prima città del Mediterraneo ad attivare
un mezzo di trasporto alternativo già sperimentato in Europa a Londra, Copenhagen, Amsterdam e in alcune città tedesche (eh sì, gli amministratori catalani sanno applicare la teoria della buona emulazione). Si chiama Trixi, sono veri e propri taxi a forma di triciclo. Totalmente ecologici e silenziosi (un motore elettrico aiuta l’autista a pedalare), possono trasportare due persone oltre all’autista. Mezzo di trasporto ideale per i turisti che senza stress vanno a passeggio per la città.
Funzionano dalle 11 alle 20 e le tariffe vanno da un minimo di sei euro per un quarto d’ora a un massimo di diciotto per un’ora.
Il traffico è sempre stato in Spagna tra i primi problemi che la
classe politica ha tenuto in massima considerazoione.
Con l’aiuto di tecnologie nuove e sempre più amiche, Barcellona
ha ottimizzato il controllo del traffico. Per esempio, sulla Diagonal,
la strada che, come dice il nome stesso, attraversa l’intera città in
diagonale, si utilizza la strategia delle corsie dinamiche, quelle in
grado di poter essere occupate dal senso di marcia di maggior traffico, utilizzate anche a Madrid, come abbiamo visto. I semafori sono
sincronizzati per una velocità oraria pari a cinquanta chilometri: rispettando questa andatura è possibile trovare un numero di semafori verdi quasi all’infinito. Sensori magnetici posti sotto l’asfalto rilevano le corsie che hanno maggiore bisogno del segnale verde, limitando le soste inutili quando nelle corsie opposte non passa nessuno. In più, collegandoti via internet, hai in tempo reale la situazione
del traffico urbano offerto da una serie di telecamere piazzate nelle
strade chiave, e scopri dove sono i parcheggi disponibili.
Una testimone d’eccezione è l’attrice Vanessa Incontrada. È nata
a Barcellona da madre spagnola e da padre italiano, lavora a Milano,
vive in Maremma e sceglie l’Italia: «Perché in Italia ho trovato la mia
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vita, ma le differenze le noto ogni volta che arrivo da Barcellona e il
paragone con Milano, la città che conosco meglio, è impietoso. In
Spagna c’è un nuovo senso civico che prima mancava e che in Italia
è completamente assente».
Guardiamo al futuro: ampliamento della metropolitana, nuove
corsie dinamiche e preferenziali e diffusione dei servizi di car sharing,
ma anche riduzione della velocità massima delle auto a ottanta chilometri orari sulle tangenziali e strade urbane di grande scorrimento. Lo
prevede il piano d’azione per ridurre l’inquinamento nell’area di Barcellona. La sola diminuzione della velocità da centoventi a ottanta
chilometri all’ora ridurrebbe le emissioni di biossido di azoto di una
percentuale che oscilla tra il 27 e il 50 per cento.
Mi dicono che l’uomo che ha trasformato, pur se con qualche inevitabile contraccolpo, questa città da seconda di Spagna a motore
d’Europa è l’ex sindaco di Barcellona olimpica poi presidente della
comunità autonoma della Catalogna, Pascual Maragall. Lo cerchereste invano in uno dei palazzi del potere. L’ha raggiunto in un ospedale, invece, l’inviata del quotidiano «la Repubblica», Concita De Gregorio e ha raccolto la sua confessione, il suo dramma: «Sono malato,
mi hanno scoperto l’Alzheimer. Perderò la memoria, ma al contrario
di milioni di persone sarò un malato di lusso. Sono stato sindaco per
tutti questi anni, sono stato poi presidente, tutti mi riconoscono, per
strada. Quando mi perderò per i vicoli, ci sarà sempre qualcuno a riportarmi a casa. E comunque abbiamo fatto le Olimpiadi, abbiamo
fatto lo Statuto. Ora ce la vediamo con l’Alzheimer. Ce la faremo».
«I giornalisti piangono, una scena mai vista» scrive Concita. I
giornali del mattino successivo salutano il battagliero Maragall come un eroe, gli avversari politici si tolgono il cappello. «Da oggi mi
metto a sua disposizione» fa sapere Duran y Lleida, democristiano
di destra, leader di Unió.
Ritorno in Italia
Lascio la Spagna moderna che ha accantonato il passato per concentrarsi sul futuro e torno nell’Italia afflitta da localismi e campanilismi. Sono invitato all’assemblea annuale degli albergatori della Romagna. Più di trent’anni di frequentazione di quella riviera mi han-
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no fatto diventare uno di lì. Scelgo di viaggiare in treno: sono rimasto scottato più volte dagli imbottigliamenti nei due punti critici di
Bologna (con il «passante» di Mestre, l’autostrada del Sole all’altezza
di Firenze e con Savona sono i nodi che bloccano l’Italia negli esodi
d’estate, e non solo d’estate): a Borgo Panigale, dove l’A1 (tutto il
traffico che proviene da nord) si innesta nella A14 per Rimini, Ancona e l’Adriatico; e a San Lazzaro, a sud di Bologna, che deve sopportare il contemporaneo innesto della A13, con auto provenienti
da Ferrara e Venezia. In attesa della «soluzione spagnola» (la terza
corsia dinamica, i lavori sono già partiti), il treno è una soluzione
ancora vincente. O meglio: dovrebbe esserlo.
Il treno che prendo il venerdì sera da Milano per Bologna e Cesena ha soltanto la seconda classe. I bagni pubblici a Cesena a mezzanotte sono illuminati ma non fruibili: chiudono alle 19. Al ritorno,
per cambiare il biglietto elettronico e fare una piccola deviazione, la
mattina successiva, non trovi la biglietteria Trenitalia sulla tratta tra
Rimini e Ravenna, cioè nel bacino turistico più importante al mondo dopo Miami: una tratta che, e se ne parla da almeno un decennio, dovrebbe diventare una metropolitana veloce a cielo aperto, tra
la capitale del divertimento e una capitale della cultura...
E poi ci meravigliamo se l’Italia perde colpi nel turismo. Con le
infrastrutture antiquate che li circondano gli albergatori romagnoli
fanno miracoli per i buoni risultati che portano a casa. Ma certamente hanno dovuto piegare la testa davanti alla cavalcata dell’economia del turismo francese, che ormai da anni è leader nel mondo.
Come hanno fatto, è argomento della prossima tappa.
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Per saperne di più
Anno di adesione all’Unione europea: 1986
Sistema politico: monarchia costituzionale
Capitale: Madrid
Superficie: 504.782 km2
Popolazione: 40,7 milioni
Capo dello Stato: re Juan Carlos
Capo del governo: José Luis Rodríguez Zapatero
Tasso di nascita: 9,98 nati ogni 1000 abitanti
Mortalità infantile: 4,31 morti ogni 1000 nascite
Età media: 40,3 anni
Aspettativa di vita: 79,78 anni
Tasso di disoccupazione: 7,6 per cento
Il modello politico
Con la Costituzione del 1978 la Spagna si è dotata di un sistema fortemente
decentralizzato con diciotto regioni autonome – dette Comunità – a cui è riconosciuto l’autogoverno negli affari locali. Le Comunità eleggono propri parlamenti che, a loro volta, nominano i governi locali. Il territorio nazionale
comprende anche le isole Canarie nell’Oceano Atlantico e le città di Ceuta e
Melilla, enclavi in territorio marocchino.
La Spagna è una monarchia costituzionale ereditaria, il re è il capo dello Stato.
Il potere legislativo è esercitato dalle Cortes (Camera dei deputati, 350 membri eletti con sistema proporzionale, e il Senato, 256 membri, dei quali 48 rappresentanti regionali).
Le elezioni del 14 marzo 2004 hanno sancito la sconfitta del Partito popolare
(Pp) di Aznar, al governo da due legislature, e la vittoria del Partito socialista
spagnolo (Psoe), guidato da José Luis Rodríguez Zapatero, che ha guadagnato
il 42,64 per cento dei voti e 164 seggi. L’economia spagnola è da tempo tra le
più dinamiche nell’Unione europea, con un tasso di crescita positivo ormai da
dodici anni.
La politica dei trasporti
La torta: su strada 67,7 per cento; su ferrovia 29,9 per cento; per aereo (voli
interni) 2 per cento; via mare 0,5 per cento.
Autostrade: la rete autostradale spagnola dal 1970 a oggi è aumentata di venticinque volte. Ogni spagnolo dispone statisticamente di 240 metri, contro i
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110 degli italiani. Il ministero de Fomento investirà 15,5 milioni di euro entro
il 2012 per la manutenzione e l’ulteriore ammodernamento della rete autostradale, con nuove barriere di sicurezza e segnaletica più aggiornata e più leggibile. E per rendere più sicure le gallerie, stanziati centoventi milioni di euro per
costruire, entro il 2014, gallerie di evacuazione, migliori impianti di ventilazione, di illuminazione, antincendio.
Treni: chilometri di rete per ogni milione di abitanti: Spagna 311, Italia 279.
Entro il 2010, assicura il premier Zapatero, la Spagna sarà il paese con più chilometri di ferrovia ad alta velocità del mondo.
Metro: a Madrid si contano oltre 177 chilometri di binari (a Milano, che pure
eccelle, sono 70) sui quali sfrecciano di continuo, tranne quattro ore di pausa
notturna, le 1277 vetture che collegano 158 stazioni (servite da 975 scale mobili e 141 ascensori) di 12 linee che coprono tutta l’area urbana e alcuni punti di
quella metropolitana, compreso l’aeroporto di Barajas distante 13 chilometri.
Taxi: con la liberalizzazione del mercato, dal 2003, a Barcellona ci sono dieci
taxi ogni mille abitanti, contro i due di Roma e l’1,5 di Milano. Al mondo solo Washington ne ha di più: dodici ogni mille abitanti: per gli utenti italiani,
sfiancati da auto bianche rare e costose, Barcellona è il paradiso dei taxi. I dodicimila tassisti della città si aggiornano sul futuro della professione con la Fiera del Taxi: nuove tecnologie per monitorare il traffico, evitare gli ingorghi,
portare i clienti a destinazione in fretta per soddisfarli il più possibile e, al contempo, fare più corse.
Aeroporti: quelli di Barcellona e Madrid hanno avuto il maggior incremento
di viaggiatori di tutt’Europa nel 2006. Il primo +10,9 per cento (27 milioni di
passeggeri), il secondo +9,4 per cento (41,7 milioni). La graduatoria degli incrementi in percentuale, elaborata da Eurostat, vede al terzo posto Monaco di
Baviera (+6,9 per cento), Parigi Charles De Gaulle (+4,8 per cento), Londra
Gatwich (+4,1 per cento), Amsterdam Schipol (+3,9 per cento), Parigi Orly
(+3,3 per cento), Roma Fiumicino (+2,3 per cento), Francoforte (+2,1 per
cento).
Le pagelle Spagna-Italia
Il sorpasso della Spagna sull’Italia è una realtà nel voto espresso da cittadini dei
due paesi alle città in cui vivono. In una scala da 1 a 10, ecco la media dei voti
espressi dai cittadini in un’indagine di Altroconsumo: prendendo in considerazione solo la voce «mobilità e trasporti», voto della Spagna 5,1, per l’Italia 4,7.
Per la viabilità cittadina: Madrid batte Roma, Barcellona batte Milano, Siviglia
vince su Napoli.
Nella speciale classifica riguardante l’accessibilità e il numero di mezzi pubbli-
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I trasporti record della Spagna
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ci, indossiamo una disonorevole maglia nera. Solo sessantanove italiani su cento considerano i trasporti statali un sistema di facile accesso, contro i novantacinque della Grecia e gli ottantanove della Spagna (fonte Eurobarometro).
E in Italia...
Ritardi nei treni. Un terzo dei convogli che trasportano un milione e seicentomila pendolari italiani (dal 2001 sono cresciuti del 35,8 per cento, fonte Censis) è in sistematico ritardo, un fenomeno che va oltre il 50 per cento al Sud
(Napoli, Palermo) e che regredisce al 25 per cento a Roma. E comunque l’andazzo, anche a Milano (39 per cento), Torino e Bologna (31 per cento) non è
esaltante (dati da Pendolaria 2008, realizzato da Legambiente).
Ritardi nei lavori per l’alta velocità. Dopo quindici anni, a dicembre 2007
realizzati 564 chilometri e 647 ancora da inaugurare. I costi sono raddoppiati: sono passati dai 10,7 miliardi di euro del 1992 ai 32 di oggi. Con una media di 32 milioni di euro a chilometro per la rete realizzata e di 45 per quella
da costruire. In Francia la media è di 10 e 13 milioni a chilometro; in Spagna
di 9 e 15.
280 milioni di euro: è costata alle Ferrovie dello Stato la bonifica integrale dalle cimici di più di cinquecento vagoni.
Il programma Eurotap 2007 (European Tunnel Assessment Programme), che
verifica ogni anno le condizioni di sicurezza di alcuni tunnel stradali e autostradali d’Europa, ha assegnato all’Italia la maglia nera. Nella classifica stilata
dagli ispettori internazionali, tre delle ultime quattro posizioni sono occupate
da strutture italiane: il tunnel di Colle del Capretto sulla E45, Paci 2 e Serra
Rotonda sulla Salerno-Reggio Calabria.
Link utili
Portale nazionale della pubblica amministrazione: il sito internet ufficiale del
governo spagnolo www.la-moncloa.es fornisce una descrizione particolareggiata del sistema politico spagnolo, illustra il ruolo di tutte le istituzioni nazionali
e l’organizzazione territoriale.
Il sito internet ufficiale dell’Ente per il turismo spagnolo www.turismospagnolo.it fornisce numerose informazioni per chi viaggia in Spagna. Tra le rubriche
speciali del sito si segnala «Travelogue», un servizio interattivo che consente
agli utenti di creare una propria guida turistica personalizzata.
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La cultura dell’ospitalità
La formula vincente l’aveva indicata il filosofo Jacques Derrida: «Un
paese vincente è quello che coniuga la cultura dell’ospitalità con una
buona politica».1
Applicando il concetto di ospitalità nel senso più ampio i nostri
vicini ci hanno da tempo strappato un primato: la Francia è ormai
stabilmente, dal 1990, prima potenza turistica mondiale (con settantanove milioni di turisti nel 2006). Titolo che nel 1970 spettava
all’Italia. Sì, eravamo il paese più visitato al mondo. Oggi siamo al
quinto posto, surclassati dai cugini d’Oltralpe, protagonisti di una
nuova rivoluzione basata sulle parole d’ordine di libertà d’impresa,
rispetto delle leggi e arte dell’ospitalità. Un fenomeno da osservare
con attenzione da parte nostra, che viviamo in una nazione che punta, giustamente, a ridiventare una superpotenza turistica.
Ma il percorso sarà lungo e difficile: perché, di fronte a una Francia solida e dinamica, il nostro paese (pur avendo nel turismo l’industria più redditizia e con più dipendenti: vale il 12 per cento del
Pil, sta sopra la chimica, la farmaceutica, l’alimentare, vi operano
trecentomila imprese con 2,5 milioni di occupati) è in una situazione rabberciata. Il Touring Club Italiano (centoquattordici anni di
vita, oltre quattrocentomila soci) ci ricorda che la ristrutturazione
del disastrato Enit (Ente nazionale italiano turismo) si è già impegolata nei ricorsi di alcune regioni alla Corte costituzionale; che il nuovo, costoso portale italia.it è stato chiuso ancor prima di aprire, do1
In «Le Monde», 2 dicembre 1997.
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po due anni di nulla costati sette milioni di euro (anche per i non
addetti ai lavori è facile intuire la potenza metaforica dell’evento,
non è solo il portale di internet, è l’immagine del Belpaese che sparisce dalla vetrina visitata ogni giorno dai turisti digitali del mondo
intero); che l’Associazione mondiale delle imprese turistiche ha declassato l’Italia al centosettantatreesimo posto (su centosettantasei
paesi!) per le prospettive di crescita nel settore.
Francia e Italia
Se provate a chiedere il collegamento internet in una camera di
qualsiasi albergo italiano, la risposta sarà quasi sicuramente negativa. Un manager asiatico ha scritto al quotidiano «La Stampa» che
nel corso di un viaggio in Italia non ha mai trovato, pur facendo
tappa in hotel di qualità, una connessione a internet. Il particolare è
confermato da un dato dell’Isnart (Istituto nazionale ricerche turistiche): solo una stanza d’albergo su cinque è collegata alla rete. Anche questo è un segnale della nostra mancanza di ospitalità.
Cosa imparare dai nostri vicini in questo settore, decisivo per il
futuro dell’economia del Belpaese, è un compito che affidiamo a un
«turista speciale», un italiano doc che da quindici anni privilegia la
Francia per ritemprarsi dalle fatiche di un anno di lavoro al suo osservatorio sul pianeta turismo, ma anche per scrutare i segreti dei
nostri confinanti: Guido Venturini, mantovano, cinquantanove anni, bocconiano con studi in America, dal 2002 direttore generale
del Touring dopo una brillante carriera di direttore in Benetton e
Federchimica. L’abbiamo raggiunto nell’agosto 2007 a Belle Île, una
isoletta bretone, perla della costa atlantica di fronte alla penisola di
Quiberon, valorizzata anni fa dall’intuizione di un popolare campione di ciclismo degli anni Cinquanta, Luison Bobet: mettere i vip
a dieta e curarli con acqua di mare.
Qual è la caratteristica della vita nel nostro Ventunesimo secolo?
Il viaggio. Mai come oggi il viaggio è elemento fondamentale della
nostra esistenza. Non tanto più solo la vacanza, attenzione, ma il
viaggio che diventa vacanza, perché si ripete più volte, per periodi
più corti e più frequenti (il presidente degli albergatori di Cervia
Milano Marittima, Terenzio Medri, parla di una permanenza media
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nel 2007 di così pochi giorni che basta una mano per contarli).
«Qui in Francia – spiega Venturini – hanno coniato il termine di
viaggiatori furetti, cioè ad alto tasso di mobilità e curiosità, per distinguerli dai turisti lucertola che caratterizzavano la villeggiatura
degli anni Settanta, quando le industrie si fermavano insieme con le
scuole per oltre un mese di vacanze estive. Oggi il sistema produttivo, il vivere moderno mettono in moto meccanismi che coinvolgono l’intero anno. Per questo chi ha a cuore le sorti della nostra economia del turismo deve guardare con favore alla proposta dell’ex
ministro Francesco Rutelli di rivedere i periodi delle vacanze scolastiche. Occorre adeguare l’Italia agli altri paesi, e passare dalle parole
ai fatti. Loro, i francesi, hanno avuto e hanno questa grande capacità: riuscire a proporre un’offerta più ricca e differenziata (dai lussuosi centoquarantuno Relais Chateaux alla più modesta ma sempre
efficiente soluzione dei tremila Logis, alberghetti dal volto umano e
a prezzi sempre trasparenti), un’offerta “globale” che cattura turisti
furetti quasi tutto l’anno.
«Vengono sedotti da Parigi e dintorni, nei dodici mesi, ben 7,6
milioni di italiani, sicché la Francia rimane la nostra prima destinazione estera. E così affiora uno dei tanti paradossi del confronto tra
noi e loro. L’Italia conta centotrentamila strutture ricettive (la maggior parte delle quali a proprietà familiare) ed è leader europeo dell’offerta, con un numero di camere d’albergo (novecentottantasettemila) nettamente superiore a quello della Francia (seicentotremila),
ma il tasso di utilizzo degli hotel è da noi al 38 per cento, contro il
60 per cento della Francia.»
«A questi dati – prosegue il direttore del Tci – aggiungiamo quelli dei trasporti per arrivare negli hotel: la rete autostradale tra il 1970
e i giorni nostri in Italia è aumentata del 65 per cento, mentre in
Francia è cresciuta di 5,5 volte e in Spagna di 25 volte. Incrementi
ci sono stati anche sul fronte del trasporto aereo e urbano Lo stesso
scenario di crescita si presenta per la rete ferroviaria: ai già superveloci Tgv, i gioielli delle ferrovie francesi entrati in servizio per la prima volta nel 1981, subentreranno nel 2011 i treni Agv, veri e propri
“razzi sulle rotaie” per via dei trecentosessanta chilometri orari in
esercizio, che permetteranno di coprire i quattrocentosei chilometri
da Parigi a Strasburgo in poco più di un’ora a una manciata di euro.
«È la Ferrari dei binari, il treno dei record (di velocità, leggerezza,
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risparmio energetico e innovazione) che vedremo presto anche in
Italia perché la Ntv (Nuovo trasporto viaggiatori), la prima compagnia privata creata dal presidente della Confindustria Luca di Montezemolo (fra i maggiori azionisti Diego Della Valle e Banca IntesaSanpaolo) ha infatti ordinato venticinque convogli, oltre a un’opzione su undici, con un investimento di seicentocinquanta milioni
di euro. Le prime tratte italiane su cui viaggerà l’Agv sono proprio
quelle del turisdotto nazionale: Torino-Milano, Milano-Napoli, Roma-Venezia e Roma-Bari. Con la speranza che quando arriveranno i
treni superveloci sia adeguata anche la rete dei binari.
«Quindi, alberghi usati per un terzo delle loro potenzialità, mediamente più cari e più difficili da raggiungere: così abbiamo già
una prima risposta al divario che ci vede perdenti.»
I primati della Francia
Con gli occhi di Venturini e i dati più recenti del Touring, proviamo
a viaggiare nelle tappe più gettonate della Francia leader, srotolando
geografia e storia, turismo ed economia.
Prima tappa: la Bretagna. «Vengo in questa isola atlantica da
quindici anni perché, insieme a una variegata tavolozza di paesaggi
disegnati su ottantaquattro chilometri quadrati, trovo uno dei migliori centri d’Europa per le cure termali fatte con le acque del mare. Noi italiani siamo stati i primi al mondo nel turismo termale: risale agli antichi Romani la formula Spa, ovvero Salus per aquam. Le
antiche terme non si limitavano ad avere una funzione meramente
curativa, ma offrivano anche un carattere ricreativo. Ebbene, in
Francia sono riusciti a trasformare questa attrazione in un’attività
che tutto l’anno si muove e gratifica ed è diventato un prodotto turistico sempre godibile. Da noi, invece, le domeniche e l’inverno è
regola trovare chiusi gran parte degli stabilimenti, tranne rare eccezioni [lo scorso anno ha aperto d’inverno lo stabilimento termale di
Cervia-Milano Marittima, in Romagna, N.d.A.]. Così la felice intuizione del “mare da vivere d’inverno” è difficile che faccia aumentare i pernottamenti.»
Seconda tappa: dalla Camargue alla Loira. In questi tratti di Francia la navigazione di fiumi e canali è diventata il principale affare tu-
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ristico. Sono più di trecento le società che gestiscono il business dell’acqua dolce.
Tutta l’Europa si è mossa in questa direzione. Già oggi esistono
venticinquemila chilometri di idrovie. In Inghilterra è stata restaurata la rete dei canali per facilitare il transito dei battelli. In Germania
su Reno, Danubio ed Elba viaggiano ogni anno cinquecentomila visitatori. Ma parliamo della Loira, che con i suoi mille chilometri è il
fiume più lungo della Francia. Le sue acque, sulle quali si posarono
gli ultimi sguardi di Leonardo da Vinci, sono navigabili da sempre, e
offrono uno spettacolo di natura e arte con la presenza di ben seicento castelli (i nostri «cugini» hanno capito che con la storia si fanno
affari). «Dei 652 chilometri del Po, invece, solo una parte è navigabile. La parola d’ordine dovrebbe essere: estendere la rete. Ma andare
da Milano a Venezia via fiume resta un sogno. E in Lombardia i navigli leonardeschi sono da mezzo secolo quasi tutti chiusi alla navigazione. Sono stati costruiti ponti raso acqua che impediscono il passaggio delle barche. La regione Lombardia ci ha coinvolti da poco in
un bel progetto di riqualificazione dei navigli: Milano era una città
d’acqua meravigliosamente raccontata prima da Petrarca e secoli dopo dai grandi dell’Ottocento. I navigli sono una rete viva ancor oggi.
Ripristinare la navigabilità e riqualificare il patrimonio delle case, ville e borghi sulle sponde potrebbe non solo consentire alle giovani
coppie di avere case ad affitti o a prezzi d’acquisto accettabili, ma anche far nascere un’offerta alberghiera piacevole e a minor prezzo che
in città.»
Terza tappa: Costa Azzurra e Provenza. «Un altro esempio arriva
da queste terre dove si ricostruiscono, con suggestivi sentieri, i passi
dei poeti e degli artisti (da Marc Chagall a Henri Matisse), che qui
trovarono le migliori stagioni di creatività. Molte classi di studenti
adottano un monumento e lo innaffiano della loro attenzione. Qui
il punto dove è nato un personaggio storico, o è avvenuto un incontro ricordato nei libri, diventa il centro del borgo, come raccomandava il sociologo Domenico De Masi agli abitanti di Ravello, sulla
costiera amalfitana, di cui era stato in via eccezionale assessore esterno al Turismo.»
Quarta tappa: Parigi. «Su tutto – conclude Venturini – brilla la
stella di questa capitale della cultura mondiale e del divertimento
(vedi la gettonatissima Eurodisney), dove tutti i presidenti della Re-
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pubblica francesi hanno voluto lasciare un segno duraturo del loro
passaggio, dal Beaubourg (Pompidou) creato con l’inglese Richard
Rogers da un architetto italiano allora sconosciuto, Renzo Piano, a
La Villette (altro monumento con il marchio Italia, è di Gae Aulenti), al Grand Louvre e alla Grande biblioteca nazionale (François
Mitterrand).
«A Parigi batte anche il cuore della Maison de la France, l’organismo incaricato di promuovere l’immagine della Francia all’estero, diventato un modello. Oggi conta oltre mille associati contro i
settanta del 1987, quando fu creata, e gode di un bilancio di settantacinque milioni di euro, tre volte il fondo del nostro Enit. La
lezione principale della Maison è che l’immagine del paese all’estero non può più essere gestita dalle regioni con politiche differenziate, ma va ripresa in mano da una cabina di regia unica, che
rafforzi il marchio Italia. Anche perché la meta per le vacanze individuata come la più interessante dai nostri ricercatori all’estero è
proprio l’Italia: però poi il sogno non si realizza perché insorgono
mille difficoltà.
«Quindi una Casa Italia e un sito internet italia.it finalmente attivo e funzionante secondo le tre E propugnate dalla Corte dei Conti:
economico, efficace, efficiente. E, nella prossima legge Finanziaria,
promuovere un “piano bellezza” basato su un’altra tripla, una tripla
A: ammodernare, abbellire, accelerare. Auspico che nella prossima
Finanziaria ci sia posto per un grande progetto di ammodernamento dei nostri hotel. Non solo per introdurre internet, ma anche per
bagni più adeguati e arredamenti degni del made in Italy.
«Penso a misure che facilitino il rinnovamento dell’intero patrimonio alberghiero, dall’armadio alle luci, dai mobili al sofà, alle
tecnologie di climatizzazione e riscaldamento. Come? Grazie a una
fiscalità e a mutui agevolati, come è già avvenuto felicemente per
la ristrutturazione delle case. Molti operatori privati si danno da
fare ma sono soli. Occorre poi frenare i prezzi, liberare più spiagge, rendere sempre più il paese un museo a cielo aperto, favorire i
collegamenti con le piccole Italie e valorizzarne le attrattive, comunicare meglio le mete, pensare meno al turismo di massa. Insomma, imitare la Francia. E per riuscire a centrare questi obiettivi, ci vuole tanta cultura diffusa, sia per i politici sia per i manager
sia per i semplici cittadini.»
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Oggi si stanno facendo anche dei passi avanti nelle università e nella
formazione di base, ma c’è ancora tantissimo da fare, prima di poter
dire di aver costruito una cultura manageriale per il turismo. La cultura non è una cosa che riguarda soltanto gli operatori turistici, riguarda anche noi consumatori: il nostro mondo turistico registra
infatti un basso livello culturale. E pochi sorrisi. Eravamo i primi al
mondo nell’arte dell’accoglienza e nella collegata economia del sole,
ora lo sono i francesi. Il poeta e regista Jean Cocteau diceva che un
italiano è un francese che ride: ora non è più così.
Mi ha colpito ascoltare tempo fa alle Giornate internazionali del
Centro Pio Manzù di Rimini il vulcanico fondatore del Club Mediterranée, Gilbert Triganò, dire che negli ultimi tempi venendo in
Italia non trovava più sorrisi, ma solo mascelle tese. «Tornate a innamorarvi» era l’esortazione di Triganò a noi italiani. Senza toccare le
punte di narcisismo dei francesi, torniamo a innamorarci per primi
del nostro Belpaese. E risaliremo presto la classifica.
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Per saperne di più
Anno di adesione all’Unione europea: membro fondatore della Comunità economica europea dal 1951
Sistema politico: repubblica
Capitale: Parigi
Superficie: 551.500 km2
Popolazione: 63,118.137 milioni
Capo dello Stato: Nicolas Sarkozy
Capo del governo: François Fillon
Tasso di nascita: 12,91 nati ogni 1000 abitanti
Mortalità infantile: 3,41 morti ogni 1000 nascite
Età media: 39 anni
Aspettativa di vita: 80,59 anni
Tasso di disoccupazione: 8 per cento
Il modello politico
Il sistema maggioritario «alla francese» è attenuato rispetto a quello britannico
dal doppio turno che permette agli elettori una pausa di riflessione e di meditazione. Tutt’altro che semplice, il meccanismo maggioritario a doppio turno
tiene conto, oltre che del voto espresso, anche della percentuale di affluenza.
Secondo la legge elettorale può essere candidato in una delle 577 circoscrizioni
francesi ciascun cittadino che abbia compiuto ventitré anni, che goda dei diritti civili e politici. Per vincere al primo turno è necessario raggiungere almeno il
50 per cento dei suffragi espressi, ma anche il 25 per cento degli elettori iscritti. Nel caso, dunque, di una forte astensione la percentuale dei sostegni da raggiungere può superare di molto il 50 per cento. Dal 1962, quando questo sistema è stato adottato, la quota dei candidati eletti al primo turno è in continua discesa. Nel 1997 furono appena 12 gli eletti al primo turno. Se nessuno
dei candidati raggiunge il quorum, passa al secondo turno chi ha ottenuto il
sostegno di almeno il 12,5 per cento degli elettori iscritti. Se in una circoscrizione nessuno supera il 12,5 per cento, sono i primi due candidati ad andare al
secondo turno, dove sarà sufficiente una maggioranza relativa. Nonostante
questo sbarramento è possibile che superino il primo turno più di due candidati, creando così la possibilità di ballottaggi «triangolari» o addirittura «quadrangolari».
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Il primato nel turismo
Con 79 milioni di arrivi internazionali all’anno, la Francia si è confermata il
paese leader nel turismo internazionale. Seguono la Spagna (55,6 milioni),
gli Stati Uniti (49 milioni), la Cina (46,8 milioni) e l’Italia (36,5 milioni),
unico paese tra i primi dieci al mondo (dopo l’Italia, Regno Unito, Hong
Kong, Messico, Germania e Austria) che fa registrare una sia pur lieve diminuzione (fonte: Annuario Touring Club del Turismo, 2007). Nel 1970 la
stessa graduatoria vedeva l’Italia al primo posto, seguita da Canada, Francia,
Spagna e Stati Uniti.
Il modello transalpino conduce obbligatoriamente alla Maison de la France
che ha visto crescere negli ultimi anni gli stanziamenti in maniera di gran lunga superiore ai fondi di dotazione del nostro Enit. La Maison è una società di
diritto privato a capitale pubblico, che riunisce Stato, enti territoriali, imprenditori del turismo e realtà economiche collegate al settore. Il punto di forza è lo
stretto coordinamento delle iniziative. I fondi provenienti dal settore pubblico
vengono integrati da ricavi che arrivano da attività di tipo commerciale. Che
hanno nel portale internet uno dei cardini.
Dell’esercito dei turisti che scelgono Parigi e dintorni, il 19,7 per cento proviene dal Regno Unito e dall’Irlanda; 9,5 per cento sono quelli che arrivano dall’Italia (in tutto, circa 7,6 milioni di nostri connazionali).
I turisti italiani scelgono in Francia (la nostra prima destinazione estera) queste
sette mete principali: 1) Parigi ed Eurodisney; 2) Provenza; 3) Costa Azzurra;
4) Corsica; 5) Bretagna; 6) Normandia; 7) Rodano Alpi con Lione.
Tra i beni culturali, il museo più visitato d’Europa è il parigino Louvre, la casa
della Gioconda, seguito dal British Museum di Londra e dalla National Gallery,
pure londinese. Molto distanziati seguono i nostri Uffizi e il sito di Pompei.
Pur essendo al primo posto, il responsabile del Turismo francese, Luc Chatel,
con un coraggioso atto di umiltà ha invitato nel settembre 2007 i suoi connazionali a rimboccarsi le maniche e a essere più pazienti e più sorridenti con i
visitatori. Ecco le sette regole di buona educazione che Chatel (ex portavoce
del presidente Nicolas Sarkozy) ha dettato agli addetti, e più in generale ai
francesi a contatto con il grande pubblico: 1) siate i primi a salutare il turista
straniero; 2) non gettate il resto sul bancone con malagrazia e siate pazienti
nelle trattative; 3) se sapete un po’ di inglese, non fate finta di non conoscerlo.
