GIOVANNI NO RACCONTATO DAI FIGLI RONCOLE E L
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GIOVANNI NO RACCONTATO DAI FIGLI RONCOLE E L
GIOVANNI NO RACCONTATO DAI FIGLI Tutti possono sollevare il cofano del mio Diesel e studiare il vecchio cuore di un figlio della Bassa, scrive nostro padre nel 1958 dopo aver descritto un incontro surreale tra i suoi personaggi più conosciuti: don Camillo e Peppone, Margherita, la Pasionaria e Albertino. RONCOLE E L'«INCOMPIUTA» L’incontro è avvenuto in un paese imprecisato della Bassa vicino alle Roncole, sua patria d'elezione dal 1952, quando vi si è trasferito assieme a tutta la famiglia ncll'lncompiuta. Scelta impegnativa per lui perché doveva fare il pendolare tutte le settimane tra Roncole e Milano per il suo lavoro di direttore del suo settimanale “Candido”. Per noi ragazzini di nove e dodici anni è stata una scelta bellissima che ci ha permesso di gustare la libertà girando per le strade bianche con la bicicletta, scoprendo i sieponi di oppio e, la sera, le lucciole, il canto dei grilli e delle rane. Come mai nostro padre ha scelto di venire ad abitare alle Roncole e non, per esempio, a Fontanelle di Roccabianca, suo paese natale? La ragione è molto semplice: nel 1952 non esisteva ancora l'autostrada del Sole e l'unica strada per raggiungere Milano era la Via Emilia, che era a pochi chilometri dalle Roncole ed era, invece, molto lontana da Fontanelle: coi nebbioni fittissimi di quegli anni dei quali è rimasto oggi solo un ricordo, meno strade basse si facevano e meglio era. Inoltre la signora Ovidia Bonelli, moglie di Alessandro Minardi, era di Busseto e gli aveva detto che alle Roncole era in vendita un pezzo di terra di un ettaro dove avrebbe potuto farsi la casa. Costruita la casa nostro padre, che era di origine contadina, cerca di crearsi una proprietà agricola simile a quella rimpianta per tutta la vita da suo padre e dopo avere cercato di riacquistare, senza successo, le vecchie ex proprietà dei suoi, compera diversi poderi alle Roncole, a Madonna dei Prati, al Gazzolo di Castellina, in Pavarara e a Corlicelli di San Secondo, risistemando, dove necessario, i terreni, rimodernando e ampliando le abitazioni dei mezzadri e affittuari e costruendo - quasi sempre ex novo stalle moderne, barchesse, rustici. Il retaggio gli viene dai nonni. Per nostro padre la terra è il mezzo per comunicare con gli uomini. RONCOLE E L' "INCOMPIUTA" Nel 1952 la casa è pronta per essere abitata. Così, arriva con tutta la banda alle Roncole. Ma questi sono dettagli. La cosa che deve colpire e che avrebbe dovuto preoccuparci, è il lavoro di matita e di righello fatto sulla foto. Si intuiscono già le sue croniche esigenze: la casa dovrà subire una sopraelevazione. È una sorta di rivalsa contro l'assessore di Milano che gli aveva negato il permesso di sopraelevare di pochi centimetri un abbaino della sua villetta. Il RISTORANTE GUARESCHI Disegna e costruisce un caffè nel 1957 di fianco alla casa natale di Giuseppe Verdi per poter offrire ai turisti un punto di ristoro. Successivamente costruisce un ristorante per dare a noi figli un'occupazione. Il ristorante, condotto all'inizio da entrambi e in seguito solo da uno di noi, Alberto, aiutato dalla moglie e dalle figlie, ha funzionato per trent'anni . Nel 1995, a seguito della forte ripresa di interesse nei confronti di nostro padre, abbiamo trasformato i locali in sede del Club dei Ventintre con il piccolo centro studi, una mostra antologica permanente su nostro padre, una mediateca e la sede dell'archivio Guaresch composto da più di 200.000 documenti ai quali si devono aggiungere quelli del Club dei Ventitre raccolti in vent'anni di attività. Da quell'anno siamo al "servizio permanente effettivo" di nostro padre permettendo ai suoi lettori, agli studenti e agli studiosi interessati, di accedere al suo archivio, fornendo loro tutte le notizie e le informazioni di cui siamo a conoscenza. “Guadagnati coi libri dei quattrini ho tentato di fare l'agricoltore e l'oste, con lacrimevoli risultati per me, per l'agricoltura e per l'industria turisticoalberghiera del mio paese. Adesso sono pressoché disoccupato, perché nessuno in Italia, eccettuato un amico di Roma, ha l'incoscienza di pubblicare i miei articoli e disegni politici. Ma io non mi agito e mi limito ad aspettare tranquillamente che scoppi la rivoluzione.” I lavori di preparazione per il ristorante sono stati molto impegnativi. Per primo ha pensato al pane che doveva essere fatto con farina di frumento “Gentilrosso” seminato senza l'uso di concimi chimici nel terreno, macinato a palmenti, impastato con lievito di pane, lavorato con la gramola e cotto nel forno a legna scaldato a fuoco diretto con fascine di vidaroj (tralci di vite). Gramola e forno sono ancora presenti nella sala che ospita questa mostra e potrebbero, all'occorrenza, essere utilizzati ancora. Poi progetta un pollaio "irrazionale" per l'allevamento di pollame nostrano per il ristorante. Curato nei minimi dettagli, recinge e suddivide in due parti il poderetto “Montenero” di circa sei biolche. All'interno costruisce un grande pollaio per il pollame "generico" e una nursery per chiocce e ovaiole; la vasca per i germani e ristruttura la casetta esistente sul podere per alloggiare la famiglia che avrebbe curato il pollaio. Non abbiamo mai fatto i conti di quanto sia costato il tutto. Ci siamo limitati a calcolare quanto veniva a costare un capo: una cifra spropositata, tenendo conto che il pollame era, sì, nostrano e ruspante, ma la carne era notevolmente soda: occorreva, come diceva nostro padre, farsi arrotare i denti per masticarla. Ha pensato anche al salume progettando una "culatelliera" per stagionare i culatelli destinati al futuro ristorante. Progetto splendido (purtroppo) realizzato.Per realizzare questi progetti, quelli dell'"Incompiuta ", delle case e dei rustici dei poderi ha continuato a far lavorare le maestranze delle Roncole e dintorni dal 1950 al 1968. Nel nostro stato di famiglia sono stati iscritti, per tutti quegli anni, operai, idraulici, lattonieri, fabbri, falegnami, elettricisti, "pittori" e "navigatori" (levigatori). Grazie a questa massiccia mobilitazione permanente di maestranze e artigiani, nostro padre ha usato soldi suoi, procurati col suo ingegno, per far lavorare, e quindi guadagnare, un sacco di gente in un periodo che, nonostante l'approssimarsi del cosiddetto boom economico italiano, era molto duro per la nostra gente. FONTANELLE Abbiamo tenuto sempre stretti legami con Fontanelle che nostro padre amava e dove abitavano i suoi veri amici che gli sono stati vicini anche nei momenti più dolorosi della sua vita: Giovanni Poli e la signora Giannina, i fratelli Vacca, Augusto Tamburini. E in territorio di Fontanelle è nato anche Peppone: si chiamava Giovanni Faraboli, era un sindacalista, socialista riformista, fondatore nel 1901 della lega dei contadini a Fontanelle e uno degli esponenti più importanti del primo movimento di emancipazione della Bassa Parmense la cui capitale, con la sua fitta rete di cooperative, era Fontanelle. E nostro padre ebbe la ventura di incontrare Peppone proprio nel primo giorno della sua vita, il 1° di maggio del 1908. Quel giorno, infatti, a Fontanelle, si svolgeva la "festa rossa" con un grande comizio. Il piano terra della casa