Untitled - Barz and Hippo
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Untitled - Barz and Hippo
Dopo oltre quarant'anni di film, Cronenberg è ormai un autore consacrato dal successo e da un vero e proprio culto tributatogli dai numerosi estimatori della sua cinematografia, sempre potente e originale. Nel corso degli ultimi anni, tuttavia, il regista è passato attraverso nuove fasi che lo hanno fatto giudicare dagli uni 'più maturo', dagli altri eccessivamente 'normalizzato'. La questione si ripropone con il suo ultimo lavoro, in cui il rigore storico e l'importanza data ai dialoghi non impediscono al film di farsi apprezzare per l'abile e intensa messa in scena delle pulsioni più o meno perverse che furono alla base della scoperta stessa dell'inconscio e del suo funzionamento. . scheda tecnica durata: 93 MINUTI nazionalità: GRAN BRETAGNA, GERMANIA, CANADA anno: 2011 regia: DAVID CRONENBERG soggetto: CHRISTOPHER HAMPTON, JOHN KERR sceneggiatura: CHRISTOPHER HAMPTON fotografia: PETER SUSCHITZKY montaggio: RONALD SANDERS costumi: DENISE CRONENBERG musica: HOWARD SHORE scenografia: JAMES MCATEER casting: DEIRDRE BOWEN distribuzione: BIM Interpreti: MICHAEL FASSBENDER (Carl Jung), KEIRA KNIGHTLEY (Sabina Spielrein), VIGGO MORTENSEN (Sigmund Freud), VINCENT CASSEL (Otto Gross), SARAH GADON (Emma Jung), KATHARINA PALM (Martha Freud), CHRISTIAN SERRITIELLO (L'agente). David Cronenberg Nato a Toronto nel 1943, è uno dei maggiori registi canadesi. Pur dichiarandosi ateo, è affascinato da temi letterari che hanno a che fare con la morte e l'aldilà: fin da giovanissimo scrive racconti di fantascienza e mistero. Inizialmente si divide tra la passione per la letteratura e quella per le scienze naturali, in particolare la botanica e l'entomologia. Nel 1963 assiste alla proiezione di un film realizzato da un suo compagno di corso: poco tempo dopo, noleggia una cinepresa 16 mm e gira due cortometraggi. Inizia così una carriera nella televisione canadese e nel cinema indipendente. Con i suoi primi film, tra cui Stereo (1969) e Il demone sotto la pelle (1975), diviene un regista di culto per la sua capacità di rivitalizzare e modernizzare l'horror, le storie di vampiri e temi affini. Emergono già alcuni suoi tratti caratteristici, come l'attenzione realistica per la dimensione psicologica delle storie e dei personaggi, nonché per lo sviluppo e le possibili conseguenze del progresso scientifico e tecnologico. Seguono Blood. La covata malefica, un horror più classico, e Scanners (1981), che gli assicura una notevole popolarità. La potenza visiva del suo stile si impone insieme al fascino delle sue storie, che introducono nel travaglio della realtà quotidiana elementi fortemente disturbanti, sospesi tra la dimensione orrorifica, lo scandaglio introspettivo e la fantascienza e sorretti da uno spessore di investigazione esistenziale e sociale. Una major di Hollywood gli offre a quel punto la regia de Il ritorno dello Jedi, ma Cronenberg rifiuta. preferendo la libertà precaria delle piccole produzioni. Dopo Videodrome (1983) e La zona morta (1983), nel 1986 arriva anche il vero e proprio successo al botteghino, con La mosca: un giovane scienziato dedito a esperimenti sul teletrasporto rimane vittima di un errore casuale, in seguito al quale il dna di una mosca entra a far parte del suo stesso codice genetico, determinandone l'inesorabile trasformazione. Dopo Inseparabili (1988) con Jeremy Irons, Cronenberg torna a esplorare i territori più estremi della mente, con Il pasto nudo (1991) basato sull'omonimo romanzo di William Burroughs, cui seguono M. Butterfly (1993), Crash (1996) e il film 'cyberpunk' eXistenZ. Con Spider, entra nei meandri della psiche di uno schizofrenico