Siate coraggiosi e generosi: usatelo con gli stranieri; 4) se i turisti che vengono
dall’estero cercano di parlarvi in francese, non mostrate fastidio per i loro errori; 5) i dipendenti delle poste agli sportelli dovrebbero portare delle spille che
indicano con chiarezza quali lingue parlano; 6) appendete un cartello con la
scritta «benvenuti» alla vostra vetrina. Meglio ancora se il cartello è in più lin-
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gue; 7) se non siete in grado di seguire questi consigli, allora siate almeno gentili e sfoggiate sempre un bel sorriso.
E in Italia...
L’Italia è la terra delle microimprese e il turismo non fa eccezione. Il nostro
paese annovera il numero più alto in Europa di strutture ricettive: centotrentamila contro le novantamila del Regno Unito, le trentacinquemila della Spagna
e le ventinovemila della Francia. Solo un quarto delle nostre strutture è però
costituito dagli alberghi, che rappresentano invece il 50 per cento del totale in
Spagna e nel Regno Unito e una quota ancor maggiore in Francia. Gli alberghi
italiani sono più piccoli degli alberghi francesi e spagnoli. Alla ridotta dimensione si lega l’insufficiente tasso di utilizzazione che non arriva in media al 40
per cento in Italia contro il 50-60 per cento di Spagna e Francia.
Aumentano i cinque stelle. La dimensione media e i servizi offerti dai nostri alberghi stanno però crescendo. Tra il 2000 e il 2005 a fronte di un aumento del
9,4 per cento del numero totale dei posti letto negli alberghi italiani, la capacità ricettiva degli esercizi a 5 e 4 stelle è aumentata rispettivamente del 78 e 35
per cento.
Nel turismo culturale Roma si conferma campione: la capitale italiana registra
un aumento del 10,14 per cento nel 2006, la crescita più alta in Europa insieme a Madrid, +10,2 per cento (fonte: IV Rapporto Federculture).
Sono 19 milioni gli italiani che nel 2006 hanno scelto l’estero per le vacanze,
spendendo 18 miliardi di euro. Al rientro sono stati invitati a fornire indicazioni
precise dalle quali gli enti locali e gli operatori turistici potranno trarre insegnamento. Sulla base dei dati raccolti sul sito internet www.turistiprotagonisti.it,
Francia e Spagna sembrano detenere il primato mondiale dell’accoglienza.
Trecentomila sono le imprese del comparto turistico, con un milione e duecentomila addetti, di cui settecentocinquantottomila dipendenti. La regione
con il più alto tasso di alberghi ad apertura stagionale è l’Emilia Romagna con
il 58,4 per cento, seguita da Marche (37 per cento), Calabria (36,8 per cento)
e Sardegna (32,8 per cento). Dati Confturismo, Federalberghi.
Arte e cultura: 40 siti del patrimonio mondiale Unesco, contro i 30 francesi e i
38 spagnoli. 4203 tra musei e siti archeologici. 40.000 tra castelli e rocche,
27.000 ville storiche, 29.500 dimore storiche, 19.700 centri storici, 1500 conventi, 95.100 chiese. L’Italia destina al settore culturale lo 0,16 per cento del
Pil al pari della Francia (dove però la cifra è più consistente per via della maggiore entità del Pil), la Spagna lo 0,35 per cento e la Germania lo 0,39 per cento della spesa pubblica per i Beni culturali.
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Alle raccomandazioni del ministero del Turismo francese, piace accostare
idealmente il decalogo del sociologo Domenico De Masi, per tre anni assessore di Ravello, sulla costiera amalfitana, per coloro che vogliono coltivare e aumentare la bellezza del loro luogo. 1) Eliminate quel che c’è di brutto nel vostro centro ed educate i ragazzi ad amare i punti belli della loro città; 2) il
punto in cui è nato un poeta o è avvenuto un incontro storico importante deve diventare il cuore del paese; 3) fate incontrare gli «spiriti» del posto affinché costruiscano qualcosa di grande per la vostra terra; 4) rispettate i visitatori, affinché i visitatori rispettino il luogo; 5) assicurate la qualità dei servizi e
l’equità dei loro costi; 6) fate capire ai commercianti che parte del loro guadagno deve essere restituito alla città. Tutto servirà per abbellire e rendere più
funzionale il vostro luogo; 7) esaltate anche gli altri punti di un centro: cultura contadina, arti minori, borgo di pescatori e così via; 8) ottenete dagli amministratori pubblici una promessa: se non raggiungono l’obiettivo, dovranno dimettersi; 9) procuratevi e trasmettete le informazioni con accuratezza;
10) contribuite personalmente all’ulteriore perfezionamento dello spirito del
vostro paese.
Nel 1993 è stato abolito il ministero del Turismo, bocciato da un referendum
popolare e si è dato il via a un «federalismo turistico» con delega della materia
alle regioni.
Link utili
Portale nazionale della pubblica amministrazione: Service-Public. Offre una
guida pratica dei diritti dei cittadini attraverso una serie di rubriche tematiche.
Ogni rubrica illustra le procedure da seguire e fornisce i link per ottenere ulteriori informazioni. È possibile inoltre consultare una ricca banca dati contenente la legislazione francese ed europea, nonché un archivio di resoconti pubblici.
Il sito internet ufficiale del turismo francese www.franceguide.com offre una
guida turistica per tutti coloro che desiderano ottenere maggiori informazioni
sulla cultura, la storia, i festival, le arti, gli sport eccetera. Il sito contiene numerose informazioni pratiche e un gioco interattivo per conoscere meglio il
patrimonio nazionale della Francia.
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La fortuna dei bambini in Finlandia
Un pediatra leggendario
Arvo Ylppo. In Finlandia la fortuna dei bambini ha questo strano
nome. È stato lui il leggendario pediatra che ha salvato dalla morte
migliaia di piccoli nati prematuramente, contribuendo così ad abbattere la mortalità neonatale finnica nel Novecento. È stato lui a
predicare instancabilmente la necessità della prevenzione e dell’intervento precoce sui bambini. E questo principio non è solo efficace
in termini umani ma anche in termini economici, perché tutti gli
interventi fatti successivamente sono più costosi e non sempre raggiungono risultati soddisfacenti.
La sua lunga vita (è morto nel 1992, alla bella età di centoquattro anni) è stata circondata da un alone di ammirazione e stima da
parte della comunità scientifica internazionale. A Helsinki arrivavano molti pediatri per perfezionarsi nelle pratiche mediche: dall’Italia (paese che lui adorava e che onorava con frequenti visite alla nostra ambasciata, Ivo Nasso, direttore della Clinica pediatrica
di Milano mandava i suoi allievi migliori: un nome per tutti Angelo Verga). Ma Arvo era anche ammirato da parte della gente comune.
Il grande pediatra è una delle poche figure maschili che ho incontrato, idealmente, nel mio viaggio in Finlandia segnato da appuntamenti con amministratrici, dottoresse, infermiere e ricercatrici tutte
al femminile.
Tutte conoscono Arvo e la sua vita speciale. Colpisce il particolare che quando nacque, nel 1887 nel villaggio di Akaa, venne al
mondo prematuro e si deve a questa circostanza la bassa statura che
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lo caratterizzò. E forse anche la particolare passione che mise nel
suo lavoro di «angelo dei bambini».
Certamente si deve a lui se oggi, agli inizi del terzo millennio, la
Finlandia ha vinto la medaglia d’oro più bella: quella del più basso
tasso al mondo di mortalità infantile. Nel 1987, cinque anni prima
della scomparsa di Arvo, in Finlandia morivano sei neonati ogni mille, nel giro di vent’anni sono riusciti a dimezzare quella cifra, e ormai
è un dato confermato stabilmente, perciò, secondo le regole della statistica, si tratta di un fenomeno consolidato: nel 2006 sono stati soli
tre su mille nati (in Italia, dove pure si sono registrati costanti miglioramenti, oggi siamo a cinque su mille, per i pignoli 4,8 su mille).
Una gara per la vita
Le metaforiche atlete che hanno condotto la Finlandia al successo in
questa gara per la vita sono idealmente rappresentate sul podio da
Minna Stranius, venticinque anni, che mi viene presentata dalle
funzionarie del ministero della Salute e dell’assessorato alla Salute
della capitale. La seguo durante una sua normale giornata di lavoro
nel principale tra i ventisette Centri salute della capitale.
Vedo arrivare le giovani, incinte da poco, sottoposte a una prima
visita generale nella sua stanza piena di giocattoli e di colori.
Incontro Tuula Haellstroem, ventinove anni, che ha portato la figlia
Ella, nata un anno e quattro mesi fa, per la normale visita di controllo.
Assisto alla vaccinazione contro la varicella (in Italia, mi dice, non
rientra tra quelle raccomandate, perciò è riservata solo ai bambini con
malattie gravi) praticata alla piccola Ulla, di un anno, che strilla in braccio alla mamma Olli Kuivalainen, trentaquattro anni, e sotto gli occhi
di papà Paelvi, trentadue. La vedo lasciare il Centro salute, al pomeriggio, per andare a fare una delle tante programmate visite a domicilio.
Minna è una delle duecentocinquanta Health Visitor della capitale (sono duemila in tutto il paese, operanti in ottocento Centri salute, in finlandese Neuvola). Per spiegare la qualifica di Minna, molti si accontenterebbero della traduzione di assistente sanitaria: troppo generica. Men che mai lei vuole essere avvicinata alla «supertata»
sognata nell’ultimo periodo del suo governo dal premier Blair per
facilitare il difficile compito dei genitori inglesi.
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Dopo il liceo, Minna ha studiato per quattro anni materie sanitarie al Politecnico e oggi si definisce, orgogliosa, «operatrice a sostegno di mamme, bambini e famiglie». Da due anni, per 2010 euro al
mese di stipendio base, incontra nella sua stanza colorata le future
mamme (e i loro partner e mariti). Poi, seguendo un protocollo che
prevede otto controlli medici, ma anche consigli utili e giochi di immaginazione, accompagna le future mamme fino al parto e nei primi tre anni di vita del bambino, ricorrendo, quando necessario, all’intervento dello specialista di turno.
Minna si ritiene fortunata perché «finora non mi è capitato né un
caso di mortalità infantile né di veder nascere un bimbo con un handicap». È a figure come la sua, e a istituzioni finlandesi come i Centri per il benessere infantile (le Well-baby Clinic) che si riferisce
Massimo Ammaniti, psicoanalista, docente di Psicopatologia dell’età evolutiva all’università di Roma, quando, di ritorno dal Congresso europeo per la salute mentale dell’infanzia tenutosi nel 2007
in Lettonia, ha esortato gli italiani su «la Repubblica»: «Per i bambini prendiamo esempio dalla Finlandia».
I bambini come capitale sociale
La spiegazione è semplice. Qui sono partiti da due dati di fatto: 1) i
pediatri sono pochi, costano e non hanno la possibilità di fare un lavoro capillare con le famiglie. Un fattore comune anche a noi italiani: a Milano, per esempio, i pediatri sono appena centotrentuno,
per oltre centoventimila bambini under quattordici (gli zero-sei anni sono, a settembre 2007, 65.475) e i genitori protestano contro
carenze e disagi; la Federazione medici pediatri di Milano (Fimp),
presieduta da Maria Luisa Nino, ha chiesto ai suoi associati l’impegno ad aumentare di cento unità in più il numero dei piccoli pazienti a carico; 2) i bambini rappresentano un «capitale sociale» prezioso, riconosciuto anche dagli economisti. Che può servire al futuro sviluppo del paese. Ma è anche un capitale sociale che deve essere
salvaguardato e protetto, perché l’intero organismo del bambino, e
in particolare il cervello va incontro nei primi tre anni di vita, a una
maturazione rapidissima, che può essere inceppata da condizioni
ambientali negative, per esempio contrassegnate da trascuratezza o
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situazioni traumatiche. Basta pensare che un bambino nasce in media di cinquanta centimetri e pesa 3,200 chili mentre a tre anni è
novantacinque centimetri e quattordici chili.
In Finlandia questo capitale sociale è garantito dalle Health Visitor. I genitori sanno di poter contare su queste figure professionali che ti accolgono nel consultorio o vengono a casa, che sono
capaci di riconoscere i primi segni di difficoltà nei genitori e nel
bambino, quindi di aiutarli ed eventualmente indirizzarli per un
intervento più specialistico. In questo modo in Finlandia il parto
avviene in ospedale, però mamma e bambino sono in Europa
quelli che tornano prima a casa, secondi solo agli olandesi. La presenza delle Health Visitor garantisce infatti la possibilità di ridurre
il tempo della degenza di madre e figlio in ospedale dopo il parto
in modo da abbattere il costo del ricovero e permettere un rapido
ritorno a casa, con riduzione anche dei rischi di depressione post
partum della madre.
Gli incontri effettuati dalle Health Visitor hanno infatti trasmesso tutte le informazioni necessarie alla gestione del neonato fin dal
momento della nascita.
Vado a trovare Anni Mikinen, quarantun’anni, una delle prime
Health Visitor di Helsinki, a sua volta madre di cinque bellissimi figli. «Forniamo un servizio utilissimo. Ci siamo quando la famiglia è
sola ad affrontare i compiti della crescita e dell’educazione dei figli;
quando il rapporto bambino-genitori diventa problematico; o
quando (accade a una donna su cinque) la mamma cade in depressione con possibili e drammatiche conseguenze sul bambino.» Qui
era alto il numero dei suicidi (1520 nel 1990, per uno su quattro la
vittima era donna) ma anche su questo fronte, dominato da depressioni e alcolismo, i Centri salute registrano forti progressi: nel 2005
si sono tolti la vita 994 finlandesi e il numero tende ad abbassarsi
ancora grazie al soccorso che aiuta molte persone a risalire la china e
a ritrovare il gusto di vivere.
Sostegno alle mamme
Molto rari, poi, gli infanticidi: una buona notizia specie per chi, arrivando dall’Italia, sa che nell’ospedale-carcere di Castiglione delle
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Stiviere (Mantova) sono ricoverate molte madri che hanno ucciso i
figli nei primi mesi e anni di vita.1
Il modello della «operatrice di sostegno alle mamme, ai bambini
e alle famiglie» ha svelato a sorpresa un nuovo primato da aggiungersi a quelli già consistenti vantati dalla nazione finnica. Scorri i
dati della Banca mondiale e scopri, infatti, che la piccola Finlandia
con i suoi cinque milioni di abitanti è al top delle classifiche in tutto ciò che conta: sta al primo posto nella graduatoria della competitività, al secondo (a un filo dalla Svezia) per la quota di Prodotto
interno lordo investita in ricerca e sviluppo. Analfabeti, zero. Tutti
dottori, piuttosto: sopra i venticinque anni, un terzo esatto ha la
laurea o titolo equivalente. «E soprattutto siamo un popolo dall’attitudine pragmatica e con il senso dell’onestà, gente che mantiene
le promesse. Niente enfasi, niente retorica. Niente gusto del nonsense: la vita non è teatro. Ci interessa la funzionalità, non l’ornamento» è la fotografia che traccia dei suoi connazionali il filosofo
dei manager Nokia, Esa Saarinen, cinquantasei anni, capelli lunghi
e camicia hawaiana.
Quanto ai servizi, inquinamento e qualità della vita Helsinki è in
assoluto la più accogliente metropoli d’Europa, dove ogni cittadino
ha a disposizione centotrentaquattro metri quadrati di verde, quanto
un campo di calcio, e novantotto su cento sono allacciati al teleriscaldamento (dall’ultima indagine di Legambiente su ventisei metropoli
europee). Ma è nel capitolo famiglia che i finnici toccano punte invidiabili: sì, proprio quella voce, famiglia, che più di ogni altra gli italiani hanno indicato essere nei loro cuori agli economisti di Cambridge, che hanno monitorato le eccellenze nei paesi europei, spunto
per questo nostro viaggio sulle tracce della buona politica in Europa.
Con gli irlandesi, i finnici sono gli europei che fanno più figli (in
media, 1,80 a testa) e che in assoluto guardano meno la Tv (173
minuti al giorno): due dati, si suppone, correlati.
In un museo incontro un insegnante milanese in vacanza, Lucio
Pellecchia. Mi dice: «Una delle cose che più mi colpiscono come turista in Finlandia è la presenza ovunque di famiglie giovani, anche
con due o tre bambini di età non superiore ai cinque anni, e magari
1 Inquietante la lettura del libro-documento della giornalista ligure Adriana Pannitteri,
Madri assassine. Diario da Castiglione delle Stiviere, Gaffi, Roma 2006.
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con la mamma ancora incinta. In un paese industrializzato. Con un
costoso tenore di vita, simili scelte da parte delle famiglie possono
spiegarsi solo in presenza di strutture sociali capillari, gratuite e molto efficienti».
E in Italia?
Qualcuno dirà che anche noi abbiamo i consultori familiari (oltre
240, nel 2008 sono sessant’anni dalla fondazione del primo consultorio da parte di un sacerdote, don Paolo Liggeri, che durante la guerra
aveva svolto attività tra i deportati ed era stato internato a Dachau e a
Mauthausen). A essi si fa riferimento quando si parla di depressione
materna, interruzione della gravidanza o disturbo del comportamento degli adolescenti. Riprendiamo il professor Ammaniti: «Purtroppo
sono servizi che non sono mai stati adeguatamente sostenuti, spesso
ricavati in locali fatiscenti e mal arredati che non attirano le famiglie e
tanto meno gli adolescenti. E poi operatori stanchi e provati da mille
incombenze, che di volta in volta vengono investiti di nuovi compiti,
quando l’assessore di turno di fronte a episodi di abuso o di infanticidio, sbandierati dai giornali e dalla televisione, possa dire pubblicamente che ha provveduto chiamando in causa i servizi.
«Il mio pessimismo non vuole cancellare gli sforzi di molti operatori per mantenere la propria professionalità nonostante l’apparato politico-amministrativo delle Aziende sanitarie sia spesso più
interessato a garantire la propria sopravvivenza che a rispondere ai
bisogni dei cittadini. Sarebbe già tanto se i responsabili politici e
sanitari decidessero di uscire dai propri uffici per verificare come
vanno le cose nei servizi della propria organizzazione sanitaria,
chiedendo alle utenti se sono soddisfatte delle prestazioni che ricevono. Anche sui servizi pubblici, invece di portare prove a sostegno delle proprie affermazioni, si fa molta retorica: sarebbe più
utile verificarne seriamente i punti deboli e quelli di forza facendo, anche in questo campo, una politica concreta a favore della famiglia».
Un esempio per tutti: a Milano le giovani mamme con passeggino hanno una capacità di movimento limitata perché la maggior
parte dei mezzi pubblici, dalla metropolitana ai mezzi di superficie,
non sono attrezzati con rampe e ascensori funzionanti.
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La buona politica, ho sentito spesso ripetermi in questo viaggio
in Europa, è assumersi la responsabilità valorizzando al massimo
merito e competenze in una cornice di solidarietà. È un’idea condivisa e diffusa anche in Italia, a cominciare dal ministro della Salute
Livia Turco. Ma in Finlandia questo principio ideale e, soprattutto,
il costante e verbale richiamo nostrano sulla difesa della famiglia ha
ceduto il passo a più concreti servizi, aiuti e risorse alle famiglie.
Presidenti della Repubblica, ma senza auto blu
Prima di ripartire per l’Italia, chiamo al telefono uno dei due bravi
colleghi italiani che hanno nella Finlandia la loro seconda patria:
Fabrizio Carbone (l’altro è Dino Satriano, già vicedirettore di «Oggi», pendolare tra la calura mediterranea della sua Basilicata e il freddo nordico del paese d’origine di sua moglie Ursula).
Fabrizio è un giornalista romano attento alla natura e all’umanità, che si innamorò della Finlandia quando lo inviai laggiù per
scrivere un numero speciale di «Airone»: da allora vi torna frequentemente e vi trascorre lunghi periodi di ozio e studio. Lo rintraccio
al Nord, più vicino al Circolo polare artico che al mio albergo a
Helsinki.
Gli racconto del mio viaggio e della mia ricerca. Dice che vuol
contribuire al mosaico della «meglio Europa» con una sua piccola
tessera. Sul video del mio computer portatile trovo il suo contributo. Eccolo.
«È la sera del 29 settembre. Domattina all’alba Patrizia e io partiamo dalla “casa rossa dei due cieli”, per tornare a Roma in macchina, insieme al nostro vecchio Mac (che non se la passa bene). Eravamo arrivati qui il 14 agosto. Il tempo come sempre è volato. Ed è
stato fantastico poter vivere in questo luogo magico ancora una volta e per così tanto tempo. Ancora stasera, prima del buio, a due passi da casa c’erano due folti gruppi di galli forcelli giovani, quasi tutti
maschi, che se ne volavano di betulla in betulla davanti alla nostra
Kangoo. Ma non è di questo che ti volevo parlare, per una volta non
di natura, non di animali.
«Volevo parlarti di democrazia, di senso di responsabilità collettivo,
di civiltà, di società civile, di vita che ha valori e che ti spinge a far me-
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glio, a vivere bene con gli altri e con te stesso. Volevo parlarti di Finlandia, per spiegarvi con un esempio semplicissimo il motivo di fondo della nostra scelta di trascorrere qui una buona parte dell’anno.
«Sabato 24 settembre eravano a Helsinki per festeggiare il sessantesimo compleanno del nostro amico ambasciatore Mikko Phyhala, amico da più di vent’anni, grande ornitologo, grande ambientalista doc.
«A parte il fatto che siamo stati ospiti in casa sua e che ci ha ceduto la camera da letto (la moglie, ha dormito in cucina dopo che erano tre giorni che cucinava per l’occasione), siamo andati insieme alla festa, organizzata a pagamento, nella vecchia sala delle riunioni
del sindacato operaio di Helsinki degli anni Trenta (nel quartiere
delle case di legno). Un luogo vasto e semplicissimo che si può affittare per ricevimenti. Erano presenti centoventi persone e tra queste
due presidenti della Repubblica finlandese, compresa la signora
Tarja Halonen, attualmente in carica. Bene, non c’era nessuna “auto
blu”, nessuna macchina della polizia, nessuna scorta blindata, nessun controllo, nessuna lista di invitati da rispettare, nessun invito
scritto (perché Mikko ha detto che era sbagliato consumare carta)
ma solo telefonico o email. Mikko mi ha presentato alla signora Halonen che mi ha calorosamente abbracciato (lei mi aveva insignito
mesi fa del cavalierato della Rosa bianca di Finlandia) facendomi restare di sasso perché sapeva tutto di me... Ma ancora: erano presenti
alti funzionari di governo e di Stato, professori universitari, musicisti, artisti, giornalisti di radio e televisione.
«Si è cantato e suonato: molti, così come vuole la tradizione scandinava, hanno parlato del festeggiato raccontando gli aneddoti più
divertenti.
«Accanto a me il responsabile dei problemi ambientali del ministero degli Esteri, mi ha praticamente tradotto tutti gli interventi.
La cena era a buffet e tutti in fila, presidenti compresi, abbiamo assaggiato i piatti cucinati dalla signora Phyhala che, nella vita, viaggia per il mondo per verificare il grado di democraticità delle elezioni che si svolgono in paesi chiamiamoli “in bilico”. Alla fine, il ricevimento si è concluso con calorose strette di mano e, io che non bevo, ho guidato l’auto di Mikko insieme alla moglie, a Patrizia e a un
ospite di eccezione: Pak Sum Low, commissario dell’Onu a Bangkok
per le questioni economiche e sociali di tutta l’Asia e il Pacifico e
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autore di Climate Change and Africa.2 Certo i finlandesi bevono, ma
il punto è che dopo non guidano. Ogni auto ha il suo autista astemio o “astemio” per quella sera. Dimenticavo: i due presidenti se ne
sono tornati con la loro auto privata. Solo la signora Halonen aveva
una guardia del corpo che, per tutta la festa, si è discretamente defilata in cucina.
«Tutti noi abbiamo partecipato allo sgombero della sala da tutto
quello che era stato consumato e che, naturalmente, è stato diviso
tra vetro, plastica, carta e resti di cibo per il compost. Noi che siamo
tornati a casa di Mikko abbiamo caricato e scaricato tutti gli avanzi,
le posate e i piatti, insomma tutto. Pak è stato forse tra i più attivi.
Patrizia e io pensavamo di sognare e ne abbiamo parlato poi con
Mikko, Pia (la moglie) e Pak, facendo le ore piccole. Abbiamo parlato di Democrazia reale, quella con la D maiuscola, quella che noi
non sappiamo neppure da dove comincia.»
2
Pak Sum Low, Climate Change and Africa, Cambridge University Press, Cambridge
2005.
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Per saperne di più
Anno di adesione all’Unione europea: 1995
Sistema politico: repubblica
Capitale: Helsinki
Superficie: 338.144 km2
Popolazione: 5,2 milioni
Capo dello Stato: Tarja Halonen
Capo del governo: Matti Vanhanen
Tasso di nascita: 10,42 nati ogni 1000 abitanti
Mortalità infantile: 3,52 morti ogni 1000 nascite
Età media: 41,6 anni
Aspettativa di vita: 78,66 anni
Tasso di disoccupazione: 6,6 per cento
Il modello politico
La Finlandia è una Repubblica parlamentare. Il presidente, eletto per un mandato di sei anni, detiene il potere esecutivo, la cui estensione è stata peraltro ridotta dalla riforma costituzionale del 2000. Le elezioni presidenziali del 29
gennaio 2006 hanno riconfermato capo dello Stato Tarja Halonen il cui primo
mandato era stato deciso dalle urne nel marzo del 2000. Nel Parlamento monocamerale siedono duecento deputati eletti ogni quattro anni con il sistema
proporzionale. Il sistema elettorale ha portato tradizionalmente a governi di
coalizione, spesso minoritari. La Finlandia è guidata da un esecutivo di centrosinistra presieduto da Matti Vanhanen.
Mortalità infantile nel mondo
Stato
Finlandia (erano 97,6 nel 1930)
Svezia (58,5)
Giappone (124)
Norvegia (54,6)
Svizzera (54)
Francia (96)
Germania (96,4)
Danimarca (82,9)
Olanda (50,9)
Austria (117)
Mortalità infantile 2006 (per 1000)
3
3
3
3
4
4
4
4
4
4
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Spagna (123)
Belgio (92,8)
Italia (99,9)
Australia (47,2)
Canada (89,3)
Regno Unito (60)
Nuova Zelanda (34,5)
Stati Uniti (64,6)
121
4
4
4
5
5
5
5
6
Durata della degenza in ospedale
Stato
Durata della degenza in ospedale
Olanda
Finlandia
Danimarca
Svezia
Gran Bretagna
Qualche ora
1 giorno
1 giorno
2 o 3 giorni
3 giorni per il 1° nato,
1 o 2 giorni per i parti successivi
3 giorni
Francia
Spagna, Italia,
Grecia e Portogallo
Belgio e Lussemburgo
3 o 4 giorni
4 giorni
E in Italia...
L’Italia ha il record del mondo delle donne che diventano mamme a quarant’anni. Cinque neonati su cento, infatti, hanno una madre che supera quella
soglia di età (erano 3 su 100 cinque anni fa). Questo significa venticinquemila
bambini su mezzo milione di nati nel 2005. Contro percentuali quasi dimezzate nel mondo occidentale: 2,9 per cento in Svezia e in Spagna; 2,7 in Francia;
2,6 negli Stati Uniti; 2,3 in Danimarca; l’età media delle madri al parto in Finlandia è di 29,7 anni, le più giovani madri (ventisei anni) sono in Lituania.
Questo dato è clamoroso perché abbiamo anche il primato dei neopadri più
vecchi del mondo. Come si spiega questo primato? Giorgio Triani, sociologo,
l’attribuisce al fatto che l’emancipazione femminile in Italia è stata più tardiva
che nel resto d’Europa. E ciò spiega perché le madri over quaranta italiane siano
quasi il doppio delle francesi e olandesi. Essendosi emancipate più tardi ora vogliono godere appieno della loro autonomia, anche professionale, procrastinando la maternità.
L’Italia ha anche un altro record: è prima in Europa nei parti cesarei. E, nello
stesso tempo, fanalino di coda nel parto indolore. Questo dicono le statistiche:
è boom delle nascite in sala operatoria. Il 35 per cento del totale dei parti in
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Italia sono cesarei (con punte del 47 per cento al Sud e in alcuni istituti privati
napoletani addirittura del 68 per cento). Questa percentuale era dell’11,2 per
cento nel 1980. 15 per cento è invece il limite consigliato dall’Organizzazione
mondiale della sanità.
Siamo in testa alla classifica anche nelle ecografie in gravidanza: nel biennio
2004-05 le donne italiane ne hano effettuato in media 5,5, con picchi di 7,
contro le 3 previste dal protocollo ministeriale.
Restiamo ultimi, invece, nel tasso di fecondità: gli ultimi dati Istat registrano
una ripresa lenta e prudente: nel 2006 il tasso è salito a 1,35 figli per la donna,
era 1,32 nel 2005. Magro risultato. Il più basso nell’Unione europea.
E restiamo ultimi in un altro settore: alla voce famiglia dedichiamo appena il
4,2 per cento della spesa sociale. In Francia è il 13,8; l’11,2 nei Paesi Bassi; il
13,3 nel Regno Unito; il 15 in Finlandia; il 19,3 in Danimarca. Poi dice che
una non fa figli.
Solo il 3,7 per cento partorisce senza dolore con l’epidurale contro il 90 per
cento delle americane, il 60 per cento delle francesi, il 70 delle inglesi e il 38
delle spagnole.
Per chiudere: gli europarlamentari finlandesi sono i più virtuosi nelle presenze
ai lavori nelle sessioni plenarie del Parlamento europeo. L’Italia è ultima, e il
dato dell’assenteismo record la dice molto sul disinteresse dei politici da casa
nostra verso l’Europa.
Finlandia
Belgio
Olanda
Lussemburgo
Austria
Grecia
Germania
Spagna
Svezia
Danimarca
Irlanda
Gran Bretagna
Portogallo
Francia
Italia
89,49 per cento
89,34 per cento
88,68 per cento
87,86 per cento
87,60 per cento
87,49 per cento
87,35 per cento
84,76 per cento
84,67 per cento
84,11 per cento
83,60 per cento
82,97 per cento
81,23 per cento
79,54 per cento
68,64 per cento
Secco il commento del presidente nazionale delle Acli, Andrea Olivero: «Quello evidenziato dai dati sulle assenze nel Parlamento europeo è un problema di
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malcostume della politica, oltre che di carenze normative. L’assenteismo dei
nostri eurodeputati è scandaloso e ci scredita come paese. È evidente il disinteresse di molti politici verso l’Europa e l’inganno nei confronti degli elettori e
delle stesse istituzioni. Troppi europarlamentari hanno il doppio mandato, risultando eletti sia in Italia sia a Bruxelles. C’è bisogno di una legge che impedisca tutto ciò imponendo da subito la regola dell’incompatibilità tra il mandato
al Parlamento europeo e quello di deputato alla Camera e al Senato».
Link utili
Portale nazionale della pubblica amministrazione: il sito internet virtual.finland.fi si presenta come una rivista online dedicata a numerosi argomenti interessanti. Molte informazioni utili sono a disposizione di tutti coloro che desiderano saperne di più sull’economia, la politica, la popolazione, la storia e l’arte della Finlandia. Il portale dispone inoltre di una newsroom e consente agli
utenti di scaricare numerose immagini e mappe.
Il portale dell’Ente finlandese per il turismo www.visitfinland.com presenta la
Finlandia come destinazione turistica e fornisce informazioni sui luoghi da vedere, sul tempo libero e sugli eventi da non perdere. Le destinazioni sono illustrate da temi e attività. Il sito internet fornisce inoltre numerose informazioni
grazie alle quali gli utenti possono conoscere meglio il paese.
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Altri consigli utili dall’Europa
Ritorno a Milano
Ho viaggiato per mezza Europa con tante domande in valigia. Nel
mio resoconto ho voluto privilegiare un argomento-chiave per ogni
nazione, per poter permettere un approfondimento dei problemi affrontati e delle soluzioni adottate. Ma al mio ritorno a Milano dai
miei taccuini spuntano tante note.
Per esempio: trovo segnato che il premier spagnolo Zapatero ha accolto il pontefice sul sagrato della cattedrale di Valencia dandogli un
caloroso benvenuto e subito dopo, per rispetto della laicità dello Stato,
si è allontanato dal tempio ritenendo più opportuno per un premier
che rispetta tutte le religioni e le fedi non entrare e seguire la messa.
Ho annotato che il governo inglese vieta alle amministrazioni pubbliche di negoziare in prodotti derivati con le banche («si occupino
di rattoppare le buche dell’asfalto e di garantire i servizi essenziali ai
cittadini»), esercizio in cui ci stanno cimentando invece molte municipalità italiane con l’intenzione di risollevare le casse comunali e che
si stanno rivelando micidiali bombe finanziarie nei bilanci: per la sola Milano, (fonte «Il Mondo») duecento milioni nel 2008 con quattro banche inglesi con sede a Londra. E che la Spagna ha ripopolato
dei villaggi fantasma, piccoli borghi abbandonati nel sud del paese,
con famiglie di immigrati rumeni.
Marco Martiniello, docente all’università di Liegi, e uno dei maggiori esperti europei di fenomeni migratori, invita a copiare questo
metodo, già adottato anche in Canada, e dice ai governi europei:
«Facciamo arrivare famiglie che ripopolino i villaggi abbandonati».