dove è nato nostro padre era stato affittato ai socialisti, mentre al primo piano abitava la padrona di casa, la maestra Lilla Maghenzani, con il marito e la bisnonna Filomena (la nonna "Giuseppina" dei raccolto di nostro padre). Il comizio si teneva nel cortile stretto e lungo sul retro della "Casa dei socialisti". Quando Faraboli, che era l'organizzatore del comizio ed era già sul palco con Ludovico D'Aragona, seppe che al mattino era nato il figlio della padrona di casa (una volta nei paesi la maestra era un personaggio importante) scese del palco e, salito al primo piano, si fece consegnare il bambino, fasciato come s'usava allora. Poi, aperta la finestrina che dava sul cortile sottostante, si affacciò col bambino tra le mani dicendo che «essendo nato il 1° maggio» il bambino sarebbe «diventato un campione dei rossi socialisti» «Se il 1° maggio del 1908» conclude nostro padre ricordando Giovanni Faraboli - avesse potuto avermi tra le mani qualche capo dei "nuovi rossi" nei paraggi di una finestra aperta, non avrebbe esitato a buttarmi nel cortile... E anni e anni passeranno carichi di travaglio da questo 1° maggio, ma intatto mi rimarrà nella carne il tepore delle mani forti di Giovanni Faraboli.I MAGHENZANI E I GUARESCHI Nel 1905 Lina Maghenzani sposa Primo Augusto, biondo, occhi azzurri grandi e buoni, simpatico, che viene a stabilirsi in «Casa Balocchi» aprendo, nel 1907 l'Emporio ciclistico Augusto Guareschi. Dall'Atto di nascita Giovannino Oliviero Giuseppe Guareschi risulta nato alle ore 23 del 1° maggio 1908 ma pensiamo ad un errore voluto da parte di chi lo ha notificato all'ufficiale di stato civile... Dall' «Album dei ricordi» della Signora Maestra: «l° maggio 1908. Ricordami di chi più amo sulla terra: del figlio mio Nino. «Il 1° maggio, scrive Primo Taddei nel suo volume Fontanelle in patria e in esilio, c'era la festa rossa: «in bagno di fede e di entusiasmo per migliaia di lavoratori accorrenti a Fontanelle.da ogni parte della provincia di Parma. Da parecchi comuni della Bassa, da Sissa, San Secondo, Zibello, Polesine e Soragna, i braccianti intervengono in massa. Poi nella mattinata piena di sole, per le strade della piccola borgata, strette dal verde delle siepi e delle messi, il corteo delle organizzazioni procede fiammeggiante di rotti vessilli, e dalla gran folla, inebriata di canti, di luce, di fede, si alzano le note alte e squillanti, incitatrici, dell'Inno dei Lavoratori.» «Perché» scrive nostro padre nel 1953 «quando odo le note dell'Inno dei Lavoratori, mi prende un'accorata nostalgia? Forse perché esse furono la prima musica che le mie orecchie udirono, dopo quella dolcissima delle parole di mia madre.» La Signora Maestra, tiene fermo, il figlio Nino che, imbrigliato con sottanone di velluto e collettone di pizzo, è molto imbronciato. Quando la madre lo ha catturato, viaggiava libero per le strade e gli argini di Fontanelle: con l'orlo posteriore del vestone sollevato e appuntato, con una spilla da balia, all'altezza delle spalle e «col fondo della schiena allo scoperto...» come scriverà su «Oggi» nel 1966 aggiungendo che cosi «il piccolino viaggiava col fondo della schiena allo scoperto e, in casi di emergenza, non faceva che accucciarsi e non si poteva insudiciare e. d'estate, era una cosa meravigliosa sedersi nella polvere morbida e calda della strada sulla sabbia umida e fresca in riva al fiume, lasciandovi l'impronta Nel 1912 Primo Augusto costruisce «Villa Maghenzani.. Si vedono bene, sotto il cornicione, le «grandi signore pitturate tutt'attorno» nel «fregio decorativo figurale» commissionato da Primo Augusto al decoratore Leonildo Spocci di Parma. Non è ancora stata venduta ai socialisti che la trasformeranno in «Villa Rossa» e, scrive nostro padre su «Candido» n. 7 del 1953 ricordando Faraboli in «Quella chiara, onesta faccia». Siamo a Fontanelle, durante l'anno scolastico 1913-1914. È l'ultimo in cui la Signora Maestra vi insegna. In ottobre inizierà l'ultima lunghissima tappa del suo insegnamento a Marore (Parma). LA GENESI DEL MONDO PICCOLO Pur essendo su opposte sponde, Faraboli marxista e nostro padre antimarxista, si stimano reciprocamente per le cose buone che ognuno ha fatto. E’ emblematico perché illustra il "messaggio" contenuto nelle opere di nostro padre: la necessità di trovare sul piano umano un punto d'incontro. Per il bene di tutti. Sul piano ideologico è impossibile perché dove inizia un'ideologia, finisce subito l'altra, ma sul piano umano bisogna cercarlo, come don Camillo e Peppone che, per il bene l'uno del suo gregge e l'altro dei suoi amministrati, si trovano sempre uno di fianco all'altro. Noi pensiamo che il successo delle opere di nostro padre, successo in continua ascesa dato che le sue opere continuano ad essere proposte in tutto il mondo, sia dovuto anche al fatto che i personaggi che lui descrive sono "veri", a partire da Peppone che è nato da una costola di Giovanni Faraboli. Come veri sono altri suoi personaggi ispirati a persone conosciute nel corso della sua vita come la signora Cristina, la vecchia maestra del Mondo piccolo che altri non è che sua madre, la maestra Lina Maghenzani accompagnata nel 1950 al cimitero con la "sua" bandiera come la signora Cristina E come è vero don Camillo il cui primo ispiratore fu don Lamberto Torricelli, arciprete di Marore: nell'intervista rilasciata al «Bouletin de Paris» il 7 ottobre 1955 «Guareschi démasque don Camillo« si legge: «pour son personage de don Camillo s'est souvenu d'un prètre "colossal" nommé don Torricelli...«. Nostro padre lo ha incontrato in occasione del primo episodio triste della sua vita: il fallimento del padre del 1925. In quel tempo era convittore, per le manie di grandezza del padre, al «Maria Luigia” di Parma ed era un «ginnasiotto formidabile con voti incredibilmente alti», come scrive in una nota autobiografica. Il tracollo economico del padre travolse tutta la famiglia che non fu costretta ad andare a dormire sotto i ponti solamente grazie al lavoro della madre insegnante elementare a Marore, piccolo paese a pochi chilometri da Parma, che garantiva loro un alloggio nel palazzo delle scuole. La reazione di nostro padre fu violenta perché si sentì mancare la terra sotto i piedi e dovette uscire di gran premura dal convitto Maria Luigia per terminare gli studi, come esterno. Il rendimento scolastico ne risentì moltissimo come si può notare leggendo le note del rettore sull'ultima pagella prima del fallimento e sulla prima dopo il fallimento, tanto da essere rimandato, agli esami per accedere al Liceo classico, con "4" nelle due materie dove riusciva meglio: la storia e il latino. Doveva rimediare a ottobre e occorreva che qualcuno gli desse delle ripetizioni: a Marore l'unica persona che sapeva di storia e di latino e che poteva aiutarlo senza chiedere una lira era l'arciprete don Lamberto Torricelli, un omone alto due metri con le mani grandi come badili. Nostro padre andò a ripetizione passando in seguito i due esami con "8" e ricordò sempre questo pretone sia per il peso delle sue mani che deve aver provato dato che era un ragazzo piuttosto irrequieto sia perché, ne siamo certi, deve averlo consolato. IL MONDO PICCOLO DI FONTANELLE Il 17 settembre 1922 «Il Macigno», organo ufficiale della sezione di Busseto del PNF scrive: «Sui ruderi fumanti