La realtà, insieme al cuore, è la nostra grande alleata

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La realtà, insieme al cuore, è la nostra grande alleata
OTTOBRE / 2015
La realtà,
insieme al cuore,
è la nostra
grande alleata
Appunti dalla Giornata d’inizio anno
di Gioventù Studentesca con Julián Carrón
Milano, Basilica di San Marco, 4 ottobre 2015
© Società Cooperativa Editoriale Nuovo Mondo
Via Porpora, 127 - 20131 Milano.
Tracce-Litterae Communionis
Direttore responsabile: Davide Perillo
© Fraternità di Comunione e Liberazione
per i testi di Julián Carrón
Canti: Ballata dell’amore vero
La strada
Alberto Bonfanti. Benvenuti a questo gesto con cui iniziamo insieme
un nuovo anno. Saluto tutti voi qui presenti, ringraziando di cuore il parroco, don Luigi Testore, per l’ospitalità in questa bellissima chiesa, e saluto tutti coloro che sono collegati. Ci sono trentadue collegamenti in Italia
e otto all’estero: da Lugano e da Friburgo in Svizzera, da Barcellona e
Madrid in Spagna, dalla Lituania, dalla Gran Bretagna, dall’Irlanda, dal
Portogallo. Don Giussani ci dice provocatoriamente, e ce lo ha ricordato
Davide Prosperi sabato scorso alla Giornata d’inizio anno degli adulti:
«La giornata più bella della settimana è il lunedì, perché il lunedì si riinizia, si riinizia il cammino, il disegno, si riinizia l’attuazione della bellezza,
della affezione» (L. Giussani, Dal temperamento un metodo, Bur, Milano
2002, p. 31). Anche noi abbiamo ricominciato pieni della bellezza che
abbiamo vissuto in vacanza e che tanti di voi hanno documentato, delle
domande che i fatti accaduti hanno fatto emergere, talvolta in modo
drammatico, del desiderio di comunicare ai nostri compagni questa bellezza che abbiamo vissuto, ma anche, per alcuni, della paura di perdere
questa bellezza dentro la routine della quotidianità, che a volte sembra
soffocare ogni desiderio. Dentro tutto questo la sfida che tu, Julián – ti
ringraziamo perché ci accompagni anche in questo inizio –, ci hai lanciata al Triduo pasquale, a partire dalla quale ci siamo convocati e abbiamo
già dialogato con alcuni di voi a Cervinia insieme al nostro amico Davide,
è quanto mai attuale: «La realtà, insieme al cuore, è la nostra grande alleata». Insieme al cuore, cioè insieme a quel desiderio di felicità, di verità, di
bellezza che non possiamo strapparci di dosso, la realtà è la nostra alleata.
Dai vostri contributi emerge un impegno serio a verificare questa sfida e
a fare i conti con le domande che nascono da questa verifica. Abbiamo
scelto alcuni interventi, alcune domande per aiutarci in questa nuova
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Julián Carrón. Buon pomeriggio a tutti. Sono particolarmente contento di poter continuare il cammino insieme perché, da quando vi ho
mandato il messaggio in cui vi dicevo che la realtà, insieme al cuore, è la
nostra grande alleata, tanti di voi l’hanno preso sul serio, e così sono
emerse molte domande. Siamo compagni di cammino per questo. La
nostra non è una compagnia sentimentale, non siamo insieme per piangerci addosso o per guardarci tra di noi. La nostra compagnia è per
vedere se quello che ci diciamo ci aiuta a entrare nel reale. Se non ci aiuta
a vivere, se non percepiamo lo stare insieme, l’appartenere a questa amicizia come pertinente alle esigenze della vita, come ci ha detto sempre
don Giussani, prima o poi questa compagnia non ci interesserà più.
Quando invece uno la prende sul serio, comincia a vedere quanto possono essere pertinenti le cose che ci diciamo alle domande che la vita ci
pone, alle domande che sorgono nel nostro cuore, come dice la lettera
che ha appena letto Albertino.
Vorrei partire chiarendo che cosa significa per me la parola «alleata».
Nella nostra immaginazione tante volte pensiamo che una cosa ci è alleata perché toglie meccanicamente le difficoltà del vivere; per questo, quando le cose non vanno così, quando i problemi non si risolvono meccani-
camente, diciamo: ma allora come può essere alleata la realtà? Questa
domanda ci fa iniziare un cammino. E già così la realtà si dimostra alleata, perché fa emergere il nostro io, le nostre domande, la nostra ragione,
la nostra libertà; ci aiuta a renderci conto che non c’è nulla di meccanico,
di automatico nell’uomo. Perché tutto passa attraverso la libertà; tutto è
una possibilità, come dice la lettera, davanti alla quale si gioca la nostra
libertà. La realtà può essere percepita semplicemente come vuota di senso
oppure, se guardata fino in fondo, dice la nostra amica, come una possibilità per capire di più. La realtà è una cosa vuota di senso o una possibilità? Chi potrà scoprirlo? Forse chi fa girare la testa a vuoto? No. Chi
rischia, chi corre il rischio di verificare se, in quello che percepisco come
privo di senso, c’è una possibilità che non immagino e non intuisco. E
allora le circostanze cominciano a diventare alleate perché ci provocano,
diventano per noi una provocazione. Ma devo decidere: vuoto di senso o
possibilità? Chi potrebbe mettere la mano sul fuoco che la realtà è assolutamente priva di senso? Io vi sfido! Dovete prendere sul serio le vostre
domande. Chi può essere così certo che quello che in taluni momenti ci
appare come privo di senso lo è realmente? Quante volte vi è già capitato
nella vita, anche se siete ancora giovani, di scoprire come reali delle possibilità che non vi erano passate neanche per l’anticamera del cervello?
Che aiuto ci dà Shakespeare quando dice: «Ci sono più cose in cielo e in
terra, Orazio, che non nella tua filosofia» (cfr. W. Shakespeare, Amleto,
atto I, scena V)! Come possiamo scoprirlo? Solo se accettiamo come una
provocazione positiva le circostanze attraverso cui la vita ci fa passare.
Perché questo è decisivo? Perché ne abbiamo bisogno? Perché l’esperienza elementare dell’uomo – cioè quella struttura che ci portiamo addosso
dalla nascita, fatta di evidenze ed esigenze di verità, di bellezza, di bontà,
di felicità − ha bisogno di una provocazione per risvegliarsi. Occorre una
provocazione che venga dal di fuori di noi per risvegliare il nostro io, per
strapparci al nostro torpore in cui tante volte cadiamo. Don Giussani,
infatti, ci diceva che l’«esperienza umana originaria», cioè quello che noi
siamo, questo complesso di evidenze e di esigenze per cui io sono uomo,
«non esiste attivamente, se non dentro la forma di una provocazione. [...]
Vale a dire dentro una modalità in cui è sollecitata» (Dall’utopia alla presenza. 1975-1978, Bur, Milano 2006, p. 193). Quindi il problema veramente radicale è che ci sia una provocazione tale che favorisca la percezione di me stesso come un io che desidera tutto. Sono certi incontri,
certe circostanze che mettono in azione la nostra coscienza, la natura originale del nostro io. Lo vedete quando una persona vi piace: in quel
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avventura che si è aperta per ciascuno di noi, certi della positività di ciò
che ci attende. La prima domanda la leggo io, perché la persona che l’ha
mandata preferisce così; ci sembra importante per la questione che pone.
«Rispetto alla Giornata d’inizio spesso al Raggio emergono degli
interventi in cui si dice che in ambienti come quelli sportivi o in una
vacanza da soli, per esempio, la realtà risulta immediatamente come
vuota di senso. A questo spesso si risponde dicendo che anche questa
realtà, se guardata fino in fondo, è una possibilità per capire di più e per
vivere quello che diciamo a GS. Io vivo una situazione familiare complicata. A me sembra che nelle circostanze in cui vivo quotidianamente ci
sia continuamente un vuoto di senso, che viene colmato saltuariamente
nelle esperienze di CL. Questo spesso mi fa arrabbiare, perché quando sto
male, di solito a causa di attriti familiari, appunto, sto ancora più intensamente male perché provo nostalgia per i momenti di vita autentica vissuti, tant’è che, paradossalmente, preferirei non avere conosciuto GS per
abbandonarmi all’idea dei miei parenti: che non c’è nulla. Tuttavia capisco che questa posizione non mi corrisponde, perché io sono esigenza di
significato, quindi la mia domanda è: come è possibile che questo vuoto
possa essere colmato sempre nella mia vita?»