Dieci, quindici famiglie alle quali offrono lavoro, casa, servizi. Forse
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può funzionare, in alcune zone abbandonate. Ma in tutt’Europa ci
sono casi locali positivi. Io credo che una buona politica dell’immigrazione in Europa si possa costruire proprio con un approccio bottom-up, dal basso verso l’alto, non il contrario, top-down.
Queste voci, non di secondaria importanza, fanno affiorare sia
pur succintamente questioni ancora drammatiche e attuali nell’Italia del 2008, e indicano possibili soluzioni.
Così gli inglesi hanno dimezzato i morti sulle strade
Anche in un’altra materia, oltre alle case popolari, la Gran Bretagna
in base alle statistiche (fonte: Care, aprile 2007) è un esempio da seguire. Sulle strade le autorità inglesi hanno dimezzato morti e feriti
delle stragi del sabato sera, dimostrandosi il paese con più bassa pericolosità stradale d’Europa. Trent’anni fa i morti per incidenti stradali erano più o meno seimila l’anno, oggi sono scesi a meno di tremilacinquecento, con una diminuizione che supera il 40 per cento
(in Italia le recenti statistiche Istat indicano un allarme rosso: nel
2005 sono morte 5426 persone in duecentoventicinquemila incidenti stradali, mentre 313.727 sono rimaste ferite: dati che, a maggio 2007, hanno fatto attribuire dall’European Transport Safety
Council all’Italia la maglia nera per il primato della pericolosità stradale: purtroppo perdere punti sulla patente, come capita dal luglio
2003 in seguito a una nuova legge, non fa più paura).
Ancora maggiore è il calo dei feriti gravi, scesi sul suolo inglese
del 45 per cento. Un risultato straordinario, frutto di una campagna
puntigliosa che ha riguardato, in prima battuta, le vittime del sabato sera. In trent’anni anni le massicce campagne contro le stragi del
sabato sera hanno salvato circa trentamila vite in Gran Bretagna, secondo le stime del dipartimento dei Trasporti inglese.
«A metà degli anni Settanta le morti legate alla guida in stato di
ebbrezza, tipiche del weekend, erano più di duemila. Oggi sono circa 560 (2600 i gravemente feriti)» spiega un funzionario del dipartimento.
Ecco i provvedimenti:
– Drink or drive. You decide, «guida o bevi. Decidi tu» è lo slogan
che i frequentatori di bar, pub e discoteche si trovano appeso sui
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muri, nelle toilette, scritto sui sottobicchieri delle pinte di birra, ma
anche sui cartoni del latte.
– Spot martellanti alla radio, in televisione e al cinema, prima
dell’inizio del film, responsabilizzano chi si deve mettere alla guida
dopo una notte di baldoria.
– Trasporti raddoppiati. Durante i fine settimana il numero dei
mezzi pubblici circolanti nelle principali città inglesi viene potenziato, così da consentire a chi voglia uscire di lasciare l’auto in garage. E i taxi, pur non essendo di proprietà comunale, vengono cooptati e suddivisi in turni, in modo che a qualsiasi ora della notte chi è
troppo ubriaco per mettersi al volante possa arrivare a casa sano e
salvo a un prezzo contenuto.
– Pene inasprite. Gli esami per la patente sono stati resi più severi.
Le pene per chi guida ubriaco sono state inasprite. Chi causa la morte
di qualcuno può essere condannato fino a quattordici anni di carcere.
Chi, grazie agli alcol test che sono stati raddoppiati in dieci anni, è beccato alla guida con un tasso alcolemico superiore a quello consentito
(80 milligrammi in 100 millilitri di sangue) può essere rinchiuso per
sei mesi in prigione e multato per 7500 euro. Pene non annacquabili.
– Guerra alla velocità. Parte degli incassi delle multe sono reimpiegati per finanziare l’acquisto di etilometri e autovelox. Perché è
stata dichiarata guerra all’eccesso di velocità: in città sono stati introdotti limiti di venti miglia orarie (circa trentacinque chilometri)
nelle aree residenziali e presso le scuole. Per i recidivi, sono stati varati corsi di riabilitazione.
Missione impossibile per noi italiani?
Così gli spagnoli hanno sottratto la televisione pubblica
al potere dei partiti
L’aveva promesso in campagna elettorale, nel 2004. E appena eletto
premier, il leader socialista Zapatero ha mantenuto la parola, riformando la radiotelevisione pubblica spagnola e cancellando la «Tv di
partito».
Per affrontare questa sfida tutt’altro che facile, aveva affidato a
cinque saggi (tra questi, il filosofo e scrittore Fernando Savater, uno
dei più noti intellettuali in Spagna e anche in Italia, sostenitore del-
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la prevalenza dell’etica in politica) il compito di elaborare una riforma per garantire alla Tv pubblica indipendenza dai partiti di governo, pluralismo e migliori contenuti.
L’11 maggio del 2006 hanno approvato la nuova legge che regolamenta radio e televisione di proprietà dello Stato. Vota a favore la
Camera dei deputati, con l’eccezione del Partito popolare di opposizione. La nuova normativa, che fa sue alcune delle raccomandazioni
dello studio presentato dal comitato dei cinque saggi, pone come
obiettivo l’indipendenza, l’obiettività, l’imparzialità e il pluralismo
politico nelle emittenti pubbliche.
Il 27 febbraio del 2007 parte il processo di riforma di Rtve. Prima mossa, la riduzione dei costi: quattromilacentocinquanta dei
novemila dipendenti a casa (con prepensionamenti e indennizzi)
entro il 2008. Il debito di 7551 milioni di euro accumulati dall’ente pubblico viene assunto dallo Stato. Ora la Radiotelevisión non è
più un ente pubblico ma una società anonima pubblica (Corporación Rtve), con capitale statale e autonomia di gestione, sottoposta
al controllo del Parlamento.
Il nuovo modello prevede la creazione di un consiglio d’amministrazione indipendente con maggiori funzioni e con più responsabilità rispetto al passato. Il consiglio è formato da dodici membri
eletti con la maggioranza dei due terzi (quattro dal Senato e otto
dalla Camera) e ha un mandato di sei anni in modo da non coincidere con la durata della legislatura. Anche il presidente viene nominato dal Parlamento (in precedenza lo nominava il governo). E se
prima la televisione pubblica si finanziava solo con gli ingressi pubblicitari, adesso il sistema di finanziamento è misto: il 35-40 per
cento infatti arriverà dalle casse dello Stato (ma non ci sarà nessun
canone per l’utente che continuerà a fruire della televisione pubblica gratuitamente), il resto dalla pubblicità.
«I primi effetti positivi della riforma si sono già fatti sentire anche
se è un po’ troppo presto per fare un bilancio vero e proprio», spiega
Ángel Fernández, cinquantun’anni, giornalista specializzato in comunicazione del quotidiano «El Mundo». «Un esempio? Basta guardare i telegiornali: oggi sono più imparziali, mentre prima erano
sempre a favore del partito di governo e molto critici con le forze
politiche di opposizione. Per quanto riguarda i palinsesti, la nuova
Radiotelevisione spagnola punterà alla qualità. Grazie ai finanzia-
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menti pubblici ci sarà infatti più informazione, più cultura (soprattutto su La 2), più cinema spagnolo ed europeo, più spazio alle minoranze sociali e meno pubblicità (da dodici minuti all’ora siamo
passati a nove). E almeno l’80 per cento dei programmi sarà di produzione spagnola, abbattendo le spese per le acquisizioni di programmi preconfezionati all’estero e dando più lavoro in casa.»
Quant’è distante la Rai italiana...
Così Copenhagen brucia i rifiuti con tecnologia made in Italy
Per chi arriva a Copenhagen, una foto d’obbligo è davanti alla Sirenetta, in porto. Ebbene, se alzate gli occhi al di sopra della statua
simbolo della capitale danese, vedrete su un’isola sita un chilometro dopo il braccio di mare, le ciminiere di un inceneritore. Qui i
danesi bruciano quel poco (30 per cento) di rifiuti che non riescono a imbrigliare nella pratica delle «4 R» raccomandata dall’Unione europea: e cioè riduzione, raccolta differenziata, riciclaggio, recupero dell’energia. Lo bruciano con tecnologia made in Italy: infatti l’impianto fu costruito nel 1995 dai genovesi dell’Ansaldo
Volund.
«Ogni volta che rifletto su questa realtà, io che sono originaria di
Napoli vengo presa da rabbia e tristezza» mi confida in una pizzeria
nella cornice del grande parco di divertimenti Tivoli, Grazia Mirabelli, la presidente del Comites nella capitale danese, che conta ben
4250 nostri connazionali iscritti. «Ogni giorno la televisione rovescia nelle nostre case, anche quassù, le tragiche immagini dell’emergenza rifiuti che sta mettendo in ginocchio Napoli e la Campania e
con loro purtroppo anche l’immagine della nostra stessa Italia. E allora mi viene da urlare al presidente della regione, Antonio Bassolino, e al sindaco di Napoli, Rosa Russo Iervolino: “Venite quassù,
venite a vedere come gli italiani hanno aiutato i danesi a risolvere i
loro problemi senza creare allarmismi e a raccogliere lusinghieri bilanci di ogni tipo, a partire da quelli turistici”.»
Al momento del commiato Grazia non era più tanto pessimista:
«Succede che l’ambasciatore italiano a Copenhagen, Roberto Di
Leo, è andato in pensione nell’estate del 2007 ed è andato a fare il
consigliere diplomatico: indovinate di chi? Proprio di Bassolino.
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Per dirla con Nino Manfredi: fusse che fusse la vorta bona...». Un
orizzonte di ottimismo che purtroppo si è rivelato infondato. Abbiamo ancora negli occhi lo sbocco tragico dell’emergenza rifiuti
del gennaio scorso: un’emergenza che dopo quattordici anni, 780
milioni di euro ingoiati all’anno, un bilancio fallimentare di quindicimila miliardi di lire in dieci anni, è purtroppo normalità quotidiana. No, purtroppo l’Europa non abita più a Napoli.
La parabola della mucca
L’attenzione allo sviluppo sostenibile e all’uso efficiente delle risorse è
una costante nel mio viaggio, ma si infittisce nei segni raccolti in Danimarca. Qui mi hanno parlato dell’esperienza felice della cittadina
di Kalundborg e della «ecologia industriale». A sera, in albergo, mi
collego via internet al sito Altronovecento (www.fondazionemicheletti.it) che vuole essere una rivista telematica di storia centrata sul
binomio industria-ambiente.
E qui trovo la parabola della mucca, molto utile per capire lo sviluppo sostenibile e l’importanza dell’esperimento di Kalundborg.
Essa è stata ispirata da uno dei padri dell’ambientalismo scientifico,
Garrett Hardin, docente di ecologia umana all’università di Santa
Barbara in California, e liberamente interpretata dal merceologo
Nebbia.
Lo scenario è un pascolo collettivo: vale a dire di proprietà o a disposizione degli abitanti di un villaggio (ciascun abitante può andare a raccogliere la legna o a pascolare, per le necessità proprie e della
propria famiglia o per quelle degli altri abitanti del villaggio). Un
pascolo grande, ma non illimitato, anzi con confini ben definiti,
fertile, attraversato da un ruscello ricco di acque pulite. Un giorno,
uno degli abitanti del villaggio porta a pascolare nel prato la sua
mucca: questa bruca l’erba, beve l’acqua fresca e pulita del ruscello e
produce il latte che rappresenta il reddito del pastore. Gli escrementi della mucca cadono sul terreno e vengono trasformati in sostanze
nutritive per l’erba del prato.
Alla fine della stagione il pastore si è assicurato un certo guadagno ed è contento: la mucca è contenta perché ha avuto cibo buono
e abbondante e acqua fresca per tutta l’estate; il prato è contento
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perché è pronto a fornire, l’anno dopo, nuova erba, e il ruscello è
contento perché le sue acque sono ancora limpide e pulite. Durante
l’inverno il pastore pensa però che sarebbe possibile guadagnare di
più producendo più latte e decide, la primavera successiva, di portare al pascolo non più una sola mucca, ma dieci mucche.
A questo punto la presenza di tanti animali fa sentire i suoi effetti: gli zoccoli pestano l’erba che non è più disponibile per l’alimentazione, e rendono duro e impermeabile il suolo. Gli escrementi di
tanti animali ristagnano sul suolo e non vengono assorbiti dal terreno e finiscono con il contaminare le acque del ruscello che non sono più potabili.
Alla fine dell’estate forse il pastore ha guadagnato un po’ di più
vendendo più latte, ma l’acqua del ruscello è stata inquinata, le
mucche sono infelici perché dovevano litigare per contendersi la
poca erba, e il pascolo è stato distrutto e non sarà più utilizzabile
l’anno dopo né quelli successivi, né dal pastore né dagli altri abitanti del villaggio, che pure hanno, come il pastore, gli stessi diritti
al suo uso.
La parabola si presta a varie forme di lettura: la prima è di carattere ecologico e biologico: in una terra di risorse naturali limitate, qualsiasi spazio o territorio ha una capacità ricettiva limitata sia per gli esseri viventi presenti, sia per lo smaltimento e l’assimilazione delle
scorie e degli escrementi della loro vita. Il pascolo nella parabola è
proprio il nostro intero pianeta, grande, ricco di risorse naturali, ma
limitato, al punto che le attività della popolazione umana impoveriscono le riserve di risorse naturali non rinnovabili e fanno peggiorare
la qualità delle risorse rinnovabili, delle acque, dell’aria, fanno diminuire la fertilità del suolo coltivabile e la ricchezza delle foreste.
Ecco, i biologi chiamano carrying capacity, «capacità ricettiva»,
appunto, il numero massimo di individui – vegetali, animali, umani
– che possono soddisfare i propri bisogni vitali usando le risorse naturali disponibili in un territorio circoscritto.
Un limite alla popolazione che un territorio può accogliere esiste,
naturalmente, anche per le popolazioni umane, per gli abitanti di
una città, di una regione, di uno Stato: per cui c’è seriamente da
chiedersi se è possibile che la popolazione terrestre continui ad aumentare al ritmo di sessanta milioni di persone all’anno, come sta
avvenendo attualmente.
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Ovviamente non è solo il superamento della nostra «capacità di
carico» a condurci all’insostenibilità: la causa è, piuttosto, l’uso inefficiente delle risorse. I promotori della sostenibilità non auspicano,
fatta eccezione per alcune frange di ecofondamentalisti, un ritorno
alle origini, una rinuncia allo sviluppo raggiunto, ma, piuttosto, una
via diversa alla creazione di reddito, nella consapevolezza che non
tutto ciò che è sostenibile si rivela efficiente, e viceversa.
La città danese di Kalundborg
A detta di molti studiosi dell’ecologia urbana, certamente l’esempio
più antico e perfetto di buona utilizzazione delle risorse naturali, di
riuso e riciclo, è la città danese di Kalundborg, cento chilometri a
ovest di Copenhagen.
Qui l’ecosistema industriale, nato spontaneamente e gradualmente
perché economicamente vantaggioso per tutti i suoi partecipanti, risale a tre decenni fa. Le rigide norme di tutela ambientale del Nord Europa e il diminuito spazio disponibile per le discariche stimolarono
già da allora in Danimarca un gruppo di industriali, guidati da Leif
Andersson, a trovare impieghi alternativi ai loro materiali di scarto e a
sperimentare quella che viene definita la «simbiosi industriale».
Kalundborg oggi è sede di quattro grandi industrie: Asnaes Power
Station, una centrale elettrica alimentata a carbone; Novo-Nordisk,
una fabbrica di enzimi e prodotti farmaceutici; Gyproc, una fabbrica di pannelli di cartongesso; Statoil, una raffineria.
Asnaes produce elettricità generando vapore utilizzato dalla Statoil per riscaldare i propri oleodotti (coprendo così il 40 per cento
del suo fabbisogno di calore) e dalla Novo-Nordisk (che copre così
il 100 per cento del proprio fabbisogno di energia termica) come
fonte di pressione e calore.
Il resto del vapore è distribuito a un allevamento di pesci e al riscaldamento di tutte le case cittadine. In questo modo l’efficienza
del carbone utilizzato dalla centrale elettrica è salita dal 40 per cento
a più del 90 per cento.
Gyproc, invece, beneficia del vapore della Asnaes e del solfato di
calcio prodotto dai suoi filtri installati per ridurre le emissioni di
zolfo. Il gas, sottoprodotto del processo di raffinazione della Statoil,
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passa attraverso un processo di desulfurizzazione dal quale esce lo
zolfo solido (utilizzato dalla Kemira Acid, una fabbrica della Jutland) e il gas desulfurizzato, utilizzato da Gyproc e Asnaes invece di
essere bruciato. In questo modo Asnaes risparmia trentamila tonnellate di carbone all’anno mentre Gyproc copre il 95 per cento del
suo fabbisogno di gas.
Statoil, inoltre, fornisce le proprie acque di scarto ad Asnaes per il
raffreddamento dei suoi boiler (che copre così il 75 per cento del
suo fabbisogno d’acqua).
Novo-Nordisk fornisce gratuitamente la propria fanghiglia di
scarto, ricca di azoto, agli agricoltori locali, che così arrivano a risparmiare circa cinquantamila euro l’anno di fertilizzanti ciascuno.
E proprio la città di Kalundborg potrebbe costituire un eccellente
spunto per approfondimento dello studio dello sviluppo sostenibile
sotto un’ottica territoriale, così come raccomanda Jesse Ausbel.
Al di là, comunque, dei casi particolari, dei successi più o meno
clamorosi, l’ecologia industriale è una materia ancora lontana dal
suo completo sviluppo e moltissimi sono i problemi che l’applicazione dei suoi principi comporta. Certamente, comunque, l’esperienza di Kalundborg merita una valutazione da parte di chi, in Italia, ha a cuore, e non solo a parole, lo sviluppo sostenibile.
Così in Svezia i politici si dimettono
La Svezia del buon lavoro è anche il paese più sensibile ai rapporti
tra pubblico e privato. E la vita privata dei personaggi pubblici, anche se vista senza moralismi ma in funzione del ruolo politico e della capacità ad affrontare i problemi, è decisiva per le sorti del politico chiamato a governare. Intanto un’annotazione non marginale: sia
sui giornali sia in televisione, si applica con rigore e senza proteste il
divieto di usare il corpo delle donne come oggetto per fare pubblicità. Torniamo ai politici: Ulrica Schenström, la trentacinquenne
segretaria di Stato nell’ufficio del primo ministro svedese Fredrik
Reinfeldt, si è dimessa nel novembre 2007 per un bacio.
Il quotidiano «Aftonbladet» ha mostrato la Schenström, che era
stata una delle artefici della vittoria elettorale alle politiche del 2006
e nel governo ricopriva il delicato incarico della Protezione civile,
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dopo avere bevuto ben diciannove bicchieri di vino si scambiava un
bacio con Anders Pihlblad, cronista politico dell’emittente Tv4.
Nessuno ha ancora appurato se nella serata galeotta la Schenström
fosse in servizio o no. Tuttavia, il primo ministro Reinfeldt è stato
travolto dalle critiche della stampa svedese e degli oppositori socialdemocratici, che in precedenza, quando erano loro al governo, avevano pagato cara la loro incapacità di affrontare una crisi come quella dello tsunami in Thailandia, dove morirono ben 543 svedesi: il
principale collaboratore del premier Goran Persson fu costretto alle
dimissioni per manifesta incapacità.
Non è la prima volta che il governo conservatore Reinfeldt, pur riscuotendo consensi per la sua politica economica (ha abolito la patrimoniale e privatizzato tutti gli antichi templi della socialdemocrazia),
è costretto alle dimissioni di alcuni suoi membri. Nell’ottobre 2006 il
ministro del Commercio con l’Estero Maria Borelius, il ministro delegato alla Cultura Cecilia Stego Chilo e il ministro dell’Immigrazione Tobias Bilstroem sono stati costretti a lasciare i loro incarichi rispettivamente per aver pagato in nero le bambinaie e per non aver
provveduto al saldo del canone televisivo: in quell’occasione il giornalista del «Corriere della Sera» Gian Antonio Stella scrisse che dopo
quelle tre dimissioni molti italiani «hanno desiderato essere svedesi».
Questi episodi non dimostrano certamente che gli svedesi siano perfetti, tutt’altro, ma indicano quale sia il metro di giudizio, quali le
norme di comportamento nei paesi del Nord Europa. Da noi, cosa si
fa in materia di trasgressioni? Di regola si chiudono gli occhi.
Così l’Irlanda ha usato i fondi europei. Mentre l’Italia...
Per secoli gli irlandesi sono stati conosciuti come un popolo di contadini cordiali e fantasiosi costretti a vivere in miseria. Oggi invece, secondo i calcoli dell’Ocse sul livello della ricchezza personale, costituita da reddito e dal patrimonio (come la casa di proprietà), gli irlandesi, a trentacinque anni dall’ingresso nella Comunità europea dalla
quale ha beneficiato di un massiccio trasferimento di fondi, hanno
superato tutti in Europa, piazzandosi al primo posto nella classifica
del benessere. Davanti ai francesi, ai tedeschi, agli italiani e persino
agli inglesi, arrivando a tallonare i giapponesi, i più ricchi al mondo.
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I fondi europei sono stati abilmente usati per creare una rete di
infrastrutture modernissime, primo passo verso lo sviluppo. I governi che si sono succeduti negli anni Ottanta e Novanta hanno introdotto una serie di agevolazioni fiscali che hanno favorito l’arrivo sull’isola di molte multinazionali, quali la Dell computer, Microsoft e
Ibm. È stata la nascita della Silicon Valley europea e l’inizio del
boom economico, idealmente simboleggiato da imprenditori come
Tony Ryan, fondatore della Ryan Air, la più famosa compagnia di
voli low cost, il cui patrimonio lo scorso anno era stimato superiore
ai 1300 milioni di euro.
Secondo i dati, l’Irlanda è la principale esportatrice mondiale di
software e servizi del terziario avanzato. La ragione di questo primato risiede nella non tassazione dei diritti d’autore, per cui la Repubblica irlandese viene scelta come base per la commercializzazione in tutto il mondo di molti prodotti coperti da copyright, come
la musica e, appunto, i programmi per computer. Un efficientissimo sistema bancario con accesso per le nuove imprese a linee di
credito immediate e a basso costo, unito alla detassazione delle
nuove attività imprenditoriali, ha creato il boom della Celtic Tiger.
Raccolgo i dati irlandesi con ammirazione e con amarezza. Quest’ultimo sentimento mi assale quando penso che alla fine degli anni
Settanta l’Irlanda era in una situazione ancor più drammatica dell’Italia. Inflazione al 20 per cento, un brutale deficit governativo...
La professoressa Corrado mi ha fatto i conti e un confronto nel
suo studiolo di Cambridge: «Nel corso degli anni Ottanta e Novanta l’Irlanda ha ricevuto un volume di fondi dall’Unione europea pari a quelli che sono stati destinati al Sud Italia. Ma nel nostro Sud
ancora la metà dei giovani al di sotto dei trentacinque anni sono disoccupati e la crescita è ferma allo 0 per cento. L’Irlanda invece è
passata dal 20,4 per cento di disoccupazione del 1991 a solo il 4,3
per cento del 2006.
«Insomma, loro hanno fatto fruttare i soldi ricevuti dall’Europa,
noi nel Mezzogiorno li abbiamo sperperati. Sicché la questione meridionale rimane a tutt’oggi la più grande questione italiana».
Si dirà, come fa Mainardi: è inquietante ammetterlo, ma i comportamenti mafiosi li registriamo persino in natura. Ci sono degli
uccelli chiamati appunti «mafiosi» che sono parassiti del nido. Sono
dei cuculi della specie Clamator glandarius (cuculo dal ciuffo), men-
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tre le loro vittime designate sono le gazze, pica pica, quei simpatici
uccelli bianchi e neri e dalla lunga coda che incontriamo sempre più
spesso nelle nostre campagne. «Nel caso dei cuculi – racconta l’etologo – è stato scoperto che le uova e i nidiacei parassiti vengono accettati dalle gazze perché i loro genitori ricorrono a vere e proprie
minacce mafiose del tipo: statti accorto, se non accetti il mio uovo e
non allevi mio figlio, io distruggerò la tua covata. Che poi è proprio
quello che avviene alle gazze che resistono alle minacce. Quelle remissive, invece, pagando il singolare balzello, effettivamente godono della protezione mafiosa non subendo ulteriori fastidi.» Ma, per
passare alla mafia umana, facendo affondare insieme alla dignità dei
singoli anche l’economia generale.
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Torino, Italie
Due uscite autostradali, due Italie opposte
Al ritorno in Italia dopo le varie tappe nella «meglio Europa», il mestiere di cronista mi chiama a fare un’ulteriore sosta in casa nostra:
da Milano alla tangenziale nord di Torino.
Direte voi: che c’entra la meglio Europa con la tangenziale nord
di Torino? C’entra, c’entra. E per un aspetto molto singolare.
Lì, a me che arrivavo da Milano in auto dopo il viaggio in Europa,
si sono presentati uno dietro l’altro, nel giro di appena un chilometro, due svincoli per entrare in città: la prima uscita porta il nome di
Venarìa (con l’accento sulla i), la seconda ti incanala nel corso Regina
Margherita, per i torinesi il familiare e centrale «corso Regina». Quelle due uscite, che ho imboccato nell’autunno del 2007 a distanza di
un mese per andare a ricostruire due vicende, sono metaforicamente
le due uscite davanti alle quali ci troviamo oggi tutti noi.
La prima uscita, quella di Venaria Reale, porta diritto diritto alla
reggia restaurata, un’impresa titanica che può essere presa a emblema dell’Italia della buona politica (perché anche da noi qualche
buon esempio di livello europeo ovviamente non manca); lo svincolo successivo conduce all’acciaieria ThyssenKrupp, clamorosamente balzata alla cronaca nel dicembre scorso per il tragico rogo
che ha ucciso sette operai e che è diventata il sinistro simbolo della
mancanza di sicurezza delle nostre fabbriche e dei nostri cantieri,
spesso il fronte di una guerra in cui ogni giorno, incredibile a credersi, da anni sacrifichiamo mediamente quasi tre-quattro vite
umane: altro che società civile, questa è una realtà da arretratissimo
Terzo mondo.
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Due uscite (Venaria e corso Regina), due Italie, due modi di fare
le cose, farle bene e farle male.
Venaria: dallo sterco di pipistrelli alla reggia restaurata
C’era uno strato di escrementi di pipistrelli spesso diversi centimetri
sul pavimento della galleria grande di Diana, il cuore di quella che
un tempo fu la reggia della millenaria dinastia Savoia.
Era il 1996 e i visitatori che si affacciarono nella galleria grande,
guidati dallo storico Gianni Oliva (poi assessore alla Cultura della
Regione Piemonte), non riuscirono a trattenere una smorfia di desolazione e disgusto.
Dieci anni dopo la reggia è tornata a essere la luminosa Versailles
italiana, grazie a un restauro sapiente, una vera e propria impresa titanica durata otto anni (è stata inaugurata il 13 ottobre 2007): il recupero di un rudere di ottantamila metri quadrati, che solo negli
spazi al coperto è grande quanto trenta campi di calcio.
Un tempo uno dei più significativi esempi di architettura barocca internazionale, questa nuova «fabbrica della cultura» cambia il volto di una regione e capovolge il destino di una città (Venaria, quarantamila abitanti alle porte di Torino) che entra così
nella ribalta europea risalendo dai fondi dell’oblio quando veniva
ricordata solo per i tanfi della Snia Viscosa.
Li cambia in positivo a tal punto da spingere Gian Antonio Stella
a mettere nero su bianco queste parole: «Santa Politica a Venaria ha
fatto un miracolo. E allora viva Romano Prodi e viva Silvio Berlusconi, viva Enzo Ghigo e viva Mercedes Bresso e viva Walter Veltroni e
Giuliano Urbani e Francesco Rutelli e Carlo Azeglio Ciampi e Sergio
Chiamparino e i sindaci Lino Alessi, Giuseppe Catania e Nicola Pollari e insomma viva la destra e viva la sinistra».1
E viva coloro che si sono succeduti in questi anni di lavoro: soprintendenti e direttori, funzionari, architetti dai nomi illustri come
Gae Aulenti, restauratori come la famiglia Nicola di Aramengo
(Asti) e artigiani di qualità fino ai volontari e ai «lavoratori ignoti»,
1 Dalla prefazione del libro di Andrea Scaringella, Il progetto. La Venaria Reale, Ananke,
Torino 2007.
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uno per tutti il signor Felice Cimadoro che fino all’ultima notte prima dell’inaugurazione ufficiale, nell’autunno 2007, ho visto piantare i ciottoli sulla piazza della Repubblica su cui, ironia della sorte, si
affaccia il monumento simbolo della famiglia reale dei Savoia.
In principio fu il gioco del Lotto
Sono duecento i milioni di euro investiti nel cantiere della Venaria.
Soldi ottenuti come? In principio fu il gioco del Lotto. Sì, la fiammella finanziaria che accese il fuoco sacro del restauro a Venaria fu
proprio quel gioco seguito da quindici milioni di italiani. All’iniziale
sostegno economico del ministero dei Beni culturali per quarantacinque miliardi di vecchie lire acquisite con i fondi del gioco del Lotto si sono aggiunti successivamente i centoventi miliardi della Comunità europea che, insieme ai fondi messi a disposizione dagli enti
locali e dagli sponsor, ha permesso di creare la struttura di supporto
per la Soprintendenza e per la regione nel 1997 e di attivare senza intoppi burocratici le procedure per assegnare le otto gare d’appalto internazionali.
La sensazione che si vive visitando la Reggia, un bene comune che
è incluso nella lista del patrimonio mondiale dell’umanità compilata
dall’Unesco (l’Italia è la prima potenza culturale, più del 50 per cento dei beni culturali del mondo sono inclusi nei nostri confini), è resa bene dalle parole di Gian Antonio Stella: «Ti prende una felicità
furente, a vedere che cosa hanno fatto insieme i politici di destra e di
sinistra. Un misto di fierezza e di rabbia. Fierezza perché mai s’era visto negli ultimi decenni in Italia uno sforzo corale di queste dimensioni in cui sono stati messi soldi e intelligenza, cultura e saggezza,
abilità artigianale e agilità burocratica. Rabbia perché il risultato di
questa collaborazione è così stupefacente che ti domandi cosa sarebbe, questa nostra Italia, se la stessa generosità istituzionale dimostrata
a Venaria, senza gli insopportabili distinguo e gelosie, dispetti e odii
tra i partiti e le coalizioni, venisse dispiegata sui mille fronti che irritano e angosciano gli italiani».
Parole che ci ricordano il comandamento centrale della buona
politica, quello sforzo corale, quel gioco di squadra teso a realizzare
un obiettivo di eccellenza nell’interesse di tutti, un obiettivo che ci
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avvicina all’Europa virtuosa, l’Europa capace di fare i progetti e di
realizzarli nel rispetto dei tempi, del budget e della qualità. In un
paese in cui gran parte dei politici, vecchi e nuovi, hanno impresso
sul loro vessillo lo slogan di Gatien Courtilz de Sandras («L’arte della politica consiste nel fare i propri affari e di impedire agli altri di
fare i loro»), l’assunto «la politica è realizzare» diventa un principio
rivoluzionario. Se n’era accorto nel dopoguerra Alcide De Gasperi,
un uomo politico che di buon governo se ne intendeva.
Ma ben più sfigurata era l’Italia ereditata da De Gasperi: un paese
semidistrutto dalla folle guerra voluta dal regime fascista di Benito
Mussolini. L’immagine di quell’Italia tutta da rifare è fissata in un
episodio che molti nostalgici di oggi tendono a dimenticare: Parigi,
10 febbraio 1947. De Gasperi arriva per firmare gli accordi di pace
e ai diplomatici dei paesi vincitori, che presentavano i debiti da pagare (lui che non aveva il senso del denaro), dice: «So che qui tutto
mi è contro, tranne la vostra personale cortesia». Nessuno applaude.
Solo l’americano Byrnes si alza per stringergli la mano. È l’unico segno di umanità. Il prezzo da pagare da parte dell’Italia è terribile.
Una lista interminabile di debiti. Terre a parte, dobbiamo pagare,
come riparazione, cento milioni di dollari alla Russia, centoventicinque alla Jugoslavia, centocinque alla Grecia, venticinque all’Etiopia e cinque all’Albania. Dobbiamo cedere navi, attrezzature, prodotti industriali, lavoro. Un primo bilancio della guerra: quattrocentodiecimila morti; su cento case, cinque sono distrutte; la produzione industriale è ridotta del 75 per cento, del 50 per cento quella agricola. Manca il pane: De Gasperi telefona al sindaco di New
York, Fiorello La Guardia e chiede aiuto. Piroscafi di grano vengono
dirottati dall’Irlanda.
Nel 2004 ha fatto notizia il particolare che la fiction prodotta da
Claudia Mori e dedicata a rievocare la figura di De Gasperi fosse
stata rimandata tra polemiche. Enzo Biagi, in quei giorni, mi diede
la sua interpretazione dei fatti: «Credo che la fiction sia stata rimandata perché evocare ai giorni nostri la figura di De Gasperi è scomodo per i potenti d’oggi. De Gasperi è una figura di statista che ti
spinge a fare dei confronti tra i suoi comportamenti, i suoi riserbi, la
sua sobrietà, la sua solitudine e lo stile di vita di coloro che oggi vogliono accreditarsi come suoi eredi».