dei castelli dei rossi baroni passa vittorioso il Fascismo, che continua nella sua marcia, per incoronare dal Campidoglio questa meravigliosa e magnanima gioventù italica» eccetera. I «castelli dei rossi baroni» sono le Cooperative socialiste della Bassa incendiate dalle squadre fasciste e fra queste quella di Fontanelle (ex Casa Balocchi e casa natale di nostro padre).del 1922. Nostro padre ricorderà I' avvenimento nel 1947 in «Vecchio testardo»: «Erano tutte zucche piene di sabbia, perché soltanto le zucche piene di sabbia possono fare la politica bruciando le forme di grana, il lardo, i salami, la farina, spaccando a colpi di scure le caldaie di rame dei caseifici e ammazzando a moschettate i maiali come appunto si faceva allora nelle cooperative socialiste della Bassa». Il segretario della cooperativa era proprio Giovanni Faraboli il quale quel giorno era dietro il bancone e pretese da quella massa scatenata la "nota di scarico". Poi, uscito, si era fermato in fondo alla piazza a veder bruciare la cooperativa e, «quando di tutto l'edificio non rimase più che qualche tizzone» continua nostro padre in «Vecchio testardo» ‹si cavò il cappello e tornò a casa.» Il vecchio cimitero di Fontanelle. Era a ridosso della chiesa e sotto l'argine e certamente vi si è ispirato quando ha fatto il disegno per illustrare il racconto «Quelli di città». «Mai dimenticherò quei luoghi cari dove trascorsi la mia più tenera età, i miei compagni, la casa abbandonata, il piccolo cimitero dove sono sepolti i miei nonni» (da un tema ginnasiale di nastro padre). Di fronte alla chiesa di Fontanelle, nella vecchia casa ora in rovina, abitava la Famiglia di un carrettiere: potrebbe essere quella di Giarón. Nostro padre pensava certamente al sagrato protetto dai colonnotti di pietra della chiesa di Fontanelle quando ha scritto, nel 1952, il racconto in cui Menelik il cavallo di Giarón, fermata la barra con sopra Giarón morente sull'acciottolato del sagrato era riuscito a richiamare l'attenzione di don Camillo scalpitandovi sopra con gli zoccoli. Il Mondo piccolo di Fontanelle e di Faraboli ha ispirate. molti racconti a nostro padre, ma chi gli ha ispirato i racconti del "Boscaccio"? E, soprattutto, dov'è situato il "Boscaccio"? Occorre l'intervento di uno speciale motociclista di Tortona.... LA SCOPERTA DEL BOSCACCIO Nel 1948 nostro padre aveva messo all'inizio del Don Camillo tre delle storie pubblicate sul «Corriere della Sera» nel 1942 nelle quali si era "impadronito" della famiglia di suo padre identificandosi in lui come io narrante e raccontandoci quello che succedeva al «Boscaccio». Lodovico Guareschi, patriarca ultranovantenne del ramo «Bazziga» dei Guareschi, e nonno paterno di Primo Augusto che il 17 aprile 1898 dona ai nove nipoti figli del figlio Antonio, detto «Tugnén Bazziga», il podere «Bosco» dove da anni vivono assieme ai genitori. Sono tutti minorenni e il padre, Tugnén Bazziga, da anni è stato inabilitato a causa della sua eccessiva bontà che rischiava di distruggere il suo notevole patrimonio. Dall'atto di donazione risulta che il podere «Bosco» si trova in località omonima. Non abbiamo mai tentato di rintracciare questo archetipo del "Boscaccio" quando, in un caldissimo giorno di agosto sbarca dalla sua moto e ci raggiunge nella Sala delle damigiane un motociclista di Tortona. È scalzo, ha i capelli lunghi legati con una corda e tra le mani il disegno del frontespizio di Don Camillo e il suo gregge, una casa della Bassa. «Ho trovato "Il Bosco"» dichiara mostrandoci il disegno e, di fianco, due fotografie. La somiglianza tra la casa disegnata e quella delle foto è impressionante.«Ma torna tutto» insiste categorico. «Ecco, guardate qua.» E stende sul tavolo una carta della zona con evidenziati alcuni nomi. Sulla carta, evidenziato in verde, il territorio dove sono situati «Il Bosco» e il Boscone» (per non parlare del «Boschetto»). In alto a sinistra la frazione di Ragazzola e a destra il capoluogo, Roccabianca. Nel più ampio stralcio della carta geografica sono evidenziate le località i cui nomi si ritrovano nel «Mondo piccolo». A PARMA, A MARORE Nel 1914 la Signora Maestra viene trasferita a Marore, paesino dell'hinterland parmense e cosi tutta la famiglia si sposta prendendo alloggio a Parma in Vicolo di Volta Ortalli dato che nel vecchio edificio che ospita le scuole non c'è l'alloggio per l'insegnante. Vi insegna dal 1914 al 1921 spostandosi da Parma a Marore in bicicletta. Nel 1921 la famiglia si trasferisce a Marore, dove nostro padre abiterà fino al 1930, nel nuovo Palazzo delle scuole. «In primavera», scrive Guido Erluison ne «Il tempo lontano delle "signore Maestre"» «era facile vedervi Giovannino a cavalcioni e con una gamba fuori dalla finestra suonare la chitarra (il mandolino, N.d.A.) guardando la pianura che tanto amava.» (.AI Pont ad Mez-. 1988) In questa chiesa, sulla cui cuspide del campanile si nota la sfera di bronzo — base della croce — piazzata lassù negli anni Venti da un giovane e ardimentoso Nino, ha incontrato il suo primo don Camillo, don Lamberto Torricelli. «Ero tutto il giorno a cavallo della bicicletta», ricorderà nostro padre «conoscevo tutte le strade e le viottole dentro un raggio di dieci chilometri. Una sola strada non ho voluto mai percorrere sino in fondo: ed è quella che comincia dalla casa rossa. Arrivato alla casa rossa mi sono sempre fermato. E ancor oggi, e così sarà negli anni successivi, non so dove vada a finire. Non lo so e non lo voglio sapere. E un errore voler vedere e conoscere tutto: bisogna lasciare dei pascoli per la fantasia.» La carriera scolastica 1915 Frequenta le elementari alla «Scuola Jacopo Sanvitale» di Parma. 1920 Dodicenne, vestito alla marinara, frequenta, per la seconda volta e con pessimo profitto, il l° anno alla Scuola Tecnica Pietro Giordani. I suoi si accorgono che non è portato per gli studi tecnici e, finito l'anno, lo iscrivono al Ginnasio Romagnosi e diventa un «ginnasiotto formidabile». 1923 «è capitato a me (e credo che capiti a molti) di trovarmi, a un certo punto della mia vita, con un ragazzo al fianco ancora vestito da collegiale. Io voglio bene a quel ragazzo e mai potrei tradirlo. (Nessuno dovrebbe mai tradire la propria fanciullezza.)». 1925 Il fallimento del padre riduce la famiglia sul lastrico e nostro padre deve abbandonare precipitosamente la divisa di convittore del Maria Luigia per indossare quella della miseria. Frequenta il Liceo Romagnosi da esterno. 