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Quest’estate è stata una delle più significative per me. Sono riuscita a
tenere presente quella promessa, quell’incontro che ho avuto e che riaccade
quando sono in questa compagnia. Grazie alla vacanzina e alla vacanza
degli adulti mi sono resa conto sempre di più che la realtà non è mia, ma è
per me; mi entusiasma pensare che, qualunque cosa accada, la realtà sarà
sempre lì. Tutto cambia, però, da come ti poni davanti ad essa. È questo il
mio problema, perché all’Equipe di GS Davide Prosperi ci ha detto che è un
bene tornare con delle domande, ma io ne ho una sempre presente che mi
spaventa: come posso mantenere tutto ciò? Come posso continuare a vivere
con questa consapevolezza che la realtà è per me? Io sapevo che dopo
l’Equipe e dopo un’estate così vera non ce l’avrei fatta a mantenerla, e per
evitare questo mi sono buttata in tutto ciò che stavo facendo, soprattutto le
attività di GS, perché è l’unica compagnia che mi aiuta, come diceva
Prosperi, a portare il fardello della mia umanità. Con l’inizio della scuola
sento che si è annullato tutto quello che avevo costruito; sapevo che sarebbe
successo, ma non pensavo sarebbe accaduto così presto. Come posso riuscire
a non perdere il mio incontro ogni volta che la realtà mi si pone davanti?
È vero che tutto si è annullato? Rispondimi sì o no.
No.
«No». Non potete mentire a voi stessi.
Un pochino.
Un pochino, ma non si è annullato tutto, tanto è vero che tu sei qui
a fare la domanda. Se si fosse annullato tutto, tu non saresti qui e non
desidereresti di non avere perduto quello che ti è capitato. Dunque, il
primo dato da riconoscere è questo: non tutto si è annullato, come invece tante volte pensiamo. È molto importante rendersi conto di questo: il
fatto stesso che tu abbia posto la domanda indica che non si è cancellato
dal tuo io quello che hai incontrato. A voi questo sembra quasi nulla; e
invece è cruciale. Perché? Perché resta qualcosa di quello che io ho visto,
di quello che mi è capitato; un evento non si può cancellare del tutto
dalla vita. È importante rendersene conto, perché in questo modo
cominciamo a non spaventarci più quando sembra che tutto sia crollato.
Quando vi prende quella paura, guardatela in faccia e domandatevi: è
vero o non è vero? Voi non dovete perdere l’occasione. Quando vi viene
il sospetto che tutto sia stato annullato e cancellato, che tutto sia un’illusione, che tutto sia stato un sogno, guardate in faccia tutto questo
ponendovi la domanda: è vero o non è vero? Se non giudicate se è vero
o no ciò che pensate, voi andate in tilt. Se invece giudicate ogni volta che
vi assale il dubbio, vi scoprirete sempre più convinti che non è stato un
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momento comincia a emergere tutto il vostro io con tutte le sue esigenze,
con tutta la sua capacità di vibrare davanti a uno sconosciuto che vi attira, vi sollecita e vi provoca con la sua presenza, con la sua bellezza; non
c’è alcuna possibilità di cancellarlo, tanto vi fa essere voi stessi. L’altro ci
provoca a essere noi stessi. La stessa cosa capita in ogni circostanza. Le
circostanze sono provocazioni che risvegliano il tuo io, la tua esigenza di
capire, di scoprire il significato di tutto; ti destano delle domande. E solo
chi prende sul serio queste domande, solo chi vede emergere in sé queste
domande è in grado di intercettare la risposta. Infatti solo quando abbiamo delle domande siamo in grado di intercettare le risposte. E se la persona che ha scritto la lettera fa attenzione, si rende conto che in quello
che vive ha già un inizio di risposta: riconosce di avere vissuto momenti
di vita autentica, e proprio per questo prova una nostalgia di quei
momenti. Non è che non le sia accaduto niente, ha vissuto momenti di
vita autentica per i quali sente una nostalgia che non riesce a togliersi di
dosso, ma poi, davanti alle difficoltà del vivere, preferirebbe non averli
mai vissuti e abbandonarsi all’idea di quelli che la circondano. Occorre
decidere, ragazzi! Dovete scegliere: essere disponibili ad assecondare
quello che avete visto con i vostri occhi o seguire quello che vi dicono gli
altri. Volete vivere la vostra vita o preferite che qualcuno la viva al posto
vostro? Se non cominciate a decidere di vivere voi, ci sarà sempre qualcuno che vi prenderà in giro. Dovete decidere, perché voi avete vissuto
momenti di vita autentica, li avete visti con i vostri occhi, li avete sentiti
vibrare nelle fibre del vostro essere. E se qualcuno ti dice − come nella
canzone Barco Negro (musica Caco Velho e Piratini, testo D. MourãoFerreira) −: «Sei matta», «são loucas» (sono pazze), tu rispondi: «Sei
matto tu, tu lo sei! Io sono veramente certa di quello che mi è capitato».
Perché ne sei così certa? Se fate attenzione a voi stessi, trovate in voi lo
spunto della risposta: perché quello che ti dicono gli altri non corrisponde a te come quello che ti è capitato. «Capisco che questa posizione», dice
lei, «non mi corrisponde perché io sono esigenza di significato». Allora
decidete! La vita non vi maltratta e voi non siete dei poveracci che non
hanno mai visto niente di veramente chiaro, vivo, attraente, affascinante;
lo avete visto e vissuto, tanto è vero che se gli altri vi dicono: «Siete pazzi»,
questo non vi corrisponde perché voi siete esigenza di significato. Vedete
come la realtà vi è alleata? Ma questo non è meccanico, perché occorre
che ciascuno assecondi la provocazione della realtà; così potrò vedere
emergere davanti ai miei occhi che cosa è la realtà, che cosa sono io e
quale promessa mi offre la realtà per il compimento del mio io.
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proprio in quel momento appare tutta la diversità del cristianesimo. E
allora ci si domanda: l’unica alternativa è fare sciocchezze? Andarsene
via per diciassette anni? No, c’è un’altra possibilità: quando uno sente
questa tentazione può guardarla in faccia, come dicevo prima. Con quello che mi è capitato e che non è annullato del tutto, posso giocarmi
ancora la partita in questo nuovo inizio. Le circostanze ti sono date perché, giocandotela di nuovo, tu possa diventare sempre più certa. È solo
per gli audaci la vita cristiana. Se preferite una vita facile, andate a cercarla da un’altra parte. L’esperienza cristiana è solo per chi ha il desiderio di vivere un’avventura nella quale non ci raccontiamo delle frottole
e siamo costantemente invitati a verificare quello che ci diciamo. Ma per
verificarlo occorre giocare sempre di nuovo la partita. E, secondo, giocarla insieme agli amici; non siamo lasciati da soli con i nostri tentativi,
perché siamo all’interno di un luogo che costantemente ci rilancia, ci
accompagna, risponde alle domande. E così la vita diventa un’altra cosa.
Alla fine dell’estate mi sono ritrovata con una voglia matta di tornare a
scuola, perché per la prima volta ho sentito l’esigenza di verificare se la bellezza e la felicità che avevo vissuto durante la vacanza di GS e al Meeting fossero veramente parte della realtà, una realtà che per me comprende per prima
cosa la scuola. Se è vero ciò che vivo in questa compagnia, lo deve essere in
ogni circostanza, tanto da sentire il desiderio di stare seduta di fronte al mio
professore con lo stesso cuore aperto che ho durante una passeggiata in montagna. Da quando è iniziata la scuola mi sto rendendo conto che la sto vivendo a cuore aperto. L’ho percepito quando ho iniziato a sentire il bisogno a fine
lezione di uscire di classe e andare a raccontare la mia mattina a una mia
amica di GS, a lei come alla mia compagnia. E tutto ciò mi pare bellissimo,
perché finalmente queste due realtà che erano distinte, la scuola e GS, adesso
sono una cosa sola e sento che, senza il sostegno e soprattutto la presenza dei
miei amici, questa realtà che adesso sento alleata e vicina sarebbe distaccata
e avversa. Questo inizio scolastico, inoltre, ha suscitato in me diverse domande, soprattutto in relazione al rapporto con la mia compagna di banco, la
quale, ogni volta che finiva una lezione a mio parere bellissima, mi mostrava
la sua reazione apatica e annoiata, tanto da farmi mettere in dubbio ciò che
avevo appena vissuto. Inizialmente mi è sembrato un limite, ma proprio in
questo mi sono resa conto che non doveva esserlo e che, anzi, doveva essere
qualcosa da cui partire, una sfida. Allora mi sono chiesta, e mi chiedo tuttora,
com’è possibile che lei, che ha un cuore come il mio e vive la mia stessa realtà
scolastica, non riesca a vedere in ciò che viviamo quello che vedo io.
