Memorie Guerrino

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Memorie Guerrino
RICORDI DI LIBIA di Guerrino Lora
La mia vita militare ha avuto inizio il 19 luglio 1937 con l’iscrizione alle liste di
arruolamento del Distretto Militare di Padova. A quel tempo infatti abitavo ad Abano
Terme con mia madre ed i miei fratelli dove avevamo campi da lavorare. Nostro padre
era morto nel 1930 quando io avevo 13 anni.
Dopo qualche mese però lasciammo Abano e facemmo ritorno a Costabissara dove ero
nato per poi stabilirci definitivamente a Caldogno.
Fu così che alla chiamata della mia leva, nell’estate 1938 la cartolina precetto, dopo
aver fatto inutilmente Abano andata e ritorno, mi fu consegnata a Caldogno dai
Carabinieri. Avevano fatto indagini e mi avevano rintracciato.
Immediatamente (il 20/9/1938) mi sono recato al Distretto Militare di Vicenza dove ho
giustificato il ritardo e sono stato arruolato con partenza il giorno dopo.
I miei compagni di leva erano però già partiti e forse per questa ragione o per il fatto di
essermi comunque presentato in ritardo sono stato assegnato alle colonie ed inviato al
10° Reggimento di Artiglieria del XX Corpo d’Armata di stanza in Libia.
Non avevo assolutamente idea di dove fosse questa Libia. Non avevo mai viaggiato,
mai visto il mare, di navi e di Africa ne avevo sentito parlare solo nei banchi di scuola.
Era per me una cosa veramente inaspettata ed eccezionale.
Mi feci coraggio, salutai i miei e partii in treno da Vicenza, da solo, il 21 settembre 1938.
Dopo un viaggio Padova-Bologna-Roma durato 15 ore, arrivai a Napoli e vidi per la
prima volta il mare.
A Napoli sono stato fermo in una caserma fino ai primi di ottobre e in questo tempo si
aggregarono altri 15-20 giovani ritardatari, come me destinati in Libia.
Il 17 ottobre siamo partiti in nave e dopo una breve sosta a Palermo (senza scendere
dalla nave) il giorno 9 ottobre 1938 siamo arrivati a Tripoli.
Tutto nuovo per me giovane contadino abituato a vedere buona terra; nel vedermi in un
posto dove c’era solo sabbia, il primo pensiero fu cosa ci fossimo venuti a fare.
La Libia aveva allora confine certo solo a Nord cioè il mare. Ad Ovest il confine con la
Tunisia era segnato da due pilastri quadrati che portavano gli stemmi del Regno
Sabaudo e del fascio littorio.
Non c’era alcuna dogana o sorveglianza militare. La strada che proseguiva verso la
Tunisia, passava tra i due cippi.
Questo territorio fino al Golfo della Sirte, si chiamava Tripolitania.
Ad Est verso l’Egitto, dove andai dopo l’inizio della guerra, il confine era un piccolo
villaggio con una decina di case e un piccolo porto. Si chiamava Bardia e lì finiva la
strada con una fila di reticolati. Poi per 100 metri era terra di nessuno chiamata “ridotta
Capuzzi” e poi c’era un’altra fila di reticolati in terra egiziana. Questa località aveva 4
casette e si chiamava sallum. Era il territorio della Cirenaica.
A Sud c’era un grandissimo spazio senza confine. Solo deserto e monti aridi, con
qualche pista fatta da viaggiatori europei. Era il territorio del Fezzan.
Come clima, lungo la costa dove c’erano le città e le oasi si aveva mediamente 40 gradi
di giorno nei mesi estivi, mentre di notte si scendeva a 25 – 30 gradi.
Negli altri mesi faceva un po’ meno caldo con temperature come da noi d’estate.
D’inverno poi si arrivava di notte anche a 10 – 15 gradi. Nelle zone interne faceva più
cladodi giorno e più freddo di notte.
La pioggia, peraltro sempre breve, si vedeva in autunno o inverno. Raramente qualche
breve temporale gli altri mesi. L’acqua era sempre un problema. A Tripoli c’era acqua
buona e in abbondanza ma nelle altre zone si doveva stare attenti a cosa si beveva.
Quando poi allo scoppio della guerra andai verso l’Egitto, trovai acqua buona da
Bendasi a Derna in Pirenaica. In questa zona c’era anche terra buona come da noi.
Fuori Bendasi verso Barce c’erano gli allevamenti di pecore del lanificio Marzotto di
Valdagno. Mi ricordo grandi tratti di terreno con erba buona.
Tripoli era la capitale delle tre regioni (la Tripolitania, la Pirenaica ed il Fezzan) che
formavano la Libia. Era una città grande piena di caserme di tutti i Corpi mIlitari e
c’erano uffici, negozi e banche tutte italiane come del resto i nomi delle strade.
Nel castello che dava sul mare abitava il Governatore della colonia Italo Balbo. Si
diceva che Mussolini lo aveva mandato in Libia per non averlo tra i piedi perché non
andavano molto d’accordo. Il Governatore aveva, oltre all’automobile, un aereo
personale a Castel Benito e un idrovolante davanti al porto.
A Tripoli abitava anche il Conte Calvi di Bergolo che era genero del Re avendo sposato
la Principessa Jolanda.
Era il Comandante della Cavalleria: un corpo composto quasi totalmente da arabi con
cavalli, qualche cammello e dromedario. Qualche volta nel parco si vedeva anche la
Principessa che passeggiava o andava a cavallo tra gli alberi. Oltre al parco ricordo che
c’era un ippodromo dove facevano le corse dei cavalli e dei cammelli. Anche noi militari
andavamo a vederle, quando eravamo in libera uscita.