e, nonostante la forte dimensione allucinatoria del film, di fatto inizia un percorso verso una narrazione più lineare e introspettiva, lontana dai motivi fantascientifici e paranormali che lo avevano accompagnato fino ad allora. Nel 2005 dirige magistralmente William Hurt, Viggo Mortensen e Maria Bello in A History of Violence, nel quale proprio la veste apparentemente convenzionale della narrazione fa del film una riflessione metaforica e metacinematografica non solo sulla violenza, ma sull'ideologia sottesa dal racconto di violenza di stile hollywoodiano, di cui capovolge l'assunto fondamentale. Il nemico infatti non viene da fuori, ma dallo stesso luogo da cui vengono la sicurezza e la normalità quotidiana: dagli aspetti più oscuri della mente del protagonista. Lo sguardo ambiguo di Mortensen, caldo e freddo nello stesso tempo, torna in La promessa dell'assassino. Mortensen è anche fra gli interpreti dell'ultimo lavoro del "depravato sovrano dell'horror venereo, barone del sangue", una definizione irrisoria eppure amata da Cronenberg, ma che in questo caso non gli calza. la parola ai protagonisti David Cronenberg Che cosa risponde alle accuse di didascalicità, di aver fatto un film troppo 'storico'? Non aspettatevi un biopic su Freud! Ho girato ancora una volta in Europa, tra Germania e Austria, dopo i miei due film londinesi, A History of Violence e La promessa dell'assassino, ma non per mimare accademicamente epoca, ambienti e protagonisti nell'ora della nascita della psicoanalisi. Ho semplicemente risvegliato, rendendola contemporanea, la relazione tumultuosa, tra il 1904 e il 1912, del giovane Jung con Freud, suo mentore. La sceneggiatura che lo stesso Hampton ha derivato dalla sua pièce ci sprofonda in una storia di follia, d'adulterio e di rivalità maschile, accesa da Sabina, divenuta psicanalista dopo essere stata internata a diciannove anni per «isteria grave» e seguita da Jung che ne sarà il medico, lo psichiatra, l'amante. Con A Dangerous Method ho cercato di fare un film elegante che parlasse di abissi emozionali, ma non perdesse la capacità di sedurre lo spettatore. Lo stile cambia a seconda delle cose che si raccontano. Se dovessi avvicinarlo ad alti miei lavori direi che somiglia a Crash perché anche lì, al centro della vicenda, c'è un gruppo di persone considerate distruttive rispetto al resto della società in cui vivono. Siamo di fronte a un nuovo, tormentato triangolo, gelidamente amniotico, come quello dei gemelli-rivali per amore della stessa donna in Inseparabli? Il personaggio che più mi ha coinvolto è Sabina Spielrein - interpretata da Keira Knightley - nota per essere stata una delle amanti di Jung, ma anche una delle prime donne psicanaliste. Le si deve, in psicoanalisi. il concetto di pulsione di morte, poi elaborato da Freud. Sabina non è stata unicamente un successo terapeutico di Jung, è stata il cardine d'un dramma d'amore, nel turbinio della nascita della psicoanalisi, rivelato solo nel 1977 con il ritrovamento del diario della donna e della corrispondenza incrociata con Freud e Jung È da anni che m'interesso a questa storia, a quel periodo complesso della ricerca medica: mi son letto tutte le biografie esistenti dei tre protagonisti. Un intreccio inscindibile: ne ha fatto un Jules e Jim da lettino? La realtà storica è davvero drammatica e affascinante: e, nel privato, diventa una straordinaria variante del menage à trois. Non che Sabina abbia avuto una relaziono con Freud, ma è un fatto che. per studiare al suo fianco, ha lasciato perdere Jung: il quale ha vissuto questa scelta come una forma di tradimento. Il film riafferma, com'è frequente nel suo cinema, da La Mosca a Crash, il ruolo chiave della donna... Sì, Sabina è