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sogno, che non è stato tutto cancellato. Anzi, percepirete che, quando vi
sorge questa domanda, è un’occasione preziosa per riscoprirlo ancora,
per rendervi conto di quanto è consistente, di quanto dura ciò che avete
visto e vissuto. Non dovete autoconvincervi, non dovete raccontarvi
delle frottole, non dovete credere a delle “visioni”, semplicemente dovete
prendervi sul serio e domandarvi: è vero o non è vero quello che io ho
vissuto, è vero o non è vero che quello che ho vissuto non è stato cancellato? Una persona che ha incontrato la comunità cristiana e poi se ne è
andata via per anni, addirittura dopo diciassette anni, come mi raccontava un amico, telefona agli amici di un tempo dicendo: «Ma vi vedete
ancora?», «Sì». «Posso venire anch’io?». Dopo diciassette anni! «Certo,
come mai?». «Perché ho troppa nostalgia!». Sembrerebbe che, dopo
diciassette anni, non fosse rimasto nulla, ma quella persona ha visto
quello che ha visto, ha visto che c’è un luogo di vita, ha visto che c’è
un’esperienza e ha visto che tutti i suoi tentativi fatti andandosene non
sono riusciti a dargli neanche un minuto di quella pienezza che aveva
vissuto. Noi non abbiamo alcun problema con la realtà, noi non abbiamo paura delle sfide, perché è proprio affrontando le circostanze che
vediamo la differenza fra Cristo e qualsiasi altra risposta, ma lo scoprirà
solo chi non ha paura di verificarlo nella realtà. Per questo mi colpisce
sempre la vicenda del figliol prodigo: si sentiva stretto in casa e se ne è
andato. Uno potrebbe pensare: è finito tutto. Ma quando si trova in
mezzo ai maiali non può evitare di pensare: «Nella casa di mio padre io
stavo bene e perfino i suoi garzoni vivono infinitamente meglio di me
che sono qui a mangiare delle ghiande con i maiali» (cfr. Lc 15,16-17). È
una visione, la sua? È un’illusione? È fantascienza? Non può dimenticare
l’esperienza vissuta nella casa del padre, che sembrava cancellata da tutte
le sciocchezze che ha fatto. Quell’esperienza era stata totalmente annullata, come dice la nostra amica? No, perché proprio quanto più si è
allontanato tanto più gli è venuta una nostalgia matta di casa. Dio non
gli ha mandato un angelo a dirgli: «Poveretto!». Dalle viscere del suo io
è scaturito un desiderio di felicità e di pienezza: «Io qui vivo come un
maiale quando potrei vivere come un figlio»; e tutto si ripropone con
ancora più intensità dell’inizio: se il cristianesimo fosse solo una invenzione per coloro che non hanno provato nulla della vita, dopo avere provato tutto, uno dovrebbe essere veramente convinto che tutto è finito.
Ma proprio in quel momento si ripropone tutto ancora con più potenza. Dopo che abbiamo verificato tutti i nostri sogni, tutte le scorciatoie
che abbiamo immaginato per raggiungere più in fretta la nostra felicità,
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Da dove nasce il fatto che tu entri in classe contenta e che, avendo a che
fare con le nostre stesse sfide, le vivi diversamente? Perché tu non ti stanchi
mai di ricominciare?». Queste domande ti offrono l’opportunità di
rispondere. I tuoi compagni hanno le tue stesse esigenze, ma hanno bisogno, come dicevamo prima, di una provocazione adeguata per scoprire
tutte le possibilità del vivere che ancora non conoscono. E come il Signore
lo ha dato a te, a un certo punto lo darà anche a loro. Mi stupisce sempre
lo spettacolo del rispetto di Dio per la libertà di ciascuno di noi: invece di
arrabbiarti con i tuoi compagni o di confonderti perché non capiscono,
pensa a Dio che bussa senza sosta e aspetta come un mendicante la nostra
risposta. Io vi sfido a trovare qualcuno che ama così tanto la vostra libertà,
che ama così tanto la libertà dei vostri compagni. Noi non possiamo
amare la libertà dei nostri compagni meno di come la ama Dio.
Quest’estate ho subito una grossa ferita affettiva. Ciò che mi ha colpito
particolarmente è che questo rapporto era diventato per me l’occasione principale che Cristo sfruttava per incontrarmi, per farsi presente nella mia giornata, cambiandola in meglio e rendendola piena. Quando questo rapporto
si è interrotto lo strappo per me è stato molto doloroso, sia emotivamente sia
perché mi sono sentito tradito da Lui.
Da chi?
Da Cristo. Malgrado la ferita profonda, ho chiesto aiuto ai miei più cari
amici che, semplicemente stando con me, mi hanno aiutato ad affrontare la
situazione. Scemata l’emozione, mi sono trovato a fare un bilancio di quello
che mi era successo e mi sono reso conto che la realtà, nonostante il dolore,
era stata mia alleata, perché i rapporti con i miei amici e con i miei genitori
erano cresciuti in questa situazione, ma soprattutto il mio rapporto con
Cristo era rinato. Nel dolore avevo deciso coscientemente di non recitare le
Lodi e questo no a Lui era la prova che era nata in me la coscienza di dipendere da Lui, perché se gli dico di no vuol dire che ha una qualche sostanza.
Vedete come rimane?
La mia domanda nasce con l’inizio della scuola; la quotidianità mi sta
schiacciando, mi sta appiattendo in una apatia che non mi sta lasciando
vivere quel rapporto con Lui che mi è diventato vitale, ed è una cosa assurda.
Nel momento in cui stavo male riuscivo a viverlo in un certo modo e adesso,
nella quotidianità normalissima che ho sempre vissuto, non ce la faccio e per
me questo è assurdo. Non sapere come vederLo, come trovarLo nella mia
giornata mi sta confondendo. So che ho bisogno di Lui, perché ho visto che
nel dolore il rapporto con Cristo ha trasformato la mia ferita in un’occasione
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Secondo te, perché? Qual è il punto di partenza per rispondere a questa domanda, quando vediamo che noi abbiamo una serie di esigenze
che, a volte, gli altri non riconoscono come loro esigenze o quando noi
vediamo certe cose che gli altri fanno fatica a riconoscere? Qual è il punto
di partenza per rispondere a tali questioni?
La mia esperienza.
Bravissima! La tua esperienza. La tua esperienza! Anni fa un universitario domandò a don Giussani qualcosa di simile: «Se […] mi rivolgo
all’altro, al compagno che incontro in università, e quello a un certo punto
mi dice: “Guarda, questo è un bisogno tuo, ma non è un bisogno mio”?».
Don Giussani gli rispose: «Chi ti risponde così è sotto anestesia. Perché?