Da Tripoli partivano anche tre brevi ferrovie che in verità io non ho mai preso. Una
andava a Ovest verso il confine tunisino e arrivava fino a Zuara, un’altra verso Sud
andava fino a Gorian e la terza verso Est andava fino a Tagiura.
A tripoli, fra i documenti presentati c’era la patente di guida della moto. L’avevo
conseguita frequentando l’addestramento premilitare a quel tempo obbligatorio e che si
svolgeva al sabato.
Ero stato assegnato come staffetta portaordini e pertanto avevo imparato a guidare.
Forse per questo motivo i miei superiori mi indirizzarono al corso di autista così il 27
ottobre 1938 dopo aver ottenuto l’idoneità alla guida ( Matricola 1868/20) sono diventato
Artigliere-Autiere con qualifica di “soldato scelto”.
Mi fu assegnato un camion Lancia 3RO: così cominciai ad uscire da Tripoli e a
conoscere i dintorni. Le uniche strade asfaltate e sicure da insabbiamenti erano: la
litoranea dal confine tunisino a quello egiziano lunga circa 1.600 Km.; la strada che
portava all’aeroporto di Castel Benito (circa 30 Km. Da Tripoli verso Sud) e poche altre
attorno alla capitale.
Lungo la strada litoranea ogni 50 Km. Circa c’era un casetta a disposizione degli
stradini che facevano manutenzione.
Queste casette contenevano materiali ed attrezzi ed erano sempre chiuse a chiave.
Fuori da queste strade c’erano solo piste e deserto cioè sabbia e buche.
Il pericolo sempre presente era di restare insabbiati e pertanto in ogni cassone dei
camion avevamo due murali in legno larghi 20x20 per la lunghezza del cassone.
Quando succedeva di insabbiarsi si mettevano questi murali fra le due ruote motrici
posteriori così da fare presa e muovere il camion. Bisognava però essere in due perché
mosso il camion non ci si poteva fermare ma si andava avanti piano per permettere al
compagno di recuperare i legni e saltare sul camion. Quando poi scoppiò la guerra e si
dovette portare i camion nel deserto per servire le batterie, se dopo insabbiati non si
riusciva ad uscire, si abbandonava il camion (salvo andarlo a riprendere a traino o con
qualche trattore); a me però no è mai successo.
Oltre a questi inconvenienti, c’era poi il fastidio del ghibli: è un vento caldo e
asciuttissimo, che corrisponde al nostro scirocco.
Quando lo si vedeva arrivare, il cielo diventava rosso mattone e si era avvolti in una
nuvola di polvere impalpabile e calda come una ventata di fuoco. Era come entrare in
un fittissimo banco di nebbia polverosa e chi era provvisto di occhiali se li metteva
subito.
Io alla guida del camion non portavo gli occhiali perché ero riparato ma non vedevo più
niente; dalla cabina non distinguevo la strada, che qualche volta si copriva talmente di
sabbia impedendomi così di proseguire. Allora bisognava fermarsi ed aspettare mentre
la polvere penetrava dappertutto, smerigliando i polmoni delle persone e i cilindri del
motore.
La vita a Tripoli, quando non ero in trasferta, era sempre uguale: caserma e qualche
libera uscita.
Le caserme erano tutte nuove o comunque costruite da pochi anni. Mi ricordo che
avevamo la camerata con le brande, i teli e i materassi di crine per dormire ma non
avevamo sale mensa. I cucinieri facevano da mangiare e all’ora stabilita noi andavamo
tutti in fila e ci mettevamo il rancio sulla gavetta ed un bicchiere di vino sul gavettino; poi
tutti in cortile seduti per terra sotto qualche pianta. La razione era minestra o pasta
asciutta con un pezzo di carne e una pagnotta di pane. Se il vino non bastava si
aggiungeva acqua. Il soldo di paga era di 50 centesimi al giorno.
Per capire quanto valevano, basti pensare che un francobollo da lettera costava 30
centesimi.
Quando andavo in trasferta prendevo qualcosa in più ma sempre pochi centesimi. Si
fumava un tipo di sigarette da pochi soldi che venivano prodotte in Libia, probabilmente
in Pirenaica: per quanto le foglie di tabacco venissero lavate, la sigaretta era sempre
piena di sabbia.
Quando si andava in libera uscita eravamo sempre a gruppetti e stavamo per conto
nostro evitando gli arabi. Guai parlare alle donne o solo salutarle o guardarle in viso.
C’era il pericolo che ti vedesse qualche arabo e che alla prima occasione ti rifilasse un
colpo di coltello. Altro che la canzone “ Tripoli bel suol d’amore”. Forse la cantavano nel
1911 quando la colonia fu presa ai Turchi.
Se eravamo in 3-4 si metteva insieme qualche soldo e si comperava una bottiglia di
succo di banana. Era praticamente acqua, zucchero e un po’ di alcool il tutto al gusto di
banana.
Ricordo un fatto accadutomi una domenica in libera uscita. Ero all’ippodromo a vedere
le corse e casualmente faccio un passo indietro, forse per vedere meglio. Proprio dietro
di me c’era la Principessa con a fianco un Generale che mi gridò: “attento soldato”. Mi
girai come un fulmine e dopo un veloce saluto tolsi il disturbo felice di non essermi
preso una punizione.