Solitudine, disse. Anche sua figlia, Maria Romana De Gasperi,
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biografa del padre, sottolinea questa sua condizione. Lei vedeva in casa, fin da bimba, un libro del domenicano Antonin-Gilbert Sertillanges con evidenziata la frase: «La solitudine arricchisce di stimoli e di
contatti spirituali. Meglio una solitudine appassionata, in cui ogni
raggio di sole produce una doratura d’autunno». Rispondeva solo alle
sue idee e alla sua coscienza. Da solo andò a Parigi per il trattato di
pace. Sentiva di rappresentare un paese distrutto, che non era riuscito
a liberarsi del fascismo da solo. Una lezione, quella di De Gasperi,
che, secondo Biagi, andrebbe riscoperta e applicata oggi: «Il suo monito: bisogna stare attentissimi ai germi iniziali delle dittature. Nel
1922 lui si era illuso di portare i fascisti verso soluzioni costituzionali:
un errore che poi fu pagato da tutti, duramente. Il suo senso delle istituzioni: lui era stato educato in Trentino, aveva una mentalità particolare. Rispettava il pontefice, ma la sua libertà consisteva nel respingere
le ingerenze che lui considerava ingiuste; conosceva i doveri di un capo di governo. È moderno il suo invito a tornare a innamorarsi della
semplicità e della sobrietà. È moderno il suo senso del risparmio: era
solito spegnere le luci degli uffici rimaste accese alla fine del lavoro. È
moderna la sua distinzione tra chi è politico e chi è statista: “Il primo
guarda alle prossime elezioni, mentre l’altro guarda alla prossima generazione”. È moderno il suo stesso senso della solitudine. Questa è
una pena, forse, di tutti coloro che devono comandare».
La modernità di De Gasperi era invece la caratteristica che aveva
convinto Liliana Cavani, regista dalla ricca filmografia, ad accettare di
girare la fiction su De Gasperi per la Rai. «Ci sono film sui santi – e io
ne ho fatti – ma non sugli uomini politici. Almeno non sugli uomini
politici moderni. La politica, come scienza oltre che come strumento,
è caduta in disgrazia, forse a causa della situazione attuale. Ma raccontare il modo in cui veniva concepita in passato la politica è importante. La storia di De Gasperi, con le sue caratteristiche di lucidità, passione, arguzia, ci fa amare la politica. Per me conoscere De Gasperi è
stata una rivelazione: scoprire un politico, un democristiano, è stata
una sorpresa. E nel mio mestiere fare certe scoperte è importante. La
politica riguarda tutti noi e De Gasperi credeva fermamente nel valore democratico della politica. In questo era americano, pensava che la
democrazia significasse partecipazione. Odiava termini come popolo
e massa, che spersonalizzano gli individui. Era un uomo religioso, ma
anche molto laico nel concepire il suo ruolo politico.»
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La ThyssenKrupp e la tragedia delle morti bianche
Torniamo sulla tangenziale nord di Torino: la seconda uscita dopo
Venaria, quella di corso Regina Margherita, l’ho imboccata un mese
dopo, nel primo fine settimana di dicembre 2007, per una testimonianza questa volta di tutt’altro tenore rispetto al restauro della vicina reggia. Perché lo svincolo di corso Regina mi ha portato alla più
grave delle emergenze nazionali, a uno dei tanti fronti irrisolti che
angosciano gli italiani.
Su corso Regina si affaccia lo stabilimento ThyssenKrupp, una
multinazionale dagli utili formidabili. La mattina di martedì 4 dicembre una stringata nota di agenzia di stampa informava che il
gruppo siderurgico tedesco chiudeva l’esercizio fiscale 2006-07 con
utili in crescita del 29 per cento rispetto all’anno precedente. L’utile prima delle tasse: tre miliardi e trecento milioni di euro. «I buoni
risultati – concludeva la nota – hanno spinto il management della
ThyssenKrupp a proporre un incremento dei dividendi del 30 per
cento, da 1 euro a 1,30 euro per azione.»
Poche ore dopo queste trionfali righe, la notte tra il 5 e 6 dicembre, in uno stabilimento proprio della ThyssenKrupp sette operai
hanno trovato la morte investiti da fuoco e olio bollente, in un rogo
che ricorda le atrocità di un barbaro medioevo. Un Terzo mondo,
dove in nome del profitto si abbandonano le più elementari precauzioni: gli estintori semivuoti (la Procura di Torino è convinta che gli
operai avrebbero potuto salvarsi se l’azienda avesse investito un milione di euro per un impianto antincendio automatico, lo stesso dello stabilimento di Essen), i telefoni dell’allarme che non funzionavano, la bicicletta usata per chiamare i soccorsi...
La ThyssenKrupp, allora soltanto Krupp, comprò lo stabilimento
torinese dall’Iri nel 1994. In tredici anni i tedeschi non hanno trovato il tempo e i soldi per applicare alla linea 54 di Torino la barriera d’azoto della gemella di Essen, in Germania, che avrebbe potuto
evitare la strage.
In due giorni, due volti dell’industria: la crescita dei profitti, la
morte degli operai.
Michele Di Biase, un ex sindaco di Trinitapoli, il paese del Tavoliere pugliese dove sono nato, ha raccolto una preziosa documentazione sul primo laureato della nostra piccola comunità: Scipione
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Staffa, economista, efficiente direttore dell’Ufficio di statistica della
città di Napoli dal 1865, «propugnatore di un socialismo temperato
e razionale» (dal quotidiano «Roma», 12 giugno 1867) il quale parlava di lavoratori che perdevano la vita «in mezzo a fornaci ardenti».
È passato quasi un secolo e mezzo e dello stesso tenore sono le
parole che ascolto a Torino, davanti allo stabilimento della ThyssenKrupp, da un altro pugliese, Antonio Boccuzzi, per gli amici
Toni, l’operaio e sindacalista di trentaquattro anni sopravvissuto al
rogo della notte del 6 dicembre, che porta ancora sulla faccia bruciacchiata le tracce dell’inferno di fiamme dal quale, nonostante il
suo generoso tentativo, non è riuscito a estrarre vivi i suoi compagni. Toni ha voluto incontrare cronisti-testimoni e gli altri compagni di lavoro davanti alla fabbrica perché ha bisogno del contatto
fisico: «Di notte mi sveglio spesso, mia moglie mi chiede perché e
io non posso che rispondere che ho negli occhi l’inferno intorno ai
miei amici».
Quella notte, dei nove operai coinvolti nell’incidente, tre stavano facendo quattro ore di straordinario in aggiunta alle normali otto in uno stabilimento destinato a chiudere nel giro di un anno ma
che, nel frattempo, vuole rispettare i programmi di produzione nonostante in pochi mesi se ne sia andata la metà del personale più
qualificata e dunque più consapevole dei pericoli. Mi ha detto Maria De Masi, la madre di Giuseppe, l’ultima delle sette vittime della ThyssenKrupp: «Mio figlio era felice di lavorare e si fermava anche più a lungo del suo orario, perché questo era il suo primo lavoro “vero”, iniziato con un contratto di formazione». L’incidente è
avvenuto nel cuore della notte, quando prevale la stanchezza.
Con salari dal basso potere d’acquisto e la disoccupazione in vista, gli operai torinesi hanno accettato rischi che i loro colleghi tedeschi, meglio garantiti, non avrebbero tollerato.
Angelo Laurino, una delle vittime, ripeteva spesso ai figli di
«studiare, studiare, studiare per non dover fare un lavoro disumano come il mio». Nel previsto sistema dei risarcimenti sarà bene
controllare che i figli delle vittime, qui come altrove, siano destinatari reali e non solo a parole di un’indennità che assicuri loro
negli anni la possibilità di studiare e di stare in salute fino alla conclusione degli studi. Una volta c’era l’assistenzialismo caritatevole
(quello che portava la vedova o un figlio a succedere al congiunto
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morto nella stessa fabbrica, vedi l’Icmesa di Seveso). Quel meccanismo era stato giustamente superato in nome del diritto. Ora
però non c’è né l’uno né l’altro e per questo va rivisto il sistema di
indennizzo per vedove e orfani, depredati dell’amore ma pure del
reddito.
Com’è capitato alle vedove e ai figli degli operai morti sul lavoro
alla Siapa di Pomezia. Per quarant’anni quegli stabilimenti sul litorale sud di Roma hanno prodotto anticrittogamici, antiparassitari e pesticidi che, lentamente, hanno avvelenato e infine ucciso silenziosamente esseri umani. Muoiono quattordici operai rimasti esposti al
contatto con sostanze velenose. L’ultimo, nel 1998. La Procura di
Roma individua le cause dei decessi nelle condizioni in cui gli operai
sono stati obbligati a lavorare. Sono rinviati a giudizio e processati
due ex dirigenti. Alla giustizia, nel 2006, restavano poco più di due
anni per raggiungere un verdetto conclusivo. Il processo allora era in
primo grado. Sarà dichiarato «estinto per intervenuta prescrizione»
per via della ex legge Cirielli, in base alla quale quasi tutti i processi
per queste morti colpose sul lavoro non sono andate oltre l’appello.
La denuncia della figlia di una vittima
È capitato anche, per citare un altro esempio, alla genovese Elisabetta Vallarino, oggi alla ricerca di un posto di lavoro qualificato nonostante la sua laurea in biologia. Da lei, dopo aver letto la mia cronaca
sulla tragedia della ThyssenKrupp, mi arriva questa lettera documentata e toccante: «Voglio portare la mia testimonianza come figlia di
un lavoratore morto il 27 febbraio 1997 nello stabilimento Ilva di
Genova-Cornigliano. Mio padre, Simone Vallarino, a soli quarantotto anni, è stato una delle tante vittime di una gestione del lavoro indifferente alla vita di uomini onesti, lavoratori e innocenti. Nel suo
caso, come per la ThyssenKrupp, non si è trattato di una fatalità: ci
sono dei colpevoli riconosciuti in sede processuale; sono coloro che
hanno fatto “tagli” sulle misure di sicurezza che avrebbero tutelato la
sua vita, impedendo che un muletto per i trasporti di rotoli di acciaio lo investisse. Io e mia madre con il tempo abbiamo cercato di
riprendere la nostra vita con dignità e sempre nel suo ricordo. Quasi
nessuno ci ha aiutate.
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«È bene che gli italiani sappiano che non esiste una politica rivolta alle famiglie delle “morti bianche”, non sono previsti interventi di accompagnamento nel superare queste tragedie, non c’è
sufficiente informazione sui diritti di cui possono avvalersi gli orfani e le vedove e mancano interventi a sostegno dello studio e dell’inserimento nel mondo del lavoro per i figli dei deceduti. L’unico
reale supporto ci è stato offerto dall’Anmil di Genova (Associazione nazionale mutilati invalidi del lavoro) e dall’allora sindaco di
Genova, Adriano Sansa, persona di grande cuore. Voglio ricordare
ancora che l’unico stimolo che spingeva mio padre ad alzarsi ogni
giorno per andare a lavorare in una realtà che lui stesso definiva infernale era il senso di responsabilità verso la sua famiglia e il desiderio di garantire a sua figlia un’istruzione e, quindi, un futuro migliore. Mi sono impegnata per renderlo orgoglioso di me e per tenere vivo il suo sogno, ma ho lottato e continuo a lottare da sola e
questo non è giusto. Sono vicino alle giovani mogli della tragedia
della ThyssenKrupp e abbraccio forte i loro figli. Siate forti e pretendete giustizia».
L’allora ministro del Lavoro, Cesare Damiano, dopo la tragedia di
Torino, ha promesso di sbloccare presto e impiegare, anche in parte,
a favore della sicurezza sul lavoro, il tesoro dell’Inail che ammonta a
ben 12,4 miliardi di euro custoditi in un fondo della Tesoreria dello
Stato. Giacciono inutilizzati perché per legge quei miliardi vanno
destinati a scopo di utilità sociale ma al momento fanno parte dei
residui attivi registrati negli ultimi anni.
Qualsiasi cifra superiore ai duecentosessanta milioni non può infatti sostare nelle casse dell’istituto ma, sempre per legge, deve essere
trasferita in un conto fruttifero del ministero dell’Economia.
Tali soldi sarebbero disponibili in termini di cassa ma restano di
competenza dell’Inail, pertanto il governo non ne può disporre come vuole.
Pene severe, come l’arresto, e controlli accurati nelle imprese, sono previsti dalla legge che porta la firma proprio dell’ex ministro
Damiano. È previsto anche il pagamento di una somma di denaro
fino a centomila euro per le infrazioni non punite con sanzione penale. Ma l’aspetto delle sanzioni non è l’unico previsto dalla legge
che pone anche le basi per un giro di vite sulle ispezioni con l’immissione di trecento nuovi ispettori. Il rischio è che il testo per la si-
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curezza sui luoghi di lavoro, necessario per un’auspicata inversione
di tendenza, resti lettera morta.
L’Italia sarà quel che Torino sarà
Io credo che Torino (la più grande città industrializzata d’Italia, per
cultura, storia e geografia la più vicina all’Europa) possa essere simbolicamente identificata come la cartina tornasole dell’attuale fase
storica del nostro paese, che ha risposto al fenomeno della globalizzazione non come un sistema nazionale, ma come un insieme di sistemi locali.
Torino è la stessa città che, tra gli anni Ottanta e Novanta, veniva
data per perdente nel confronto con la Milano «da bere», e che invece ha fatto i più grandi passi avanti postindustriali dopo il declino
dell’industria tradizionale (Sergio Chiamparino continua a essere il
sindaco italiano più apprezzato dai suoi cittadini). Ma è anche la città
che registra il rogo barbaro dell’acciaieria, nel nome del profitto.
È la città che tocca altezze stellari con le industrie aerospaziali, industrie che fanno sognare uno degli orfani degli operai Thyssen come Fabrizio Laurino di poter un giorno passeggiare tra le stelle, e
che però può avere, con drammatica sorpresa, estintori vuoti negli
stanzoni vulcanici delle fonderie a terra.
È la stessa città che fornisce luminosi esempi di cultura, della scuola, dell’università. Qui, in passato, è capitato che il maestro Giuseppe
Levi avesse tra i propri alunni tre futuri premi Nobel: Rita Levi-Montalcini, Renato Dulbecco e Salvador Luria.
Insomma, è una facile profezia: l’Italia sarà quel che Torino sarà. E
noi, con questo libro che vuole essere di proposta, vogliamo aiutare
la migliore Torino, la migliore Italia ad avere più fiducia.2
Nel mio ufficio ho sempre avuto alle spalle il poster con il volto
di Albert Einstein da anziano, con gli occhi e i capelli buoni e con
quella espressione umile che lo ha fatto adottare nelle stanze di migliaia di giovani di tutto il mondo. Il volto è sovrastato dalla formu2 L’Italia che reagisce, che funziona e che spesso in modo sommesso coltiva la qualità, è
stata in parte rappresentata in un libro di Massimo Cirri e Filippo Solibello, i conduttori di
Caterpillar su Radio2, Nostra eccellenza, Chiarelettere, Milano 2008.
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la che lo ha reso immortale: E=MC2, il che, per puro gioco e ironia,
mi fa venire in mente, al termine di questo primo viaggio nella «meglio Europa», una formula sintetica per la buona politica italiana:
EU=I2, dove EU, sigla dell’Europa, sta anche per la radice greca che
indica «il bene, il meglio» e quindi: guardiamo al meglio dell’Europa per raddoppiare la velocità dell’Italia verso una modernizzazione
dal volto umano.
Sì, lo so: lui guardava con timore reverenziale alla politica. La considerava una scienza molto complicata. Tanto che nell’ultima intervista al «New York Times», a chi gli chiedeva come mai si era riusciti a
scoprire i segreti più intimi dell’atomo ma non ancora i mezzi per
controllarlo, rispose ironico: «È semplice, amico mio, perché la politica è più difficile della fisica». Ma a chi, alla fine di questo viaggio, non
ha visto dissiparsi la depressione nei confronti dell’attuale momento
politico dell’Italia, trovo efficace rileggere un brano della lettera che lo
scienziato, mai arresosi allo sconforto, scrisse a un musicista di Monaco di Baviera turbato e triste: «... Si cerchi amici che condividano il
Suo modo di pensare, studi i meravigliosi scrittori del passato: Kant,
Goethe, Lessing, i classici degli altri paesi. Si goda le bellezze naturali
nei dintorni della Sua città. Faccia finta di vivere, per modo di dire, su
Marte, in mezzo a creature estranee... Diventi amico di qualche animale. In questo modo Lei tornerà a essere un uomo allegro e nulla
potrà più turbarla.
«Si ricordi sempre che gli animi più alti e più nobili sono sempre
e necessariamente soli, e che perciò possono respirare la purezza della propria atmosfera».
Einstein e i merli del Maine
Negli ultimi anni di vita, trascorsi da docente all’università di Princeton nel New Jersey, Einstein divenne amico, come raccomandava,
di alcuni animali frequenti sulla costa atlantica degli Stati Uniti. Tra
questi, ci sono i merli del Maine, che con i suoi cugini californiani
(i merli dei pesci) hanno fornito agli etologi spunti molto interessanti. La loro, infatti, è una parabola naturalistica che si adatta bene
anche agli esseri umani.
I merli del Maine, appena nati, scelgono un ramo e quella sarà la
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loro casa per tutta la vita. Conseguenza del loro pigro comportamento: il canto, registrato nel corso degli anni, avrà sempre le stesse
note, lo stesso tono, come se conoscessero un solo dialetto e basta.
E l’importanza della casa eterna sul ramo li indurrà a una maggiore aggressività, anche nei confronti della più innocua farfallina
capitata nei paraggi.
Il loro cugino californiano, invece, che privilegia cibarsi dei pesci
dell’Oceano Pacifico, ogni anno al sopraggiungere dell’inverno lascia il suo ramo e migra verso le regioni più calde del Centro America e dei Caraibi. Lì trascorre una stagione di vacanza e poi ritorna a
casa in California.
Qualunque ramo è ben accolto come nuova casa. Conseguenza
etologica: a ogni viaggio il curioso merlo dei pesci porta a casa una
nota in più, come se avesse imparato la lingua di quelle terre scelte
per svernare. E l’aggressività, tenuta bene a bada con apprezzabile
autocontrollo, si manifesta soltanto (e a giusta ragione) in occasione
di un attacco al suo nido da parte di un predatore.
Quindi, se vi sentite più vicini agli intraprendenti e curiosi merli
dei pesci, se vi sentite nati in Italia ma con passaporto dell’Unione
europea e cittadini del mondo, se amate viaggiare e relazionarvi con
gli altri, rispondete all’appello che riguarda i politici in primo luogo
ma anche voi cittadini: per imparare qualcosa in più sulla buona
politica, siete attesi in direzione. Direzione Europa.
Buon viaggio.
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Parole di ieri per riflettere oggi sulla buona politica
Caro lettore,
dopo aver chiuso i capitoli del libro, trovo nella cartella del mio
archivio personale documenti e testi che mi hanno colpito, nel corso di questi ultimi anni, e per molte ragioni. Il primo, bellissimo e
vecchio di duemilacinquecento anni, è il Discorso agli ateniesi fatto
da Pericle nel 461 a.C. Il Parlamento e il Senato italiano, sindaci e
amministratori, tutti quelli che fanno politica o guardano a essa come al pilastro della democrazia, dovrebbero leggerlo ogni mattino, o
prima di ogni seduta, come una preghiera laica. Queste parole, pronunciate in un giorno lontano e trasportate dal vento per venticinque secoli fino ad arrivare nel mio computer, dovrebbero essere studiate dai giovani. E queste parole dovrebbero stare su fogli sospesi
su tutti i muri delle sedi istituzionali, per ricordarci sempre cos’è la
democrazia.
Trovo la lettera-documento autografa che mi mandò nel 1990,
cinque anni prima di morire, uno dei più grandi tra gli scrittori che
onorarono con la sua collaborazione i tanti anni della mia direzione
di «Airone»: Michael Ende (1929-95), il cantore con La storia infinita e Momo del potere creativo della fantasia come forma di salvezza
da un mondo arido, divorato da un’economia impersonale e calcolistica.
Rileggo con orgoglio la «proposta per il terzo millennio» recapitatami da Rita Levi-Montalcini alla vigilia della conferenza internazionale di Rio de Janeiro su «Ambiente e sviluppo» (3 giugno 1992): «A
quella dei Diritti, affianchiamo la carta dei Doveri».
Torno a riascoltare la voce profetica di Cornelius Castoriadis, greco trapiantato a Parigi, «un titano del pensiero, enorme e fuori nor-
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ma», lo ha definito Edgar Morin. Filosofo, storico ed economista (i
suoi libri in Italia sono stati tradotti da Bollati Boringhieri e da Dedalo), prima della sua scomparsa, nel 1997, urlava per fermare l’insignificanza e ridare senso alla politica. Castoriadis denuncia un’élite
politica ridotta ad applicare l’integralismo neoliberista, ma sottolinea anche la responsabilità del «cittadino» che nella precarietà generalizzata si ritrae dall’impegno civile.
Recupero i sette messaggi del grande poeta e sceneggiatore Tonino Guerra al sindaco del suo paese, Santarcangelo di Romagna e ai
sindaci d’Italia: sul bordo di quel documento del 1988 ha resistito,
benché scritto a matita, un appunto preso tanti anni fa: «Se i politici si occupassero un po’ più di poesia e i poeti un po’ più di politica,
forse si vivrebbe in un mondo migliore» (John Fitzgerald Kennedy).
I messaggi al sindaco sono uno splendido dono d’amore del poeta
alla sua città e alla piazza intorno alla quale ruota la vita cittadina.
Così, per cambiare registro, dovrebbe esser letto e riletto il messaggio con cui l’attrice Franca Rame, prestata alla politica per una
breve legislatura, rassegna le sue dimissioni al presidente del Senato,
definito «frigorifero dei sentimenti». Un documento esemplare del
male che corrode i nostri politici di buona volontà (penso anche al
vicino di banco di Franca Rame, l’ex magistrato milanese Gerardo
D’Ambrosio), presi nella morsa della partitocrazia come novelli
Laocoonte.
Quando sento, dopo il viaggio-inchiesta che ho avuto il privilegio
di fare, che le Nazioni unite d’Europa hanno una comunità di destino, è perché come figlio del Mediterraneo sento che la forza per
guardare a questa nostra terra comune ci deve venire dal nostro passato. Insomma, l’Europa è il continente di Pericle, non di qualche
attore o petroliere americano. E l’Italia, è il paese che ospita La scuola di Atene dipinta da Raffaello o il ciclo di affreschi del Buon Governo di Ambrogio Lorenzetti (1377), nel Palazzo Civico di Siena, che
da sempre rappresenta un archetipo di arte civica, imperniata sui valori laici della buona politica.
Perché noi viviamo nel continente di Pericle, di Raffaello e del Buon
Governo, ma molti lo ignorano e chi non ama la buona politica fa in
modo che questa ignoranza persista. Non a caso il discorso di Pericle, presentato anni fa da Paolo Rossi in Tv, fu brutalmente censurato. Per questo credo di fare cosa utile riproponendo quel testo e altri
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che hanno costituito e sono ancora oggi, per me e sono certo per altri che amano approfondire, motivo di arricchimento culturale e di
giusta riflessione.
Qui ad Atene noi facciamo così.
L’invito di Pericle alla democrazia, alla libertà, alla buona politica
Qui il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi: e per questo viene chiamato democrazia.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Le leggi qui assicurano una giustizia eguale per tutti nelle loro dispute private, ma noi non ignoriamo mai i meriti dell’eccellenza.
Quando un cittadino si distingue, allora questi sarà, a preferenza di
altri, chiamato a servire lo Stato, ma non come un atto di privilegio,
come una ricompensa al merito, e la povertà non costituisce un impedimento.
Qui ad Atene noi facciamo così.
La libertà di cui godiamo si estende anche alla vita quotidiana;
noi non siamo sospettosi l’uno dell’altro e non infastidiamo mai il
nostro prossimo se al nostro prossimo piace vivere a modo suo.
Noi siamo liberi, liberi di vivere proprio come ci piace e tuttavia
siamo sempre pronti a fronteggiare qualsiasi pericolo. Un cittadino
ateniese non trascura i pubblici affari quando attende alle proprie
faccende private, ma soprattutto non si occupa dei pubblici affari
per risolvere le sue questioni private.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Ci è stato insegnato a rispettare i magistrati, e ci è stato insegnato
anche a rispettare le leggi e di non dimenticare mai che dobbiamo
proteggere coloro che ricevono offesa. E ci è stato anche insegnato a
rispettare quelle leggi non scritte che risiedono nell’universale sentimento di ciò che è giusto e di ciò che è buon senso.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Un uomo che non si interessa allo Stato noi non lo consideriamo
innocuo, ma inutile; e benché in pochi siano in grado di dare vita a
una politica, beh tutti qui ad Atene siamo in grado di giudicarla.
Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla via della democrazia.
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Noi crediamo che la felicità sia il frutto della libertà, ma la libertà
sia solo il frutto del valore.
Insomma, io proclamo che Atene è la scuola dell’Ellade e che ogni
ateniese cresce sviluppando in sé una felice versatilità, la fiducia in
se stesso, la prontezza a fronteggiare qualsiasi situazione ed è per
questo che la nostra città è aperta al mondo e noi non cacciamo mai
uno straniero.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Pericle, 461 a.C.
Qui in Occidente noi uccidiamo così le nostre anime.
La lettera-documento di Michael Ende
Caro Salvatore,
anni fa lessi la relazione di un gruppo di ricerca che aveva intrapreso una spedizione nell’interno dell’America centrale per effettuarvi scavi. La spedizione aveva ingaggiato un gruppo di indios per il trasporto del materiale. Era stato stabilito un programma di marcia preciso, e durante i primi quattro giorni tutto andò
secondo le aspettative, in quanto i portatori erano robusti e volenterosi, e si contava quindi di rispettare i tempi. Ma al quinto
giorno gli indios si rifiutarono di proseguire; se ne stavano seduti
in silenzio, in cerchio, accoccolati sul terreno, e non c’era verso di
stimolarli a riprendere i carichi. Gli scienziati offrirono più denaro e, quando la proposta venne rifiutata, li insultarono, li minacciarono persino con le armi. Gli indios rimanevano muti, seduti
in circolo. I ricercatori non sapevano più che cosa fare, ed erano
rassegnati.
Il programma era ormai in crisi ma improvvisamente, due giorni
dopo, i portatori si alzarono tutti insieme, si caricarono i bagagli e si
rimisero in cammino, senza aver accettato un aumento di paga e
senza che gli fosse stato in alcun modo ordinato. Gli scienziati non
sapevano spiegarsi questo straordinario comportamento, i portatori
tacevano e non sembravano disposti a fornire chiarimenti. Solo molto più tardi, quando si stabilì un certo rapporto di fiducia reciproco,
uno di loro diede una spiegazione: «Correvamo troppo – disse – e
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quindi abbiamo dovuto aspettare che le nostre anime ci raggiungessero».
Ho spesso riflettuto su questa frase, e mi è sembrato che gli uomini «civilizzati» della società industriale abbiano molto da imparare
da questi indios «primitivi». Noi osserviamo gli orari delle azioni
esterne, ma in noi è morta quella sottile sensazione del tempo interiore, il tempo dell’anima.
Singolarmente non abbiamo scelta, non possiamo sottrarci; abbiamo creato un sistema, un ordine economico di concorrenza spietata e di pressione mortale per la prestazione. Chi non ce la fa rimane per strada. Ciò che ieri era moderno, oggi è già obsoleto. Corriamo con la lingua fuori l’uno dietro l’altro, e questo è diventato un
folle girotondo. Se uno corre più forte, gli altri devono fare altrettanto. Questo noi lo chiamiamo progresso. Ma da dove «progrediamo»? Dalla nostra anima? Quella l’abbiamo ormai lasciata indietro
da molto tempo. Però, se si trascura l’anima, anche i corpi si ammalano, si affollano le cliniche per la cura delle nevrosi. Era questo il
nostro obiettivo, un mondo senz’anima? È effettivamente possibile
che si ponga termine alla frenetica ridda, per sederci assieme per terra, ad aspettare in silenzio?
Un’altra risposta che mi ha fatto riflettere me l’ha riferita un amico etnologo. Anche questa proviene da una «primitiva», da una indiana Hopi.
Durante uno dei suoi viaggi, il mio amico arrivò su un monte,
sulla cui cima sorgeva un villaggio indiano; l’unica fonte d’acqua dei
dintorni si trovava alle pendici della montagna e le donne del villaggio, tutti i giorni, dovevano compiere una discesa di mezz’ora, e poi
risalire con le brocche piene d’acqua, impiegando un’ora. Egli chiese a una di queste donne se non fosse più ragionevole ricostruire il
villaggio più in basso, vicino alla fonte. Ed ecco la sua risposta: «Forse sarebbe più logico, ma temiamo di subire la tentazione della comodità».
Questa risposta è ancora più stupefacente della prima per noi uomini civilizzati. Come può essere una tentazione la comodità? Tutte
le nostre lavatrici, automobili, ascensori, aerei, telefoni, catene di
montaggio, robot, computer, tutto quello che il nostro mondo moderno produce non è forse stato creato per la nostra comodità? Tutte queste cose rendono la nostra vita più agevole, ci scaricano di la-
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vori gravosi, ci lasciano più tempo per dedicarci all’essenziale. Dunque, ci liberano. Ma da che cosa ci liberano? Forse proprio dall’essenziale? E in che modo? Come mai non riesco a liberarmi dalla sensazione che quella donna indiana sia in realtà molto più libera di
tutti noi?
Nel Vangelo leggo una frase curiosamente simile: «Che vantaggio
avrebbe l’uomo se conquistasse tutto il mondo, e poi perdesse l’anima sua?».1 Mah, che ci importa, ormai, delle nostre anime! Le abbiamo già perse da qualche parte lungo il nostro cammino. Il mondo del futuro sarà un mondo completamente comodo e completamente irreale. Non credi? Buon anno.
Michael Ende, capodanno 1990
Magna Carta dei doveri dell’uomo.
Il nuovo contratto morale di Rita Levi-Montalcini
Nella mia lettera al pubblico dell’università di Trieste, che nel 1991
mi conferiva la laurea honoris causa, proponevo l’idea (ispiratami da
articoli e da conversazioni con il professor Roger W. Sperry, premio
Nobel per la medicina e la fisiologia nel 1981) di formulare una Magna Carta dei Doveri dell’uomo basata sul concetto della sacralità
della vita. Questo concetto pone come immediati obiettivi:
1) la salvaguardia della biosfera dalla degradazione alla quale è
esposta dall’inquinamento e dall’uso indiscriminato delle risorse naturali;
2) l’apporto immediato di aiuto da parte delle popolazioni affluenti e ad alto sviluppo tecnologico a quelle della maggior parte
del globo, oppresse dalla fame, dalla miseria e dalle malattie;
3) la stipulazione di un nuovo «contratto morale» tra le vecchie e
le giovani generazioni, basato sul principio della loro completa parità (e non su quello paternalistico e gerarchico tuttora vigente) e
sull’impegno globale ad assolverlo in ottemperanza agli obblighi sopra elencati.
La Magna Carta dei Doveri non intende in alcun modo contrap1
Vangelo di Matteo, 26-16.
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porsi alla Carta dei diritti dell’uomo, ma si propone di affrontare
con la massima urgenza i pericoli che minacciano il globo, la biosfera e tutte le specie viventi.
«Noi abbiamo bisogno di pensare in modo diverso se vogliamo
che l’umanità si salvi» disse un giorno Albert Einstein. In un’altra
occasione precisò questo concetto: «Noi rivolgiamo un appello come esseri umani a esseri umani: ricordate la vostra umanità e dimenticate il resto».
Preparare la Magna Carta dei doveri è un compito molto arduo.
L’università di Trieste ha raccolto l’allarme e ha deciso di collaborare
con me e altri esponenti del mondo scientifico e umanistico internazionale ai fini di elaborare questo documento e di diffonderlo al
mondo della cultura, religioso e politico e ovunque si abbia a cuore
il destino della nostra e delle altre specie viventi oggi al bivio tra la
salvezza e la distruzione.
Rita Levi-Montalcini, 1992
Qui a Parigi ci adattiamo così.
Un appello di Cornelius Castoriadis
Il mondo contemporaneo è caratterizzato dalle crisi, dalle contraddizioni, dalle contrapposizioni e dalle fratture; ma ciò che soprattutto mi colpisce è l’insignificanza. Prendiamo per esempio il conflitto
tra destra e sinistra: ha perduto ogni senso. Gli uni e gli altri dicono
le stesse cose. Dal 1983, i socialisti francesi hanno fatto una politica;
poi Balladur ha fatto la stessa politica. Dopodiché i socialisti sono
tornati al governo, e hanno rifatto la stessa politica. Quindi Edouard
Balladur è tornato e ha ripreso a fare la stessa politica. Nel 1995 Jacques Chirac ha vinto le elezioni dicendo: «Farò un’altra politica», e
invece ha proseguito con la stessa.
I responsabili politici sono impotenti. La sola cosa che possono
fare è seguire la corrente, o in altri termini, applicare la politica ultraliberale oggi di moda. I socialisti non hanno fatto nient’altro che
questo, da quando sono tornati al potere.