1929 Nel gennaio del 1929 si iscrive all'Università di Parma, Facoltà di Giurisprudenza. Frequenta raramente le lezioni e «l'unico impegno universitario svolto con coscienza» scriverà nel 1968 su «Oggi» «riguarda una Festa delle Matricole che è stata proibita dalle autorità... PARMA, ZAVATTINI Quando era convittore al «Maria Luigia» ebbe la fortuna di conoscere Cesare Zavattini, di sei anni più vecchio di lui, che faceva l'istitutore per mantenersi agli studi all'università. Zavattini intuì subito le doti di nostro padre (sono sue le note sulle pagelle di nostro padre firmate dal rettore) e quando lui dovette abbandonare il «Maria Luigia». Gli procurò un lavoro come correttore di bozze alla «Gazzetta di Parma» per permettergli di mantenersi agli studi ed arrivare alla licenza liceale. Cominciò così la carriera nel mondo del giornalismo partendo dal primo gradino: curò in seguito la cronaca nera. Anni dopo scriverà: «Io, allora, facevo il cronista in provincia. La cronaca nera era rigidamente razionata e a un fattaccio di cronaca nera si potevano dedicare soltanto trentadue righe...». Per nostro padre, pagato a notizia e a riga era un grosso problema. Così pensò bene di inventarsi le notizie ed erano quelle che piacevano di più ai lettori anche se, in diverse occasioni a causa di imprudenti citazioni di nomi e cognomi molto "verosimili", ebbe diverse grane. PARMA, IL LAVORO, ENNIA Il periodo che va dalla maturità classica (1928) al 1931 non è stato facile e lo ha scritto in una lettera di autopresentazione ad una professoressa di Civitavecchia nel 1964: «Provai un'infinità di mestieri: elettricista, caricaturista cartellonista, xilografo, scenografo disegnatore meccanico, custode di depositi di biciclette. Non me ne riuscì bene nessuno e allora ripiegai sul giornalismo. Scrissi dapprima sulla «Voce di Parma», poi sulla «Gazzetta di Parma. Nello stesso tempo facevo la campagna saccarifera tre mesi ogni anno come aiutante portiere nello zuccherificio di Parma. Fui per un anno anche istitutore al collegio Maria Luigia dove tutti mi prendevano sul serio eccettuati i ragazzini a me affidati.» Nel 1931 viene assunto al «Corriere Emiliano» che, nel frattempo aveva assorbito la «Gazzetta di Parma», che lo passa redattore iniziando come aiuto cronista poi cronista e infine capo cronista e tale durerà fino al giugno del 1935. Gli occorre un alloggio in città. Abbandona Marore e prende in affitto una soffitta in una casupola di Borgo del Gesso. Nel 1935 presenta noi figli sul numero unico «Bazar» e il suo "appartamento" in Borgo del Gesso. Nel novembre del 1934 parte per il servizio militare. Gli anni di lavoro a Parma sono stati importanti per la sua formazione di giornalista. E come disegnatore si è impadronito delle tecniche d'espressione vecchie e nuove, imparando a impaginare con eleganza disegni e testi. Un'ottima preparazione per il futuro lavoro che svolgerà a Milano subito dopo il servizio militare. Zavattini, infatti, suo istitutore quando era convittore al Collegio Maria Luigia e che ha fatto da qualche anno il grande balzo verso Milano con grande successo, lo segnala ad Angelo Rizzoli che cerca un valido redattore capo per il nuovo bisettimanale umoristico «Bertoldo». Andrea Rizzoli parte per Carpineti, dove nostro padre sta facendo il campo estivo, e lo assume. ALLA SCOPERTA DI MILANO Partì nel novembre 1934 per il servizio militare prima alla Scuola di Potenza, poi a Modena e in occasione del campo estivo del 1936 venne raggiunto a Villa Minozzo da Andrea Rizza che, su segnalazione di Cesare Zavattini che nel 1930 aveva fatto il grande balzo verso Milano raggiungendo subito un grande successo, lo assunse come redattore del bisettimanale umoristico «Bertoldo. nato il 14 luglio di quell'anno. Terminato il servizio nostro padre partì "alla scoperta di Milano" assieme alla sua compagna e nostra futura madre Ennia Pallini iniziando la sua grande avventura che lo condurrà al successo. Era il 1936: lei doveva volergli molto bene per sfidare le convenzioni di allora e seguire il suo uomo senza essere sposata (si sarebbero sposati quattro anni dopo). Era una donna eccezionale che permise a nostro padre di fare tutte le sue scelte di vita, senza condizionarlo e fu per lui (e per noi...) una grossa fortuna averla avuta al suo fianco. IL “BERTOLDO” Al «Bertoldo» collaborarono le più belle firme dell'umorismo italiano: Albertarelli, Angoletta, Bazzi Bianchi, Bianconi, Brancacci, Carni, Cavaliere, De Seta, De Vargas, Della Zorza, Di Guida, Falconi Frattini, Gara, Leporini, Loverso, Manzoni, Marchesi, Marotta, Metz, Mondaini, Molino, Mosca, Ortensie Pagotto, Peverelli, Scarpelli, Simili, Steinberg, Verdini e tanti altri. Inoltre la rubrica curata da nostri padre «Il Cestino» fu una sorta di trampolino di lancio per una nuova generazione di disegnatori e scrittor umoristici: da Oreste del Buono a Italo Calvino, da Amurri a Cavicchioni, da Garinei a Gaibazzi, da Santin a Pizzelli, da Castellano a Siena. Non era facile fare un giornale umoristico in quel periodo e la redazione doveva mettere a frutto propria intelligenza per cercare di fare l'unica opposizione possibile: la lotta contro la retorica di regime. Ogni regime, infatti, si regge sopra il pallone gonfiato della retorica che presenta in modo perentori. come fossero normali scritti e azioni che normali non sono. L'umorismo del «Bertoldo» è stato un'arma molto efficace perché, mettendo in evidenza il lato ridicolo delle manifestazioni e della prosa di regime riuscito a stimolare e sviluppare il senso critico nei suoi lettori. UNA “VELINA” AL BERTOLDO Arrivavano dal Ministero della Cultura Popolare (MinCulPop...) le comunicazioni ufficiali (le veline) che "indicavano" quello di cui si doveva o non si doveva parlare. Il 21 dicembre 1942 - Anno XXI, ne giunse una firmata da Fernando Mezzasoma «Direttore generale per il servizio della Stampa italiana e indirizzata «al Camerata Dott. Giovanni MOSCA, Direttore di "Bertoldo" MILANO». Mezzasoma scrive: «Richiamo la tua attenzione sulla rubrica "Bertoldo" nel numero 50 dell'11 corrente in cui è trattata la questione dei ricchi e dei poveri nei riguardi dello sfollamento. Nonostante le buone intenzioni, si tratta di un argomento che sarà bene non riprendere ulteriormente. Segnalo inoltre l'opportunità di voler disporre perché sia abolita, o almeno diradata, la rubrica di Guareschi sul "Cuore" del De Amicis che risulta non gradita da gran numero di lettori.» Si tratta della decima (e ultima) puntata della rubrica il cui titolo completo è: «Cuore 1800-1900 (per adulti)». Sotto il titolo della testata disegnata da nostro padre, c'è la spiegazione: «Cuore - Enrico del vecchio "Cuore" è cresciuto, ha moglie e figlio e riprende a scrivere il suo diario. Suo figlio commenta». Mosca, infatti, gli invierà questa lettera ad Alessandria dov'era in forza all' II° Artiglieria dopo il richiamo. Nonostante l'intenzione di andare a Roma a "chiarire la faccenda" la rubrica scomparirà dal «Bertoldo». Nostro padre disegna, scrive, impagina e guida la redazione del «Bertoldo». Tra i suoi disegni ricordiamo le prevedovone e le vedovone, gli Stati piccolissimi, il fesso di guerra. "IL RICHIAMO" IL LAGER Nell'ottobre del 1942 nostro padre viene richiamato alle armi per punizione: sotto l'effetto di una sbronza (causata da una circostanza drammatica: il fratello viene dichiarato "scomparso" in Russia, dalla quale, per fortuna, sarebbe ritornato incolume l'anno dopo) urla in pubblico improperi contro Mussolini e la polizia politica lo arresta. Uscito di segreta e in attesa del processo politico viene richiamato alle armi: trascorrerà buona parte del servizio di richiamo ricoverato in ospedale militare a causa di una spaventosa ulcera scatenatasi perché uno degli amici che avevano cercato di calmarlo durante la sbronza, ricordando che in casi simili bisognava ricorrere all'ammoniaca, invece di fargliela annusare gliela aveva fatta bere... Torna in servizio nell'agosto 1943 e il mese dopo, a causa dell'armistizio firmato con gli angloamericani, viene catturato dai militari tedeschi e, essendosi rifiutato di continuare a combattere al loro fianco come la stragrande maggioranza