Come fai a saperlo? Tu sai che cosa c’è nel cuore dell’uomo, perché è in te
[…]. E tu capisci che l’altro non capisce quel che capisci tu perché è bloccato, è anchilosato, è paralizzato, ha il cuore paralizzato» (L’io rinasce in un
incontro. 1986-1987, Bur, Milano 2010, pp. 364-365). In te certe esigenze si
sono destate in un certo momento della tua evoluzione umana, del tuo
percorso umano, perché è successo qualcosa, perché ti è accaduto un
incontro, qualcosa te le ha risvegliate. Allora tu non devi giudicare la tua
compagna, semplicemente devi aspettare che la tua compagna abbia la
possibilità di scoprirlo, come è capitato a te. È questa la portata della
nostra esperienza: come questa tua compagna può essere sfidata a scoprirlo? Solo se prima di tutto rispondi al bisogno che hai tu, come dicevi
all’inizio, di verificare se la bellezza e la felicità che avevi vissuto nella
vacanza o al Meeting sono veramente parte della realtà, «se è vero ciò che
vivo all’interno della compagnia». Tu ne hai bisogno prima di tutto per te,
non solo per rispondere alla tua compagna. La prima questione siamo
noi. E proprio perché rispondi a te stessa, potrai mostrare alla tua compagna qual è la novità che Cristo introduce nel modo di vivere il reale. Tu la
sfidi vivendo quello che ti è capitato; verificando quello che ti è capitato,
tu la stai sfidando: «Vedi come è possibile vivere diversamente lo studio,
vivere i rapporti con le compagne, vivere le difficoltà, vivere la stanchezza,
vivere il quotidiano che ci schiaccia?». E allora capisci il metodo di Dio,
che è lo stesso da sempre: Dio dà la grazia a una persona perché raggiunga
tutti, la dà a te perché tu la comunichi a tutti i tuoi compagni. E tu non
devi fare chissà quale proclama a lezione, tu devi semplicemente vivere,
così che gli altri possano vedere quale novità introduce nella vita Cristo.
Non lo scopriranno perché tu lo dici a parole e lo spieghi, perché se non
lo vedono in te, nel modo con cui tu reagisci alle cose, non potrà scattare
in loro la domanda: «Perché vivi così? Da dove nasce questa tua novità?
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tante di tutto il resto, compresi tutti i nostri no. Nel tempo, secondo un
disegno che non è il nostro, secondo un cammino ancora tutto da scoprire, grazie alla pazienza infinita che Cristo ha con ciascuno di noi, un certo
giorno arriveremo a dire anche noi, come Pietro − dopo che Gesù gli ha
domandato: «Ma mi ami tu?»; glielo ha chiesto dopo che Lo aveva rinnegato davanti a tutti −: «Non so come, ma tutta la mia tenerezza è per te,
Cristo, tutto il mio io è legato a te» (cfr. Gv 21,15-17). Sarà la vittoria anche
in voi del legame con Cristo, sarà la vittoria dell’affezione a Cristo. Tutta
la mia affezione è per te, Cristo. Pietro non si è spaventato dei tanti sbagli
che aveva fatto perché, attraverso tutti i suoi errori, si legava sempre di più
a Lui. È questo che stupisce. Per questo tu hai già la risposta alla tua
domanda. «La quotidianità mi sta schiacciando, l’apatia non mi sta
lasciando vivere quel rapporto con Lui che mi è diventato vitale». Ti
domando: come riesci a vivere senza? Punto! Allora l’apatia, la quotidianità che ti schiaccia ti offrono la possibilità di domandarti: «Ma io che
cosa faccio qui? Perché non Lo cerco?» È come se Cristo, a partire dalle
viscere della tua esperienza, a partire dall’apatia che tu vivi, ti dicesse:
«Non ti manco? Puoi vivere senza di me?». Rispondigli! L’apatia, paradossalmente, diventa la spinta alla memoria di Lui. Come la nostalgia quando
manca lui o manca lei, anch’essa è occasione per la memoria. L’apatia o la
quotidianità diventano un’opportunità per riprendere il rapporto, quel
rapporto che in fondo in fondo non si è mai interrotto.
In questo momento sento più che mai la presenza di Cristo, e non perché
la realtà che mi circonda sia come ho pregato che fosse, anzi, è proprio il contrario. Ovviamente ringrazio Cristo per avermi dato questi amici con i quali
io posso essere me stessa e di avermi posto in questa compagnia. Senza di Te,
Signore, dove andrei? Il fatto è che i miei desideri certe volte non corrispondono a ciò che Lui vorrebbe per me. C’è una realtà dolorosa che mi è stata
posta davanti, ma che allo stesso tempo è un’occasione di crescita per me ed
è anche una spinta a farmi aprire sempre di più gli occhi per cercare quella
felicità, quel bene più grande che Lui vuole per me. Ogni giorno cerco di
capire cosa c’è dietro a questo dolore, perché la realtà, insieme al mio cuore,
è la mia più grande alleata. Grazie allo scontro con questa realtà mi rendo
conto sempre di più di quanto il mio desiderio di felicità sia grande. «Sia
fatta la tua volontà come in cielo così in terra». Mi abbandono a Lui lasciandomi trasportare dalle Sue mani, dicendo sì a questo dolore. Quando sono
con i miei amici sto bene, io Gli sorrido e Lo ringrazio. Sento che con loro il
mio cammino ha un altro sapore, dolce e semplice. Nonostante tutto ciò, ci
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per me, ma se ora, nella banalità quotidiana, non riesco più a cogliere la Sua
presenza, basta un nulla per farmi cadere. Come faccio a coglierLo nella
giornata? E soprattutto, come faccio ad arrivare a una costanza in questo
rapporto con Lui che resista alle circostanze?
Quello che mi stupisce è prima di tutto questa tua affermazione: «Nel
dolore avevo deciso coscientemente di non recitare le Lodi», proprio perché avevi il sospetto che in fondo Cristo ti avesse tradito, ma molto acutamente osservi: «Ma questo mio no a Lui era la prova che era nata in me
la coscienza di dipendere da Lui», perché uno dice di no quando è già
incominciato un rapporto.
Il no lo devo dire a qualcuno.
Perfetto! E questo è fondamentale, perché in tanti si sarebbero arrabbiati per la loro incoerenza avendo visto soltanto il loro no, come dire: «Io,
malgrado questo, ho detto di no». Invece lui, non fermandosi all’apparenza, è andato più a fondo e ha detto: «Ma il mio no è la prova che già è iniziata una familiarità con Lui e sono cosciente di questo proprio perché
dico di no, perché posso dire di no». Vedete che nella vita, nell’esperienza
che noi viviamo, tutto serve? E questo suo esempio è impressionante, perché anche un no, se uno se ne rende conto, serve; infatti gli consente di
essere ancora più consapevole di Colui a cui dice di no. Domani gli dirà di
sì, non preoccupatevi di questo. La questione è che io ho già cominciato
un rapporto, che non mi concepisco totalmente autonomo, che non mi
concepisco da solo. Io ho iniziato a vedere la verità di quello che dicevamo
citando Guccini: «Non sono quando non ci sei», quando non ci sei sono
da «solo coi pensieri miei» (Vorrei, parole e musica F. Guccini). Perché mi
piacciono queste espressioni? Perché dicono che, proprio quando ci concepiamo in autonomia totale e isolati come individui senza rapporti,
l’esperienza elementare mi dice che io sono più io quando tu ci sei, quando entra nella mia vita un tu − un amico, la persona amata, la madre −; io
sono quando tu ci sei. Che una persona cominci a sperimentarlo è cruciale. Posso avere momenti in cui dico di no per la mia fragilità, per la mia
stupidaggine, per la mia testardaggine, ma ho già cominciato a vedere
qualcosa di più interessante di tutti i miei no: c’è uno con cui io sono di
più io, c’è uno che mi rende più me stesso, come è capitato al figliol prodigo: ha percepito che c’è un luogo, un rapporto più decisivo per vivere
che qualsiasi altra cosa, cioè la sua casa e suo padre; potrà fare tutte le stupidaggini del mondo, ma non potrà evitare di ritornare a casa, da suo
padre. Pensate a san Pietro: poteva sbagliare tante volte, ma aveva visto, e
infatti dice a Gesù: «Dove vado senza di te, Cristo?». Questo è più impor-
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basta dice chi siamo noi e di chi siamo. Per questo nel momento della più
grande nostalgia si scatena veramente il rapporto con Lui. La questione è
se noi siamo disponibili a entrare in questo rapporto invece di fuggire in
Internet, nel telefonino, negli amici, in tutto. Nel momento culminante
decidiamo di entrare in quel rapporto unico, altrimenti saremo sempre
come una mina vagante, accettiamo che tutto quello che ci accade è la
porta per entrare di più nel rapporto con Cristo.