Il parco autocarri era composto principalmente dai camion: Lancia 3RO, Fiat 666, OM
Titano, SPA 38, OM Taurus, Bianchi MILES, Fiat 626. Ogni camion aveva un distintivo
sulla sponda dietro il cassone. Era uno stemma quadrato circa 20X20 che indicava da
dove veniva il camion, con i colori del corpo ed il numero dell’autocentro dal quale
dipendeva. Il mio colore era bianco e rosso col numero 263 “Autocentro pesante”.
Io usai sempre il 3RO, al quale talvolta agganciavo il rimorchio. Nel suo genere, era
riconosciuto come il miglior camion, non solo nostro ma di tutti i paesi che poi entrarono
in guerra. Molto semplice e spartano era l’unico camion che aveva ancora l’avviamento
a mano e non necessitava della batteria. Si girava la manovella anteriore e un sistema
di molle e ingranaggi caricava l’avviamento che si innestava tirando una leva. Anche i
tedeschi lo apprezzarono molto. Ebbe vita lunghissima anche nel dopoguerra fino agli
anni sessanta.
Quello che ho usato io, aveva il parabrezza anteriore che si sollevava per far passare
l’aria e sulle porte non c’erano i vetri ma delle tendine. Dovevo tenerlo sempre pronto,
serbatoio pieno, olio motore a posto, camion pulito e completo degli attrezzi in
dotazione.
Viaggiavo sempre solo, salvo quando portavo truppe. Allora un soldato, sempre il più
alto in grado, saliva in cabina con me. In effetti in cabina c’era posto per 3 persone ma il
regolamento vietava di essere più di due. Dormivo in cabina steso per traverso e così
stavo molto meglio degli altri che dovevano dormire sulla sabbia sotto la tenda.
Quando si andava fuori Tripoli a fare i campi che duravano solitamente 3-4 settimane, si
agganciava al 3RO il cannone da 75/13 e sul cassone trovavano posto i serventi con
viveri e munizioni.
Si andava generalmente verso il confine tunisino per fare esercizi di tiro. Il cannone più
grande ( il 105/14) era agganciato al trattore Pavesi mentre il più piccolo il (45/18)
veniva caricato direttamente sui cassoni dei camion dai serventi con l’aiuto di slitte e
verricello.
Il trattore Pavesi aveva 4 ruote motrici con i pattini e la possibilità di snodo fra le due
ruote anteriori e le due posteriori. Era indispensabile per posizionare il grosso 105/14
sulla sabbia. Allo scoppio della guerra alle ruote dei cannoni furono applicati dei
battistrada più larghi in modo che ci fosse meno pericolo di insabbiamento quando si
portavano le batterie nel deserto.
Sempre in quel tempo mi furono offerti i gradi da caporale. Questo fatto avrebbe
comportato il servizio di guardia alle caserme ed agli altri edifici militari compresoli
castello dove si davano il turno di guardia tutti i reparti (fanti, genio, marina ecc.).
In pratica avrei dovuto abbandonare il camion e con esso la libertà di muovermi, a cui
invece io tenevo. Ringraziai e rifiutai.
Come detto il camion era per me una casa. Quando viaggiavo, oltre a dormirci, tenevo
in cabina viveri e acqua che restava sempre fresca perché mettevo le borracce
attaccate davanti al radiatore e così l’aria della ventola faceva freddo.
La politica del governo era indirizzata a popolare la colonia e pertanto, oltre ai viaggi di
carattere militare, mi capitava di portare i coloni civili. Venivano dall’Italia famiglie intere
portandosi appresso la poca roba che riuscivano. Qualche mobile, la stufa per fare da
mangiare e qualche branda per dormire.
Noi dell’autocentro caricavamo il tutto sui cassoni dei camion e portavamo questa gente
nei posti loro assegnati. Trovavano delle case, appositamente fatte dal Genio e ne
prendevano possesso.
Ricordo che piantavano delle siepi e tenevano la sabbia umida perché attaccassero.
Facevano così perché la siepe fermando il vento teneva stabile il terreno che mettevano
a coltura di ortaggi, patate ed orzo. Gli alberi da frutto erano mandorli, viti, aranci, olivi e
palme. Le rese erano però molto scarse rispetto alle nostre perché la terra buona era
poca e l’acqua era scarsa.
Io ho portato coloni a Tagiura lungo la costa poco lontano da Tripoli verso est e a sud 810 Km. Dopo castel Benito in qualche piccolo villaggio verso il deserto.
Dopo 10 mesi di Libia nel luglio 1939 ho avuto la possibilità di rivedere l’Italia con una
licenza di giorni 10 più 8 di viaggio. Mi sono imbarcato a Tripoli il giorno 4 e sono
sbarcato a Siracusa il 6. Qui sono salito in treno e passato lo stretto di Messina con il
traghetto dopo due giorni e una notte sono arrivato a Vicenza. La licenza passò
velocemente e così feci l’identico viaggio di ritorno arrivando a Siracusa il 23 luglio e a
Tripoli il 25.
Riprese la vita a Tripoli: caserma e viaggi, viaggi e caserma. Passati gli ultimi mesi del
1939 si arrivò al 1940. Io aspettavo di tornare a casa finiti i 18 mesi di naia che
scadevano in aprile ma in Europa era scoppiata la guerra.
La Germania aveva invaso la Polonia ed in aiuto di questa erano scese in campo
Francia e Inghilterra. L’Italia si era dichiarata neutrale; restarne fuori era però molto
difficile. Nella primavera del 1940 la Germania era padrona di mezza Europa.