dei militari italiani, viene internato nei Lager tedeschi in Polonia e in Germania. Successivamente risponde negativamente, come quasi tutti gli altri internati militari, alle varie proposte di adesione alla Repubblica Sociale Italiana delle commissioni inviate nei Lager e rimane prigioniero volontario fino alla liberazione da parte degli anglo-americani del 16 aprile 1945. L'IMPEGNO DI GIOVANNINO NEL LAGER Il periodo dell'internamento per lui è stato paradossalmente il più importante della sua vita perché proprio tra i reticolati ha scoperto in sé delle doti che non sospettava di possedere: tra queste la capacità di farsi carico dei problemi degli altri. La sua immagine nella grande foto del luglio 1936 che riunisce tutti i redattori del «Bertoldo» lo mostra ben messo, sorridente nei panni di un umorista che pensa che il suo compito sia esclusivamente quello di divertire i suoi lettori. Le foto segnaletiche ufficiali dei Lager e quelle clandestine ce lo mostrano invece magro e con lo sguardo intenso, consapevole e profondo di chi sa di avere un compito da svolgere. Mette così a frutto il talento che gli ha donato il Padreterno, svolgendo coraggiosamente nel Lager il suo compito di giornalista per aiutare i suoi compagni a non lasciarsi andare alla disperazione. Li tiene aggrappati alla vita raccontando loro delle favole legate alla quotidianità, li porta con il pensiero a casa e il brusco rientro nella triste realtà del Lager li trova rinforzati, con un forte desiderio di tornare dai propri cari. Molte di queste favole che sono riuscite ad unire in un solo intento migliaia di persone le ha raccolte nel 1948 nel Diario clandestino, la sua opera più importante e, purtroppo, la meno conosciuta. Un diario corale approvato da tutti i suoi compagni, anche da quelli meno fortunati di lui che sono rimasti lassù. RITORNO A MILANO, IL “CANDIDO” Viene rimpatriato alla fine di agosto del 1945 e subito si mette al lavoro cercando i suoi collaboratori del «Bertoldo», morti sotto le macerie della Rizzoli bombardata dagli angloamericani e nel dicembre 1945 fonda, assieme a Giovanni Mosca e Giaci Mondaini, il «Candido», settimanale umoristico nel quale però è accentuato anche l'impegno civile. Indipendente con simpatie monarchiche il «Candido» combatte tutte le battaglie del dopoguerra e della ricostruzione. «Candido» si schiera a favore della monarchia nel corso del Referendum istituzionale del 1946 in una battaglia appassionata ma persa. Nostro padre sapeva che rendere ridicola una persona che fa paura fa calare il timore nei suoi confronti. Le sue vignette e, in particolare, quelle dell'«Obbedienza cieca, pronta e assoluta» giocate sulla ridicola applicazione alla lettera da parte dei comunisti di un ordine dell'«Unità» contenente un refuso, contrassegnano un'epoca e riescono a diminuire, utilizzando l'arma del ridicolo, la tensione che si era creata in quegli anni dopo le violenze della guerra civile, ingigantita dal timore esasperato che la gente aveva del comunismo e dei comunisti: non dimentichiamo che circolava la diceria sui comunisti che mangiavano i bambini... Felice anche l'invenzione della «terza narice» che disegnava nel naso dei comunisti specificando che era servita per cavare il cervello da versare all'ammasso del Partito che avrebbe pensato per loro. Vince la successiva importante battaglia, quella contro il Fronte Democratico Popolare nelle elezioni politiche del 18 aprile 1948. Nostro padre e tutti i collaboratori di «Candido» affiancati da un battagliero Montanelli, furono molto coraggiosi e a nostro padre giunsero diverse minacce di morte, una di queste la trovò uno di noi, Alberto, sulla porta di casa di via Pinturicchio e raffigurava un uomo con baffi appeso a una forca con la scritta "Tu sarai il primo". LE BATTAGLIE DI “CANDIDO” Le sue vignette elettorali furono determinanti per la sconfitta del Fronte: la prima è quella tragica raffigurante lo scheletro di un caduto dell'ARMIR che, aggrappato a un reticolato, indica col dito scheletrito il simbolo del Fronte Democratico Popolare composto da una stella su cui compariva il volto di Garibaldi e dice: «Mamma, votagli contro anche per me!». Sul manifesto, appaiono in alto, la scritta: «100.000 prigionieri italiani non sono tornati dalla Russia» e, sotto, il simbolo dell'URSS (falce, martello e stella) mascherati dal Fronte Democratico Popolare (partito comunista e socialista) dietro il volto di Garibaldi. Questo manifesto è stato appiccicato dai Comitati civici nati per volontà di Papa Pacelli e guidati dal professor Gedda sui muri di tutt'Italia. La seconda vignetta elettorale, rivolta agli elettori di sinistra, recava in alto la scritta: «Nel segreto della cabina elettorale Dio ti vede, Stalin no» e, sotto, raffigurava un votante di sinistra, all'interno della cabina elettorale, dubbioso sul simbolo da votare. Aveva lo scopo di tranquillizzare i dubbiosi di sinistra che desideravano votare contro il Fronte e, nello stesso tempo poneva loro un problema morale dato che il Fronte rappresentava l'URSS che professava l'ateismo di stato. In effetti nel 1948 non era ancora stata promulgata la scomunica per gli attivisti comunisti e la Chiesa aveva una grossa influenza sui comunisti che si sposavano ancora religiosamente e portavano i loro figli a battezzare. Un'altra vignetta aveva avuto un grosso impatto sull'opinione pubblica: mostrava un borghese che dorme tranquillo mentre alle sue spalle sulla carta geografica incombe la massa rossa minacciosa dell'URSS che comprende anche la Iugoslavia (Tito andava ancora d'accordo con Stalin e aveva mire espansionistiche fino al Tagliamento...) e l'Albania, la parte dell'Austria (nostra confinante) russa, la Cecoslovacchia e la Germania dell'Est. Sulla vignetta, in alto, la scritta: «Vai a votare!» e sotto la conclusione: «Mentre tu dormi Stalin lavora». Visto il carattere inguaribilmente vacanziero dell'italiano medio oggi si direbbe: «Non andare al mare, va a votare...». DON CAMILLO NEL MONDO Nel dicembre del 1946 appare su «Candido» la prima puntata della serie "Mondo piccolo" dove compaiono i tre straordinari personaggi di don Camillo, Peppone e il Cristo dell'altar maggiore. Questa rubrica si affianca alle battaglie politiche condotte da «Candido» contro ogni ideologia che impedisce alla gente di pensare con la propria testa ed è un chiaro segnale della netta distinzione che già nel 1946 nostro padre faceva tra ideologia e uomini, tra l'errore e l'errante. Peppone è un comunista ma non è il comunismo, crede nei suoi ideali e nostro padre, da vero scrittore "democratico" gli dà voce. A un certo punto, però, quando deve prendere una decisione sul piano morale, agisce secondo coscienza mandando, se del caso, all'inferno le direttive del Partito. La serie ha una grande fortuna tanto che nel marzo 1948 esce la prima raccolta di racconti del Mondo piccolo con il titolo Don Camillo. Nostro padre ha fatto in modo che potesse uscire durante la campagna elettorale per rinforzare l'impegno suo e dei colleghi di «Candido» contro il Fronte Democratico Popolare scegliendo, ad arte, racconti che mettevano in evidenza la pericolosità dell'ideologia marxista che impediva alla gente di pensare con la propria testa. Don Lamberto Torricelli gli ha ispirato il personaggio di don Camillo per la sua bontà