una spinta creatrice, ma anche una vittima della società in cui vive. È appassionante osservare come certe forme di follia spariscano con il tempo. C'era una volta una malattia chiamata isterìa, dal greco che significa utero, dunque patologia da ascrivere esclusivamente alla donna. È un po' questo il soggetto e il pungolo di A Dangerous Method: le malattie che sono invenzioni culturali più che fisiologiche. Di cui Sabina è stata cavia ideale, in quanto donna tutta passione e intelligenza: dunque disturbante, per l'epoca. Tra lenzuola e sedute di studio, quel terremoto assai intimo è all'origine d'una svolta storica nei metodi della psicoanalisi: a questo allude il titolo? Quel triangolo incontrollato provoca un giro di boa totale nelle teorie freudiane. Rendendosi conto che il ricorso all'ipnosi non ha che un'efficacia temporanea. Freud sceglie di sperimentare il metodo della parlata libera, della confidenza segreta: la Talking Cure, che dà il titolo alla pièce di Hampton. Zurigo e Vienna diventano cosi la cornice d'un racconto, molto noir, di scoperte intellettuali e sessuali, registivittime Jung e Freud, cui s'aggiunge il tossicomane e sbandato Otto Gross, ben deciso a oltrepassare ogni limite. La psicanalisi ha ancora una sua validità, è ancora quel caposaldo per la cultura odierna? La psichiatria ha naturalmente influenzato tutti i miei film, anche se, fino a questo momento, a differenza di altri registi, non l'avevo mai affrontata direttamente. Per chi è cresciuto in quest'epoca è impossibile prescindere dal carisma e dal potere di una figura come quella di Freud. Molte delle cose che noi oggi diamo per scontate, il ruolo della sfera irrazionale, le caratteristiche della sessualità, l'importanza della fase infantile nell'evoluzione degli esseri umani, si devono a lui. Di recente, la risonanza magnetica ha dimostrato che esiste tanta attività cerebrale non accessibile alla nostra coscienza, esattamente ciò che teorizzava Freud. Cronenberg, lei proviene da una famiglia ebrea progressista. Che peso ha avuto il fatto che Freud fosse ebreo, nella storia della cultura? A un certo punto Jung lo dice chiaramente "la psicanalisi è una cosa da ebrei", associarla alla radice ebraica era una maniera per screditarla, Freud ne era consapevole. La sua diffusione è stata ostacolala dall'antisemitismo, dalla II Guerra Mondiale, dal fatto che in Europa la cultura cattolica con il suo tipo di approccio alla sessualità sia molto più forte che negli Stati Uniti. Non è un caso che New York sia la citta più psicoanalizzata del mondo. Mortensen per la terza volta consecutiva suo protagonista. Ha preso il posto di Jeremy Irons, altro suo attore feticcio? Per il ruolo di Freud, in realtà, avevo previsto all'inizio Christoph Waltz, che poi ha detto no per i troppi impegni, dopo la sua rinuncia che ho richiamato il "mio" attore, che è stato anche - non dimentichiamolo - un grande Aragorn nel Signore degli Anelli... Non è stato l'unico ritrovamento: al film s'è associato subito il produttore britannico Jeremy Thomas, che mi aveva reso possibili film come Il pasto nudo o Crash. È già al lavoro su nuovi film? L'anno prossimo uscirà Cosmopolis, un thriller basato sul romanzo di Don DeLillo, protagonista Robert Pattinson, giovane finanziere raggomitolato nel fondo della sua limousine mentre è in gioco l'intera sua fortuna. Intanto, sto vagliando altri progetti, anche di numeri 2: La mosca 2, La promessa dell'assassino 2... O anche Cerchio blu dei Matarese, da Robert Ludlum. Dopo la psicoanalisi, sto approfondendo la fisica, per un adattamento del romanzo As She Climbed Across the Table di Jonathan Lethern di cui dovrebbe scrivere la sceneggiatura Bruee Wagner (Nightmare 3). Ma quel che