Cosa ci riservava il futuro? Hitler era nostro alleato ma cosa gli girava per la testa?
Aveva firmato con gli inglesi nel 1938 il patto di Monaco che poi aveva disatteso. Con i
russi aveva firmato nel 1939 l’accordo di non aggressione e poi lo aveva rotto. In attesa
di eventi non fui congedato ma ricevetti l’ordine di ferma.
E gli eventi arrivarono il 10 Giugno 1940 con la nostra entrata in guerra, a fianco dei
tedeschi. In quei giorni ero ad un campo vicino a Zuara cioè verso il confine tunisino.
Ricordo che levammo il campo e ci portammo ad ovest fino al confine. Qui scaricata la
truppa e le batterie, noi autieri facemmo ritorno a Tripoli.
La frontiera tunisina fu così presidiata ma non ricordo scontri perché la tunisia era
francese e la francia già invasa dai tedeschi in quei giorni si stava arrendendo. Il
movimento di colonne di camion cominciò verso l’egitto che era occupata dagli inglesi.
Chilometri e chilometri sulla strada litoranea detta via “Balbia”.
Portavamo di tutto: truppe, batterie di cannoni, munizioni, viveri, acqua; erano colonne
continue di camion.
Gli inglesi ci attaccavano con bombardamenti aerei e verso il confine con imboscate
notturne che facevano con veloci jeep e autoblindo.
Per limitare i danni quando ci attaccavano gli aerei, si tenevano i camion distanti 50-100
metri uno dall’altro: così se un mezzo veniva colpito e prendeva fuoco, gli altri avevano
il tempo di evitarlo.
La regola, in colonna, avrebbe prescritto che sulla prima macchina dovesse esserci una
vedetta che alla vista di aerei dava l’allarme. In effetti la vedetta non c’era quasi mai e
così noi autisti, con poca visibilità per la sabbia sollevata, dovevamo stare sempre
attenti per capire se la macchina davanti era in marcia o si era fermata. Se c’era la
possibilità, alla vista degli aerei nemici, si fermava il camion e si scappava in cerca di
qualche buca o riparo: se con noi c’erano truppe, queste rispondevano al fuoco come
potevano, con moschetti o mitragliatrici.
Quando poi si arrivava in linea, i fanti e gli artiglieri delle batterie dicevano “beati voi che
tornate nelle retrovie”, come se tornare fosse stato facile e per niente pericoloso.
La cabina del camion non aveva corazza; io per avere un po’ di riparo, avevo fissato il
telo in dotazione, sul tetto della cabina piegato 4-5 volte. Non mi riparava dai colpi di
mitraglia ma sarebbe stato abbastanza efficace contro le schegge di granata.
Altro buon motivo per tenere la distanza tra un camion e l’altro quando si andava nel
deserto era che se il mezzo che precedeva si insabbiava, quelli che lo seguivano
giravano al largo a destra o sinistra per evitare la zona, ricordandosi di sterzare molto
dolcemente perché una brusca sterzata era insabbiatura certa.
Sui 3RO caricammo anche i carri armati leggeri. Erano carri detti “carro veloce
d’assalto” (Ansaldo L3) che vennero usati soprattutto di notte contro le linee inglesi per
creare scompiglio e mettere in fuga il fronte nemico. Era chiamato volgarmente dalla
truppa “scatola di sardine”.
Nato nel 1931 come carro di accompagnamento per la fanteria dopo varie modifiche,
era entrato in produzione nel 1933. Il suo impiego in Africa Orientale nel territorio
montagnoso dell’Etiopia, gli era valso il titolo di “miglior carro da montagna” forse per il
fatto che non esistevano altri carri antagonisti.
Nella campagna di Spagna ed ancor più nel deserto libico-egiziano vennero evidenziati
i suoi limiti: pesava poco più di 3 tonnellate, era armato con 2 mitragliatrici calibro 8 e
non aveva torretta girevole.
In lotta aperta con i carri inglesi, veniva distrutto senza avere, o quasi, la possibilità di
difendersi. Ciò era tanto più evidente tenuto conto che il carro inglese più piccolo,
pesava quasi il doppio dell’L3.
Partimmo da Tripoli in colonna: eravamo 15-20 camion.
Il carro era stato caricato con l’uso di slitte sul cassone, dove trovavano posto le
munizioni, i viveri per il viaggio ed i due serventi, un guidatore ed un mitragliere.
Dopo un viaggio durato una settimana, superata la Sirte e Bendasi, arrivammo a
Tobruk: qui lasciammo i carri che proseguirono verso Bardia con il proprio motore.
Come detto Bardia era al confine. C’era Bardia bassa con poche case, il piccolo porto e
una insenatura che proseguiva con un rialzo di terra che ci riparava dai colpi che
sparavano le navi inglesi dal mare. Si davano praticamente le spalle al mare e i colpi
che arrivavano passavano sopra le nostre teste e finivano nelle collinette di fronte.
Qui c’era Baldia alta: senza case ma con una chiesetta, poco più di una cappella fatta
non so da chi. Forse segnava il confine. Mi ricordo che nonostante le cannonate che
arrivavano tutto intorno questa chiesetta restò incolume.
Verso fine giugno avvenne l’incidente in cui morì il Governatore Italo Balbo. Ero a
Tobruk. Il porto era stato fortificato e difeso da batterie contraeree e da mitragliatrici
piazzate tutte intorno verso il deserto. Anche la nave San Giorgio, ancorata in porto,
contribuiva alla difesa contraerea quando si era attaccati.