e il suo impegno pastorale ma nella dedica, inedita, che doveva apparire all'inizio del Don Camillo, si legge che il libro era dedicato «alla memoria dello zio materno Oliviero Maghenzani «che doveva essere prete missionario ma la morte lo prese a quindici anni». Lo aveva conosciuto solo attraverso le parole di nonna Filomena. Giovanni Faraboli gli ha ispirato il suo Peppone per il suo impegno sociale ma nella stessa dedica, si legge che il libro era dedicato «alla memoria di mio zio paterno Umberto Guareschi, meccanico, morto a trent'anni a Rosario di Santa Fe' la cui formidabile figura di gigante apparve un giorno nel cielo della mia lontanissima fanciullezza e rapidamente disparve ma rimase il bagliore di due occhi onesti». Il libro ha subito un successo incredibile tanto da essere ristampato in continuazione. Viene tradotto nelle principali lingue raggiungendo, in seguito, i paesi più impensati tranne la Cina. Fu pubblicato in Grecia, Rep. Ceca, Russia, Svezia, Turchia, Giappone, Romania, Ukraina, Germania, Corea del Sud, Tailandia, Italia Nel Siam (l'attuale Thailandia) Kukrit Pramoj ha trasformato don Camillo e Peppone in un bonzo che parla con Budda e in un capopopolo. In Italia Frate Indovino ha pubblicato, disinvoltamente, un Don Camillo in penitenza. DON CAMILLO AL CINEMA Nel 1949 scrive soggetto e sceneggiatura per il film «Gente così» che viene girato Io stesso anno. Il soggetto è tratto da una serie di racconti apparsi a puntate su «Candido» dove si parla di don Candido, prete-padrone, del sindaco-barbiere Giusà, della maestrina-agit-prop e di Giàn, un contrabbandiere che vivono tutti a Trebiglie. Si è ispirato al paese di Trepalle (Sondrio) dove, nell'agosto 1948 era andato a trovare assieme al caro amico Carletto Manzoni il parroco del paese don Alessandro Parenti. Camillo Pilotto sarà don Candido e Saro Urzì — che rivedremo nei film della serie "Don Camillo" — il sindaco. l'avventura cinematografica di don Camillo-Fernandel e Peppone-Gino Cervi parroco e sindaco di Brescello comincia nel 1951 e fino al 1965 vengono girati cinque film. Nostro padre, secondo il desiderio del produttore, doveva interpretare la parte di Peppone, ma, dopo un tentativo senza successo, rinuncia. Segue la lavorazione di quattro di questi film («Don Camillo e l'onorevole Peppone», è stato girato quando lui era nel carcere di Parma) recandosi spesso sul set. Produttore di tutti i film della serie è Angelo Rizzoli che si associa a Peppino Amato. Don Camillo sarà l'attore francese Fernandel, Peppone Gino Cervi e la regia sarà del grande Julien Duvivier al qualeAngelo Rizzoli offre la regia perché tutti i registi italiani interpellati si sono rifiutati di girare il film, vuoi per ragioni ideologiche vuoi per il quieto vivere. Infatti i partiti di sinistra vedevano nel libro e nel personaggio di Peppone una diffamazione dei lavoratori italiani e, addirittura, dell'Italia. «Gino Cervi corrisponde esattamente al mio Peppone» scrive nostro padre. «Fernandel non ha la minima somiglianza col mio don Camillo. Però è talmente bravo che ha soffiato il posto al mio pretone. Così ora, quando mi avventuro in qualche nuova storia di don Camillo, mi trovo in grave difficoltà perché mi tocca di far lavorare un prete che ha la faccia di Fernandel». L'avventura cinematografica di don Camillo-Fernandel e Peppone-Gino Cervi comincia nel 1951 e si conclude, in modo triste, nell'agosto del 1970, quando viene interrotta la lavorazione del sesto film della serie, «Don Camillo e i giovani d'oggi», a causa della grave malattia di Fernandel che morirà nel marzo del 1971. Dopo quelle insuperabili versioni cinematografiche girate a Brescello, ne sono state girate altre ma nessuna è stata all'altezza della vecchia serie perché oramai per tutti don Camillo e Peppone sono e saranno sempre soltanto Fernandel e Gino Cervi. IL MONDO PICCOLO DI NOSTRO PADRE Dopo aver dato un colpo d'occhio dall'alto del campanile, assieme all'angioletto, incamminiamoci, assieme a nostro padre, seguendo la scansione delle stagioni, nella Bassa, alla scoperta del suo mondo piccolo, alla scoperta dei paesi del «Boscaccio». Il nostro giro ideale durerà un anno. IL CASO EINALDI... Il 18 giugno 1950 nostro padre pubblica su «Candido» una innocente vignetta di Carletto Manzoni dove figurano due file di bottiglie bene allineate recanti, in collage, l'etichetta «Nebiolo — Poderi del Senatore Luigi Einaudi». Le etichette "fanno da corazzieri" al Presidente della Repubblica Luigi Einaudi, disegnato sul fondo. La vignetta non è altro che una bonaria presa in giro del Presidente della Repubblica non perché questi sia un produttore di vino (connotazione peraltro simpatica dato che il vino che produceva pare fosse buono). La ragione della presa in giro nasce dal desiderio di fare sommessamente notare che non era corretto che sull'etichetta del suo vino figurasse la sua carica pubblica di "senatore": alla fin fine era una sorta di ufficializzazione di un marchio commerciale. Un'interrogazione alla Camera dei deputati degli onorevoli Treves (PSI) e Bettiol (DC) convince il sottosegretario alla Giustizia, onorevole Tosato, a concedere l'autorizzazione a procedere. Nostro padre, direttore responsabile, e Carletto Manzoni, autore del disegno, vengono assolti in prima istanza ma, su ricorso del Procuratore generale della Repubblica, vengono condannati in Appello a otto mesi per vilipendio a mezzo stampa al Presidente della Repubblica con la condizionale. Questa condanna, purtroppo, sarà la causa della sua detenzione per la successiva condanna per diffamazione a mezzo stampa dell'ex presidente del Consiglio Alcide De Gasperi. IL CASO DE GASPERI Nel 1948 nostro padre ha appoggiato i partiti del blocco occidentale contro il Fronte Democratico popolare trovandosi al fianco della Democrazia Cristiana e quindi di De Gasperi. Era necessario fare argine contro il pericolo comunista. Ma già nel 1949 inizia a criticare De Gasperi e la DC e nel 1952, in occasione del pranzo che seguiva l'inaugurazione del metanodotto di Cortemaggiore alla quale è invitato in qualità di giornalista, De Gasperi lo chiama al suo tavolo. Nostro padre rimane perplesso e inutilmente si schermisce dicendo che doveva trattarsi di un equivoco: «Io non desidero andare dal presidente e non credo che il presidente abbia qualcosa da dirmi: ha ben altro a cui pensare». Ma, dietro le insistenze del funzionario che fungeva da portavoce, nostro padre va al tavolo di De Gasperi il quale comincia a parlare lasciandogli poco spazio per interloquire finché ritorna al tavolo dov'era seduto prima assieme all'amico Minardi dicendo: «Andiamo a respirare aria pulita. Qui si soffoca.» «Mi disse che De Gasperi era un uomo intrattabile. "Peggio di uno sbirro austriaco di Maria Luigia"» scriverà Minardi in una nota biografica. «Il successo dei monarchici alle elezioni di Napoli dove avevano riportato la maggioranza assoluta non poteva digerirlo. Per questo gli aveva detto che sarebbe stato durissimo contro tutti i tentativi di opposizione da destra» e per questo avrebbe fatto di tutto per impedire il proliferare di giornali piccoli e grandi che potessero dirottare l'opinione pubblica verso destra. Guareschi gli aveva obiettato: "Ma non siamo in democrazia? Non siamo liberi?". "Siamo in democrazia e liberissimi" gli aveva