Più che politici, sono politicanti, dediti alla micropolitica.
Gente che va a caccia di voti con qualsiasi mezzo. Non hanno nes-
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sun programma. Il loro scopo è rimanere al potere o tornarci, e per
raggiungerlo sono capaci di tutto.
Esiste un legame intrinseco tra questa specie di nullità della politica, questo divenire nullo della politica, e l’inconsistenza negli altri
campi, nelle arti, nella filosofia o nella letteratura. È questo lo spirito del tempo. Tutto cospira a estendere l’insignificanza.
La politica è uno strano mestiere, perché presuppone due capacità che non hanno tra loro nessun rapporto intrinseco. La prima è
la capacità di accedere al potere. Se non si accede al potere, le migliori idee del mondo non servono a nulla; perciò è necessaria l’arte
dell’accesso al potere. La seconda capacità è quella di saper governare, una volta conquistato il potere.
Nulla garantisce che chi è in grado di governare sappia anche accedere al potere. Nella monarchia assoluta, per accedere al potere
bisognava adulare il re, o essere nelle grazie di Madame Pompadour.
Oggi, nella nostra «pseudodemocrazia», quello che serve è invece essere telegenici e avere fiuto per l’opinione pubblica.
Se dico «pseudodemocrazia» è perché ho sempre pensato che la
cosiddetta democrazia rappresentativa non sia una vera democrazia.
Lo aveva detto anche Jean-Jacques Rousseau: gli inglesi si credono
liberi perché eleggono i loro rappresentanti ogni cinque anni. Ma
sono liberi un solo giorno in cinque anni, il giorno delle elezioni:
tutto qui. Non che le elezioni siano truccate, che vi sia qualche imbroglio nelle urne; sono truccate perché le opzioni sono predefinite.
Nessuno ha chiesto al popolo su che cosa vuole votare. Gli si dice:
«Votate in favore di Maastricht o contro». Ma chi ha fatto il trattato
di Maastricht? Non certo il popolo. C’è una meravigliosa frase di
Aristotele: «Chi è cittadino? È cittadino colui che è capace di governare e di essere governato».
Ci sono sessanta milioni di cittadini in Francia. Perché non dovrebbero essere capaci di governare? Perché tutta la vita politica mira precisamente a farglielo disimparare, a convincerli che i problemi
debbano essere affidati agli esperti. Esiste dunque una controeducazione politica. Mentre ciascuno dovrebbe abituarsi a esercitare ogni
sorta di responsabilità e a prendere iniziative, si viene invece abituati a seguire, o a votare opzioni presentate da altri. E qual è il risultato? Dato che la gente non è affatto idiota, è sempre meno disposta a
credere, e diventa sempre più cinica. «Riposarsi o essere liberi»: nel-
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le società moderne, dalla rivoluzione americana (1776) e da quella
francese (1789) fino alla Seconda guerra mondiale (1945) circa, esisteva un conflitto sociale e politico vivo. La gente si impegnava nell’opposizione e manifestava per cause politiche. Gli operai organizzavano scioperi, e non sempre per piccoli interessi corporativi. Si dibattevano i grandi temi che riguardavano tutti i lavoratori. Queste
lotte hanno lasciato il segno su questi ultimi due secoli.
Oggi osserviamo un calo di attività. È un circolo vizioso.
Quanto più la gente si ritrae dall’impegno politico, tanto più alcuni burocrati, politicanti o sedicenti responsabili prendono piede. Hanno una buona giustificazione: «Mi assumo l’iniziativa perché nessuno fa niente». E quanto più impongono il loro dominio,
tanto più la gente si dice: «Non vale la pena di immischiarsi; sono
già in tanti ad avere le mani in pasta, e in ogni modo non ci si può
fare nulla».
La seconda ragione, legata alla prima, è la dissoluzione delle grandi ideologie politiche, sia rivoluzionarie sia riformiste, che volevano
veramente cambiare qualcosa nella società. Per mille e una ragioni,
queste ideologie sono state accantonate, hanno cessato di corrispondere alle aspirazioni, alla situazione della società, all’esperienza storica. Nel 1991 si è verificato l’enorme evento del crollo dell’Urss e del
comunismo. C’è stata forse una sola persona tra i politici per non
dire i politicanti della sinistra, che abbia veramente riflettuto su
quanto è accaduto? Perché è avvenuto tutto questo, e chi, come volgarmente si dice, ne ha tratto lezione? Eppure, un’evoluzione di questo tipo la prima fase con le mostruosità del totalitarismo, i Gulag
ecc., e infine questo tracollo meritava una riflessione molto approfondita e una conclusione su ciò che un movimento impegnato
a cambiare la società può e deve fare, e su quello che non deve e non
può fare. E invece niente! E cosa fanno molti intellettuali?
Hanno rispolverato il liberismo puro e duro dell’inizio del Diciannovesimo secolo.
Si è parlato di una sorta di terrorismo del pensiero unico, cioè di
un non pensiero. È unico nel senso che è il primo caso di non pensiero integrale.
Oggi domina la rassegnazione; anche tra gli esponenti del liberismo. Qual è il grande argomento in questo momento? «Forse questo sistema va male, ma l’alternativa era peggiore.» E bisogna am-
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mettere che molti ne sono stati raggelati, tanto da pensare: «Attenzione a non muoversi troppo, c’è pericolo di andare verso un nuovo Gulag». Ecco cosa c’è dietro questo esaurimento ideologico. E
non se ne uscirà se non risorgerà una vera, vigorosa critica del sistema. E se non vi sarà una rinascita dell’impegno, della partecipazione della gente.
Qua e là, si incomincia tuttavia a comprendere che la crisi non è
una fatalità della modernità alla quale bisogna sottomettersi, «adattarsi», per non cadere nell’arcaismo. Si sente il fremito di una ripresa dell’attività civica. Allora si pone il problema del ruolo dei cittadini e della competenza di ciascuno a esercitare i diritti e i doveri
democratici nell’intento dolce e bella utopia di uscire dal conformismo generalizzato.
Possiamo, per uscirne, trarre ispirazione dalla democrazia ateniese?
Chi veniva eletto ad Atene? Non i magistrati, che venivano designati
per sorteggio, o a rotazione. Per Aristotele, ricordiamolo, il cittadino
è colui che è capace di governare e di essere governato. Tutti sono capaci di governare, perciò si estraggono i nomi a sorte. La politica non
è materia da specialisti. Non esiste una scienza della politica. Esiste
un’opinione, la doxa dei greci, ma non un epistème, una scienza. L’idea che non vi siano specialisti della politica e che le opinioni si equivalgano è la sola giustificazione ragionevole del principio maggioritario. Dunque, presso i greci, il popolo decide, e i magistrati sono sorteggiati o designati a rotazione. Quanto alle attività specializzate, costruzione di cantieri navali o di templi, operazioni belliche, c’è bisogno di specialisti; i quali vengono eletti. Sono queste le elezioni.
Elezione vuol dire «scelta dei migliori». È qui che interviene l’educazione del popolo. Si procede a una prima elezione, ci si sbaglia,
si constata, per esempio, che Pericle è un pessimo stratega e non lo
si rielegge, lo si revoca. Ma bisogna che sia coltivata la doxa. E come
può essere coltivata una doxa che riguardi il governo? governando.
Dunque la democrazia, questo è importante, è una questione di
educazione dei cittadini, che oggi non esiste affatto. Recentemente,
da una statistica pubblicata su una rivista è emerso che il 60 per cento dei deputati francesi confessano di non comprendere nulla di
economia. E si tratta di deputati, di gente che viene chiamata continuamente a decidere! In verità anche loro, come i ministri, sono asserviti ai loro tecnici.
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Dispongono dei loro esperti, ma hanno anche pregiudizi o preferenze. Se si segue da vicino il funzionamento di un governo, di una grande burocrazia, si nota che i dirigenti non si fidano degli esperti, ma
scelgono tra questi coloro che condividono le loro opinioni. È un gioco completamente stupido, ma è in questo modo che siamo governati.
Le attuali istituzioni respingono la gente, l’allontanano, la dissuadono dal partecipare alla politica. Mentre la migliore educazione alla politica è la partecipazione attiva. Questo però implicherebbe una
trasformazione delle istituzioni per consentire e incentivare questa
partecipazione.
L’educazione dovrebbe essere molto più imperniata sulla cosa
comune.
Occorrerebbe comprendere i meccanismi dell’economia, della società, della politica eccetera. I bambini trovano noioso l’insegnamento della storia, che pure è appassionante.
Bisognerebbe insegnare una vera e propria anatomia della società
contemporanea così com’è, e come funziona. Imparare a difendersi
dalle credenze, dalle ideologie.
Aristotele ha detto: «L’uomo è un animale che desidera il sapere».
Ma non è così. L’uomo è un animale che desidera credere, desidera
la certezza di una fede. Si spiega così l’impatto delle religioni, delle
ideologie politiche. Nel movimento operaio, all’inizio l’atteggiamento era molto critico. Prendiamo la seconda strofa dell’Internazionale, il canto della Comune, che rifiuta il Salvatore supremo, via
la religione! Così come i Cesari e i tribuni e quindi via anche Lenin!
Oggi, benché ci sia sempre una frangia che cerca la fede, la gente è
molto più critica. E questo è importantissimo.
Scientology, le sette o il fondamentalismo prendono piede in altri
paesi, ma molto meno da noi. La gente oggi è molto più scettica,
ma è anche più inibita quando si tratta di agire. Nel suo discorso
agli ateniesi, Pericle disse: «Solo noi siamo capaci di riflessione senza
esserne inibiti nell’azione». È ammirevole! E aggiunge poi: «Gli altri, o non riflettono, e allora sono temerari e commettono assurdità,
oppure, riflettendo, finiscono per non far nulla, perché pensano che
se esiste un discorso esiste anche il suo opposto». Attualmente siamo
in una fase di inibizione, questo è certo.
Chi si è scottato con l’acqua calda ha paura anche di quella fredda. Non servono grandi discorsi, servono discorsi veri.
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In ogni modo, esiste un desiderio irriducibile. Se guardiamo alle
società arcaiche, alle società tradizionali, non c’è un desiderio, irriducibile, tale da essere trasformato dalla socializzazione. In queste
società, che sono ripetitive, si dice per esempio: «Prenderai moglie
nel clan o nella famiglia tale. Avrai una donna nella tua vita. Se ne
avrai due, o se avrai due uomini, sarà una trasgressione, e lo farai di
nascosto. Avrai uno status sociale, quello e nessun altro». Oggi c’è
una liberazione in tutti i significati del termine rispetto ai vincoli
della socializzazione degli individui. Siamo entrati in un’epoca di
aperture illimitate in tutti i campi, ed è in questo che abbiamo il desiderio di infinito. Questa liberazione, in un certo senso, è una grande conquista. Non si tratta quindi di ritornare alle società ripetitive.
Ma bisogna anche, e questo è un tema importantissimo, imparare
ad autolimitarsi, individualmente e collettivamente. La società capitalistica è una società che corre verso l’abisso, da ogni punto di vista,
perché non sa autolimitarsi. Mentre una società veramente libera,
una società autonoma, deve essere capace di autolimitarsi, sapere
che esistono cose che non si possono fare e che non si deve neppure
cercare di fare, o che non si devono desiderare.
Viviamo su questo pianeta che stiamo distruggendo, e mentre
pronuncio questa frase penso alle meraviglie penso al Mar Egeo,
penso alle montagne innevate, alla visione del Pacifico da un angolo
dell’Australia, a Bali, all’India, alla campagna francese che si sta desertificando. Tutte meraviglie in via di demolizione. Penso che dovremmo essere i giardinieri di questo pianeta. Bisogna coltivarlo.
Coltivarlo, così com’è e per quello che è. E trovare la nostra vita, il
nostro posto relativamente a questo. Ecco un compito immenso. E
ciò potrebbe assorbire gran parte del tempo liberato da lavori stupidi, ripetitivi. Ora, tutto questo è lontanissimo non solo dal sistema
attuale, ma anche dall’attuale immaginazione dominante.
L’immaginario della nostra epoca è quello dell’espansione illimitata, è l’accumulazione della paccottiglia, un televisore in ogni stanza, un computer in ogni stanza ed è questo che bisogna distruggere.
È su questo immaginario che si fonda il sistema.
La libertà è molto difficile. Perché è facilissimo lasciarsi andare.
L’uomo è un animale pigro. C’è una frase meravigliosa di Tucidide: «Bisogna scegliere: riposarsi o essere liberi». E Pericle dice agli
ateniesi: «Se volete essere liberi, dovete lavorare». Non potete ripo-
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sarvi. Non potete sedervi davanti alla Tv. Non siete liberi quando
state davanti alla Tv.
Credete di essere liberi facendo zapping come imbecilli, ma non lo
siete. È una falsa libertà. La libertà è attività grave. Ma è anche un’attività che al tempo stesso si autolimita, nel senso che sa di poter fare
tutto ma di non dover fare tutto. È questo il grande problema della
democrazia e dell’individualismo.
Cornelius Castoriadis, 1997
I sette messaggi di Tonino Guerra al sindaco del suo paese
e a tutti gli altri sindaci italiani
1. Signor Sindaco, questa è la piazza di sempre, insomma questi sono i muri.
La vita, invece, col tempo è cambiata. Devo partire da lontano
per arrivare al nocciolo principale dei miei messaggi. So che un
tempo qui c’erano campi e orti e poi lo spazio fu chiuso per creare
il punto di incontro degli abitanti che fuggivano dal quartiere medioevale, in alto. Così tutte le farfalle e anche gli scarabei, le vespe
e gli uccelli selvatici scomparvero da questo quadrato di terra ridotto ormai a un crocevia di strette di mano, di incontri, di biciclette, di automobili. Ricordo d’aver visto da bambino il vento che
ancora alzava la polvere della piazza Grande, e la neve che d’inverno rigava il cielo con voce morbida, e chiudeva la bocca ai rumori.
Allora si stava intorno alla piazza con la schiena contro i muri o
sotto i portici a guardare felici quella festa che univa i corpi. Adesso
la meraviglia si è ristretta nei rettangoli delle finestre o è chiusa oltre
gli sportelli delle macchine. Chi ci può chiamare a raccolta in piazza
Grande?
Quale suono di campane occorre per far godere lo spettacolo a
tutti assieme?
La neve non è per un uomo solo chiuso nella sua gabbia di paura.
2. Signor Sindaco, su questa piazza pascolò un leone scappato al circo Orfei e spaventò i cani da caccia con l’odore di selvatico che usciva dai suoi peli. Allora tutti i fucili del paese si affacciarono alle fine-
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stre e sputarono fuoco sull’animale sdraiato sotto il monumento ai
caduti come se facesse parte di quel monumento o volesse imitare la
posa di altri leoni di pietra intravisti davanti ai portali di antiche
cattedrali. Il leone fu cotto e mangiato; e la gente discusse con la
pancia piena d’Africa stando sulle sedie del caffè sparpagliate per la
piazza. Devo aspettarmi l’arrivo di un rinoceronte per rinnovare
questa veglia paesana col sapore di una delizia collettiva?
3. Caro Sindaco, ho visto questa piazza nell’agosto del 1944 piena
di buoi che i tedeschi portavano a Ravenna per spedirli a pezzi nelle città affamate della Germania. Ho visto la piazza piena di sole e
di sterco secco dopo la partenza degli animali e in tutto questo disordine carico di dolore, l’accalappiacani serviva le autorità comunali ostinandosi a cercare di imbrigliare un cane randagio. Quale
assurda parvenza di ordine in un mondo così sgretolato! Ero nell’ombra di una colonna, pieno di amore per il cane che grattava lo
sterco stopposo in cerca di cibo. Quando il laccio stava per essere
lanciato nell’aria accaldata, ho gridato e il cane, messo in allarme, è
corso lungo la strada del fiume. Ma già un moschetto fascista puntava la canna nella mia schiena e così ho attraversato la piazza preso
nel laccio di questo sicario analfabeta. Allora quel deserto della
piazza era giustificato.
4. Signor Sindaco, quando nel dopoguerra il merci impolverato mi
ha lasciato alla stazione e io a piedi, reduce ritardatario, dopo che
banda aveva suonato gli inni per le strade e gli stivali lucidi tolti dai
piedi mascalzoni e ammucchiati attorno al monumento vennero
riempiti di urina, sono arrivato a casa e dalla casa mi sono affacciato
in piazza Grande. Ho visto per la prima volta i tubi al neon, e le poltroncine di ferro fuori da due caffè avevano sostituito le sedie pieghevoli di legno. Ma la gente era ancora su quelle sedie a stare assieme e a ricominciare a vivere. Pochi anni dopo, qualcosa è cambiato:
l’ala nera del corvo si è messa a bastonare l’aria e così la paura si è infilata nelle orecchie assordandoci.
5. Signor Sindaco, è dal centro di questa piazza che io continuo a
misurare il mio spazio. Anche se vado a Mosca o nella calda Georgia, calcolo le distanze sapendo che i pochi chilometri che ho fatto
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da ragazzo a piedi o in bicicletta, dalla piazza al mare, dalla piazza
alle prime colline, sono gli unici che contano. I lunghi voli sono
viaggi fermi o mentali. Valgono soltanto i primi chilometri fatti a
piedi e anche adesso rifletto a lungo se dalla piazza devo raggiungere il mare. Più facile decidere di andare all’Equatore o al Polo
Nord, perché quelle sono distanze che appartengono alla magia.
Dieci chilometri, invece, sono interminabili. La piazza Grande è il
centro di tutti gli spazi che ho avuto in regalo, anche tu Sindaco li
hai avuti e anche gli altri. Ecco perché ti prego di affacciarti dal
balcone e di guardare a lungo questo rettangolo fondamentale per
la tua e le altre vite. Un punto di partenza o di arrivo, un punto di
riferimento continuo non può non essere abbandonato, deve sentire la febbre di una tua attenzione continua e precisa. Adesso più
di prima, adesso perché il deserto di uomini sta verificandosi dove
un tempo la gente si vedeva e si abbracciava. La paura che parte
dalla coda velenosa degli scorpioni sta occhieggiando da dietro gli
spigoli delle case. Bisogna superare quegli spigoli e tornare a fare
gruppo in piazza. La paura è amica dei televisori e dell’egoismo familiare. Mangiamo carne e immagini e intanto la voce che esce dai
meccanismi riempie i silenzi tra uomo e donna, tra genitori e figli.
Così bisogna tornare dove la parola è ridata alle nostre bocche e le
immagini germogliano nella nostra fantasia.
6. Signor Sindaco, l’altro giorno ho fatto dei piccoli sogni uno dopo
l’altro.
Tutte le volte appariva la piazza Grande col rettangolo usato in
modo diverso. Nel primo vedevo che i palazzi tutt’attorno racchiudevano un orto, come una volta. E io mi chiedevo se non sia giusto togliere il selciato e rimettere rettangoli di aglio, di cavoli e di
girasoli. Vedevo che i paesani camminavano lungo i sentieri e si
piegavano per controllare se gli ortaggi erano giusti da raccogliere.
Sorridevano e si scambiavano delle foglie. Poi ho sognato la piazza
come è adesso; ma con un albero in più, un ciliegio in un angolo,
che nello spazio breve di un attimo metteva le foglie, poi i fiori,
poi i frutti e in ultimo restava nudo, pronto a ridursi un ricamo
con la neve. Allora ho detto: questo è possibile. E anche altri piccoli accorgimenti. I lecci seri e imbronciati potrebbero vivere a
Natale con piccole scintille luminose grandi come lucciole e in
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modo che si possa dire che le stesse sono cadute in piazza Grande.
E non quelle palline di plastica colorata che imitano frutti velenosi. Tante cose così. E anche musica, perlomeno la domenica mattina alle undici, e magari tutti i giorni quando la sera è trascinata da
scarpe solitarie e la nebbia racchiude nei suoi veli i lampioni, un
valzer di Faini o di Strauss agli altoparlanti rannicchiati tra gli alberi. Bisogna tornare a essere bambini per governare.
7. Caro Sindaco, è ora che tu cominci ad ascoltare le voci che sembrano inutili, bisogna che nel tuo cervello occupato dalle lunghe tubature delle fogne e dai muri delle scuole e dagli ospizi e dall’asfalto
e dai ferri e dalle pillole per gli ospedali, bisogna che nel tuo cervello pratico e attento soprattutto ai bisogni materiali, bisogna che entri il ronzio degli insetti. Devi pregare che su questa piazza arrivino
le cicogne o mille ali di farfalle, devi riempire gli occhi di tutti noi
di cose che siano l’inizio di un grande sogno, devi gridare che costruiremo le piramidi. Non importa se poi non le costruiremo.
Quello che conta è alimentare il desiderio, tirare la nostra anima da
tutti i lati come se fosse un lenzuolo dilatabile all’infinito... Ecco
che arriva la nuvola di farfalle, ecco che tutti abbandoniamo la sedia
di casa e lo stretto cannocchiale delle finestre.
Stiamo tornando al centro della piazza per godere assieme questo
spettacolo.
I grandi godimenti sono quelli che si provano succhiando dagli
altri la meraviglia che esplode. Solo così può rinascere la bella favola
del nostro e del tuo paese.2
Tonino Guerra, 1988
2 È il 1991 quando terminano i lavori di risistemazione e nasce la nuova piazza a Santarcangelo di Romagna. Vengono trasferiti i sempreverdi lecci sostituiti da piante a foglia
caduca, capaci di segnare il passaggio delle stagioni e regalare la diversità dei colori della
natura, come il poeta da tempo evidenzia. La grande piazza Ganganelli oltre a vedere rinnovati pavimentazione, illuminazione e arredi si arricchisce di una fontana. Sempre dai
suggerimenti del poeta nasce una grande vasca circolare, con al centro un alto e potente
getto d’acqua, attorno una seduta che permette di godere dei giochi acquatici. E di altre
poetiche fontane ideate dal poeta si adornano le piazze di altri comuni della Romagna e del
Montefeltro marchigiano.
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L’agenda per una vera riforma della politica.
Il decalogo per il Palazzo di Mario Pirani
Primo: cambio radicale dell’équipe di governo, subito dopo le elezioni amministrative, con accorpamento e riduzione netta dei ministeri, taglio della compagine dell’esecutivo (oggi centoquattro
tra ministri e sottosegretari) con un massimo globale di sessanta.
Secondo: abrogazione delle leggi sullo spoil system nella pubblica
amministrazione.
Terzo: introduzione dell’obbligo del concorso con regole ferree e
con classifica rigida (senza possibilità di scegliere fra rose di cosiddetti idonei) per tutte le nomine di pubblico interesse, dai primari
degli ospedali ai direttori dei parchi ambientalistici, dai consiglieri
di società partecipate a quelli degli organismi previdenziali.
Quarto: riduzione di un terzo del numero dei consiglieri regionali,
provinciali e comunali.
Quinto: Rai liberata dalla presenza dei partiti. Nomina di un nuovo
consiglio di amministrazione con personalità della comunicazione e
della cultura di comprovata indipendenza di giudizio.
Sesto: abolizione del cosiddetto «panino» nei telegiornali Rai, con
il falso pluralismo di dichiarazioni politiche suddivise secondo il
modello artificiale tra tutti i partiti.
Settimo: eliminazione dei finanziamenti assegnati ai consiglieri per
spese a loro libito, decise da alcune leggi regionali. Creazione di un
elenco delle società ed enti inutili costituiti dalle regioni e varo di
un piano di tagli in proposito.
Ottavo: riduzione drastica dei privilegi dei parlamentari e dei consiglieri regionali (dalle pensioni prima dei sessantacinque anni e
dopo mezza legislatura agli infiniti benefit).
Nono: introduzione delle primarie istituzionalizzate e regolate per le
cariche elettive nel Parlamento, nelle regioni e nei comuni.
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Decimo: istituzione di norme di accesso, di libera contesa e di elezione che rendano il Partito democratico un organismo aperto alla
società, contendibile, scalabile da forze giovani, palestra di idee e valori non trampolino per carriere sicure, il partito della riforma della
politica.
Mario Pirani, «la Repubblica», maggio 2007
E qui a Roma, purtroppo, noi non facciamo come ad Atene.
La lettera di dimissioni dal Senato di Franca Rame
Gentile Presidente Marini,
con questa lettera Le presento le mie dimissioni irrevocabili dal
Senato della Repubblica, che Lei autorevolmente rappresenta e presiede. Una scelta sofferta, ma convinta, che mi ha provocato molta
ansia e anche malessere fisico, rispetto la quale mi pare doveroso da
parte mia riepilogare qui le ragioni. In verità basterebbero poche
parole, prendendole a prestito da Leonardo Sciascia: «Non ho, lo
riconosco, il dono dell’opportunità e della prudenza, ma si è come
si è». Il grande scrittore siciliano è, in effetti, persona che sento
molto vicina, (eravamo cari amici) sia per il suo impegno culturale
e sociale di tutta la vita, sia perché a sua volta, nel 1983, a fine legislatura decise di lasciare la Camera dei Deputati per tornare al suo
lavoro di scrittore. Le mie motivazioni, forse, non sono dissimili
dalle sue. Del resto, io mi sono sentita «prestata» temporaneamente
alla politica istituzionale, mentre l’intera mia vita ho inteso spenderla nella battaglia culturale e in quella sociale, nella politica fatta
dai movimenti, da cittadina e da donna impegnata. E questo era ed
è il mandato di cui mi sono sentita investita dagli elettori: portare
un contributo, una voce, un’esperienza, che provenendo dalla società venisse ascoltata e magari a tratti recepita dalle istituzioni parlamentari.
Dopo diciannove mesi debbo constatare, con rispetto, ma anche
con qualche amarezza, che quelle istituzioni mi sono sembrate impermeabili e refrattarie a ogni sguardo, proposta e sollecitazione
esterna, cioè non proveniente da chi è espressione organica di un
partito o di un gruppo di interesse organizzato.
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Nel marzo del 2006, l’Italia dei Valori mi propose di candidarmi
come senatrice alle elezioni. Ho riflettuto per un mese prima di sciogliere la mia riserva, mossa da opposti sentimenti, ma alla fine ho
maturato la convinzione che per contribuire a ridurre i danni prodotti al paese dal governo retto da Silvio Berlusconi e dall’accentramento di poteri da lui rappresentato, ogni democratico dovesse impegnarsi in prima persona nell’attività politica.
Ho infine accettato, ringraziando l’on. Di Pietro per l’opportunità che mi aveva offerto, pensando, senza presunzione, che forse
avrei potuto ricondurre alle urne, qualcuna o qualcuno dei molti
sfiduciati dalla politica.
Ecco così che il 12 aprile 2006 mi sono ritrovata a far parte, alla
mia giovane età (!!), del Senato della Repubblica carica d’entusiasmo, decisa a impegnarmi in un programma di rinnovamento e progresso civile, seguendo le proposte portate avanti durante la campagna elettorale dell’Unione, soprattutto quella di riuscire a porre fine
all’enorme e assurdo spreco di denaro pubblico.
Ho così impegnato la mia indennità parlamentare per lavorare in
questa direzione, anche organizzando (giugno 2006) un convegno
con un gruppo di professionisti tra i più valenti, al fine di tracciare
le linee di un progetto in grado di tagliare miliardi di euro di spese
dello Stato nel settore dei consumi energetici, delle disfunzioni della
macchina giudiziaria e dell’organizzazione dei servizi.
A questo convegno ho invitato senatori della commissione ambiente e altri che ritenevo sensibili ai temi in discussione.
Non ne è venuto uno.
Ho inoltre presentato un disegno di legge (4 luglio 2006) con
cui chiedevo che i funzionari pubblici, condannati penalmente, venissero immediatamente licenziati, trovando su questo terreno l’adesione di parlamentari impegnati nella stessa direzione, quali i senatori Formisano, Giambrone, Caforio, D’Ambrosio, Casson, Bulgarelli, Villecco Calipari, Russo Spena e molti altri, compresi numerosi deputati.
È nato così il progetto delle «dieci leggi per cambiare l’Italia».
Ho anche acquistato spazi su alcuni quotidiani e sul web, per comunicare i punti essenziali di questo progetto. Ma anche questa iniziativa non ha suscitato interesse nei dirigenti dei partiti del centrosinistra.
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Nei quasi due anni trascorsi in Senato, ho presentato diverse interrogazioni.
Tutte rimaste senza risposta.
Ho presentato numerosi emendamenti, ma non sono stati quasi
mai accolti.
Questa, per la verità, è la sorte che capita a quasi tutti i Senatori.
In seguito a una inchiesta da me condotta sul precariato in Parlamento, sei mesi fa mi sono impegnata nella stesura di un disegno di
legge (presentato il 18 luglio) in difesa dei diritti dei collaboratori
dei parlamentari: illegalità, evasione contributiva e sfruttamento
proprio all’interno della istituzione parlamentare!
Mi sono contemporaneamente impegnata su questioni drammatiche e impellenti, quali la necessità che il ministero della Difesa riconoscesse lo status di «vittime di guerra» ai reduci dei conflitti nei
Balcani, Iraq e Afghanistan, avvelenati dai residui dell’esplosione dei
proiettili all’uranio impoverito.
Quanti sono i militari deceduti? Mistero.
Quanti gli ammalati ignorati senza assistenza medica né sostegno
economico?
Mistero. Le cifre che si conoscono sono molto contraddittorie.
Quello che si sa con certezza è che ci sono famiglie che per curare il
figlio si sono dissanguate e alla morte del congiunto non avevano
nemmeno i mezzi per pagare la tomba.
Anche per questa tragica campagna d’informazione ho acquistato
spazi su quotidiani e web. Grazie ad alcuni media e a Striscia la notizia di Antonio Ricci, il problema è stato portato per quattro volte al
grande pubblico: giovani reduci dei Balcani gravemente colpiti, raccontavano la tragedia che stavano vivendo. Dopo tanto insistere, finalmente il ministro Parisi, se ne sta occupando: speriamo con qualche risultato concreto.
Posso dire serenamente di essermi, dall’inizio del mio mandato a
oggi, impegnata con serietà e certamente senza risparmiarmi.
Ma non posso fare a meno di dichiarare che questi diciannove
mesi passati in Senato sono stati i più duri e faticosi della mia vita.
A volte mi capita di pensare che una vena di follia serpeggi in quest’ambiente ovattato e impregnato di potere, di scontri e trame di
dominio. L’agenda dei leader politici è dettata dalla sete spasmodica
di visibilità, conquistata gareggiando in polemiche esasperate e stru-
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mentali, risse furibonde, sia in Parlamento che in televisione e su i
media. E spesso lo spettacolo a cui si assiste non «onora» gli «onorevoli».
In Senato, che ho soprannominato «il frigorifero dei sentimenti»
non ho trovato senso d’amicizia. Si parla... sì, è vero... ma in superficie. Se non sei all’interno di un partito è assai difficile guadagnarsi
la «confidenza».
A volte ho la sensazione che nessuno sappia niente di nessuno...
O meglio, diciamo che io so pochissimo di tutti.
In aula, quotidianamente, in entrambi gli schieramenti (meno a
sinistra per via dei numeri risicati), vedi seggi vuoti con il duplicato
della tessera da senatore inserita nell’apposita fessura, con l’intestatario non presente: così risulti sul posto, anche se non voti e non ti
vengono trattenuti 258 euro e 35 centesimi per la tua assenza, dando
inoltre la possibilità ai «pianisti» di votare anche per te, falsando i risultati. Questo comportamento in un paese civile, dove le leggi vengono applicate e rispettate, si chiama «truffa».
La vita del senatore non è per niente comoda e facile per chi voglia partecipare seriamente e attivamente ai lavori d’Aula. Oltre
l’Aula ci sono le commissioni. Ne ho seguite quattro: Infanzia, Uranio impoverito, Lavori pubblici e comunicazione, Vigilanza Rai.
A volte te ne capitano tre contemporaneamente e devi essere presente a ognuna o perché è necessario il numero legale o perché si deve votare.
È la pazzia organizzata!
Se queste riunioni si facessero via web si ridurrebbero i tempi e si
potrebbe arrivare velocemente alle conclusioni, ma l’era del computer non ha ancora toccato i vertici dello Stato!
E tutto questo attivismo produce un effetto paradossale: la lentezza.
Si va lenti... «lenti» in tutti i sensi.
Nel nostro Parlamento l’idea del tempo è quella che probabilmente hanno gli immortali: si ragiona in termini di ere geologiche,
non certo sulla base della durata della vita umana e degli impellenti
bisogni della gente.
Oltretutto mi sento complice di una indegnità democratica. Stiamo aspettando da diciannove mesi, che vengano mantenute le promesse fatte in campagna elettorale.
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Non è stata ancora varata, per esempio, la legge sul conflitto d’interessi, e ritengo questo ritardo gravissimo. Non è stata liberata la
Rai dai partiti, non è stato fissato un antitrust sulle televisioni, mentre in compenso tutte le leggi del governo Berlusconi, assai criticate
anche all’estero, sono in vigore, il falso in bilancio continua a essere
depenalizzato, la ex Cirielli continua a falcidiare migliaia di processi. Contemporaneamente il governo ha bloccato il processo sul sequestro di Abu Omar sollevando due conflitti d’attribuzione davanti alla Corte costituzionale. E ha creato i presupposti perché al pubblico ministero Luigi De Magistris vengano tolte le indagini su politici di destra e di sinistra e il giudice Clementina Forleo venga fatta
passare per esaltata e bizzarra.