Quest’anno è iniziato in modo diverso rispetto agli anni scorsi per una
grande fatica; all’inizio pensavo che fosse per lo studio o per la routine che
sarebbe ripresa o perché non ci sarebbero più stati i miei compagni più grandi. Ma mi sono resa conto che era molto più profondo il problema, perché lo
studio ha iniziato subito a prendermi e gli amici più grandi continuo a
vederli tuttora. Quando abbiamo fatto il primo Raggio e l’ordine del giorno
era: «La realtà, insieme al cuore, è la nostra grande alleata», questo mi ha
lasciato senza parole, e non per lo stupore, ma perché non avevo nulla da
dire, non avevo alcuna esperienza da raccontare. Mentre ascoltavo gli interventi dei miei compagni, cresceva dentro di me un grandissimo senso di
risentimento verso di loro, perché avevano qualcosa da dire e io no. Mi sono
ritrovata completamente svuotata e con un astio verso questa compagnia
perché mi toccava al fondo di me. La cosa che mi ha sconvolto di più è che,
nonostante dentro di me crescesse quest’odio verso questa compagnia, io non
posso fare a meno di porre qui le mie domande più profonde. Perché, di fronte a una cosa che fa crescere in me questo astio, io sono così legata ad essa?
Vivendo con i miei amici, mi sono resa conto anche di un’invidia profonda
che mi assaliva nei loro confronti, che aumentava ancora di più questo senso
di odio; mi assaliva un’inadeguatezza lacerante, di cui non so la provenienza; nonostante sappia che la realtà può essere mia alleata, mi sembra che
non sia né alleata né nemica.
Grazie. È bellissimo il percorso drammatico attraverso cui noi scopriamo le cose; più uno va avanti più si rende conto di sé. «Avevo iniziato
in modo diverso rispetto agli altri anni e pensavo che fosse la paura della
routine, ma la questione era molto più profonda». Vedete? Le circostanze
ci fanno comprendere la profondità del dramma umano, la bellezza di
cui siamo stati fatti. Senza avere vissuto questo suo inizio della scuola,
avrebbe potuto dare per scontato il titolo del primo Raggio: «La realtà
insieme al cuore, è la nostra grande alleata». Quando invece uno ha
domande così profonde come le ha lei, soltanto il leggere il titolo del
Raggio lascia senza parole. Che intensità del vivere qualsiasi cosa! Allora
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sono dei momenti in cui sento che quel cuore, al culmine della gioia, si svuota e la malinconia lo assale. Quando sono a casa molto spesso mi sento così
e tendo a chiudermi. Ho paura di fuggire, di non poter stare davanti a Cristo
perché quando torno a casa mi riposo, ascolto un po’ di musica e sento che
mi assale questa malinconia per la quale io non sento più Cristo al mio fianco come lo sentivo prima.
No! Non è per la malinconia che non Lo senti di più, perché proprio
la malinconia è la modalità attraverso cui Lui ti sta chiamando: «Ma non
ti manco io?».
Il fatto è che, comunque, io so che Lui c’è. Io lo so, Lui è sempre al mio
fianco, ma sono io che fuggo.
D’accordo. Ma la prima cosa da fare è cominciare a vedere con chiarezza che cosa è la realtà, cominciare a guardarla con un giudizio nuovo.
La realtà, qualsiasi realtà, non solo quella bella, ma anche quella dolorosa,
può essere un’occasione di crescita, come dicevi prima, una spinta a cercare qualcosa d’altro. E questo già dice che stiamo iniziando a guardare
la realtà diversamente da come la guardavamo prima, quando la consideravamo solo un disturbo, qualcosa da evitare, da cui fuggire, pensando
che non ci fosse niente di buono per noi in una certa circostanza. È da
questo che nasce in voi, così come è nata in me, la scoperta della realtà
come alleata. Io non l’ho imparato leggendo qualche libro, l’ho imparato
come lo state imparando voi, cioè vivendo, vivendo. Quando uno comincia a fare questa esperienza, la realtà gli diventa amica, ogni aspetto della
realtà diventa amico. E qualsiasi persona si introduce in questo cammino
diventa amica. Per questo uno comincia a riconoscere che gli amici rappresentano un bene per sé. Tu dici: «Nonostante tutto ciò, ci sono dei
momenti in cui sento che quel cuore, al culmine della gioia, si svuota e la
malinconia lo assale». È proprio il momento, carissima, del tuo rapporto
personale con Cristo; altrimenti, se tutto il resto ti bastasse, come potresti
entrare in un rapporto unico e personale, assolutamente “tuo” con
Cristo? Mi ricordo un racconto di don Giussani: era andato a una festa in
cui gli amici salutavano una di loro che tornava dall’estero e lui era tutto
stupito dalla bellezza della compagnia, degli amici, dei canti, di tutta
l’amicizia che c’era in quel momento di festa; ma, a un certo punto, disse
ai presenti: «Se a un certo momento ragazzi non vi viene una voglia
matta di dire il Suo nome, tutto questo svanisce» (cfr. L’attrattiva Gesù,
Bur, Milano 1999, p. 148). Lo disse in quel momento, non perché tutto
andasse male; tutto andava benissimo: bella la compagnia, bella l’amicizia, bellissimi i canti, tutto bello, ma riconoscere che tutto questo non
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te, è ciò che costantemente ti sfida a tornare a quel luogo. E quante più
domande la realtà ti suscita, fa emergere in te, tanto più queste domande
ti spingono a tornare a quel luogo, l’unico dove le tue domande sono
prese sul serio. In quali altri luoghi si prendono più sul serio le vostre
domande di come facciamo qui? Se ne trovate qualcuno, andate. Vi sfido:
ditemi c’è un luogo, oltre a questo, dove per essere voi stessi non dovete
cancellare le vostre domande più umane, un luogo dove potete abbracciare tutta la vostra umanità senza censurare niente della vostra inadeguatezza, della vostra incoerenza, del vostro male. A questo punto, puoi
capire perché, malgrado tante volte la vita ci faccia accorgere della nostra
inadeguatezza, proprio questa inadeguatezza non introduce un sospetto
su questo luogo, su questa compagnia, su questa amicizia, anzi, meno
male che c’è e meno male che non occorre essere all’altezza. Ti assicuro
che se occorresse essere all’altezza, non ci sarebbe posto per me! Questo
è il luogo proprio per coloro che non si sentono adeguati, che non si spaventano della loro inadeguatezza, che non hanno bisogno di essere all’altezza per essere accettati. Siamo tutti compagni di Pietro, il primo che
Gesù ha scelto non perché era bravo, non perché era adeguato, ma perché
aveva, come te, una stoffa umana per cui non poteva, malgrado tutto,
non sentire che tutta la sua simpatia umana era per Lui, per Cristo. Si
sentiva così legato che niente lo faceva staccare da Lui.
Carissimo Julián, quando ho saputo che il titolo scelto per l’apertura di
questo nuovo anno era «La realtà, insieme al cuore, è la nostra grande alleata», mi sono commossa profondamente. Nessuna frase poteva essere più corrispondente a quello che ho vissuto in questi primi giorni di scuola e soprattutto durante l’estate. Il mio inizio anno, infatti, si capisce solo se ripenso ai
miei mesi di vacanza: prima a Londra e poi al mare mi sono ritrovata a
dover affrontare una serie di circostanze che non solo non avevo programmato, ma che non avrei mai voluto. Mi ero fatta la mia idea di come dovesse
essere la vacanza perfetta prima dell’ultimo anno e invece è andato tutto al
contrario. All’inizio sentivo il peso insopportabile della fatica e della tristezza, continuavo a rimanere bloccata su me stessa e i problemi, e mi dicevo:
«Ma perché capitano queste cose?». Dopo alcuni giorni vissuti soffocando, mi
si è posta un’alternativa: o stare chiusa nel mio angolino di mondo a guardare e riguardare le cose che non erano come volevo o alzare lo sguardo e
accettare con umile obbedienza che esse potessero essere un’occasione privilegiata per diventare grande. È stato un momento di svolta, perché mi si è
chiesto di mettere in gioco tutta la grandezza della mia libertà. Infatti sareb-
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comincia il dramma, che dobbiamo imparare a vivere bene, perché
davanti a questo lei sente crescere un risentimento. Ciascuno deve decidere, perché la libertà è sempre in gioco, è sempre chiamata in causa. La
realtà è un segno, ci ha detto sempre Giussani, davanti al quale ciascuno
di noi decide. Davanti a che cosa decide? Tu sei davanti a un dato: uno
che racconta delle cose belle al Raggio, delle esperienze positive che ha
vissuto, da cui ha imparato, e le offre a te e tutti gli amici presenti. E questo è un bene, non ti ha insultato, non ti ha offesa, ha messo davanti a te
l’esperienza di un bene che ha scoperto, ti ha offerto il contributo della
sua esperienza, del cammino fatto, ha condiviso con te la sua vita.