risposto De Gasperi fulminando con un gelido sguardo il suo interlocutore. "Ora ho capito tutto" ribatté Guareschi "e la ringrazio sinceramente..."» E chiaro che dopo questo colloquio nostro padre non poteva più vedere De Gasperi come lo aveva visto nel 1948: non era un italiano ma un "trentino prestato all'Italia" come aveva specificato pubblicamente lui stesso. IL TA-PUM DEL CECCHINO Giovannino entrò nel 1954 in polemica con De Gasperi e la DC in difesa di Pella che, al profilarsi del pericolo iugoslavo alla frontiera di Trieste, non aveva esitato a inviare due divisioni dell'esercito per difendere il confine. Poi una domenica pomeriggio ricevette la visita di una persona che doveva consegnargli dei documenti: le fotocopie di due lettere di De Gasperi che pubblicò il 20 e 27 gennaio 1954 con un duro commento. Nei primi giorni di febbraio: De Gasperi lo querela. Viene istruito il processo e viene condannato a dodici mesi per diffamazione. Non ricorre in appello e il 26 maggio entra nel carcere di San Francesco a Parma dal quale uscirà il 4 luglio 1955 (409 giorni) in libertà vigilata. Il 26 gennaio 1956 termina la libertà vigilata. Il nostro commento: nostro padre, querelato da De Gasperi con ampia facoltà di prova, consegnò al Tribunale le lettere accompagnate da una perizia calligrafica che ne attestava l'autenticità e che non venne tenuta in considerazione. Nel procedimento l'ampia facoltà di prova, in pratica, gli fu negata perché non gli furono concessi né le nuove perizie richieste né l'ascolto di testimoni a suo favore. Sulla base delle testimonianze a favore di De Gasperi, del suo alibi morale e del suo giuramento che le lettere erano false, il Tribunale decise di aver raggiunto la "prova storica" del falso, condannandolo a un anno di carcere per diffamazione. La sentenza metteva in evidenza il fatto che, anche nel caso di una perizia grafica favorevole all'imputato, «una semplice affermazione del perito non avrebbe potuto far diventare credibile e certo ciò che obiettivamente è risultato impossibile e inverosimile». Offeso per questa palese ingiustizia che gli aveva impedito di difendersi decise di non ricorrere in appello. Il giorno prima della scadenza del termine per il ricorso nostro padre era a Milano dove aveva terminato il lavoro settimanale del giornale e stava per portarlo alla Rizzoli. Nostra madre che, come al solito, lo aveva seguito a Milano, saliva nel suo studio dicendogli che giù c'era Scelba (presidente del consiglio e ministro degli interni ad interim) che voleva parlargli.«Digli che non posso scendere perché devo finire il giornale» le disse. Scelba, dopo un'attesa di un paio d'ore, se ne andava infuriato. Ritornato alle Roncole incontra Poldén Sgavetta, il falegname di famiglia con il quale aveva un appuntamento, e gli spiega la ragione del ritardo concludendo: «Io ho continuato a camminare avanti e indietro nello studio per due ore e ho fumato due pacchetti di sigarette, ma quel... se ne è andato con le pive nel sacco. Perché» conclude «avrebbe voluto convincermi a ricorrere in appello perché sicuramente era pronta un'assoluzione per insufficienza di prove». Assoluzione che, per chi come lui era convinto come lo siamo noi di avere ragione in quanto le lettere erano autentiche, sarebbe stata infamante perché avrebbe lasciato su di lui l'ombra del dubbio. Avendo perso la condizionale nella precedente condanna a otto mesi per vilipendio di Einaudi nonostante fosse stata nel frattempo decretata un'amnistia che riguardava reati ben più gravi - si costituì il giorno prima di essere arrestato nel carcere di Parma. IL CARCERE... Non chiese grazie o agevolazioni, non usufruì di condoni e, durante la sua incarcerazione, gli venne assommata la pena della precedente condanna. Scontò in carcere quattrocentonove giorni uscendone in forza di legge e grazie alla qualifica di "buono" ottenuta in carcere. Scontò i rimanenti sei mesi in libertà vigilata. Nel 1956, nel corso del processo contro Enrico De toma, il fornitore delle due famose lettere, il Tribunale di Milano affidò a un collegio di tre periti l'esame delle due lettere negato due anni prima a nostro padre. La conclusione dei periti fu che «non esistevano prove tali da stabilire inequivocabilmente la falsità delle lettere». Il Tribunale incaricò un successivo perito fotografico che dichiarò le lettere «sicuramente false». La difesa di De Torna impugnò la perizia e ne chiede una di parte. Sconcertante il responso dei periti della difesa che dichiararono di rilevare «palesi diversità fra dette lettere e quelle pubblicate su "Candido"». Il Tribunale non tenne conto di nessuna di queste perizie e il 17 dicembre 1958 dichiarò estinto per amnistia il reato di falso e assolse De Toma dall'accusa di truffa per insufficienza di prove, con l'ordine di distruggere i documenti. Nessuna ombra del dubbio su nostro padre anche in chi è convinto che lui abbia sbagliato. Tutti dicono: «In ogni caso ha pagato e strapagato». Un'ombra rimane, invece, sulla figura di De Gasperi e noi non riusciamo a comprendere come mai, se lui era sicuro che le lettere fossero false, non abbia accettato di sottoporle a tutte le perizie possibili e immaginabili che, dichiarandone la falsità, avrebbero distrutta la credibilità di nostro padre. Ombra ancor più pesante a causa dalla decisione successiva della magistratura di distruggere le due lettere. Come mai, può chiedersi l'uomo della strada, sono state distrutte? Forse, può rispondersi, lo ha fatto per sottrarle ad una eventuale perizia futura con mezzi inconfutabili? ...LA LIBERTÀ VIGILATA Durante il periodo di libertà vigilata nostro padre cerca di riprendere i ritmi di lavoro di prima senza riuscirci: non riesce più a scrivere o, meglio, non ha più voglia di scrivere. Le collaborazioni al «Candido» gli costano molta fatica: sulla ribaltina della sua scrivania delle Roncole scrive: «Tredici mesi di galera non sono tredici mesi di villeggiatura». Al termine della libertà vigilata che gli impediva di muoversi al di fuori del territorio del Mondo piccolo con la macchina scende fino a Napoli. Ha bisogno di una "botta di vita" per riprendere l'entusiasmo che lo animava prima del carcere. Sfortunatamente capita a Napoli a fine dicembre e i grandi festeggiamenti di San Silvestro lo trovano impreparato tanto da costringerlo ad una sorta di fuga. In carcere aveva fatto una promessa a San Francesco: se lo avesse protetto in carcere sarebbe andato a ringraziarlo a casa sua (era stato avvelenato da poco in carcere Gaspare Pisciotta, luogotenente di Salvatore Giuliano, con un caffè alla stricnina). Si mette in viaggio verso Assisi. Giunto sulla strada che va da Santa Maria degli Angeli verso il Subasio, la visione di Assisi sotto la neve è magica, e, ideale per un irriducibile monarchico, l'albergo indicato dal cartello stradale: «Albergo Savoia Windsor». Doveva fermarsi pochi giorni e si fermò invece diversi mesi diventando amico dei proprietari dell'albergo e facendosi raggiungere da nostra madre. Lì riuscì a ritrovare un poco di serenità. Il "Ta-pum del Cecchino" Fotoromanzo a puntate. Veleni, intrighi, dispar condicio e imperizie «Buon giorno, scarafaggio!» prima puntala: l'incontro a Cortemaggiore Nostro padre al tavolo di De Gasperi. Pare che la conversazione non sia piacevole per entrambi. Minardi descrive quell'incontro: «"Andiamo a respirare aria pulita. Qui si soffoca."