Nonostante gli impegni programmatici sulla legge Bossi-Fini e sui
Centri di permanenza temporanea, che sarebbe più appropriato definire centri di detenzione, dove sono negati i diritti più elementari,
non ci sono novità.
Ora stiamo aspettando anche in Senato il disegno di legge che
vieta ai giornali di pubblicare le intercettazioni e gli atti d’indagini
giudiziarie, già votato alla Camera da quattrocentoquarantasette deputati, con soli sette astenuti e nessun contrario.
Come andrà in Senato?
In tante occasioni ho fatto prevalere, sui miei orientamenti personali la lealtà al governo e allo schieramento in cui sono stata eletta,
ma questa volta non potrei che votare contro.
Il paese si trova in gran difficoltà economica: disoccupazione, precarietà, caro vita, caro affitti, caro tutto... pane compreso.
Che dire della lontananza sconvolgente che c’è tra il governo e i
reali problemi della popolazione?
E che dire dei milletrenta morti sul lavoro nel solo 2007 (cifra peraltro destinata a crescere con la stabilizzazione dei dati Inail). Ben
venga il disegno di legge del ministro Damiano e il nuovo Testo
Unico sulla sicurezza sul lavoro.
Non è mai troppo tardi.
Solo un po’...
Che dire dell’indulto di «tre anni» approvato con una maggioranza di due terzi del Senato, con l’appoggio di Udc, Forza Italia e An?
Era certamente indispensabile alleggerire il disumano e incivile
affollamento delle carceri, ma con un criterio che rispondesse dav-
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vero al problema nella sua essenza, con un progetto di riforma strutturale del sistema penitenziario, con il coinvolgimento delle innumerevoli associazioni del volontariato privato-sociale, che storicamente operano sul territorio nazionale e locale.
A migliaia si sono trovati per strada e molti senza un soldo né una
casa, né tanto meno un lavoro. Dodici donne italiane e straniere furono dimesse dal carcere di Vigevano a notte fonda in piena e desolata campagna!
La notte stessa e nei mesi a seguire, circa il 20 per cento degli scarcerati è ritornato in cella. Sono anni che le carceri scoppiano... nessuno ha mai mosso un dito. Di colpo arriva l’indulto!
È difficile non sospettare che il vero obiettivo di questa legge proposta dal governo, fosse soprattutto quello di salvare, in fretta e furia, dalla galera importanti e noti personaggi incriminati, industriali
e grandi finanzieri, e soprattutto politici di destra e qualcuno anche
di sinistra...
Che dire dei deputati e senatori condannati e inquisiti che ogni
giorno legiferano e votano come niente fosse?
Che dire di una finanziaria insoddisfacente alla quale siamo stati obbligati a dare la fiducia, altrimenti non avrebbe avuto i voti per passare?
Che dire del consenso dato dal governo Prodi nel 2006 e riconfermato, «di persona» dal presidente Napolitano a Bush nel 2007,
per la costruzione della più grande base americana d’Europa a Vicenza?
Gli impegni presi da Berlusconi sono stati mantenuti.
I vicentini hanno diritto di manifestare in centinaia di migliaia,
con la solidarietà di molti italiani, ma non di ottenere attenzione e
rispetto delle proprie ragioni.
Che dire del costante ricatto, realizzato da questo o quel onorevole, di far cadere il governo per cercare di ottenere privilegi o cariche?
Quante volte, per non farlo cadere, ’sto benedetto governo, ho
dovuto subire il ricatto e votare contro la mia coscienza?
Troppe. Tanto da chiedermi spesso: «Cosa sono diventata? La vota rosso-vota verde?»
La prima volta che ho sentito forte la necessità di allontanarmi da
questa politica svuotata di socialità, è stato proprio con il rifinanziamento delle missioni italiane «di pace» all’estero. Ero decisa a votare
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contro, ma per senso di responsabilità, e non mi è stato facile, mi
sono dovuta ancora una volta piegare.
E non mi è piaciuto proprio. Credo che il mio malessere verso
queste scelte sia ampiamente condiviso dai molti cittadini che hanno voluto questo governo, e giorno dopo giorno hanno sentito la
delusione crescere, a seguito di decisioni sempre più distanti da loro, decisioni che li hanno alla fine, allontanati dalla politica.
In queste condizioni non mi sento di continuare a restare in Senato dando, con la mia presenza un sostegno a un governo che non
ha soddisfatto le speranze mie e soprattutto quelle di tutti coloro
che mi hanno voluta in Parlamento e votata.
La prego quindi signor Presidente di mettere all’ordine del giorno
dell’Assemblea le mie irrevocabili dimissioni.
Non intendo abbandonare la politica, voglio tornare a farla per
dire ciò che penso, senza ingessature e vincoli, senza dovermi preoccupare di maggioranze, governo e alchimie di potere in cui non mi
riconosco.
Non ho mai pensato al mio contributo come fondamentale, pure
ritengo che stare in Parlamento debba corrispondere non solo a un
onore e a un privilegio ma soprattutto a un dovere di servizio, in
base al quale ha senso esserci, se si contribuisce davvero a legiferare, a incidere e trasformare in meglio la realtà. Ciò, nel mio caso,
non è successo, e non per mia volontà, né credo per mia insufficienza.
È stato un grande onore, per il rispetto che porto alle istituzioni
fondanti della nostra Repubblica, l’elezione a senatrice, fatto per il
quale ringrazio prima di tutto le donne e gli uomini che mi hanno
votata, ma, proprio per non deludere le loro aspettative e tradire il
mandato ricevuto, vorrei tornare a dire ciò che penso, essere irriverente col potere come lo sono sempre stata, senza dovermi mordere
in continuazione la lingua, come mi è capitato troppo spesso in Senato. Mi scuso per la lunga lettera, signor Presidente, ma sono stata «in
silenzio» per ben diciannove mesi! Roba da ammalarmi!...
La saluto con stima sincera,
Franca Rame, Roma, 17 gennaio 2008
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Qui in Europa impegnamoci per il disarmo nucleare totale.
Un appello dello «scienziato delle merci», Giorgio Nebbia,
ai lettori di questo libro
Caro Salvatore,
ti sarò grato se vorrai estendere ai lettori del tuo libro questo mio
appello. Perché la buona politica e la vita dell’Europa potrebbe essere vanificata dalla mezzanotte planetaria. E sarebbe giusto che i nostri politici, e quelli dell’Unione europea, si impegnassero a fondo a
fianco degli scienziati atomici per il disarmo nucleare totale, incluso
quello dei paesi europei stessi (Francia e Gran Bretagna), in questa
battaglia di civiltà per allontanare una catastrofe che ricadrebbe in
ogni modo sull’Europa stessa.
Chi, se non gli scienziati atomici, può meglio avvertire l’umanità
dei pericoli associati alla diffusione delle bombe atomiche? Il loro
«Bollettino», pubblicato negli Stati Uniti continuamente dal 1945,
subito dopo i bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki, ogni mese
informa i lettori dei progressi e degli insuccessi del disarmo nucleare
pubblicando in copertina un «orologio» con la lancetta dei minuti
che indica quanto siamo vicini a una catastrofe nucleare planetaria.
La lancetta era a sette minuti a mezzanotte quando solo gli Stati
Uniti possedevano le bombe atomiche; si avvicinò a tre minuti a
mezzanotte nel 1949, quando anche l’Unione Sovietica dimostrò di
possedere tali bombe.
La lancetta si allontanò dalla mezzanotte quando le potenze nucleari (che nel 1968 erano diventate cinque: Stati Uniti, Francia,
Regno Unito, Unione Sovietica e Cina) sembrarono accordarsi per
una riduzione dei loro arsenali; si è riavvicinata alla mezzanotte dopo l’entrata dell’India e del Pakistan nel club nucleare; dal 2002 l’orologio segna sette minuti a mezzanotte, ma nel frattempo si sono
verificati molti eventi. La Corea del Nord ha fatto esplodere una
bomba atomica; l’Iran sta producendo uranio arricchito (a parole
solo per le sue centrali elettriche); circolano notizie secondo cui
Israele, che da decenni possiede bombe atomiche, potrebbe attaccare gli impianti nucleari iraniani; gli Stati Uniti si sono rifiutati di
aderire al trattato contro le armi spaziali e stanno aggiornando e perfezionando l’arsenale delle proprie bombe nucleari. Gli Stati Uniti e
la Russia hanno smantellato una parte delle «vecchie» bombe nu-
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cleari, ma i relativi «esplosivi» sono mal conservati e mal custoditi,
esposti a incidenti e a furti e a tentativi di appropriazione da parte
di criminali e terroristi, e comunque ci sono ancora, in Europa e nel
mondo, ventisettemila bombe nucleari e duemila di queste sono
pronte per essere lanciate nel giro di pochi minuti.
Una ripresa della costruzione di centrali nucleari commerciali,
proposte come alternative all’uso dei combustibili fossili, responsabili dei mutamenti climatici, potrebbe mettere in circolazione materiali utilizzabili per bombe atomiche. Si delinea, insomma, una «seconda era nucleare» e per questo i direttori del «Bulletin of the Atomic Scientists», hanno deciso di spostare, mercoledì 17 gennaio
2007, la lancetta dell’orologio del disastro atomico da sette a cinque
minuti a mezzanotte, avvertendo così che tale disastro è più vicino.
La salvezza può essere cercata soltanto nel disarmo nucleare, imposto, fin dal 1968, dall’«articolo 6» del Trattato di non proliferazione delle armi nucleari, rimasto sempre lettera morta per l’opposizione degli Stati Uniti; così come è stata ignorata la sentenza della
Corte Internazionale di giustizia del luglio 1996 che ha dichiarato
illegale l’uso o la minaccia di uso delle armi nucleari.
Il disarmo viene invocato da più parti. Il 4 e il 31 gennaio 2007
sono apparse, sul «Wall Street Journal», il prestigioso quotidiano economico americano, due «lettere» che sostengono la necessità di procedere al più presto al disarmo nucleare totale mondiale. Tali lettere
non sono firmate da ecologisti o pacifisti, ma da Henry Kissinger e
altri esponenti statunitensi, sia repubblicani, sia democratici, e da
Michail Gorbaciov, ex segretario generale dell’ex Unione Sovietica,
cioè da persone che hanno coperto alte responsabilità per fare dei rispettivi paesi le due più grandi potenze nucleari. L’urgenza dell’azione – sollecitata pochi mesi dopo la pubblicazione, nel giugno 2006,
del rapporto di Hans Blix, «Le armi del terrore», e poche settimane
dopo l’appello lanciato proprio a Roma, nel novembre 2006, dai premi Nobel per la pace – è confermata dall’avanzata della lancetta dell’orologio dell’olocausto nucleare da sette a cinque minuti a mezzanotte, a ulteriore monito dell’avvicinarsi del pericolo planetario.
Il disarmo nucleare è stato invocato dai premi Nobel riuniti a
Roma nell’ottobre 2006, dai Medici contro la guerra atomica (insigniti del Premio Nobel per la Pace), dagli appelli di tutti i Papi; anche nel discorso della Giornata della pace 2007, il Papa ha sollecita-
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to i governi perché si impegnino a perseguire «la diminuzione e il
definitivo smantellamento» delle armi nucleari. Ogni anno, nell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, lo stesso impegno è votato da tutti i paesi membri, con l’opposizione degli Stati Uniti. Un
nuovo appello per il disarmo nucleare è stato lanciato nel 2007 in
Italia da padre Alex Zanotelli, il missionario comboniano che non
ha mai mancato di testimoniare a favore dei più poveri e della pace.
Purtroppo tutte queste parole scivolano via come acqua fresca sulla
disattenzione generale.
Eppure un disarmo atomico sarebbe possibile; si è riusciti, pur
dopo anni di dibattiti, a vietare le armi chimiche e quelle biologiche, perché non si dovrebbero vietare quelle nucleari? Diminuirebbe la sicurezza dell’Occidente? Di certo no, anzi è proprio il
possesso di armi nucleari da parte delle grandi potenze che spinge
altri paesi a dotarsi anch’essi di tali armi. Il disarmo nucleare getterebbe nella miseria le industrie militari? Neanche questo, perché
anzi lo smantellamento delle bombe esistenti, il trattamento dei
materiali radioattivi contenuti in tali bombe, la loro messa in sicurezza e sepoltura in cimiteri permanenti, comporterebbe un tale
sforzo tecnico-scientifico e industriale da assorbire diecine di migliaia di lavoratori.
Il denaro risparmiato fermando le attività nucleari militari (centinaia di miliardi di euro ogni anno nel mondo) permetterebbe di affrontare e risolvere almeno una parte dei problemi di miserie, di ingiustizie e di sottosviluppo che sono la vera radice della violenza internazionale. A marzo una grande campagna internazionale per l’abolizione delle armi nucleari. Mi permetto di rivolgermi con il cuore ai lettori: se ci informiamo e ne parliamo, possiamo allontanarci
dalla mezzanotte della catastrofe che rischia di provocare inaudite
sofferenze, di spazzare via milioni di vite umane. Diamoci da fare, vi
prego, perché vinca la vita.
Giorgio Nebbia
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Consigli
Sì, viaggiare in Europa... i siti per partire
Dettagliate informazioni sui concorsi nei paesi dell’Unione europea:
europa.eu/epso.
Opportunità di stage a Bruxelles:
ec.europa.eu/stages.
Candidarsi per uno stage alla Rappresentanza della Commissione
europea a Milano, scrivere a:
[email protected].
Come registrare il proprio curriculum on line, fare conoscere il proprio profilo biografico a tutti i servizi della Commissione:
ec.europa.eu/dgs/ personnel_administration/working_it.htm.
Gioventù: viaggiare, studiare, lavorare in un altro paese, tutti i programmi dedicati ai giovani: europa.eu/youth.
Per ogni informazione più approfondita:
Rappresentanza a Milano della Commissione europea
corso Magenta 59 – 20123 Milano
tel. 02 - 467 51 41
email: [email protected]
orari di apertura al pubblico: dal lunedì al venerdì dalle 9.30 alle
12.30.
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Intervista a Franco Bassanini1
Professor Bassanini, è stata una stagione di lavoro intenso per lei e per
gli altri saggi della Commissione Attali, tra i quali anche l’ex commissario europeo Mario Monti. Nel gennaio 2008 avete consegnato al presidente francese Sarkozy 316 proposte da attuare per modernizzare la
Francia e favorirne la crescita. Come avete lavorato per elaborare quelle
norme? E i risultati possono essere utili per l’Italia?
La nostra Commissione è stata formata mettendo insieme molte
competenze ed esperienze. Non solo economisti e giuristi, come si
fa di solito in Italia, ma anche scrittori, banchieri e psicologi, sindacalisti e industriali di nazionalità diverse. Una commissione internazionale, dunque, basata più sulla preparazione e sulla competenza
che sulle idee politiche.
1
Franco Bassanini (Milano, 9 maggio 1940) è un politico italiano, più volte ministro
della Repubblica e sottosegretario di Stato. Nella legislatura 1996-2001, guidata dai governi dell’Ulivo, è stato ministro per la Funzione pubblica e gli Affari regionali (primo governo Prodi), sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri (primo governo D’Alema) e nuovamente ministro per la Funzione pubblica (secondo governo D’Alema e secondo governo Amato). A lui si devono importanti iniziative volte a migliorare l’efficienza della pubblica amministrazione, a semplificare le procedure e ridurre la burocrazia e i costi
della politica. Deputato dal 1979 al 1996 e senatore dal 1996 al 2006, è presidente di
Astrid, un centro di ricerca specializzato nello studio delle riforme istituzionali e amministrative (www.astrid.eu). È professore di Diritto Costituzionale all’università degli studi di
Roma La Sapienza. Fa parte dell’Assemblea costituente e del Coordinamento nazionale del
Partito Democratico. Dal 2001 al 2005 ha fatto parte del Consiglio d’amministrazione
dell’École Nationale d’Administration, su designazione del Governo francese. Nel 2007 è
stato chiamato dal presidente francese Nicolas Sarkozy a fare parte della «Commission
pour la libération de la croissance française», presieduta da Jacques Attali, con il compito
di predisporre un piano per la crescita della Francia.
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Abbiamo guardato a tutti i paesi d’Europa per individuare le esperienze positive attuate altrove e trovare la migliore strada riformatrice per la Francia: perché di questo c’è bisogno, di riforme ad ampio
spettro, in Francia come in Italia.
Sì, le indicazioni fondamentali possono benissimo essere trasferite anche da noi. Italia e Francia hanno problemi comuni, come del
resto molti altri paesi europei: bassa crescita, declinante competitività, sfida dei paesi emergenti dell’Asia, emergenza ambientale ed
energetica, immigrazione e società multietniche, sicurezza, lavoro…
Per questo non mi ha sorpreso trovare nel diario di viaggio in Europa da lei scritto per il settimanale «Oggi» temi che abbiamo preso in
considerazione nella Commissione Attali.
Prendiamo, per esempio, il mercato del lavoro: la nostra proposta
è basata sul modello di flessicurezza danese e svedese da lei raccontato, molto flessibile ma con forti ammortizzatori sociali, grazie a cui
si può licenziare più facilmente, ma si offrono garanzie forti ai lavoratori, come indennità di disoccupazione, corsi di formazione, ricerca di un altro impiego, tutela sul posto di lavoro.
Era la strada cui guardava anche il ministro del Lavoro nell’ultimo governo Prodi, Cesare Damiano. E all’Italia avete guardato? Se sì, con
quali riflessioni?
Sì, anche l’Italia ha fornito qualche buona pratica alla Commissione
Attali.
Non sto dicendo che le cose in Italia vadano bene, anzi vanno
piuttosto male. Ma la percezione che ne hanno gli italiani è aggravata dalla loro tendenza a piangersi addosso e dalla loro esterofilia,
connesse a una inossidabile sfiducia nelle capacità riformatrici della
politica di casa nostra. Questa sfiducia è giustificata se si guarda alla
storia delle molte riforme fallite o al fatto che le indennità dei politici italiani sono le più alte d’Europa.
Quali eccellenze avete identificato nel capitolo Italia?
L’Organizzazione Mondiale della Sanità qualche anno fa ha condotto un’indagine in tutto il pianeta e ha concluso che il sistema sanitario migliore al mondo è quello francese, seguito da quello italiano.
Le ricerche come questa dell’Oms si possono anche mettere in di-
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scussione, perché in questa indagine, più che alla qualità delle prestazioni, si guardava ad alcuni dati di sistema, per esempio all’universalità dell’accesso, cioè al diritto di tutti di essere curati. Ci sono
paesi che hanno ospedali di altissimo livello, come gli Stati Uniti,
ma dove non è riconosciuto il diritto di tutti di essere curati e perciò
vengono dopo di noi nella classifica.
Eppure, nella nostra Sanità abbiamo anche isole di eccellenza per
la qualità dei servizi. Le faccio un esempio pratico che mi ha visto
testimone: mio figlio, cadendo durante una gara di sci, si è fratturato la mano sinistra in ventisette parti. All’ospedale pubblico di Savona opera un centro di chirurgia della mano all’avanguardia nel
mondo, allora diretto dal professor Mantero.
Ebbene, siamo andati lì, mio figlio è stato ricoverato in una stanza a due letti, con terrazzo sul mare e l’intervento è perfettamente
riuscito: gli hanno ricostruito la mano. Alla fine abbiamo pagato solo il ticket.
È capitato anche a un giornalista italiano residente in Svezia: per
anni ha pagato tasse salate e, quando l’ho incontrato, mi ha confessato di aver sempre maledetto quel balzello. Qualche mese più tardi ha
subito un delicato intervento chirurgico e, nel più avanzato ospedale
di Stoccolma, s’è visto assegnare una stanza con fiori freschi, Tv e internet, un’infermiera personale ventiquattr’ore su ventiquattro e perfino un blocchetto di biglietti da utilizzare per il taxi da casa all’ospedale, in modo da poter fare i periodici controlli post operatori. Ha
pagato in tutto nove euro al giorno di degenza, poi, dopo la convalescenza, mi ha telefonato e ha confessato: «Adesso ho capito dove vanno a finire i soldi delle imposte. Mi pento di avere detto “Maledette
tasse!”».
Nel suo viaggio-inchiesta si capisce che la pressione fiscale molto
elevata dei paesi scandinavi finanzia servizi efficientissimi, perciò i
cittadini non si lamentano.
Anche noi potremmo avere servizi migliori, e già ne abbiamo alcuni esempi, non solo nella Sanità. Siamo stati fra i primi tre paesi
al mondo ad avere completamente informatizzato il sistema fiscale.
Siamo stati il primo paese a riconoscere il valore giuridico della firma digitale e della carta di identità elettronica (salvo poi non rica-
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varne affatto tutte le potenziali ricadute positive, come invece hanno fatto altri paesi che sono arrivati dopo di noi).
Le faccio un esempio significativo. Noi italiani abbiamo accumulato, negli anni Settanta e Ottanta, per colpa dell’irresponsabilità
della classe politica, un enorme debito pubblico che ci ha portati,
agli inizi degli anni Novanta, sul podio di un triste primato: secondo paese al mondo per dimensioni del debito pubblico, dopo il Belgio (che però poi ha risanato i suoi conti in fretta).
Anche in Italia abbiamo fatto un’importante operazione di risanamento finanziario, soprattutto finché era ministro del Tesoro Carlo Azeglio Ciampi, che ci ha consentito di fermare la crescita del debito rispetto al Prodotto interno lordo e invertirla nel giro di cinque-sei anni. Negli anni Novanta siamo passati da un deficit a due
cifre rispetto al Pil, a meno del 3 per cento, riuscendo quindi a rientrare nei parametri di Maastricht.
Nessuno tra gli economisti, a metà degli anni Novanta, riteneva che
noi italiani avremmo potuto raggiungere il traguardo di entrare nell’Unione monetaria europea adeguandoci ai parametri richiesti, perché ne
eravamo lontanissimi; e invece ci siamo riusciti. E non è vero che ci
siamo riusciti soltanto per la riduzione delle spese per gli interessi sul
debito pubblico, che è stata sicuramente la componente più importante dell’operazione di risanamento. Abbiamo anche ridotto di ben due
punti di Pil la spesa per il personale, grazie alla riforma dell’amministrazione pubblica che anche per questo motivo viene citata nel Rapporto Attali, benché sia stata realizzata soltanto parzialmente…
Quanto è stata realizzato della riforma che porta il suo nome?
Diciamo più o meno il 30 per cento.
In ogni caso nei primi anni Novanta la spesa per le retribuzioni
dei dipendenti pubblici valeva il 12,4 per cento del Pil. Siamo scesi
al 10,4 nel 2000. Una riduzione importante.
Oggi abbiamo un milione novecentomila dipendenti pubblici in
meno della Francia; e un milione duecentomila in meno della Gran
Bretagna, che sono paesi delle stesse dimensioni demografiche dell’Italia. Per lo più i servizi pubblici funzionano meglio in Francia e
Gran Bretagna… però costano anche molto di più al contribuente
di quei paesi.
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Se si toglie la spesa per gli interessi sul debito pubblico, dovuto
interamente all’irresponsabilità finanziaria dei governo degli anni
Settanta e Ottanta, e si confrontano i dati, si scopre che la Francia
oggi ha un livello di spesa pubblica primaria di ben sette punti superiore a quello italiano, otto punti superiore a quello inglese, nove
punti superiore a quello tedesco e tredici a quello spagnolo.
Ma il livello della spesa pubblica non è tutto…
Sicuramente, ma l’ideale sarebbe riuscire a garantire servizi di ottima qualità con una spesa pubblica contenuta, in modo da lasciare
risorse adeguate agli investimenti e ai consumi privati.
È per questo che la Svezia ha ridotto di dodici punti di Pil la propria spesa pubblica negli ultimi cinque anni, e la Finlandia di undici.
Ci sono poi i costi indiretti, i costi da regolazione e da complicazioni burocratiche che gravano sulle imprese e sulle famiglie.
Da ministro per la Funzione pubblica, ho constatato che tra le
peggiori problematiche per la crescita e la qualità della vita ci sono
la burocrazia e la complicazione delle procedure, e ho cercato in
ogni modo di ridurne il peso. Per esempio introducendo l’autocertificazione, che ha ridotto dell’80 per cento i certificati (e le relative
code agli sportelli degli uffici anagrafe) e del 90 per cento le autentiche di firme pretese dalle amministrazioni.
Era arrivato al punto di far pubblicare il numero di fax del suo ufficio per permettere di denunciarne la mancata applicazione. Mi colpì
questo particolare, tanto quanto la scoperta che Bruno Kreisky, il più
grande statista austriaco del ventesimo secolo, faceva inserire il numero
di telefono di casa negli elenchi pubblici. Era l’unico capo di Stato con il
numero di casa in elenco. In un’intervista che mi rilasciò a Vienna nel
1980, spiegò che quello era il modo migliore per capire, prima di andare
in ufficio, come e perché la gente si fosse arrabbiata il giorno precedente.
Anche il mio numero di casa è sempre stato nell’elenco del telefono.
Ma torniamo al punto: prima della riforma ogni volta che un genitore doveva iscrivere il figlio a scuola per l’anno successivo, doveva ripresentare il certificato di nascita del bambino; oggi, invece, firma
semplicemente un modulo presso la segreteria della scuola su cui c’è
scritto: «Autocertifico che mio figlio…», eccetera. Forse non ne è con-
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sapevole, ma firmando quella carta risparmia un passaggio burocratico e tempo prezioso; fino al 1997 avrebbe dovuto recarsi in Comune.
Su un altro fronte: uno dei problemi più seri erano i tempi necessari per costituire una società. Tempi insopportabilmente lunghi,
perché l’Italia era uno dei pochi paesi in cui per creare una società
occorreva l’«omologa» del Tribunale, con relative perizie, e minimo
tre mesi di attesa, spesso il doppio.
Con la quinta legge Bassanini, nel 2000, abbiamo soppresso l’omologa. Oggi, se legge il rapporto Doing Business della Banca Mondiale,
può constatare che, almeno quanto ai tempi della costituzione di società, siamo tra i venti paesi più rapidi tra i duecento monitorati.
Oggi basta prenotare l’appuntamento dal notaio e si può fare tutto quello che è necessario per creare una società praticamente in una
giornata, non più in quattro-sei mesi.
Lei cita la Banca Mondiale. Ma il World Economic Forum non registra questo miglioramento. Per il Wef ci vogliono ancora quattro mesi
per registrare una società in Italia. Perché? Come si spiega questa divergenza di vedute?
Sta per essere pubblicata una ricerca di Astrid sui principali indicatori di competitività e sulle modalità con cui vengono costruiti:
quelle del Wef sono piuttosto indagini sulla percezione degli operatori, basate su interviste con imprenditori, che spesso sono gli stessi
degli anni precedenti.
Probabilmente l’imprenditore interpellato si basa sull’esperienza
delle pratiche che ha gestito personalmente in passato per aprire la
sua azienda, non aggiornate al presente (perché non ha aperto nuove società, o perché la sua azienda è cresciuta e ormai c’è un ufficio
apposito che se ne occupa); così ripete che in Italia va tutto male,
che la burocrazia è soffocante, eccetera, sia quando è ancora vero sia
quando non lo è più.
Per concludere: il quadro che lei dà nel libro è realistico, ma sono
convinto che non ci sia nessuna ragione per cui l’Italia non debba
garantire alle imprese e alle famiglie amministrazioni snelle ed efficienti capaci di erogare servizi pari a quelli dei migliori paesi europei
a costi diretti e indiretti comparabili con quelli.
Una volta si diceva: l’Italia non ce la può fare perché è un paese
povero, mancano le materie prime, innanzitutto il petrolio. Ma l’I-
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talia ha un clima tra i migliori al mondo, il patrimonio culturale più
ricco, è piena di talenti, di fantasia, di inventiva.
Mentre stavamo ancora piangendoci addosso sull’impossibilità di
fronteggiare la competizione globale e sulla ineluttabilità del declino, siamo stati sorpresi dal fenomeno della ripresa delle nostre
esportazioni nel mondo: tra i grandi paesi europei l’Italia è con la
Germania l’unico che ha aumentato, e non di poco, la sua quota del
mercato mondiale, dopo anni di declino. Davamo per perduta la
Fiat, poi a Torino hanno trovato un manager capace, e tutto è cambiato. Ricordo che la General Motors preferì accollarsi una penale
miliardaria pur di non rilevare la Fiat, e oggi l’azienda torinese nelle
borse mondiali capitalizza il doppio della General Motors…
Ma allora, se siamo bravi come sistema-paese, perché abbiamo problemi
insoluti da anni, che altrove hanno risolto da tempo?
Perché abbiamo bisogno di risolvere alcuni nodi fondamentali che
ostacolano il nostro cammino verso la modernizzazione e frenano la
crescita.
Comincio da qualche esempio concreto, evidenziando alcuni
punti che della sua inchiesta. Noi abbiamo ridotto la disoccupazione, non siamo più agli ultimi posti in Europa. Ma abbiamo ancora
un basso livello di occupazione, e quindi potremmo produrre di più,
ma il problema è che una parte degli italiani non cerca più lavoro.
Lei cita l’alta densità di asili nido nei paesi scandinavi, vicinissimi
ai posti di lavoro ove le donne sono impiegate. Se lei pensa che da
noi i posti negli asili nido e nelle scuole materne sono meno di un
decimo del numero dei bambini in età prescolare, e la regione al primo posto che è l’Emilia Romagna copre il 23 per cento della richiesta, mentre ci sono regioni dove sono all’1 per cento, capirà che
molte madri sono costrette loro malgrado a rinunciare a cercare lavoro. Ci sono, è vero, un po’ di asili nido e di scuole materne privati, ma non sono molti e il loro costo è altissimo…
Prenda il mio piccolo mondo come esempio: nel centro di ricerca
che dirigo, Astrid, impiego quattordici persone in tutto, di cui tre a
tempo parziale. Tra loro, ci sono alcune ricercatrici, che prendono,
netti in busta paga, tra i 1000 e i 1300 euro al mese. Ebbene, un posto in un asilo nido privato a Roma costa tra i 480 e i 550 euro. Con
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questi dati avrà già capito perché è sbagliato dire che le donne non
vogliono fare figli, la verità è che non possono farne, e che se ne hanno fatto uno non ne possono fare un altro se no l’asilo mangia loro
tutto lo stipendio.
Insomma, se, risparmiando sui molti sprechi nella spesa pubblica
e reinvestendo in asili e scuole materne, riuscissimo a portare i posti
nelle scuole materne e negli asili nido pubblici al 50 per cento dei
bambini in età prescolare, avremmo maggiore occupazione femminile, e così saremmo in grado di produrre di più, di crescere di più,
e anche di disporre di maggiori risorse per gli investimenti e per il
sistema previdenziale.
Quindi si parte dagli asili nido per recuperare milioni di donne al lavoro e alla crescita della società civile. Proseguiamo sulla strada delle nostre esigenze prioritarie.
È solo un esempio, ma scelto non a caso: anche il Rapporto Attali
parte dagli asili nido. E prosegue con molte proposte in materia di
istruzione, che potremmo in buona misura copiare.
Poi bisogna sburocratizzare e semplificare, ridurre quella tassa colossale che grava sulle imprese e sulle famiglie, che è l’eccesso dei costi da regolazione e delle scartoffie burocratiche.
Il ministro Visco ha ottenuto grandi successi nella lotta all’evasione, ma la sua azione ha registrato anche due insuccessi. Il primo non
dipende da lui, ma dal governo e dalla maggioranza nel suo insieme:
il recupero dell’evasione non è stato utilizzato per far calare la pressione fiscale sui contribuenti onesti, e quindi nessuno ha potuto
prendere atto che pagare tutti vuol davvero dire pagare meno.
Il secondo è che per fare la lotta all’evasione, Visco ha ulteriormente complicato il nostro macchinoso sistema fiscale. Anche la
gente ben disposta a pagare le tasse non vuole perdere le giornate e
le nottate a compilare bollettini e scartoffie.
In Danimarca e in Svezia si arriva addirittura alla dichiarazione dei
redditi preparata da uffici statali e mandata ai cittadini per verifica e
firma…
Cito un’altra esperienza personale: possiedo una casa nell’interno
della Maremma, e ho deciso di piantare un ettaro e mezzo di vigna
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nel terreno di proprietà. Non sa quante scartoffie e quanti adempimenti fiscali ho dovuto fare, eppure non ho ancora prodotto un solo litro di vino. Devo tutti i mesi compilare bollettini per pagare
qualche euro di tasse, e la mia segretaria deve dedicare diverse ore
ogni settimana a seguire gli adempimenti fiscali di un’azienda che
ha un solo contadino come dipendente e non ha ancora un euro di
fatturato.
C’è bisogno di una drastica operazione di semplificazione. Avevamo cominciato a farla ma poi ci siamo fermati.
Perché vi siete fermati? Chi ha fermato la sburocratizzazione?
La semplificazione va considerata come un compito prioritario, che
richiede strumenti dedicati e un forte impegno politico nella regia
dell’operazione.
Gli strumenti – il nucleo per la semplificazione, l’osservatorio per
la semplificazione, l’analisi dell’impatto della regolazione, le leggi
annuali di semplificazione – sono stati varati negli anni Novanta,
poi sono stati smontati, e infine l’ultimo governo Prodi ha tentato
di ricostruirli.
La regia richiede un ministro che dedichi a questo lavoro il tempo necessario, il che vuol dire anche ridurre al minimo le proprie
partecipazioni a feste, congressi, talk show televisivi.