Davanti a questo bene, perfino davanti a un bene come questo, possiamo
avere due atteggiamenti: accoglierlo per quello che è, cioè un bene, un
desiderio di condivisione, un invito a comunicare la tua esperienza («Mi
racconti che cosa hai scoperto tu?»), oppure percepirlo come un giudizio
su di noi. Nel secondo caso, tu cominci a incupirti e pensi: «Ma io non
ho niente da raccontare». Da questo scaturisce il risentimento. Ma neanche in quel momento siamo lasciati da soli, perché, seguendo il filo del
tuo racconto, ti domandi come mai ti senti così legata a un luogo che ti
desta questo astio e questo risentimento, tanto da porre lì le tue domande. A noi sembra una contraddizione. Invece no, a volte le due cose coesistono: avvertire un astio e contemporaneamente riconoscere che non
possiamo non tornare lì a porre le nostre domande. Che promessa abbiamo percepito in questo luogo, se neanche tutto il risentimento, tutto
l’astio che proviamo non possono cancellare quel presentimento di bene
che continua, malgrado tutto, a prevalere, a tal punto che ritorno qui
ancora oggi! La questione è se noi assecondiamo liberamente ciò che ci è
capitato in quel luogo, se ritorniamo a quel luogo a cui ci sentiamo legati
– alla fine è un problema di affezione –, se ritorniamo lì nonostante ci
lasciamo prendere dal risentimento o dal senso di inadeguatezza che ci fa
dire: «Io non sono degna di essere qui». Per questo è stupefacente, lo ripeto, la figura di Pietro: quante volte avrà sentito questa inadeguatezza,
quante volte avrà sentito di non essere all’altezza dell’amicizia di Gesù,
della preferenza di Gesù, ma allo stesso tempo non ce la faceva ad andarsene via: «Ma dove andrò senza di te, Cristo?». Tutta la mia simpatia è per
te, Cristo, tutta la mia simpatia umana è più forte di tutta la mia inadeguatezza. La mia inadeguatezza non conta nulla, perché prevale questa
mia simpatia che è quasi viscerale, come quella di un bambino per la
mamma: non può non attaccarsi alla mamma. È stupefacente vedere
come questo cresce in noi. Come vedi, la realtà è tutt’altro che indifferen-
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portabile, ma dopo qualche giorno ti si è posta l’alternativa: vivere rinchiusa nel tuo angolino o alzare lo sguardo e vivere quella situazione
come un’occasione privilegiata per diventare grande. La vita, ragazzi, è
vocazione. Dio ci chiama attraverso le circostanze. E solo chi asseconda le
circostanze può cominciare a scoprire quello che Lui, il Mistero che fa
tutte le cose e che ha molta più fantasia di noi, ha preparato per noi. Chi
pensa già di sapere, e quindi chi crede di non avere bisogno di giocarsi la
vita rispondendo alle circostanze attraverso cui il Mistero ci chiama, si
perde il meglio. Invece quando le asseconda, scopre che Dio è molto più
originale e fantasioso di noi, tutto diventa interessante; e uno non è più
spaventato, ma ha un desiderio immenso di vivere tutto. Questo accade
attraverso le circostanze e la questione più interessante è scoprire, come
dice lei, che «attraverso di esse mi viene indicata la strada». La strada non
è qualcosa che sappiamo già a priori, perché si scopre la vita vivendo.
Dice un poeta spagnolo: «Se hace camino al andar» (A. Machado,
«Proverbios y cantares», XXIX, in Campos de Castilla, 1917), si scopre il
cammino camminando, si scopre la strada camminando, non è già tracciata nella nostra testa. Per questo, come vi dico sempre, la vita è solo per
gli audaci, per chi accetta la sfida della provocazione costante che ci viene
rivolta dalle circostanze, che tante volte sono banali, ma è attraverso di
esse che il Mistero che ci ha fatti ci convoca per introdurci sempre di più
alla pienezza del vivere.
Buon anno, amici!
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be stato molto più facile rimanere schiava del mio lamento costante e della
continua misura di me stessa e degli altri. Poi mi è tornato in mente quando
dicevi che, per ingaggiare la lotta di prendere sul serio il desiderio di essere
felici, occorre volersi veramente bene. Occorre volersi bene, perché io sapevo
che le cose non sarebbero cambiate e che avrei dovuto lottare per essere libera
dalla loro apparenza. In quel momento era necessario che io amassi me stessa e il mio cuore che così bene sa ciò che gli corrisponde e non può mai ingannarsi. Sostenuta dall’amorevole tenerezza di tanti amici, dalla mia famiglia
e dalla bellezza dei luoghi che ho visto, ho deciso di alzare lo sguardo e di
tenerlo fisso sull’essenziale, sull’Aconcagua, come mi dicesti tu una volta.
Allora mi sono riscoperta libera di amare anche la fatica, di non perdermi
nelle apparenze, di non fermarmi a ciò che la gente pensa di me e a come
dovrei essere. Le circostanze non sono cambiate, anzi, con la morte di una
mia amica il dolore è aumentato, ma era tutta una grazia continua, perché
Dio si è servito di esse per farmi tirare fuori ancora più realmente tutta la
passione del mio cuore. La realtà ha permesso che essa si ridestasse. È emerso
prepotentemente, infatti, il desiderio di stare di fronte alla bellezza delle cose
che vedevo con sguardo profondo e grato, in contemplazione silenziosa e stupita, di ricercare la purezza e la limpidezza nei rapporti con gli amici, di
donarmi totalmente nel sacrificio di aiutare in casa. Tornata dalle vacanze,
ero preoccupata, non vedevo tanti amici da tre mesi e non sapevo cosa aspettarmi. Allora Dio ha deciso di farmi definitivamente capire che è molto più
originale e fantasioso di me con tanti piccoli fatti: la chiamata di un adulto
mio amico che mi dice che ci tiene a me, la riscoperta dell’amicizia con una
mia compagna tornata dall’America, la preparazione della festa per i primini e il vedere le loro facce stupite, il riabbracciare gli amici e conoscere nuove
persone; sono esempi dell’abbraccio paterno con cui è iniziato l’anno. Le
materie a scuola si sono fatte straordinariamente interessanti, ogni cosa mi
suscita sorpresa. So che mi aspetta un anno faticoso per lo studio e le scelte
da prendere, ma per la prima volta non sono spaventata, ho un desiderio
immenso di vivere tutto, di amare tutto, ogni persona che incontro, anche
quelle che vedo sulla metro e le cose in cui mi imbatto. A volte mi faccio
impressione nel ritrovarmi addosso questo cuore così bruciante e vivo,
voglioso di camminare. Le piccole sofferenze quotidiane ci sono, sento che
spesso fanno male, ma è attraverso di esse che mi viene indicata la strada, è
attraverso di esse che capisco che cosa veramente desidero. Tutto quello che
capiterà sarà una grazia sovrabbondante che non posso immaginare.
Grazie. Tu descrivi bene l’itinerario davanti al quale si trova ciascuno
di noi. All’inizio potevi pensare che le circostanze fossero un peso insop-
Bonfanti. Ringraziamo veramente di cuore Julián per la strada che ci
ha indicato, una strada che è per ciascuno di noi e che io, noi, vogliamo
percorrere, una strada in cui anche gli strumenti che ci sono dati e che
trovate nel foglietto degli avvisi sono da prendere sul serio, ciascuno nel
proprio gruppo.