... Mi disse che De Gasperi era un uomo intrattabile. "Peggio di uno sbirro austriaco di Maria Luigia" Il successo dei monarchici alle elezioni di Napoli non poteva digerirlo. Farà di tutto per impedire il proliferare di giornali piccoli e grandi che potrebbero dirottare l'opinione pubblica verso destra. Guareschi gli aveva obiettato: "Ma non siamo in democrazia, non siamo liberi?". "Siamo in democrazia e liberissimi" gli aveva risposto De Gasperi fulminando con un gelido sguardo il suo interlocutore.. Dopo questo colloquio nostro padre non poteva più vedere il De Gasperi del 1948 ma un "trentino prestato all'Italia" come aveva specificato pubblicamente lui stesso. seconda puntata: una gita alla fornace delle Roncole In visita alla fornace per ordinare mattoni e coppi per l'"Incompiuta" pensa a qualcosa di molto impegnativo e, si capisce, tiene buono il Giovannino rompiscatole dandogli qualcosa da Fare. mettendogli in mano un pezzo di argilla cruda. e. mentre il rompiscatole lavora, lui va avanti con il pensiero. Pochi giorni fa è arrivato a casa il famoso "gentiluomo veneto" che gli ha consegnato materiale scottante. terza puntata: il secondo furto in casa di Giovannino Milano, marzo 1954. nostro padre osserva la finestrina dello scantinato della casa via righi attraverso la quale sono entrati i ladri. manca, un mese al processo. La prima volta erano entrati dal finestrino del bagno e i giornali avevano parlato di "furto umoristico" perchè, "ufficialmente", era scomparsa solo una radio piccola e soldi spiccioli. questa volta, tra le varie cose, gli hanno rubato anche la macchina per scrivere che ha fatto nascere i racconti del "mondo piccolo". Lui guarda sconsolato il buco lasciato dalla macchina... IL RITORNO ALLA BASE Chiusa la lunga sosta assisana riprende il lavoro ma non riesce a ritrovare la carica. Ragioni di opportunità politica dell'editore lo costringono a rinunciare all'incarico di direttore di «Candido» rimanendovi come semplice collaboratore. Non riesce più a lavorare. Ha bisogno dell'altro Giovannino, quello vestito di stracci e di sogni che aveva conosciuto nei Lager di Polonia e Germania. Non ne sente più la voce e la colpa è sua, lo sa, perché ha perso molti sogni e la speranza in tempi migliori. Si parla tanto, in quei giorni, di Europa. Il Presidente della Repubblica Federale Tedesca ha incontrato a Roma quello italiano per la firma di un trattato d'amicizia, di commercio e culturale. Forse Giovannino, se riuscirà a ritrovare l'altro se stesso, ritroverà la voglia di scrivere, sperando nella nuova Europa Unita. «Io voglio ritornare lassù, voglio camminare ancora sulla sabbia che calcai coi miei sordidi zoccoli di Kriegsgefangene. Voglio rifare, libero, la lunga strada che percorsi stivato dentro un carro bestiame.» Così inizia la prima puntata della cronaca del suo viaggio per raggiungere l'altro Giovannino. Al suo rientro in Italia riprende con forza a lavorare facendo uscire a puntate nel 1939 su «Candido» «Il compagno don Camillo». ..1L CONGEDO DELL'OMETTO Nell'ottobre del 1961 Amintore Fanfani si è rifiutato di ricevere Angelo Rizzoli, l'editore, facendogli sapere che gli sarebbe stata concessa l'udienza soltanto il giorno in cui il «Candido» avrebbe cessato di "attaccare". Il fatto è che «Candido» sta conducendo una inchiesta sulla variante aretina dell'autostrada del Sole (sarebbe interessante sapere i nomi di coloro i quali hanno acquistato i terreni percorsi dalla "variante"). Nostro padre viene a sapere dell'intenzione di Angelo Rizzoli di chiudere il settimanale e rassegna subito le dimissioni cercando di salvare in questo modo la sua dignità professionale e di uomo evitando di essere licenziato. Con la morte di «Candido» si trova senza lavoro, abbassa la guardia e, nel luglio del 1962 viene colpito da un infarto. Riesce a uscire «quasi vivo» dalla vicenda ma è un periodo molto duro perché, a parte l'affettuosa offerta di collaborare alla «Notte» dell'amico Nino Nutrizio (inizierà a lavorare con continuità nel novembre del 1963), è completamente senza lavoro. Sono mesi duri: sembra che non ci sia alcuna prospettiva per il futuro. Cinque mesi dopo, nel gennaio del '63, inizia a preparare la "sua" parte del film «La Rabbia». L'altra sta già montandola Pier Paolo Pasolini. Il tema del film, composto con materiale di repertorio e inserti fotografici tratti da giornali e riviste, è unico: bisogna rispondere ad un drammatico interrogativo: «Perché la nostra vita è dominata dalla scontentezza, dall'angoscia, dalla paura della guerra, dalla guerra?» Nel primo tempo risponde Pasolini in chiave comunista. Nel secondo risponde nostro padre in chiave di conservatore dei valori e di fede. Nessun contatto (nemmeno verbale) fra i due autori. IL MERLO IN CIMA AL PIOPPO «Il Borghese», «Oggi» Nel febbraio del 1963, su invito dell'amico Mario Tedeschi, inizia a collaborare al «Borghese» con una rubrica fissa settimanale. In dicembre Rizzoli pubblica, dopo un silenzio editoriale di nove anni, Il compagno don Camillo già uscito a puntate su «Candido» nel 1959. Inizia anche a collaborare a «Oggi» con una rubrica di critica televisiva e di costume. Addio alla terra La nuova politica agraria (la Riforma, la "legge stralcio" che prevede l'esproprio di terre, i Patti Agrari) pare voglia penalizzare le persone come lui che hanno investito danaro nella terra. Le nuove tecniche agrarie spingono i contadini a modificare drasticamente i vecchi sistemi di conduzione: «Cavate gli olmi e gli oppi dei filari. Estirpate le viti. Lasciate via libera alla macchina» scrive in «Notte di giugno» uno sconsolatissimo Giovannino che ha ancora nel cuore il siepone del «Bosco» descritto nella «Dote di Clementina». È l'inizio di quella desertificazione agricola che è riuscita a modificare l'ambiente, distruggendo il microclima e compromettendo irrimediabilmente l'esistenza di specie animali e vegetali. «"La terra non tradisce"» dice il Cristo a don Camillo nel racconto «La dote di Clementina». «"Sono gli uomini che hanno tradito la terra".» Anche Giovannino — dopo avere attrezzato terreno e Fabbricati — si sente tradito: è iniziata la fuga dalla campagna verso l'industria con il conseguente abbandono dei terreni. Non potendo fabbricarsi su misura anche i suoi contadini, Giovannino abbandona il sogno di suo padre iniziando a svendere i suoi poderi... Nel 1965 nostro padre scrive diversi testi per spot televisivi pubblicitari: suoi sono i personaggi di Toto e Tata e di Gigino Pestifero. Gli anni successivi sono molto duri per lui. Il lavoro gli è sempre più gravoso anche se riesce ad essere quasi sempre puntuale nelle consegne. Ma si sente solo, isolato. Ha perso il contatto con i suoi lettori: «Io vivo isolato come un vecchio merlo impaniato nella cima d'un pioppo. Fischio ma come faccio a sapere se quelli che stanno giù mi sentono fischiare o se mi scambiano per un cornacchione?» Muore nel 1968 a sessant'anni. Troppo pochi per morire. Ma siamo convinti che quello che conta non sia il numero degli anni vissuti ma il modo in cui sono stati vissuti. E lui è vissuto nel modo giusto e continua a vivere nel ricordo assieme alle sue opere perché ancor oggi riesce a regalare un sorriso alle persone con i suoi libri e i suoi film.