Credo che sia utile comunicare bene quello che si è fatto bene.
Certo, non dico che i ministri non debbano rilasciare un’intervista,
ma una ogni tanto. E soprattutto lo devono fare per spiegare le cose
fatte, non per annunciarne altre che poi nessuno farà, perché tutti
sono troppo impegnati a farsi intervistare.
Abbiamo bisogno di ministri a tempo pieno. Mi spiego meglio:
c’è una riforma da fare? Il ministro responsabile deve passare quindici ore al giorno a lavorare alla sua attuazione, andare a vedere di
persona quel che bisogna fare per farla attuare, amministrazione per
amministrazione, inseguendo i colleghi e sollecitandoli ad agire, trovando le soluzioni necessarie per vincere le resistenze.
È molto più facile combattere l’evasione facendo compilare tredici moduli al giorno, invece bisogna trovare il modo efficace per farlo semplificando anche la vita.
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È molto più facile garantire la qualità dell’aria o dell’acqua sottoponendo le imprese potenzialmente inquinatrici a infiniti controlli
e a estenuanti adempimenti, ma così chiudono e non producono
più.
Bisogna dedicare tempo e pazienza a trovare meccanismi di regolazione, e strumenti di controllo sul loro rispetto, efficaci ma che
non siano troppo invasivi. È un problema affrontato e risolto in
molti altri paesi. Noi invece ci eravamo dotati degli strumenti necessari ma abbiamo poi fermato tutto.
Ancora: eravamo in condizione, alla fine degli anni Novanta, di
essere al livello della Danimarca e della Finlandia nell’informatizzazione della nostra amministrazione, ma ci siamo fermati. Perché?
Non lo so.
Purtroppo in Italia, con una caricatura della democrazia dell’alternanza, quando cambia un governo, quello successivo rimette in
discussione tutto.
Avevamo un piano di azione di e-government approvato nel
2000 all’unanimità dalla conferenza Stato-regioni e dalle autonomie locali. Dunque un piano bipartisan, elaborato da me, ma approvato anche dai governatori di Lombardia e Veneto, Formigoni
e Galan, e dai sindaci di centrodestra, Albertini in testa. Arriva il
governo Berlusconi e azzera tutto, incarica Mc Kinsey di rivedere
il piano di e-government, e lui dice che sostanzialmente il piano
va bene così com’è, ma intanto sono passati due anni, e il ministro Tremonti si è ripreso i soldi che erano stati stanziati per finanziarlo.
È quello che è successo anche nel campo dell’energia. Quando gli italiani hanno detto no al nucleare con un referendum, il ministro Battaglia
ha portato avanti un piano energetico alternativo, stanziando 1300
miliardi di lire per le ricerche sulle fonti rinnovabili. Dopo dieci giorni
i ministri Guido Carli e Cirino Pomicino li hanno dirottati su altri
fronti.
E adesso, ma con enorme ritardo, abbiamo adottato misure simili a quelle tedesche. Abbiamo previsto incentivi fiscali consistenti
per sviluppare l’energia solare, abbiamo la possibilità anche noi di
vendere all’Enel, e anche a prezzo politico, l’energia che si produ-
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ce con il fotovoltaico. Ma abbiamo reso tutto complicato, condizionando gli incentivi a una montagna di adempimenti burocratici.
Ho provato a installare il fotovoltaico nel mio casale di campagna, e per fortuna ho trovato un giovane e brillante tecnico di Legambiente di Grosseto che mi ha detto «pensiamo a tutto noi». Eppure ho dovuto firmare un mare di carte.
Ci abbiamo messo anni per introdurre gli incentivi fiscali per le
energie alternative, ma adesso che li abbiamo, con questi meccanismi non so quanto li utilizzeremo. Semplificare si può, ma bisogna
essere decisi a farlo.
Quando divenni ministro nel 1996, era ancora in vigore una legge del 1896 che, riprendendo una parte delle leggi Siccardi del
1855, stabiliva che ogni amministrazione pubblica, ogni associazione, ogni parrocchia, ogni scuola che avesse ricevuto una donazione,
un legato o un’eredità, non poteva accettarla se non veniva autorizzata dall’autorità competente, che in alcuni casi era la prefettura, in
altri il ministero. Da un censimento risultò che erano sei milioni e
mezzo le pratiche di autorizzazione ogni anno. Dunque, se avessi
voluto regalare il mio vecchio computer alla scuola dei mie figli, la
direzione non avrebbe potuto accettarlo e basta, ma doveva preventivamente ottenere l’autorizzazione. L’iter burocratico era complicato perché era necessaria anche la stima del valore del bene che veniva donato, dato dal valore commerciale del computer usato, non dal
prezzo di listino.
Feci abrogare quella legge, qualcuno protestò, qualcuno ricordò
che si trattava di norme essenziali introdotte per combattere la «mano morta»: la verità è che risparmiammo sei milioni e mezzo di procedimenti amministrativi all’anno, comportanti almeno tredici milioni di pratiche (le domande di autorizzazioni e i provvedimenti di
autorizzazione), con un ingente risparmio di tempo e di personale,
senza che si sia registrato nessun inconveniente.
Anzi, si evitarono così le conseguenze paradossali che le vecchie
disposizioni producevano a ogni piè sospinto. Ricordo, per esempio, quando Giulio Einaudi vendette la sede della sua casa editrice,
quasi in centro a Torino, per trasferirsi in periferia, e doveva consegnare il vecchio edificio ai compratori. Si domandò che cosa fare
delle centinaia di migliaia di vecchi libri che aveva nel magazzino e
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decise di regalarli alle biblioteche scolastiche del Piemonte. Macché,
non s’è potuto fare. Li hanno mandati al macero, quei libri, perché
non si faceva in tempo a completare le pratiche per l’autorizzazione:
naturalmente una pratica per ogni libro!
Investire in asili nido, sburocratizzare e semplificare… Andiamo avanti con le mosse da fare prioritariamente.
Immettere dosi massicce di valorizzazione del merito, dei talenti,
dei risultati, dosi massicce di concorrenza e di competitività.
Un grosso ostacolo è rappresentato dalle rendite di posizione. Un
giovane notaio, che ha vinto un concorso e vuole affermarsi, non
può affittare un ufficio a Roma o a Milano, aprire uno studio, farsi
pubblicità sul giornale promettendo di applicare tariffe basse, e
strappare clienti ai vecchi notai dimostrando che è bravo quanto loro, ma meno caro, e disponibile a lavorare anche la sera, il sabato o
la domenica. Se potesse farlo, anche i vecchi notai sarebbero costretti ad abbassare le tariffe, e magari sarebbe più facile trovare un notaio libero quando ce n’è bisogno.
Ma non lo può fare perché il numero è chiuso: si può arrivare a
Milano solo quando muore o va in pensione un vecchio notaio milanese, le tariffe minime sono fissate dall’Ordine dei notai, e la pubblicità è vietata.
Sono dieci anni che sappiamo che bisogna modificare queste regole. Non si tratta di sopprimere gli ordini professionali, anche se
qualcuno pensa che sarebbe utile farlo! Si tratta solo di sopprimere
norme che proteggono rendite di posizione, che impediscono ai giovani di affermarsi, che impongono costi non necessari ai cittadini e
alle imprese.
Lei ha evocato il mondo giovanile. Nel Rapporto Attali viene lanciato
un forte grido d’allarme a loro favore. Vengono usate parole forti. Leggo:
«Cinquantamila giovani francesi all’anno, ovvero il 6 per cento di una
generazione, percentuale considerevole, escono dal sistema scolastico prima di aver completato il ciclo delle scuole medie superiori… La disoccupazione giovanile, scandalo assoluto, costituisce la prova del fallimento di un modello sociale: raggiunge in media il 22 per cento e balza fino
al 50 per cento in certi quartieri… Giovani, donne e ultracinquanten-
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ni trovano con difficoltà la propria collocazione nell’economia». È un
allarme trapiantabile anche in Italia.
Aggiunga un dato clamoroso: i figli di operai ammessi all’École
Polytechnique erano il 25 per cento qualche anno fa, l’1 per cento
oggi!
Il Rapporto Attali contiene molte proposte per ripristinare la mobilità sociale: alcune potrebbero essere utili anche da noi. Ma, a Parigi come in Italia, occorre anche riprendere la strada della crescita
economica.
Spetta alla maggioranza politica, quale che sia, il compito di
distribuire secondo le proprie scelte i frutti della crescita. Ma senza crescita non c’è nulla da ridistribuire e non ci sono prospettive
per le giovani generazioni. Per far ripartire la crescita occorre il
coraggio di fare grandi riforme in tempi brevi. Dobbiamo riqualificare la spesa pubblica, dobbiamo ridurre drasticamente i costi
della politica e le spese improduttive, dobbiamo sopprimere gli
enti inutili, dobbiamo cacciare dalla pubblica amministrazione i
fannulloni e gli incapaci e rimpiazzarli con giovani intelligenti e
innovatori, che conoscano l’inglese e le tecnologie digitali, e dobbiamo condurre una lotta senza tregua all’evasione fiscale, facendone però ricadere gli effetti positivi su chi le tasse le paga fino
all’ultimo euro.
Abbiamo calcolato, in Francia, che un punto in più di crescita
del Pil potrà significare, per esempio, che ogni anno, ogni famiglia disporrà di cinquecento euro in più in potere d’acquisto, e
che ogni anno saranno realizzati novantamila alloggi sociali in
più, si creeranno centocinquantamila posti di lavoro, ventimila
bambini handicappati potranno essere scolarizzati, ci saranno
ventimila alloggi di emergenza in più per i senzatetto, l’estensione del reddito di solidarietà attiva per tutti coloro che beneficiano del reddito minimo d’inserimento, l’aumento del 50 per cento
dei fondi per la ricerca su sanità e biotecnologie, il raddoppio degli aiuti allo sviluppo e quattromila euro di debito pubblico in
meno per ogni cittadino: il tutto senza aumentare le imposte né
aggravare il deficit.
Grandi riforme in tempi brevi. Ma noi, più della Francia, siamo un
paese lento, viviamo nella morsa dell’incertezza, vediamo ovunque mi-
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nacce dove gli altri vedono opportunità. Crede che il nuovo governo possa dare una svolta?
Sono scettico, perché noi abbiamo di solito governi deboli, espressione di maggioranze frammentate e poco omogenee.
Molto (non tutto) dipende dalla legge elettorale. Tutti considerano la legge vigente pessima, ma non si è raggiunto l’accordo su
come modificarla. Eppure in Europa disponiamo di buoni modelli: quello francese, che personalmente preferisco, quello spagnolo o quello tedesco. Sistemi diversi tra di loro, ma tutti funzionano.
Tutti e tre produrrebbero una drastica riduzione del numero dei
partiti dalla ventina attuale a cinque o sei. La legge francese e quella
spagnola favoriscono i due partiti maggiori, quella tedesca meno,
ma tutte e tre consentono a chi vince, di norma, di disporre di una
maggioranza sufficientemente omogenea per governare…
Modifiche costituzionali: sì ma senza illusioni. La Costituzione
francese dà enormi poteri al presidente della Repubblica, ma poi basta lo sciopero di seimila tassisti parigini per paralizzare il suo decisionismo. E anche in Francia la Commissione Balladur e il Governo
Fillon propongono un’impegnativa riforma costituzionale per
rafforzare i poteri del Parlamento.
Penso che abbiamo soprattutto bisogno di alcuni ritocchi mirati,
senza pretendere di sconvolgere l’intero impianto costituzionale, e
in questo caso il modello potrebbe essere quello tedesco.
Bisogna dare al premier il potere di revocare i ministri che non
funzionano o non fanno squadra, bisogna eliminare il doppione tra
Camera e Senato e lo si può ottenere conferendo al Senato la funzione di una seconda Camera che rappresenti le regioni, come in
Germania. Bisogna che sia competente la sola Camera dei deputati
per votare la fiducia al governo e per approvare l’80 o 90 per cento
delle leggi, accelerando e semplificando il procedimento legislativo.
Ma, insisto, soprattutto bisogna cambiare la legge elettorale, eliminare un sistema che spinge a costruire grandi coalizioni molto variegate al loro interno, che sono in grado di vincere per pochi voti,
ma poi vengono condizionate dalle forze minori che ne fanno parte.
Se no prevalgono le interdizioni, i poteri di veto, le opposizioni dei
piccoli partiti o delle correnti interne.
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Adesso sembra esserci un avvio di comportamenti virtuosi, perché non
c’è dubbio che la scelta di Walter Veltroni di dire «noi del Pd andiamo
avanti da soli» è un punto positivo. Una semplificazione la si nota anche nel centrodestra. Basterà?
È un passo avanti. Ma dubito che basti. Sono dubbi basati sulla storia degli ultimi trent’anni.
Che cosa è successo sul nostro scenario politico? Da un lato sono
cadute le grandi ideologie; in fondo c’erano due grandi aree: quella
democristiana, di governo, con un certo tasso di clientelismo e di
corruzione, ma che aveva anche un’idea di Stato, un sistema di valori, un progetto per il paese… Dall’altra parte c’era l’opposizione comunista, che aveva un’ideologia e un modello di Stato che, sebbene
siano stati condannati dalla storia, si ispiravano a valori forti di
uguaglianza, di giustizia sociale, di universalità dei diritti, e aveva un
alto senso delle istituzioni: per decenni, i comunisti all’opposizione
non hanno fatto mancare il numero legale tranne che su due o tre
provvedimenti sui quali nutrivano sospetti di incostituzionalità.
Tra maggioranza e opposizione c’era un comune sentire sui principi e i valori della Costituzione, sulla carta fondamentale della nostra comunità. Non dimentichiamo che dopo la caduta del fascismo
c’è stato un governo con De Gasperi e Togliatti insieme, poi, al ritorno di De Gasperi dagli Stati Uniti, ci fu la rottura e il leader della Dc decise di fare un nuovo governo senza i comunisti. Lo scontro
politico era al calor bianco, ma questo non impedì un ottimo lavoro
comune all’assemblea costituente. Nel corso della stessa giornata, la
mattina, democristiani e socialcomunisti si scontravano e spesso venivano alle mani, poi, nel pomeriggio, lavoravano a scrivere il testo
della Costituzione, in un clima tutt’altro che di scontro; e alla fine
la Costituzione fu votata dal 90 per cento dei costituenti.
E che ci fosse un altro clima lo dimostra il fatto che ogni 25 aprile,
nonostante lo scontro politico, nel corteo di Milano che celebra l’anniversario della liberazione dal nazifascismo, De Gasperi e Togliatti,
Nenni e Malagodi, sfilavano insieme, perché rappresentavano le forze politiche che avevano partecipato alla Resistenza e avevano scritto
insieme la Costituzione su cui si basava la convivenza comune.
La seconda Repubblica ha visto nascere forze politiche nuove, l’uguale sentire sui valori costituzionali si è affievolito, e la democrazia
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dell’alternanza, il bipolarismo, è stato interpretato come un sistema
che legittima chi vince le elezioni a impadronirsi di tutto, e a cancellare tutto ciò che hanno fatto gli altri nei governi precedenti. Non si
fa così nemmeno negli Stati Uniti, patria dello spoil system ben temperato.
Prendiamo un caso che mi ha coinvolto: la riforma dell’amministrazione pubblica. Come ministro, l’avevo concordata passo passo
con Franco Frattini, oggi vice presidente della Commissione europea, ma che era stato ministro della Funzione pubblica nel governo
Dini, e poi ancora nel successivo governo Berlusconi. La riforma
Bassanini ha così avuto un gestazione bipartisan, tanto che l’opposizione di centrodestra votò a favore di tre delle cinque leggi proposte.
Ho assegnato una tesi di laurea che ha contato oltre duecento emendamenti Frattini introdotti in queste leggi con il parere favorevole
del Governo e l’approvazione della maggioranza di centrosinistra.
Quando il centrosinistra perse le elezioni, Frattini divenne ministro della Funzione pubblica nel secondo Governo Berlusconi. Mi
aspettavo che proseguisse il lavoro che avevamo incominciato insieme. Anche Frattini era di quest’idea, ma quando provò a spiegare ai
suoi che bisognava attuare la riforma Bassanini perché era il risultato di un lavoro bipartisan, lo guardarono come fosse un marziano, e
replicarono: «Noi dobbiamo dimostrare che quello che ha fatto il
centrosinistra è tutto sbagliato».
Insomma, oggi abbiamo forze politiche che occupano le istituzioni e considerano la politica, più che uno strumento per risolvere i
problemi dei cittadini, come uno strumento per allargare il consenso intorno al proprio partito, e il consenso si costruisce facendo favori, piazzando amici negli enti pubblici o negli ospedali, alimentando clientele, distribuendo prebende. Senza eccezioni, o quasi.
Inoltre: ciascuno ha cercato di farsi la riforma costituzionale che gli
faceva più comodo, ignorando che la Costituzione è di tutti, e che
in tema di riforma costituzionale ognuno deve accettare di fare un
passo indietro, o un passo avanti verso le ragioni dell’altro.
Sta lanciando un monito anche allo schieramento di centrosinistra in
cui milita.
Certo, per questo mi opposi invano alla scelta di approvare la riforma del titolo V della Costituzione a colpi di maggioranza: si è crea-
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to così, purtroppo, un precedente assai grave. Per questo sostengo
che occorre, con una riforma dell’articolo 138 della Costituzione,
innalzare a due terzi la maggioranza parlamentare necessaria per approvare le riforme istituzionali, ferma la garanzia del referendum
confermativo. I cittadini e le forze politiche devono essere sicuri che
i diritti, le libertà, le regole democratiche dettate dalla Costituzione
non sono alla mercè delle maggioranze del momento. E questa sicurezza semplifica e rende più sereni i rapporti tra maggioranza e opposizione.
Lo stesso metodo bipartisan dovrebbe valere per il lavoro di semplificazione e sburocratizzazione e per la riforma dell’amministrazione. Qui le buone soluzioni non sono né di destra, né di sinistra, e
giovano ugualmente agli uni e agli altri. Nelle leggi approvate negli
anni Novanta c’è già moltissimo. La Spagna di Zapatero le ha prese
a modello per la riforma varata un paio d’anni fa e altrettanto ha
fatto la Commissione Attali.
Ma in Italia quelle riforme sono rimaste in gran parte inattuate.
Per esempio: già dal 1999 è previsto che le retribuzioni dei dipendenti e la stessa carriera dei dirigenti siano legate alla valutazione
dei risultati ottenuti, alle performance realizzate. Ma per fare questo bisogna che ministri, sindaci, assessori, presidenti di regione, si
impegnino a tradurre i programmi di governo in obiettivi quantificati e precisi, specificatamente definiti per ogni servizio o amministrazione pubblica; occorre poi attivare sistemi di valutazione
dei risultati affidabili, e misurare così i risultati ottenuti; infine,
occorre premiare chi ha raggiunto gli obiettivi, e sanzionare chi li
ha mancati.
Due esempi facili per intenderci subito. In molte strutture sanitarie ci sono liste d’attesa spesso di mesi, così chi ha bisogno di fare
subito una Tac, un’analisi o un intervento chirurgico finisce per rivolgersi a una struttura privata, pagando profumatamente. L’obiettivo da fissare in questo caso è la riduzione dei tempi di attesa di ciascuna struttura del 15-20 per cento all’anno: gli aumenti di stipendio non spetteranno a chi lavora nelle strutture che non raggiungano questo obiettivo.
Analoghi obiettivi potrebbero essere fissati per gli uffici delle
Questure dove si rilasciano passaporti o permessi di soggiorno per i
lavoratori stranieri.
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A quel punto, il problema dei fannulloni e degli incapaci si risolverà da sé, senza bisogno di nuove leggi, perché già oggi un dirigente può licenziare per giusta causa un fannullone o un incapace, ma
non lo fa perché non è incentivato ad affrontare il problema: pensiamo al dirigente di un ospedale che abbia cinquecento dipendenti
di cui venti fannulloni e dieci incapaci. Chi glielo fa fare di licenziare trenta persone, affrontarne le proteste e i ricorsi, e magari le reazioni del sindacato? Tanto non cambia niente.
Se invece sapesse che lui per primo, e coloro che lavorano bene,
perderebbero gli aumenti di stipendio e i premi di produttività previsti dal contratto se, per colpa di quei trenta fannulloni o incapaci,
non raggiungessero l’obiettivo di riduzione dei tempi di attesa, il dirigente si deciderà a licenziare i lavativi, e i dipendenti restanti starebbero dalla sua parte. Anche il sindacato, stia certo, starebbe dalla
parte dei quattrocentosettanta lavoratori diligenti, non dalla parte
dei trenta licenziati, perché sono di più e perché il sindacato italiano, in linea di principio, non contesta che i fannulloni debbano essere licenziati.
Mi risulta che il presidente Sarkozy vi aveva raccomandato che il
modello sociale europeo non si tocca, ma va reso compatibile con l’altro
grande obiettivo che è quello della crescita della competitività. Quindi
di coniugare la competitività con la solidarietà sociale.
Ha fatto di più. Sarkozy ci ha chiesto di identificare le riforme necessarie per riprendere la strada della crescita, «perché solo così si
può realizzare la piena occupazione e salvaguardare il modello sociale europeo». Un programma che, negli schemi sommari della politica italiana, diremmo di sinistra.
Per recuperare competitività e aumentare la crescita occorre più
concorrenza, più flessibilità e soprattutto valorizzazione del merito,
dell’innovazione, della produttività.
Ma se l’azienda sarà più libera di licenziare, occorrerà aumentare
il livello di protezione sociale, occorrerà dare ai lavoratori maggiori
ammortizzatori. Il modello danese della flessicurezza di cui lei parla
nel libro è efficace, concorrenziale, solidale e flessibile, e presta particolare attenzione alla formazione, al dialogo sociale, alla piena occupazione, alla protezione sociale.
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Un’altra esperienza interessante viene dal ministero del Lavoro tedesco. A Berlino hanno istituito una direzione generale che si occupa dei lavoratori anziani. L’idea di fondo è che gli anziani, nell’attuale sistema economico molto competitivo, spesso rappresentano
per un’azienda un peso morto; ma possono rappresentare, con la loro esperienza e conoscenza, una potenzialità in un’altra azienda o in
un diverso ufficio della stessa. Allora si tratta di approntare strumenti per occuparsi degli anziani, aggiornarli, e ricollocarli laddove
possano utilizzare al meglio la loro esperienza.
Questo modo di governare il cambiamento richiede politici molto preparati. Sia a Cambridge sia a Copenhagen mi hanno parlato di corsi di
formazione per politici all’università, in modo da approfondire i concetti basilari degli incarichi istituzionali cui sono chiamati.
Da noi esistevano le scuole di partito, della Dc e del Pci. Chiuse tutte.
Ma da un paio d’anni le scuole per alfabetizzare i politici e gli amministratori sono rinate: a Roma, con la Fondazione Basso, a Pavia nel
Collegio Ghislieri con Libertà e Giustizia, a Milano con Nicola Pasini.
Richiede politici che si impegnino di più e che si autoriducano i compensi. Mi pare piuttosto complicato…
Non si può più rimandare un intervento drastico sui costi della politica.
Un anno fa tenni una relazione a Napoli nella quale segnalavo l’emergere dei sintomi di una nuova tangentopoli. Abbiamo fatto, ad
Astrid, uno studio per il Consiglio Nazionale dell’Economia e del
Lavoro che dimostra un dato interessante: com’è noto, nel decennio
1995-2005 c’è stato un forte trasferimento di competenze dai ministeri al sistema regioni-enti locali, per esempio, il 60 per cento della
manutenzione delle strade statali è passata alle province… quindi
vuol dire che lo Stato alla voce Anas spende meno. Invece dal 1995
al 2005 le spese di gestione delle amministrazioni centrali, cioè dei
ministeri, sono cresciute più di quelle delle regioni e dei comuni,
nonostante lo Stato abbia perso competenze e le regioni e i comuni
le abbiano aumentate. Perché questo avviene? Per esempio, perché
le amministrazioni, con la copertura dei politici, hanno perso competenze a vantaggio di regioni, province e comuni, ma hanno difeso
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con le unghie le loro strutture, il loro personale e le loro risorse, e le
hanno perfino aumentate.
Quindi pur avendo meno da lavorare, hanno sempre lo stesso numero
di persone.
Lo stesso numero di persone, le stesse spese… Questo è un capitolo
fondamentale per recuperare risorse, la riduzione drastica delle duplicazioni, della sovrapposizione, della moltiplicazione non necessaria di
amministrazioni che finiscono con il calpestarsi i piedi a vicenda.
Ma insisto, bisogna anche tagliare drasticamente gli eccessivi costi della politica. Perché i nostri parlamentari devono avere le indennità più alte d’Europa? Si obietterà: perché le indennità parlamentari le abbiamo dovute ancorare a quelle del primo presidente della
Cassazione per evitare che i parlamentari se le stabilissero da soli.
Allora stabiliamo che siano ancorate, invece, alla media delle indennità parlamentari degli altri paesi europei.
Se vanno bene in Germania, Spagna e Francia, andranno bene
anche in Italia.
Professor Bassanini, ha tracciato una road map chiara, ma ardua da
percorrere. Sarkozy ha sul suo tavolo il Rapporto Attali con le sue 316
proposte…
Che non accetta al 100 per cento. Quando gli abbiamo consegnato il rapporto, ci ha fatto un discorso chiaro e apprezzabile,
dicendo che delle 316 proposte non ne condivide cinque (per
esempio la soppressione dei dipartimenti, equivalenti alle nostre
province), ma che le altre sono giuste e il governo è impegnato a
realizzarle.
Qualche giorno fa il primo ministro François Fillon ha integrato
le «lettres de mission», inviate ai ministri, con l’indicazione delle riforme tratte dal Rapporto Attali che ciascuno è chiamato ad attuare,
suddividendo il rapporto in tante parti quanti sono i ministeri. Con
un’ordinanza del 14 febbraio, Fillon ha invitato i ministri a formulare un piano dettagliato di azione per le riforme di loro competenza e
a presentarglielo entro il 1° marzo. L’ordinanza insiste però sulla necessità di procedere attraverso il metodo del dialogo e della concertazione con le categorie interessate e con le commissioni parlamentari
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competenti: può essere un’indicazione di metodo prudente e naturale, oppure un espediente per insabbiare tutto. Vedremo.
Io non so come finirà e se Sarkozy ce la farà. La sua posizione non
è delle più semplici. La sua popolarità è crollata. Alcune delle proposte più significative del rapporto Attalì hanno cominciato a provocare scioperi (tassisti) e malumori (notai in primis) proprio nell’elettorato del suo partito, l’Ump. Sono segnali da non trascurare, nell’imminenza del voto di marzo 2008 per le municipali.
Ma resta un fatto incontestabile: l’Europa oggi cresce a una velocità inferiore alla metà della media mondiale, l’Italia ancora meno.
Oltre cento paesi al mondo oggi hanno un tasso di crescita del prodotto interno lordo superiore al 5 per cento. L’Africa stessa, così
come l’America latina, cresce a ritmi superiori al 10 per cento annuo. La Cina ha tassi superiori al 10 per cento da diversi anni, l’India la segue da vicino quasi al 9 per cento, l’economia russa rinasce
con una crescita del 7 per cento; la Turchia sfoggia tassi dell’11 per
cento.
La crescita del Pil non è tutto, e infatti Sarkozy vuole cambiare gli
strumenti per la misurazione della crescita economica francese e ha
annunciato di avere affidato a due premi Nobel dell’economia, Joseph Stiglitz e Amarthyia Sen, il compito di costruire un indicatore
di crescita meno rozzo e più affidabile del Pil. Però non c’è dubbio
che se non ci sono risorse da distribuire è anche difficile risolvere i
problemi della qualità dei servizi, delle infrastrutture necessarie, della qualità del sistema dell’istruzione.
La vecchia Europa deve dunque affrontare inedite sfide competitive, e insieme deve attrezzarsi per affrontare altre drammatiche
emergenze, come la questione ambientale ed energetica, le grandi
immigrazioni e i problemi delle società multietniche, la rivoluzione
digitale, e aggiungerei anche l’asfissiante finanziarizzazione dei mercati (che ormai sono dominati da investitori interessati solo ai capital gain di breve periodo e che operano dunque secondo una logica
che non fa crescere le imprese, anzi, magari le penalizza).
Ai cacciatori di teste di una volta si sono sostituiti i tagliatori di teste…
Queste grandi trasformazioni offrono nuove straordinarie opportunità, ma rappresentano anche una minaccia, una durissima sfida, di
fronte alla quale l’Europa continentale, che ha un modello sociale
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molto garantista, ma poco flessibile e assai costoso, rischia di restare
indietro, appesantita dalle sue conquiste e dalle sue sicurezze.
Per vincere queste sfide, per parare le minacce e cogliere le opportunità offerte dalla globalizzazione, occorrono grandi riforme, un’azione intensa e sistematica di modernizzazione, di liberazione della
crescita.
A ciò si è dedicato il Rapporto Attali. Che Sarkozy ce la faccia o
no, quelle riforme sono necessarie per la Francia come per l’Italia.
Quali sono i punti deboli del rapporto? Ed è pensabile, come auspica il
partito degli «attalisti d’Italia», così battezzato dal «Corriere della Sera», che possa essere declinato in versione italiana?
Le confesserò che la parte più debole del rapporto secondo me (e mi
dispiace perché è quella a cui ho maggiormente lavorato), è la parte
sulla pubblica amministrazione. Lì ha giocato la forte resistenza di
una burocrazia molto costosa e conservatrice, ma anche molto autorevole e ancora abbastanza efficiente.
Però il rapporto contiene molte proposte che potrebbero servire
all’Italia. Ma la loro attuazione produrrà necessariamente dissensi,
resistenze, proteste. Per questo credo che in Italia passare dalla teoria
alla pratica sarà possibile solo a una condizione.
Quale?
Lo dico con sofferenza, perché sono un sostenitore della democrazia
dell’alternanza. Ma la verità è che né il centrodestra né il centrosinistra hanno da soli le forze per vincere queste resistenze. Anche al loro interno vi sono i protettori delle rendite, degli interessi settoriali,
delle corporazioni.
La condizione è dunque che si raggiunga un’intesa tra maggioranza e opposizione, per concordare insieme le grandi riforme strutturali necessarie per vincere le sfide della globalizzazione, resistere
insieme alle proteste settoriali e corporative, evitare di cavalcare la
protesta per trarne effimeri vantaggi politici.
Se la maggioranza non dovesse essere netta, allora più che l’accordo sarà inevitabile una grande coalizione per le riforme, sia pure con
un orizzonte temporale limitato a qualche anno.
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A favore della sua coerenza, professor Bassanini, c’è il fatto che questa
convinzione la esprimeva anche quando al governo c’era il centrosinistra. E un’eventuale grande coalizione da chi la vedrebbe guidata?
Deve essere guidata da chi vince le elezioni.
In Germania la grande coalizione attualmente al governo è guidata da Angela Merkel che ha vinto, sia pur di un soffio, le elezioni; i
socialdemocratici tedeschi hanno avuto l’intelligenza di capire che
quella era la strada obbligata, pur avendo in teoria la possibilità di
guidare una maggioranza di centrosinistra.
Oggi la grande coalizione in Germania non è popolare, perde
consensi, ma ha rimesso in marcia il paese, ha modernizzato le regioni dell’Est, ha promosso lo sviluppo di nuovi settori come le
energie rinnovabili da lei raccontate.
Mettere insieme quelli che hanno il potere delle soluzioni. Quindi deve
essere il vincitore delle elezioni, non una figura che per qualche anno
possa essere al di sopra di tutti… Non si fida a fare un nome?
Io spero che il vincitore delle elezioni abbia la lungimiranza e la forza politica per fare questa scelta. Dovrà guidare il Governo, ma dovrà offrire al capo dell’opposizione un patto per concordare e approvare insieme le riforme strutturali necessarie.
Se invece dalle urne uscisse un pareggio, allora bisognerebbe trovare un leader meno schierato, una personalità apprezzata da entrambe le parti. Preferibilmente un politico, non un tecnico.
Quindi non il suo collega nella Commissione Attali, Mario Monti?
Ho grande stima di Monti, ma insisto: chi vince le elezioni dovrebbe farsi carico dell’accordo. Se ne esce un pareggio i leader delle due
parti devono farsi carico di identificare una figura politica che per i
suoi valori, per il suo passato, per i suoi saperi, sia in grado di condurre questa difficile riqualificazione del paese.
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Questa non è una relazione né uno studio, ma un manuale d’uso
per le riforme urgenti e radicali. Non è né partisan, né bipartisan: è
non partisan.
Non è nemmeno un inventario da cui un governo potrà piluccare
a suo piacimento, né tanto meno un concorso d’idee originali condannate a restare marginali. È un insieme coerente, in cui ciascun
pezzo si articola con gli altri, ciascun elemento costituisce la chiave
per il successo del tutto. Parte da una diagnosi sullo stato del mondo e della Francia; una diagnosi di quel che è necessario cambiare,
di quel che può essere modificato e dei modi con cui attuare la riforma. Con una duplice convinzione: da una parte, i francesi hanno gli
strumenti per ritrovare la via di una crescita forte, finanziariamente
sana, socialmente giusta ed ecologicamente positiva. Dall’altra, se la
situazione non sarà affrontata subito, presto non potrà più essere
fatto.