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Quest’estate ho dovuto studiare per i debiti. Per questo ho passato
molti giorni in biblioteca e in metro. Ovviamente non ne avevo per niente voglia, visto che potevo essere in spiaggia o in qualche altro posto. Era
venerdì pomeriggio e tornavo da un giorno di studio in biblioteca. Ho
dovuto aspettare la metro quasi quindici minuti e non ne ero entusiasta,
perché volevo solo arrivare a casa, buttarmi sul letto e non dover pensare
più a niente che avesse a che vedere con lo studio. Quando finalmente è
arrivata, sono entrata e mi sono seduta nell’ultimo posto a sinistra. Quel
venerdì era uno di quei giorni in cui se trovi qualcuno che non hai voglia
di salutare, fai il possibile per non guardarlo e perché non ti guardi; io mi
sentivo così rispetto a tutti. Avevo la mia musica e le mie cuffie e pensavo
solo ad arrivare a casa, ma in quel momento è successo qualcosa. Ho girato un po’ la testa e ho visto una ragazza incinta che piangeva all’altro lato
del vagone. Però non stava piangendo come quando ti bocciano o ti succede qualcosa di non tanto importante: stava piangendo con dolore, con
molto dolore. E il dolore era tanto che l’ho notato perfino io e mi sono
intristita molto. In quel momento mi si è scombussolato tutto, e ho pensato di avvicinarmi. Però cosa poteva fare una ragazza come me parlando
con una persona così triste e che nemmeno conosceva? Mi è sembrata
una stupidata parlare con lei o anche solo salutarla, e ho cercato di evitarlo in tutti modi. Ho alzato il volume della musica e ho girato la testa.
Ma non potevo, non potevo evitare il dolore di quella ragazza in un
modo così meschino. Non potevo far finta di niente dopo averla vista
così, e allora qualcosa mi ha mosso ad alzarmi, e più mi avvicinavo, più
mi veniva paura e mi venivano domande. Che cosa le avrei detto? Che
cosa mi avrebbe detto? Che cosa sarebbe successo? E perché mi stavo
avvicinando a lei? Alla fine mi sono seduta vicino a lei, e mi è venuto solo
da presentarmi. Le ho detto il mio nome, che l’avevo vista dal mio posto
e che qualcosa si era mosso in me. Mi ha detto il suo nome, mi ha guardato e ha iniziato a raccontarmi cosa le succedeva. Non ci potevo credere.
Come faceva una ragazza assolutamente sconosciuta a raccontarmi quello per cui stava soffrendo così? Mi ha raccontato che era molto triste e che
stava andando a una clinica per abortire. Le ho chiesto perché andava e
se voleva tenere la bambina. Lei mi ha detto di sì, ma che la cosa presupponeva moltissime difficoltà e che non si riusciva a vedere con una figlia
da curare, da mantenere e a cui star dietro ogni minuto, ma che nonostante questo voleva tenerla. Allora le ho chiesto perché, se voleva tenere
la bambina, andava alla clinica. Mi ha guardato senza parlare e di nuovo
si è messa a piangere. Io ho visto che aveva paura, paura di essere abbandonata, umiliata dalla gente, maltrattata dal suo fidanzato per aver voluto
tenere la bambina, e paura di altre cose che sarebbero potute succedere.
Quando alla fine si è calmata mi ha detto che aveva paura e che non voleva perdere il suo fidanzato per questo che le stava succedendo. Le ho chiesto se pensava che dopo l’aborto sarebbe stata tranquilla per essersi tolta
un peso o se ne sarebbe pentita. Senza dubitare mi ha risposto che se ne
sarebbe pentita e che lei voleva già bene alla sua bambina, che iniziava a
rendersi conto di che cosa è l’amore di una madre e del sacrificio che c’è
dietro e che lei voleva la bambina ugualmente. Se era così sicura, perché
andava alla clinica? Mi ha detto che quella stessa mattina il fidanzato
l’aveva chiamata mentre beveva una birra con i suoi amici e le aveva
detto di andare quel pomeriggio stesso alla clinica perché lui non voleva
la bambina. In quel momento sono crollata. Ho pensato: come era possibile parlare di questo per telefono? Le ho detto che mi sembrava terribile e lei mi ha dato ragione. Le ho raccontato anche delle case di accoglienza, delle persone che accolgono, del movimento… E vedevo che più
parlavo più si rasserenava un pochino. Ma continuavo a vedere quel
dolore così terribile. In quel momento siamo arrivati a una fermata e lei
si è alzata ed è corsa fuori. Ma all’improvviso si è girata ed è rientrata.
Mi ha guardato, mi ha abbracciato e mi ha detto: «Torno a casa. Non
vado alla clinica. Mi sono resa conto che questa figlia di cui sono incinta
è del mio fidanzato, ma anche mia, e le voglio un bene dell’anima.
Grazie». Ed è uscita. Io sono rimasta in piedi senza sapere cosa fare. Cosa
era successo? Chi era quella ragazza? Che cosa sarebbe stato di lei e di
sua figlia? Continuavo a pensarci: chi sono io per far cambiare opinione
a una persona sconosciuta? Chi sono io perché quella ragazza mi raccontasse tutta la sua storia? Che ruolo ho io in tutto questo? Come staranno ora quella ragazza e sua figlia? Ho chiara solo una cosa. Questo è
un vero Mistero, qualcosa che non riesco a capire, ma la felicità che sento
adesso per averla accompagnata in quei minuti di metro è incredibile.
***
Frequento il quinto anno del Liceo Classico. All’Equipe di GS, la
mattina, dopo colazione, ci han detto che ci sarebbero stati l’Angelus e
le Lodi prima dell’incontro-assemblea. Io non avevo voglia di andarci
TRACCE.IT / OTTOBRE / 2015
Appendice
Altri contributi scritti ricevuti
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cosa che chiedo per quest’anno che viene è che, in questa compagnia
scalcagnata che è GS, ci aiutiamo a tenere gli occhi aperti, per riconoscere la nostra alleata!
***
Durante queste vacanze ho scoperto la bellezza dello stare alle cose
semplici che mi sono chieste. In particolare, lavorando nella sorveglianza al Meeting, mi era essenzialmente chiesto di attendere. Aspettare
l’orario per aprire le porte della fiera, aspettare persone sconosciute e
magari anche scorbutiche, che avessero bisogno del mio aiuto. Non
capivo il senso dell’attesa: io chi stavo aspettando? I primi due giorni
sono stata arrabbiata per questo lavoro che sembrava quasi inutile. Pian
piano però l’attesa iniziava a non essermi più così ostile. Col passare dei
giorni la compagnia degli altri del mio gruppo ha iniziato a sostenermi:
non attendevamo più mezzi addormentati, ma cantavamo, ogni persona
che arrivava anche solo per chiedere dove fosse il bagno era un grande
evento, una piccola cosa che dava senso all’attesa. Poi il penultimo giorno di lavoro è arrivata per caso a chiedere aiuto una persona cara che
non vedevo da tempo. Col suo arrivo una buona parte della mia attesa
aveva preso senso. Avevo atteso tutta quella settimana incosciente, ma
non invano. Questo non può che darmi fiducia in quel Qualcuno che mi
ha donato l’attesa, sapendo prima di me ciò che dovevo aspettare.
***
Sono nata con una malattia rara, che mi ha costretto a sottopormi a
diverse operazioni alle gambe; poi è successo quello che non sarebbe mai
dovuto succedere: il chiodo che mi hanno messo nel femore si è rotto, e
con esso il mio femore. Quando questo è successo ovviamente mi è caduto il mondo addosso, ma poi ho capito che tutte le volte che mi hanno
operato io ne sono uscita molto felice, con la consapevolezza che tutto
quello che mi accade è per me, per il mio bene. Ho addirittura ringraziato
Dio non per un’idea, ma perché io l’ho vissuto, l’ho sperimentato, ne ho
fatto esperienza. In questa avventura ho riscoperto i miei compagni di
classe e la mia famiglia, la mia casa, i miei nonni e tutti coloro che mi circondano. Inoltre sono rimasta spiazzata dalla quantità enorme di amici
che hanno pregato per me. Questo fatto è stato per me come una rinascita, perché poco prima di essere operata ero incavolata nera con Dio perché non mi voleva guarire; in realtà ho capito, ho compreso che la guarigione non può essere solo fisica, ma anche morale, tanto che io mi sto
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(scusate se lo dico, ma voglio essere franca), perché volevo iniziare subito con l’assemblea. Ma nel momento in cui l’ho pensato, mi manda un
messaggio una mia amica, dicendomi: «Occhi aperti». Eh, sì! Ho aperto
gli occhi! Perché mi sono accorta di quello che avevo davanti. Prima di
iniziare le Lodi abbiamo cantato Al mattino e il don è intervenuto
dicendo: «Che cosa permette di ripartire la mattina? Di risvegliarti ogni
mattina? “Ch’io ti veda, ed è questo il mattino”. Il mendicare di vederLo,
stare davanti al tuo desiderio. La preghiera è un mendicare e il mendicare è costitutivo dell’uomo. Per questo preghiamo: per chiedere che ci
incontri». Io per tutta l’estate mi ero sentita mendicante e per questo
motivo parlava a me direttamente. Mi sono goduta a pieno le Lodi, perché volevo stare attenta alle parole: non volevo dire parole così per
dire... infatti, stando ad occhi aperti ho capito che le Lodi sono espressione de “Il desiderio”, perché ogni parola parlava della mia posizione
da mendicante! Dopo questa esperienza io e la mia compagnia “scalcagnata” ci siamo richiamati sempre a stare ad “Occhi aperti”! A stare
davanti a ciò che ci succede e riconoscerlo. E così ho iniziato la scuola
in modo diverso, mendicando che Lui mi incontrasse ogni mattina
all’Angelus insieme ai miei amici. Stando ad occhi aperti insieme a
quella compagnia, mi sono goduta il primo giorno, il secondo, il terzo,
il quarto, il quinto, eccetera. Ogni giorno in piccole cose che mi sono
successe: un semplice sorriso delle mie amiche; un intervento della prof
di filosofia sulla sua posizione riguardo al Gender, contraria alla mia,
ma che mi ha spinto a informarmi di più, per capire meglio; un incontro in cui si è parlato del bisogno dell’uomo; l’abbraccio di una mia
amica che sta passando un periodo difficile della sua vita... l’elenco
andrebbe ancora avanti. Uno dei primi giorni di scuola abbiamo avuto
la prof di greco. Ho pensato tra me e me: «Oh, adesso ci fa la solita
ramanzina sul fatto che siamo passivi, che non stiamo attenti ecc...».