A Tobruk non c’era pista di atterraggio perciò i nostri aerei non avevano motivo di
avvicinarsi.
Pertanto era stato dato ordine che nessun nostro aereo sorvolasse la zona, per non
incorrere nel pericolo di essere colpito dalle nostre batterie.
Erano le 5 del pomeriggio. Vedemmo arrivare dalla parte del deserto 2 aerei, il sole
stava calando e non si distinguevano le insegne. Viaggiavano bassi e affiancati. Su uno
c’era Italo Balbo, sull’altro il Maresciallo Badoglio.
Immediatamente 20-30 batterie aprirono il fuoco. L’aereo di Italo Balbo venne colpito,
l’altro con una brusca virata invertì la rotta. Così si salvò Badoglio e morì Italo Balbo.
Perché non rispettarono le disposizioni di non sorvolare l’area di Tobruk? Venivano da
Bendasi ed erano in ricognizione per controllare la disposizione delle truppe: forse
avevano avvisato della loro venuta e la comunicazione non era giunta agli ufficiali delle
batterie?
Giorno dopo apprendemmo che il posto di Governatore era stato dato al Generale
Graziani.
Ai primi di settembre 1940 varcano il confine egiziano, si avanzò fino a Sidi el Barrani.
Non vi furono scontri importanti. Gli inglesi si sganciarono ritirandosi e facemmo solo
qualche prigioniero.
Modeste anche le nostre perdite, dovute quasi esclusivamente alle mine poste dagli
inglesi.
Sidi el Barrani era un piccolo villaggio in territorio egiziano a circa 100 chilometri dal
confine. Un gruppo di 15-20 casette bianche ai due lati della strada. Erano tipiche
casette arabe a un piano con il tetto diritto per prendere l’acqua piovana.
La nostra fanteria arrivò alle prime ore del mattino senza incontrare resistenza perché
oltre agli inglesi erano scappati anche gli arabi egiziani che combattevano con loro. I
fanti si presero però un bombardamento da parte dei nostri aerei.
Cosa era successo? Il Comando aveva dato ordine agli aerei di fare un attacco alle
prime ore del mattino per allontanare l’eventuale retroguardia nemica e facilitare così
l’occupazione da parte delle nostre truppe. I fanti non incontrando resistenza erano in
pratica arrivati troppo presto.
Questo incidente mi fu confermato, a guerra finita, da un maresciallo dell’aviazione di
nome Di Giorgio, che era di stanza all’aeroporto di Vicenza e che ebbi modo di
conoscere perché aveva preso casa in Lobia. Aveva personalmente partecipato
all’azione.
Io arrivai a Sidi El Barrani il giorno dopo con la colonna dei rifornimenti. Provenivo da
Bardia e lungo il tragitto avevamo subito il solito attacco da parte degli aerei inglesi:
colpirono il camion che trasportava le confezioni di polvere da sparo per i cannoni. Il
camion si incendiò e fu abbandonato; le confezioni di polvere servivano per la carica e,
a seconda di quante ne venivano inserite nel cannone, si regolava la distanza di lancio
del proiettile.
Giorni dopo mentre ero a Gazala, tra Derna e Tobruk sul golfo di bomba, passò
inquadrata la nostra fanteria che, fanfara in testa, marciava verso Tobruk-Bardia-Sidi El
Barrani. Avevano da fare qualche centinaio di chilometri della strada litoranea. Questa
era l’esatta raffigurazione delle nostre possibilità di manovra e di come era condotta la
guerra. Avevamo in Libia 200.000 soldati contro i 40.000 che avevano gli inglesi. Però
gli inglesi avevano autoblindo, jeep e carri armati, mentre le nostre truppe andavano a
piedi per carenza di mezzi, nonostante noi autieri fossimo sempre in movimento giorno
e notte.
Il fronte restò fermo a Sidi El Barrani per mesi. Non ho mai capito perché.
Noi autieri dovevamo portare negli accampamenti, che erano stati creati attorno alle
poche case e verso il deserto, viveri, acqua e quant’altro per il mantenimento della
truppa.
Inoltre, poiché dal nostro confine di Bardia a Sidi El Barrani la strada non esisteva ma
era una pista malfatta e scomoda, il nostro genio dovette sistemarla per facilitare il
transito continuo avanti e indietro. Per contro se avessimo proseguito da Sidi El Barrani
verso Alessandria, avremmo trovato strada buona ed asfaltata.
Essere in continuo movimento voleva anche dire mangiare gallette e scatolette: gallette
spesso vecchie e ammuffite e scatolette di carne o sardine fatte chissà quando e quasi
sempre disgustosamente calde; e averle, perché mi ricordo che talvolta si era in due
con un pacchetto di gallette e così si faceva una galletta a testa visto che il pacchetto
ne conteneva due e si faceva a metà anche della scatoletta.
Quando però era possibile, nel mio continuo avanti ed indietro lungo la strada litoranea,
se passavo per Barce in orario di fame (cioè quasi sempre), mi fermavo da un
compaesano di nome Trevisan che mi dava per pochi soldi una pastasciutta e un
bicchiere di vino.
Ho conosciuto casualmente alcuni anni fa suo figlio Francesco che abita a Caldogno ed
è nato a Barce nel 1941. Ero ad una cerimonia di alpini ed io unico in mezzo a tutti i
cappelli con la penna, avevo il casco da coloniale.
Questo fatto attirò l’attenzione di Francesco che avvicinatosi mi chiese dove ero stato
militare.