Misurata rigorosamente sulla base del Prodotto interno lordo, la
crescita è un concetto parziale, se vuole descrivere la realtà del mondo: in particolare, non tiene conto dei disordini della globalizzazione, di ingiustizie e sprechi, del riscaldamento del clima, dei disastri
ecologici, dell’esaurimento delle risorse naturali. La crescita della
produzione, però, è la sola misura operativa della ricchezza e del li1 Viene qui presentata una sintesi del Rapporto di Jacques Attali (300 décisions pour
changer la France. Commission pour la libération de la croissance française, XO Éditions, La
documentation Française, Parigi 2008) apparsa su «il Foglio» il 26 gennaio 2008. Traduzione di Elia Rigolio.
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vello di vita a nostra disposizione che permetta di paragonare i risultati dei vari paesi. D’altronde, questa misura è strettamente connessa con l’innovazione tecnologica, indispensabile per lo sviluppo sostenibile e il raggiungimento di altri obiettivi di sviluppo (sanità,
istruzione, servizi pubblici, eccetera).
II mondo cambia ad altissima velocità
Il mondo è travolto dalla più forte ondata di crescita economica della storia, che crea contemporaneamente ricchezze senza precedenti e
disuguaglianze estreme, progressi e sprechi, a un ritmo inedito. L’umanità tutta ne trarrà beneficio. La Francia deve fare la sua parte.
Questa crescita economica non è un’astrazione. Può e deve riguardare tutte le dimensioni del benessere, e innanzitutto quella
della libertà reale che permette a ciascuno, indipendentemente
dalle sue origini, di trovare ciò per cui è più dotato, di progredire
nella conoscenza, nella vita professionale, nelle risorse sue e della
sua famiglia, di riuscire nella vita e di trasmettere il proprio sapere
e i propri valori. A sua volta, la crescita economica è rafforzata da
questa libertà e dalle iniziative che essa permette. Non porterà sistematicamente alla giustizia sociale, ma le è necessaria: l’arricchimento non è uno scandalo. L’unico vero scandalo è la povertà.
Oltre cento paesi nel mondo oggi hanno un tasso di crescita del Prodotto interno lordo superiore al 5 per cento. L’Africa stessa, così come l’America Latina, cresce a ritmi superiori al 15 per cento annuo.
La Cina ha tassi superiori al 10 per cento da diversi anni, l’India la
segue da vicino, quasi al 9 per cento, l’economia russa rinasce con
una crescita del 7 per cento; la Turchia sfoggia tassi dell’11 per cento e ci apre le porte di un mercato immenso, in cui i due terzi della
popolazione hanno meno di venticinque anni. Le potenze che detengono rendite possono crescere e investire grazie al rialzo del prezzi delle materie prime.
L’avvenire riserva al mondo un potenziale di crescita ancora più
notevole: si annunciano progressi tecnici fondamentali, provenienti dal sud come dal nord del globo; la popolazione mondiale
aumenterà di tre miliardi di persone in meno di quarant’anni ed è
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disponibile un enorme capitale finanziario. Se il governo politico,
economico, commerciale, ambientale, finanziario e sociale del pianeta sapranno organizzarsi, la crescita mondiale si manterrà molto
a lungo al di sopra del 5 per cento annuo.
In Europa alcuni paesi approfittano di questa ondata,
altri vi si preparano
Anche se l’Europa oggi cresce a una velocità inferiore alla metà della
media mondiale, e più lentamente della media dell’Organizzazione
per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), anche se la sua
demografia è in declino, non ha alcun motivo di restare al traino.
Inoltre, non deve sforzarsi di recuperare come devono fare altri, deve avviare investimenti enormi per poter trarre beneficio dalle rivoluzioni tecnologiche future e riprendere il ritmo del resto del mondo. Di fatto, alcuni paesi del nostro continente vi si stanno preparando meglio di altri: la Germania ha modernizzato la parte orientale del paese, sviluppato nuovi settori, come le energie rinnovabili. Il
Regno Unito si è impegnato in modo costante nella riforma dei sistemi scolastico e sanitario, e nella valorizzazione del settore finanziario. Italia, Portogallo, Grecia e alcuni nuovi stati membri hanno
intrapreso a loro volta sforzi coraggiosi per controllare la spesa pubblica, modernizzare l’amministrazione migliorare il sistema di assunzione dei dipendenti pubblici.
La Spagna si è impegnata per garantire a tutti l’accesso a un’abitazione di proprietà, in un’economia di occupazione quasi piena.
La Svezia ha riorganizzato l’amministrazione grazie all’uso delle
Agenzie e ha sviluppato la concorrenza tra più fornitori di servizi
pubblici. La Danimarca ha costruito un modello efficace, concorrenziale, solidale e flessibile, che presta particolare attenzione all’istruzione, alla ricerca, al dialogo sociale e alla piena occupazione. La Finlandia è ai primi posti nel mondo in quanto a competitività grazie a una politica efficace di ricerca e innovazione. Tutti
hanno compreso l’urgenza che si impone nell’accogliere gli stranieri per colmare le proprie lacune demografiche e sviluppare l’innovazione.
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I tanti assi nella manica della Francia
La Francia dispone di strumenti eccezionali per attirare su di sé i benefici di questo movimento mondiale e per ritrovare una crescita
forte: la natalità più alta d’Europa, i sistemi scolastico e sanitario
d’alto livello, infrastrutture moderne, imprese creative, grande dinamismo nella vita intellettuale e associativa. È la prima destinazione
turistica del mondo, il secondo esportatore mondiale di prodotti
agricoli e agroalimentari, il quarto fornitore di servizi. Le infrastrutture stradali, aeroportuali, ospedaliere e di telecomunicazione sono
tra le migliori del mondo. Alcune imprese francesi figurano tra le
prime nel globo e diversi marchi hanno acquisito una rilevanza
mondiale in settori chiave per il futuro: aeronautica, petrolio, gas,
nucleare, militare, farmaceutica, opere pubbliche, edilizia, settore
bancario e assicurativo, trattamento delle acque, telefonia, servizi
informatici, agroalimentare, estetica, lusso e turismo.
Infine, il paese ha la fortuna di appartenere a un continente dalle
ricchezze immense, dove la pace, l’armonia e la stabilità sono garantite dall’Unione europea, con cui la Francia conclude il 60 per cento
degli scambi commerciali, e dall’euro, che, grazie alla sua stabilità,
sta diventando moneta di riserva mondiale.
Eppure, la Francia accumula ritardo
Nonostante questi assi nella manica, in Francia dal 2000 la crescita
media anima è ferma all’1,7 per cento. Perché da vent’anni a questa
parte non ha saputo riformarsi. Poiché non ha abbandonato un modello ereditato dal dopoguerra, efficace a quei tempi ma ormai inadeguato, la Francia resta in larghissima misura una società di connivenze e privilegi. Lo Stato continua a regolamentare nei minimi particolari tutti i campi della società civile, svuotando così di contenuto il dialogo sociale, intralciando la concorrenza, favorendo il corporativismo e la diffidenza. Mentre la nostra epoca ci impone di lavorare in modo interconnesso, di prendere l’iniziativa e di fidarci
degli altri, tutto si decide ancora agli alti livelli, tutto è controllato
in un clima di sfiducia generale. La spesa pubblica francese è la più
elevata di tutti i paesi dell’Ocse e aumenta ancora più velocemente
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della produzione. Nonostante le imposte siano le più alte d’Europa,
il deficit di bilancio si mantiene da oltre quindici anni al di sopra
del 3 per cento del Pil, e gli interessi del debito assorbono da soli i
due terzi dell’imposta sul reddito.
Le conseguenze di questo conservatorismo generale sono catastrofiche, in particolare per i giovani. Anche se ogni francese produce ancora il 5 per cento in più di un americano ogni ora, produce il 35 per
cento in meno di lui nel corso della vita lavorativa. La rendita trionfa: nelle fortune fondiarie, nella collusione dei privilegi, nell’assunzione degli alti gradi. Soltanto cinquemila imprese hanno più di duecentocinquanta dipendenti. Poche università francesi sono guardate
con rispetto nel mondo. Pochi ricercatori lavorano nei campi del futuro, e la competitività diminuisce: dal 1994, la quota di esportazioni francesi sul totale mondiale è andata diminuendo costantemente.
Le disuguaglianze sono più evidenti che mai: cinquantamila giovani
all’anno, ovvero il 6 per cento di una generazione, percentuale considerevole, escono dal sistema scolastico prima di aver completato il ciclo delle medie superiori. Solo il 52 per cento dei figli di operai ottiene il diploma superiore, contro l’85 per cento dei figli dei quadri superiori. Meno della metà dei figli delle classi popolari ottiene un diploma superiore non professionale, contro l’83 per cento dei figli dei
quadri superiori, che occupano poi la stragrande maggioranza dei
posti nelle Grandi Scuole (le migliori università francesi). Centocinquantamila giovani ogni anno escono dal sistema scolastico senza
qualifica.
La Francia conta contemporaneamente oltre 2,5 milioni di disoccupati e più di seicentomila posti di lavoro non coperti. La disoccupazione giovanile, scandalo assoluto, costituisce la prova del fallimento di un modello sociale: raggiunge in media il 22 per cento e balza
fino al 50 per cento in alcuni quartieri. Oltre un milione di persone
deve sopravvivere con il reddito minimo d’inserimento (rmi, ovvero
441 euro lordi per una persona sola senza figli) e solo 338.800 di loro sono iscritte all’Agenzia nazionale per l’occupazione (Anpe), che
fatica sempre più ad affrontare il problema della disoccupazione.
Giovani, donne e ultracinquantenni trovano con difficoltà la propria collocazione nell’economia.
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Il declino relativo è avviato
In totale, in quarant’anni, la crescita annuale dell’economia francese
è passata dal 5 per cento all’1,7 l’anno, mentre la crescita mondiale
segue il percorso inverso. Mentre nel 1980 era ancora la terza potenza mondiale in quanto a Pil e l’ottava per Pil pro capite, la Francia
oggi è solo sesta per Pil e diciannovesima per Pil pro capite. Il declino relativo può indurre un declino assoluto: la prosperità della Francia (e quindi dei francesi) non è un dato acquisito.
Inoltre, se non si farà nulla, il debito pubblico rappresenterà l’80
per cento del Pil nel 2012 e il 130 per cento nel 2020. E anche se
per giudicare con esattezza bisogna paragonarlo al valore delle attività di bilancio, l’onere del rimborso che peserà sui contribuenti di domani sarà il triplo di quello di cui essi si fanno carico oggi.
Inoltre, tenuto conto dell’andamento demografico, mantenere i
tassi attuali di sostituzione dei pensionati sarà impossibile: la percentuale rappresentata dalle spese pensionistiche nel Pil dovrà
passare dal 12,8 per cento odierno al 16 per cento nel 2050. Di
più: se il paese non reagisce con forza e rapidità per tornare a una
crescita sostenibile, i figli d’oggi vivranno assai meno bene dei loro genitori: il declassamento del paese e la proletarizzazione delle
classi medie saranno i primi sintomi di questo fenomeno.
La crescita può tornare a portare benefici per tutti
Una crescita economica può tornare a favorire tutti i francesi. Suo
presupposto è la combinazione di diversi fattori: il dinamismo di
una popolazione attiva numerosa, il continuo aggiornamento del
sapere e delle innovazioni tecnologiche, l’efficacia della concorrenza, la capacità del sistema finanziario di attirare capitali, l’apertura all’estero. Il suo ritorno passa inoltre attraverso una democrazia viva, la stabilità delle regole, la giustizia sociale. Esige
tolleranza, gusto del rischio, successo, rispetto di chi non ce la fa,
lealtà di fronte alla nazione e alle generazioni future, fiducia in sé
e negli altri.
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Una maggiore crescita economica porterà con sé progressi concreti
per ogni francese, e spetterà alla maggioranza politica, quale che sia,
il compito di distribuirla secondo le proprie scelte. Un punto in più
di crescita del Pil potrà significare, per esempio, che ogni famiglia
disporrà di cinquecento euro in più all’anno in potere d’acquisto,
quindicimila nuovi posti di lavoro, ventimila bambini portatori di
handicap seguiti con attenzione nelle scuole, ventimila alloggi di
emergenza in più per i senzatetto, l’estensione del reddito di solidarietà attiva per tutti i béneficiari del reddito minimo d’inserimento,
l’aumento del 50 per cento dei fondi per la ricerca su sanità e biotecnologie, il raddoppiamento degli aiuti allo sviluppo e quattromila euro di debito pubblico in meno per ogni cittadino. Il tutto senza
aumentare le imposte né aggravare il deficit.
Tutto questo esigerà il coraggio di grandi riforme in tempi brevi
La Francia può farcela. In tempi ragionevoli. Ha gli strumenti necessari. Per riuscire deve imparare nuovamente a guardare al futuro con fiducia, fornire delle garanzie per proteggere, preferire il rischio alla rendita, sciogliere le briglie alla sua capacità d’iniziativa,
alla concorrenza e all’innovazione. Deve cambiare marcia. Un paese troppo lento si disintegra: non può più finanziare gli interventi
di solidarietà necessari a tutta la società. Un paese troppo lento
s’impoverisce: i concorrenti gli sottraggono uno dopo l’altro le
quote di mercato, ovvero le sue possibilità di ricchezza. Un paese
troppo lento perde fiducia nell’avvenire perché non si dà più i
mezzi per prepararlo. Un paese troppo lento si affligge e regredisce: vive nella morsa della paura, vede ovunque minacce, dove gli
altri vedono opportunità. Il mondo avanza, la Francia deve crescere. Questa crescita esige l’impegno di tutti, e non soltanto dello
Stato: che non ha quasi più strumenti per intervenire sulla crescita, per quanto alla politica rimanga un ruolo importante da svolgere. I francesi devono sapere in particolare che il futuro dell’occupazione non è più nella pubblica amministrazione, e che quello
delle imprese non è più nelle sovvenzioni: numerosi poteri sono
stati trasferiti al mercato, all’Europa, alle comunità territoriali, ad
autorità indipendenti.
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Inoltre, i bilanci delle autorità locali sono limitati da alcune debolezze. Il centro di tutto è ancora nella mani dei francesi, che dovranno volere il cambiamento e condividere la voglia li futuro, di imparare e, soprattutto, di adattarsi, di lavorare di più e meglio, di creare,
di condividere, di osare.
Lo stato mantiene comunque una certa capacità di cambiare il
paese, e dovrà cominciare con il cambiare sé stesso. La riforma può
fare paura, in particolare ai più deboli, mentre sono loro ad avere
più bisogno della crescita; l’esperienza ha insegnato loro che gli
adattamenti spesso vanno a vantaggio soltanto dei più favoriti, dei
vincitori della globalizzazione. Il nostro progetto ha un’ossessione:
che tutti vincano, e prima di tutti chi oggi è escluso.
I principi d’equità
Per far questo, sono fondamentali tre principi d’equità:
1. La riforma deve riguardare tutti, tutte le categorie sociali e professionali. Senza tabù, senza esclusioni: dipendenti pubblici e privati, settori protetti e non, alti funzionari e piccole imprese. Tutti devono darsi da fare, affinché tutti possano trame vantaggio.
2. Chi subisce più direttamente le conseguenze della mobilità deve essere accompagnato con più cura, e aiutato a cambiare. Mentre
le protezioni di ieri incitavano a mantenere lo status quo, le garanzie
fornite dal sistema di domani devono sostenere il movimento.
3. Gli effetti delle riforme devono essere valutati sul lungo periodo e innanzitutto dal punto di vista delle vittime del conservatorismo attuale: in primo luogo i giovani, i disoccupati, i più poveri e
gli esclusi dal mercato del lavoro, e più in generale le classi medie
che vivono solo dei profitti del proprio lavoro. È per loro, prima di
tutti, che vogliamo questo progetto, e tramite esso vogliamo far vincere la Francia.
Un progetto d’insieme
I nostri lavori ci hanno portati a definire delle priorità e a proporre
delle decisioni. Quanto segue ne è la sintesi.
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Per inserirsi nella crescita mondiale, la Francia (ovvero i francesi)
devono prima di tutto porre in essere una vera economia della conoscenza, sviluppando il sapere di tutti, dall’informatica al lavoro di
squadra, dal francese all’inglese, dalle elementari agli studi superiori,
dall’asilo alla ricerca. Deve poi facilitare la concorrenza, la creazione
e la crescita delle imprese, utilizzando strumenti moderni di finanziamento, riducendo il costo del lavoro e semplificando la normativa in materia.
Deve favorire la fioritura di nuovi settori chiave, il cui sviluppo
contribuirà a quello di tutti gli altri: il digitale, la salute, le biotecnologie, l’industria dell’ambiente, i servizi alla persona e tanti altri. In
particolare, la Francia deve formulare e attuare una strategia digitale
ambiziosa, sull’esempio di alcuni paesi nordici e delle nuove potenze asiatiche. Deve anche considerare le spese sanitarie come un’opportunità di crescita, e non più come un onere.
Il paese deve dotarsi, grazie ai finanziamenti del settore privato, di
grandi infrastrutture portuali, aeronautiche e finanziarie di portata
mondiale, che gli conferiranno gli strumenti per diventare centro nevralgico degli scambi in Europa. Contemporaneamente, è necessario
creare le condizioni per una mobilità sociale, geografica e concorrenziale. Permettere a ciascuno di lavorare meglio e di più, di cambiare
più facilmente lavoro, nella massima sicurezza. È anche necessario
aprire il paese alle idee e agli uomini provenienti da luoghi diversi.
Per condurre in porto queste riforme, lo stato e le altre autorità territoriali pubbliche devono essere oggetto di un’ampia riforma. Bisognerà ridurre la quota di ricchezza comune a loro destinata, concentrare i loro strumenti sui gruppi sociali che ne hanno realmente bisogno, fare spazio alla differenziazione e alla sperimentazione, valutare sistematicamente ogni decisione, a priori e a posteriori. In totale bisognerà attuare 316 decisioni, che corrispondono ad altrettante
importati riforme. Sono tutte centrali per il successo dell’insieme.
Costituiscono un programma globale, non politico, che dovrà essere attuato con costanza nel corso delle prossime legislature, in un
contesto di stabilizzazione delle spese pubbliche. Dovranno essere
accompagnate da decisioni sulla ripartizione dei frutti della crescita,
che ciascuna maggioranza politica dovrà definire secondo le proprie
scelte.
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Alcune di queste riforme richiederanno anni per sprigionare tutto il
loro effetto sulla crescita, come il miglioramento della formazione
delle educatrici di asili nido e scuole della prima infanzia, lo sviluppo
della formazione in alternanza, la riforma dell’università e il suo collegamento con le Grandi Scuole, lo sviluppo della ricerca nelle biotecnologie, nelle nanotecnologie e nelle neuroscienze, lo sviluppo del
tutoraggio nei quartieri, la promozione delle energie rinnovabili, la
creazione di fondi pensione, la riforma dei porti, la riduzione della
spesa pubblica, della pubblica amministrazione e dello Stato, la semplificazione della legislazione, la creazione di un’autorità per la concorrenza. Riforme che si contano a decine. Altre avranno un impatto
molto rapido, come certe riforme fiscali, la valutazione di tutti i servizi pubblici, la riduzione del costo del lavoro, il sostegno ai piccoli
commercianti, la concorrenza nella distribuzione, la libertà di scelta
sull’età del pensionamento, gli aiuti all’occupazione giovanile, l’apertura dei negozi la domenica, l’apertura delle professioni regolamentate, la riduzione dei tempi nei pagamenti e nei rimborsi Iva.
Le riforme indispensabili si contano a centinaia. Venti decisioni
fondamentali illustrano la volontà d’insieme di questo rapporto.
Non sono sostituti delle prime, che dovranno essere attuate allo stesso tempo. Ecco i titoli di queste decisioni, organizzati attorno a otto
ambizioni primarie.
Ambizione 1 – Preparare i giovani all’economia della conoscenza
e della propensione al rischio
Il paese, fatte salve le sue ricchezze agricole, non dispone di materie
prime. Sempre più, le battaglie economiche si vincono grazie all’innovazione. Dalla nostra capacità di innovare dipenderanno crescita
e successo nella concorrenza mondiale. Formazione, trasmissione
delle conoscenze e preparazione tecnica continua sono quindi i primi requisiti del successo.
Decisione fondamentale 1
Dotarsi degli strumenti perché tutti gli studenti, prima del sesto anno di formazione, padroneggino il francese, le abilità di lettura e
scrittura, di calcolo, le modalità del lavoro in gruppo, l’inglese e
l’informatica.
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Decisione fondamentale 2
Costruire dieci grandi poli d’insegnamento superiore e di ricerca intorno a dieci campus, reali e virtuali, fissando le condizioni per l’eccellenza dell’insieme del sistema di formazione superiore e di ricerca.
Ambizione 2 – Partecipare appieno alla crescita mondiale e diventare
protagonisti assoluti della nuova crescita
Se non saprà accettare davvero la globalizzazione, la Francia non approfitterà quanto potrebbe della forte crescita mondiale presente e
futura. Da alcuni anni si fa largo una nuova crescita, che tenta di
conciliare risultati ed etica, redditività finanziaria a breve termine e
responsabilità nei confronti delle generazioni future. È così che la
protezione dell’ambiente ha dato la luce a nuovi mercati, a nuove
forme di creazione di ricchezza. La Francia ha tutte le carte in regola
per avere un ruolo di primissimo piano in questa «nuova crescita».
Decisione fondamentale 3
Ridare alla Francia tutti gli strumenti (tra cui quello della ricerca)
per assumere un ruolo di primo piano nei settori del futuro: digitale, salute, energie rinnovabili, turismo, biotecnologie, nanotecnologie, neuroscienze.
Decisione fondamentale 4
Avviare i cantieri di dieci Ecopolis, città e quartieri di almeno cinquantamila abitanti che integrino tecnologie verdi e tecnologie di
comunicazione.
Decisione fondamentale 5
Avviare sin d’ora la diffusione capillare della banda larga, a domicilio, nell’amministrazione e nell’ambito dei siti «Ambiente digitale di
lavoro».
Decisione fondamentale 6
Creare le infrastrutture necessarie (porti, aeroporti, piazze finanziarie), e accrescere offerta e qualità di alloggi sociali.
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Ambizione 3 – Migliorare la competitività delle imprese francesi,
in particolare delle piccole e medie imprese
L’economia francese soffre di gravi debolezze universalmente riconosciute: competitività in declino e insufficienza della rete di medie
imprese. D’altra parte, mancano le imprese che dispongano di dimensioni e risorse tali da permettere di sviluppare la ricerca e di
estendersi.
Decisione fondamentale 7
Ridurre i tempi dei pagamenti alle pmi (piccole e medie imprese) da
parte dello Stato e delle grandi imprese a un mese dal momento della
consegna e a dieci giorni per l’Iva, e istituire uno statuto fiscale semplificato per le imprese che fatturano meno di centomila euro l’anno.
Decisione fondamentale 8
Creare, tramite la riorganizzazione di enti esistenti, un’agenzia che
guidi le medie imprese e le piccole imprese con meno di venti addetti nel primo periodo di attività, seguendole nell’espletamento
delle questioni amministrative e fornendo loro risposte che impegnano tutte le amministrazioni.
Ambizione 4 – Costruire una società della piena occupazione
Rispetto al 1936, oggi viviamo vent’anni di più e lavoriamo in media quindici anni di meno. Questi trentacinque anni d’inattività aggiuntivi hanno un costo pesante in termini di crescita e non corrispondono necessariamente alle aspirazioni dei singoli.
Decisione fondamentale 9
Rinviare le decisioni fondamentali in materia sociale ai negoziati,
modernizzando le regole di rappresentanza e finanziamento delle
organizzazioni sindacali e padronali.
Decisione fondamentale 10
Coinvolgere tutti i datori di lavoro nel raggiungimento dell’obiettivo dell’occupazione giovanile e imporre a tutte le imprese e alle isti-
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tuzioni pubbliche di presentare ogni anno un bilancio della diversità per età, sesso e origine.
Decisione fondamentale 11
Ridurre il costo del lavoro per tutte le imprese, sostituendo parte degli
oneri sociali con parte degli introiti derivanti dal Contributo sociale
generalizzato (imposta che finanzia il sistema previdenziale) e dall’Iva.
Decisione fondamentale 12
Lasciare a tutti i dipendenti la possibilità di proseguire l’attività senza alcun limite d’età (una volta raggiunta la durata minima dei contributi), beneficiando, a partire dai sessantacinque anni, di un aumento proporzionale della pensione e sopprimendo tutti gli ostacoli al cumulo lavoro-pensione e tutte le disposizioni relative al prepensionamento.
Ambizione 5 – Eliminare le rendite, ridurre i privilegi
e favorire la mobilità
Per tentare di proteggersi, nel corso del tempo moltissimi gruppi
hanno costruito barriere difensive. In un mondo aperto e in movimento, l’accumulo di rendite e privilegi blocca il paese, grava sul
potere d’acquisto e frena la sua capacità di sviluppo. Senza mobilità
sociale, economica, professionale, geografica, la crescita non è possibile.
Decisione fondamentale 13
Aiutare i commercianti e i fornitori indipendenti a partecipare in
modo efficace alla concorrenza, ripristinando la piena libertà dei
prezzi e d’insediamento di tutte le imprese di distribuzione, del settore alberghiero e dei cinema, nel rispetto della pianificazione territoriale.
Decisione fondamentale 14
Aprire alla concorrenza le professioni regolamentate senza nuocere
alla qualità dei servizi resi.
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Decisione fondamentale 15
Incoraggiare la mobilità geografica (attraverso la creazione di una
Borsa online degli alloggi sociali) e la mobilità internazionale (tramite una procedura più flessibile per la concessione dei visti a studenti, ricercatori, artisti e lavoratori stranieri, in special modo nei
settori più delicati).
Ambizione 6 – Creare nuove garanzie, commisurate
alla crescente instabilità
Gli uomini e le donne del nostro paese sono fortemente esposti agli
adattamenti permanenti imposti da un mondo sempre più aperto e
mutevole. A questi nuovi elementi di precarietà devono corrispondere nuove garanzie. Il gusto del rischio è un motore insostituibile;
la protezione di chi rischia il suo requisito essenziale.
Decisione fondamentale 16
Considerare la formazione di quanti sono alla ricerca di un lavoro
un’attività che richiede una remunerazione sotto forma di «contratti
d’evoluzione».
Decisione fondamentale 17
Fornire garanzie precise sulla cessazione consensuale di un contratto
di lavoro.
Ambizione 7 – Instaurare un nuovo sistema di governo
al servizio della crescita
La Francia è un paese vecchio. Molte sue istituzioni si sono cristallizzate e fossilizzate. Spesso costano troppo per un servizio che si fa
ogni giorno più inadeguato. Ogni istituzione deve essere valutata secondo due obiettivi: garantire la solidarietà e operare per la crescita.
Decisione fondamentale 18
Creare agenzie per i principali servizi al pubblico e far valutare tutti
i servizi (scuola, università, ospedali, amministrazione) da enti indipendenti.
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Decisione fondamentale 19
Rafforzare le regioni e i progetti di gestione comune dei servizi da
parte dei comuni (intercommunalité), cancellando, da qui a dieci
anni, l’istituzione dei Dipartimenti.
Ambizione 8 – Non caricare sulle spalle delle generazioni future
gli oneri del livello di vita odierno
Un paese che s’indebita non ama i suoi figli. I debiti buoni sono gli
investimenti che preparano l’avvenire. Quelli cattivi sono i nostri,
un cumulo di deficit successivi generati da un tenore di vita eccessivo dello stato e dell’insieme delle amministrazioni pubbliche.
Decisione fondamentale 20
Ridurre, a partire dal 2008, l’incidenza della spesa pubblica sul Pil.
Questa riduzione deve raggiungere l’1 per cento del Pil l’anno a partire dal 2009, ovvero una riduzione di venti miliardi di euro, rispetto alla tendenza per anno nel corso di cinque anni.
Alcune di queste 316 misure sono già state riprese dal governo,
prima della pubblicazione del rapporto. Altre si trovano nelle proposte avanzate dall’opposizione. Formano un insieme coerente e devono essere attuate rapidamente. Non si tratta più di suggerimenti
da studiare, né di un catalogo da cui selezionare quelle che potrebbero soddisfare questa o quella categoria ai fini elettorali. Perché abbiano effetto il più presto possibile, queste decisioni devono essere
approvate e preparate in dettaglio tra gennaio e aprile 2008. Devono poi essere attuate tra aprile 2008 e giugno 2009.
La Francia del 2012
Questo permetterà, se il contesto economico mondiale non andrà
peggiorando, di raggiungere i seguenti obiettivi entro la fine del 2012:
1. Crescita potenziale maggiore di un punto rispetto a oggi.
2. Tasso di disoccupazione ridotto dal 7,9 al 5 per cento, ovvero
piena occupazione.
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3. Costruzione di oltre due milioni di alloggi e rinnovo di altri in
numero almeno pari.
4. Disoccupazione giovanile ridotta a un terzo.
5. Numero di francesi sotto la soglia di povertà ridotto da sette a
tre milioni.
6. Elezione, alle prossime votazioni per l’Assemblea nazionale, di
almeno il 10 per cento di rappresentanti della diversità.
7. Riduzione di un anno del divario esistente nella speranza di vita tra i più favoriti e i più deboli.
8. Creazione di oltre diecimila imprese nei quartieri e nelle banlieues.
9. Un lavoratore su due in età pensionabile che continui a lavorare dopo il raggiungimento dell’età del pensionamento, invece dell’attuale rapporto di un terzo.
l0. Tasso di inserimento nel primo ciclo d’istruzione superiore pari a quello delle ultime classi del ciclo immediatamente precedente.
11. Accesso per tutti i francesi all’Adsl e alla banda larga, e crescita dei francesi che utilizzano regolarmente internet al 75 per cento.
12. Riduzione del debito pubblico al 55 per cento.
13. Oltre novanta milioni di turisti in visita ogni anno.
Se le condizioni esterne peggioreranno, per raggiungere gli stessi
obiettivi bisognerà accelerare ulteriormente l’attuazione delle riforme. Questi obiettivi possono essere condivisi da tutti, indipendentemente dalle scelte politiche dei singoli. Lo stesso deve valere per
gli strumenti per raggiungerli. Le maggioranze di governo dei vari
orientamenti politici potranno poi decidere in dettaglio come distribuire i frutti di questa crescita, a vantaggio delle categorie che
vorranno privilegiare.
Una riforma a spron battuto
Prima di avviare l’azione, la mano non deve esitare. Il potere politico sa che i francesi vogliono le riforme, che credono nelle riforme se
sono giuste da un punto di vista sociale ed efficaci da quello economico, e che si aspettano che esse vengano attuate a spron battuto.
Possono portare frutto soltanto se il presidente della Repubblica e
il premier approveranno in toto le conclusioni di questo rapporto,
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gli daranno il loro sostegno in pubblico a partire da subito, in prima
persona e in modo costante, conferendo a ciascun ministro compiti
precisi. Il nucleo centrale delle riforme dovrà essere lanciato, secondo il calendario proposto alla fine di questo rapporto, tra aprile
2008 e giugno 2009. Dovranno poi essere perseguite con tenacia,
nel corso di più mandati, indipendentemente dall’orientamento politico delle maggioranze di governo.
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Ringraziamenti
Ringrazio per la stimolante collaborazione la professoressa Luisa
Corrado, economista all’università di Cambridge e all’università di
Tor Vergata a Roma.
Il mio pensiero grato va anche al direttore Pino Belleri e ai colleghi di «Oggi»; agli operatori del Centro documentazione della Rcs
diretto da Walter Colombo; a Fiorenza Di Biase e Vanessa Mazzucchelli; alle colleghe Deborah Ameri (Londra) e Francesca Serva
(Barcellona), con Francesco Saverio Alonzo (Stoccolma); ad Aurelio
Fernández e Sonia González Criado («El Mundo», Madrid); ai fotografi Giuditta Bussetti (Madrid), Eloi Giera-Bay (Friburgo) e Toni
Sica (Stoccolma); ai professori Bruno Amoroso e Herman Schmid
(università di Roskilde, in Danimarca); Cinzia Regalbuto e Giuseppe Di Magli; ai funzionari delle ambasciate a Roma dei paesi citati
(per tutti, indico Pedro Jesús Fernandez, Spagna; Pierluigi Puglia e
Simone Ceccarelli, Regno Unito; Jesper Stoorgard Jensen, Danimarca); a Paola Calvetti (Touring Club Italiano) e Barbara Lovato
(Maison de la France); a Roberto Santaniello, responsabile dell’ufficio della Commissione europea a Milano, e Annalisa Affer (Servizio
documentazione dello stesso ufficio).
Un abbraccio con particolare affetto a Manuela, che ha incoraggiato il mio lavoro, mi ha ascoltato con studiosa pazienza e ha sopportato le mie assenze.
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Nella stessa collana
Paolo Biondani, Mario Gerevini, Vittorio Malagutti
CAPITALISMO DI RAPINA
Gianni Barbacetto, Peter Gomez, Marco Travaglio
MANI SPORCHE
Sandro Orlando
LA REPUBBLICA DEL RICATTO
Ferdinando Imposimato, Sandro Provvisionato
DOVEVA MORIRE
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Finito di stampare
nell’aprile 2008 presso
Rotolito Lombarda SpA - Pioltello, Milano