Però, al tempo stesso, ho pensato: «Beh, se la realtà è alleata, lo deve
essere anche in questo momento!». Così mi sono posta in un altro
modo. E poco dopo parlando di Euripide la prof dice: «Euripide mostra
nelle sue tragedie che l’uomo non si fa da sé, ha bisogno di qualcos’altro». Questa frase mi ha spiazzato, soprattutto perché detta dalla prof
in quel momento. Quella lezione era per me Scuola di comunità tra i
banchi di scuola, tra persone non di CL, parlando di un autore accusato
dai molti suoi contemporanei di ateismo, pur essendo “religioso” nel
senso in cui lo intende don Gius. Riconosco in tutto ciò di aver verificato l’ipotesi della realtà come vera alleata anche nella scuola. L’unica
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***
«La realtà, insieme al cuore, può essere tua alleata?». Questa domanda mi è stata ripetuta numerose volte nell’ultimo anno, diventando ben
presto un punto che, probabilmente anche per l’insistenza con cui mi è
stata ricordata, esigeva una risposta. Devo dire che inizialmente mi sono
trovata a rispondere a questa questione in modo molto scettico. Questo
perché quest’anno ho dovuto affrontare fatti, come il tumore di mia
nonna, che si imponevano lasciandomi senza la possibilità di fare nulla e
solo con una grande sofferenza di fronte alla mia inutilità, che quegli
avvenimenti facevano risaltare sempre di più. All’inizio di quest’anno ho
incontrato un punto di svolta che mi ha fatta ricredere sulla mia posizione e sul mio scetticismo. Sono stata invitata a partecipare all’Equipe
nazionale di GS a Cervinia. Partita da Milano con l’intenzione di vivere
quei giorni per me, dopo un anno in cui avevo fatto tutt’altro che fermarmi e guardarmi seriamente, mi sono trovata dopo poche ore già persa.
Ho infatti incontrato una persona con cui avevo avuto vari trascorsi; questo fatto mi ha portata a perdere subito di vista l’idea di vivere quei giorni
per me; problematiche del tipo «come mi devo comportare con lui?» mi
avevano distratta. Quella stessa sera Albertino ci ha detto: «Ricordatevi
che siete qui solamente per voi. Dovete prendervi per primi voi sul serio.
Quello che date agli altri è una sovrabbondanza che nasce spontaneamente». Quel richiamo a vivere quei giorni per sé hanno fatto la differen-
za. In primo luogo a Cervinia, raccontando questo fatto a dei miei amici,
mi sono vista ringraziare da uno che mi ha detto: «Ti sei presa sul serio
già questa sera raccontandoci tutto ciò, mi hai fatto prestare attenzione a
quelle parole che mi erano rimaste indifferenti. Se ci fai caso, questa è già
una sovrabbondanza che hai dato a me». È inutile dire quanto sia stato
grande il mio stupore nel vedere quanto questa sovrabbondanza si sia
fatta sempre più presente una volta tornata a Milano, nella mia vita di
tutti i giorni. A partire da una mia amica che, non essendo potuta venire
a Cervinia, mi aveva chiesto di raccontarle ogni cosa; mettendo da parte
una mia svogliatezza iniziale, mi sono trovata a raccontarle tutto quello
che mi aveva colpito, capendo ancora meglio ciò che avevo vissuto. È
nato un dialogo sorprendente, al punto che il giorno dopo mi ha inviato
un messaggio dove mi citava una frase del suo preside che le aveva ricordato una cosa di cui avevamo parlato il giorno prima. Non è sovrabbondanza questa? O una semplice cena con le compagne di classe in cui io e
un’altra mia amica, venuta anche lei a Cervinia, ci siamo ritrovate a raccontare per due ore filate tutto quello che ci aveva colpito e come ciò ci
aveva già fatte ripartire a Milano. Quello che avevamo raccontato aveva
suscitato talmente tanto stupore tra di loro che ci sono venute a ringraziare e di nuovo mi è venuto da chiedere: «Che cos’è questo se non un
prendersi sul serio? Che cos’è questa se non una sovrabbondanza?». Mi
sono accorta che qualcosa scatta inevitabilmente quando ci si inizia a
chiedere: «Ma io cosa desidero per me? Cosa scatena in me questo fatto?».
Questo è uno sguardo amorevole che uno ha su di sé e che poi si riflette
nel rapporto con l’amico, coi genitori eccetera, al punto da far diventare
la scuola, nella quale magari non ci si trova benissimo, un luogo in cui
potersi giocare fino in fondo. L’altro giorno in classe abbiamo letto un
testo di Pasolini nel quale ad un certo punto scriveva: «È un urlo fatto per
invocare l’attenzione di qualcuno / o il suo aiuto; ma anche, forse, per
bestemmiarlo. / È un urlo che vuol far sapere, / […] che io esisto, / oppure, che non soltanto esisto, / ma che so. È un urlo / in cui in fondo all’ansia / si sente qualche vile accento di speranza; [...] / Ad ogni modo questo
è certo: che qualunque cosa / questo mio urlo voglia significare, / esso è
destinato a durare oltre ogni possibile fine», ed è questo che contiene il
prendersi sul serio. Mi sono resa conto che la realtà come alleata non
significa che essa si sostituisce a te, semplificandoti ogni cosa, non permettendo che il dolore sia un dato importante nella tua vita; ma significa,
appunto, che essa ti fa compiere un passo in primo luogo nella serietà che
hai nei tuoi confronti, come lo stesso Pasolini afferma.
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ritrovando a ringraziare continuamente il Signore, perché senza questa
mia situazione io non sarei quella che sono. Quest’estate ho capito che la
realtà è una mia grandissima alleata in quanto senza l’incappo nella realtà
(il mio chiodo che si è rotto) io non sarei quella che sono; la realtà mi
permette di vivere al meglio le mie giornate e di riscoprire ogni volta che
tutto quello che mi è donato è per il mio bene. Prima di tutto questo
“disastro” ero molto apatica nei confronti della mia realtà, della mia vita,
ero una persona che «non riusciva a vedere i colori della realtà», era tutto
in bianco e nero, ma poi la realtà è voluta in modo prepotente entrare
nella mia vita, ha voluto farmi capire che lei c’era, che lei c’era sempre
stata, ma che io non la volevo guardare, non la vedevo, riducevo tutto a
quello che volevo io, per me il resto non contava, non valeva neanche la
pena guardarlo. Tutto quello che mi è dato è per me, ma è come se ogni
volta lo dovessi riscoprire; ognuno di noi, credo, ha sempre bisogno di
qualcosa che lo scuota da tutto quello che il mondo ci propone e che ci
fa sempre dimenticare che la realtà è bella per ognuno di noi.
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