Gli ho così parlato di suo padre e di dove era nato. Il ricordo è andato alle pastasciutte
ed è stata una cosa molto piacevole.
Ai primi di dicembre 1940 gli inglesi si erano organizzati e ci attaccarono di sorpresa.
Fu la nostra prima ritirata.
Nel giro di due giorni superarono i nostri campi trincerati di sidi El Barrani e puntarono
verso la Libia.
Ai primi di gennaio 1941 presero il porto di Bardia, due giorni dopo arrivarono a Tobruk.
Assediata, Tobruk resistette un paio di settimane, poi capitolò e venne occupata dagli
inglesi. La nave San Giorgio, che era in porto, venne disarmata dai nostri soldati addetti
alla contraerea ed ai cannoni, prima di cadere prigionieri degli inglesi: probabilmente
gettarono a mare gli otturatori o le canne da sparo.
Pur difendendoci a Bardia, Tobruk, Gazala, Derna, Bendasi, Agedabia, El Agheila,
continuavamo a ritirarci verso ovest ossia verso Tripoli. Io arretrai fino a Sirte mentre gli
inglesi furono finalmente fermati ad El Agheila solo perché non avevano più forze per
spingersi avanti. Anche loro erano stremati.
Avevano fatto 120.000 prigionieri: in pratica avevano dimezzato il nostro esercito in
Libia, prendendoci le forze migliori. Avevano fatto bottino di tutti i nostri depositi
carburanti, viveri e quant’altro era stato preparato verso il confine in previsione di una
nostra avanzata. Mi ricordo che a Gazala, c’erano centinaia di fusti di carburante
mentre a Derna e Barce c’erano i magazzini vestiario, viveri e ogni altra cosa.
Alla fine di gennaio 1941 metà della Libia, dal confine egiziano a El Agheila nel Golfo
della Sirte, era in mano agli inglesi. La Germania capì che perdere la Libia significava
perdere il Mediterraneo e rendere vulnerabile l’Italia e mandò così uomini e carri armati
in nostro aiuto.
Il 12 febbraio 1941arrivò a Tripoli il Generale Rimmel e in breve giunsero anche le
truppe tedesche dell’Africa Korps.
Così ci riorganizzamo.
Fu la seconda avanzata.
Si attaccò a El Agheila verso la fine del marzo 1941 e si proseguì verso Bendasi.
Mentre noi autieri andavamo portando i carri L3 lungo la strada litoranea, i tedeschi con
i loro carri pesanti assieme ai carri della nostra della nostra divisione ariete, presero
verso la zona montuosa del Gebel.
Gli inglesi per paura di accerchiamento si ritirarono, così la nostra avanzata arrivò ai
primi di aprile nuovamente al confine egiziano tra Bardia e Sallum.
Gli inglesi avevano abbandonato la Libia, ma un contingente si era trincerato a Tobruk,
esattamente come avevamo fatto noi nella precedente ritirata. Rimmel avrebbe voluto
proseguire verso Suez ma ricevette l’ordine di fermarsi, trincerarsi e nel frattempo
espugnare Tobruk. A Tobruk gli inglesi, ricevendo rifornimenti dal mare, resistevano:
usavano le difese fatte da noi nel precedente assedio e ne costruirono di nuove,
allargandosi verso il deserto, con trincee e postazioni di artiglieria.
In quel tempo ero stato aggregato alla marina che era a Gazala: qui non c’era porto e le
navi restavano lontane dalla riva, cioè venivano scaricate usando grandi zatteroni. Il
Comandante della marina era un colonnello di nome Bernardini, mi pare fosse da Pisa.
Era molto alla buona e quando noi autisti eravamo in partenza finito il carico, ci
chiedeva sempre se avevamo viveri e acqua sufficienti per il viaggio.
Mi ricordo che quando si spostava per qualche controllo, verso Bendasi o Tobruk,
usava la macchina militare senza bandierine di riconoscimento e viaggiava senza gradi
sulle spalline: così se veniva preso dagli inglesi e interrogato “forse” riusciva a passare
per un semplice Capitano.
Un giorno arrivarono a Gazala dei camion civili con 4 cannoni da marina che sparavano
a 20-25 chilometri.
Venivano da Tripoli, ed erano destinati alle nostre batterie che dal deserto assediavano
Tobruk.
Gli inglesi infatti, dalle loro posizioni a Tobruk e dalle navi che avevano in porto,
sparavano con cannoni a lunga gittata sul nostro accerchiamento, senza che noi con i
nostri cannoni da 105/14 arrivassimo a colpirli perché la gittata era troppo corta.
Ricevetti l’incarico di portare alle nostre batterie questi cannoni, cosa che feci con una
decina di viaggi, sempre di notte e senza luci.
Dovevo stare attentissimo alla strada per arrivare alle nostre postazioni che erano
segnalate da cumuli di sassi. Il pericolo era di perdere l’orientamento, subire l’attacco
degli aerei che illuminavano con i bengala il deserto e sparavano su tutto ciò che si
muoveva o di incappare in qualche sortita inglese che con le loro veloci jeep
apparivano, sparavano e si dileguavano nel deserto.
Ricordo un altro ordine che mi fu dato mentre ero a Gazala.
Quando, nella seconda avanzata si arrivò a Bendasi, furono liberati 15 - 20 nostri
connazionali che erano stati presi dagli inglesi.
Erano civili fuori età per il servizio militare e lavoravano come scaricatori per la marina.
Mi fu ordinato di portarli a Buerat, dopo Sirte verso Misurata, dove era il comando della
marina, perché volevano interrogarli e dare loro altri incarichi. Prima di partire da
Bendasi furono perquisiti. Passarono uno alla volta dentro una stanza controllati in tutto,
comprese le loro valigie. Cosa si cercava? Che potessero aver trovato oro o altro dalle
case e dai depositi di Bendasi abbandonati in fretta dopo la nostra prima ritirata; quando
erano arrivati gli inglesi, questi uomini erano rimasti al porto e avevano lavorato anche
loro. Così potevano aver approfittato della confusione per prendere qualcosa.
Partimmo verso sera, come di consueto senza luci: verso El Agheila volevamo fermarci
e mangiare ma c’era il ghibli e in mezzo alla polvere mangiare era impossibile, così
proseguimmo.
Prima di Sirte tutto ad un tratto in pieno buio intravedo qualcosa davanti. Freno, scendo
e vedo un motociclista fermo in mezzo alla strada in avaria. Stava cambiando la
candela della moto, sporca probabilmente per il ghibli. Gli gridai “lo seto che podea
coperte – mettete fora strada a fare i tò mestieri”. Si scusò e dopo le opportune
spiegazioni spostò la moto ed io ripartii.
Arrivammo a Buerat che era quasi mattina.
Pieni di fame e di stanchezza tanto io che avevo guidato tutta la notte, quanto gli altri
dato che nel cassone avevano tentato inutilmente di dormire.
Gli inglesi, trincerati a tobruk, ci obbligavano ad aggirarla per rifornire le nostre truppe
che erano arrivate fino a Bardia. Così prima di Tobruk si lasciava la strada litoranea e si
andava per 20 – 30 chilometri nel deserto dove c’erano anche le nostre batterie e poi si
ritornava nella litoranea.
Fu durante questi viaggi che mi capitò di assistere un ferito.
Eravamo una decina di camion fermi ai bordi della pista e avevamo dato strada a
un’altra colonna che forse aveva più fretta di noi. Io e un altro autiere camminavamo
sulla sabbia: ad un tratto sento uno scoppio.
L’altro autiere camminando aveva dato un calcio a qualcosa sulla sabbia, scambiandola
evidentemente per una scatoletta o un sasso. Era una bomba a mano. Risultato ferite
dappertutto, in particolare alle gambe. Lo caricai sulla mia cabina e lo portai in una
infermeria da campo distante un chilometro circa.
Ripensandoci e visto come era successo, mi resi conto che quanto accaduto avrebbe
potuto benissimo succedere a me. Sicuramente quell’autiere restò invalido.
Tobruk resisteva ai nostri attacchi. A metà novembre 1941 gli inglesi, che nel frattempo
si erano riarmati e avevano ricevuto carri pesanti e veloci anche dagli americani,
attaccarono le nostre linee.
Dopo alterne vicende, contrattaccando e con la speranza purtroppo vana di trovare
carburante e rifornimenti, Rimmel dovette ripiegare.
Fu la seconda ritirata.
Ai primi di dicembre gli inglesi liberarono Tobruk dal nostro assedio e noi, dopo qualche
settimana, ritornammo a fare il fronte a El Agheila. Esattamente come undici mesi
prima.
In questa ritirata, non so in quale località, forse tra Bardia e Tobruk, fu fatto prigioniero
tutto il reggimento di artiglieria dal quale dipendevo. Anch’io fui dato per disperso ed in
Italia un carabiniere si recò dalla mia mamma per dargli la triste notizia “ suo figlio in
Libia è dato disperso”.
Figuratevi la disperazione di casa mia. Disperso poteva dire fatto prigioniero, ma poteva
anche dire che ero morto nel deserto.
Era invece avvenuto che io, aggregato nella marina a Gazala, avevo ricevuto l’ordine di
ritirata verso ovest prima degli altri, così riuscii a non farmi prendere.
Il caso volle che nello stesso giorno che si era presentato a casa mia il carabiniere, io
scrivessi a casa dando mie notizie. Posso immaginare la felicità dei miei quando giorni
dopo ricevettero questa cartolina.
Ricordo alcuni fatti che mi sono accaduti in questa ritirata.
Un giorno andando a Derna verso Barce ero fermo con il camion acceso per la
necessità di caricare il compressore ad aria che gonfiava le ruote.
Passa il Generale Bergonzoli che noi chiamavamo “barba elettrica” perché aveva un
pizzetto a punta e mi riprende “soldato siamo scarsi di carburante e tu con il camion
fermo tieni il motore acceso – spegni subito”. Provvidi immediatamente ad eseguire
l’ordine, non reputando utile dilungarmi in spiegazioni sul perché e percome. Più avanti
dopo Bendasi, mi si avvicina il Colonnello comandante l’autocentro, non ricordo il nome,
e mi mette punito per divisa in disordine.
A causa della ritirata ero sicuramente mal messo, pantaloni corti, camicia probabilmente
rotta e forse anche senza stellette. Mi venne così da pensare a tutti i magazzini pieni di
roba nuova che avevamo lasciati di fretta agli inglesi a Bendasi e Derna: poiché erano
divise del nostro esercito forse con quella roba avranno vestito i nostri soldati prigionieri.
Arrivato dopo Agedabia verso El Agheila arriva un attacco aereo. Fermo il camion e
scappo via dalla strada, verso il mare.
Vedo una buca fatta probabilmente da un precedente bombardamento e mi butto
dentro: passato il pericolo mi guardo attorno e vedo un soldato morto.
Era un fante ricordo che aveva le mostrine bianche a righe scure ed il fucile vicino al
corpo. Era sicuramente morto per cui non lo toccai, per evitare che, nel caso arrivasse
qualcuno, gli venisse il pensiero che stavo cercando soldi o qualcos’altro. Presi il fucile
e lo piantai nella sabbia sul bordo della buca come segnale: forse se qualcuno del suo
reparto o della sanità lo ha poi cercato avrà visto il segnale.
Questo mi porta a tristi ricordi ossia ai tanti cimiteri che erano ai lati della litoranea,
soprattutto verso Derna – Tobruk - Bardia. Rettangoli di sabbia pieni di croci: ma
chissà quanti altri restarono insepolti nella sabbia del deserto, preda delle cornacchie e
di altri uccellacci. Avevo sentito parlare anche di un nostro distaccamento di artiglieria a
Garabub. Erano “Guardie di Frontiera”, portavano le mostrine verdi e facevano servizio
di vedetta per evitare attacchi di aggiramento. Giarabub era in mezzo al deserto ai
confini con l’Egitto. Era distante da Bardia oltre 300 chilometri verso sud.
Chissà che fine avrà fatto quel distaccamento, senza rifornimenti, dopo la nostra
seconda ritirata? Avranno tirato avanti a datteri ed acqua, in attesa di essere presi
prigionieri. Rommel non accettò la sconfitta, in poche settimane si riorganizzò e verso la
fine di gennaio 1942 cominciò a contrattaccare da El Agheila verso est.
Fu la terza avanzata.
Nel giro di due settimane riportò il fronte a Gazala – Bir Hacheim.
Io ritornai aggregato alla marina aGazala. Mi fu dato ordine di andare a Misurata a
caricare un siluro da sommergibile. Tornai dunque a Misurata e caricai il siluro sul
rimorchio del 3RO, perché non ci stava sul cassone del camion. Con un viaggio di due
giorni tornai verso il fronte e feci tappa a Derna dove scaricai.
Seppi che il siluro sarebbe servito ad un sommergibile che voleva forzare Suez.
L’intenzione era di affondare nel canale una nave così da renderlo non più navigabile
ed interrompere i rifornimenti che gli inglesi ricevevano dal Mar Rosso. Il trasporto
avvenne di notte via terra, perché era ritenuto più sicuro che non via mare.
A metà febbraio del 1942 ero con una colonna di 5 – 6 camion che trasportava
munizioni da Misurata verso Gazala. Verso sera nei pressi di El Agheila, prima di
partire, mi chiama il Capitano dell’autocentro, mio diretto superiore e mi ordina a fine
viaggio di recarmi al comando di reparto che era dislocato tra Bendasi e Barce.
Mi presento dopo un paio di giorni e mi comunicano che, avendo superato i tre anni di
colonia, potevo essere rimpatriato. Il regolamento prevedeva infatti che dopo tre anni si
rientrava in Italia.
Effettivamente avevo fatto tre anni e cinque mesi. Valutai la proposta.
Se il viaggio di rientro fosse avvenuto per mare avrei rifiutato. Era meglio restare in
Libia, piuttosto che andare per mare dato che il mediterraneo era battuto da navi e
sommergibili inglesi con un’alta probabilità di finire silurati e annegati. Mi comunicarono
però che il rientro era a mezzo aereo e così accettai.
Partii il 27 febbraio 1942 dall’aeroporto di Castel Benito e arrivai a Castelvetrano vicino
Trapani dopo un viaggio di un paio d’ore. Per maggior sicurezza si sorvolò la Tunisia.
La mia vita in terra di Libia era durata esattamente 41 mesi. Strana coincidenza,
esattamente 41 mesi era durata anche tutta la prima guerra mondiale 1915 – 1918.
Il resto della guerra in Libia per me è stata storia.
Rimmel dal fronte di Gazala – Bir Hacheim proseguì l’attacco in maggio 1942. In giugno
riprese Tobruk e procedendo per Bardia - Sido El Barrani – Marsa Matrù, arrivò in
agosto ad El Alamein. Era a poco più di 100 chilometri da Alessandria d’Eggitto.
Qui fu fermato. A fine ottobre primi di novembre gli inglesi contrattaccarono.
Fu l’inizio della terza ed ultima ritirata.
In quei giorni anche truppe americane erano sbarcate nell’Africa Settentrionale ad
Algeri, e si era così aperto un altro fronte ad ovest, dalla parte tunisina. Gli inglesi
avanzando arrivarono: il 13/11/42 a Tobruk; il 23/11/42 a El Agheila; il 26/12/42 a
Buerat; il 23/01/43 a Tripoli; il 24/02/43 arrivarono al confine tunisino.
La Libia era persa. La guerra nell’Africa Settentrionale finì in territorio tunisino nel
maggio 1943.
Guerrino conclude con questo ricordo.
In tutto il tempo della guerra, prima in Libia e poi in Italia, non ho mai sparato, lanciato
bombe o recato offesa ad alcuno.
Ritengo di aver fatto il mio servizio di Autiere con scrupolo, sacrificio e senso del
dovere. In verità però mentre ero in Libia, durante la guerra, una volta ho sparato contro
qualcuno.
Era questione di fame e così con il moschetto ho cercato di prendere una gazzella che
avevo visto in una radura fra Derna e Bomba. La mancai: il colpo finì tra le sue zampe e
con un gran balzo la gazzella sparì tra gli alberi. Io restai con la mia fame ma forse,
nonostante tutto, non me ne dispiacque.
Racconto tratto dal periodico l’Autiere.