più m'attira al momento è la regia di una storia di Joe Penhall (lo sceneggiatore di The Road), su una studentessa universitaria che, a dispetto della razionalità del suo fidanzato, ricercatore scientifico, si sente perseguitata da Lac, una sorta di vuoto intelligente che trasborda in un'altra dimensione. Sempre sogni e incubi, proiezioni, angosciose e seducenti, in un altrove della realtà o del corpo, da Videodrome a eXistenZ. È questo che lei sogna e che confesserebbe al suo Freud? Qual è il suo cinema notturno? I film sono come i sogni, soggetti alla stessa, incontrollabile dinamica. E viceversa, i sogni sono i nostri film. Oggi forse il cinema ha cambiato il modo di sognare. I nostri sogni son debitori delle componenti oniriche del grande schermo: montaggio, effetti speciali... Il mio? È di sognare una sceneggiatura perfetta, da trasporre pari pari, una volta sveglio, in film. Ma finora non mi è mai successo. Finora...». Viggo Mortensen Viggo Mortensen tira fuori dalla tasca un taccuino con la foto classica, anziana e barbuta, di Sigmund Freud. «Capisce perché all'inizio non ne volevo sapere del ruolo? Non mi ci vedevo, fisicamente». Malgrado le reticenze iniziali, l'atto re feticcio di David Cronenberg ha poi accettato di incarnare il padre della psicanalisi (con l'aiuto di protesi e molto trucco) in A Dangerous Method, applauditissimo film in concorso alla Mostra. Mortensen, che cosa le ha fatto cambiare idea? La voglia di tornare sul set con David per la terza volta. E il fatto che nel film Freud non è il vecchio malato di cancro che tutti conosciamo. È un uomo di cinquant'anni, pieno di vita ed energia. Tutti i personaggi del triangolo del film, Freud, Sabina Spielrein e Gustav Jung, sono raccontati come esseri umani. Grazie alle loro lettere, molte delle quali purtroppo ancora non divulgate, abbiamo ricosnuito tre personalità in conflitto più per orgoglio che per teorie scientifiche. Infantili come i loro pazienti. Lei ha scelto la chiave dell'umorismo. Era accennato in sceneggiatura, io ci sono balzato sopra. Ci ho costruito il personaggio, intorno a quella ironia secca e sottilissima. L'umorismo implica il sentirsi a proprio agio, potersi permettere di ridere. L'ironia di Freud era figlia della cultura ebraica, del sentirsi in svantaggio, perseguitati. Per questo le sue battute erano veloci. Invisibili a molti, irresistibili per chi le coglieva. Per diventare Freud c'è voluto coraggio? È una bella responsabilità. Sono stato colpito dalla normalità dell'uomo e dalla sua umanità. Certo, Freud era colto e intelligente, adorava la musica, l'arte, il suo ufficio assomigliava più a un museo che a uno studio, ma il resto della casa era davvero normale. Mi ha stupito molto anche il suo senso dell'umorismo, è simile a quello di David e anche al mio: secco, intellettuale, tagliente. Con Cronenberg è al terzo film, tra poco girerete il quarto. Lui ha dichiarato che parlare di lei è come parlare della propria moglie Non ci prendiamo mai troppo sul serio, e poi sappiamo trovare l'assurdo in ogni situazione. Mai stato in analisi? Una ventina di anni fa, e sono riuscito a tirare fuori cose che non direi a un amico. Amo questa idea della confessione senza punizione, trovo affascinante che la persona che ascolta non abbia alcun coinvolgimento emotivo. Tuttavia per me non funzionò, era come parlare a un tassista. Ma la mia terapia è stata fare il cinema, che è nato più o meno insieme alla psicanalisi». «Mai reprimere nulla»: è una massima del film applicabile nella vita vera/ secondo lei? È un'idea ammirabile, ma alla fine può diventare distruttiva. Se lei avesse appena subito un lutto e a me venisse da raccontarle barzellette sulla morte, mi reprimerei di sicuro. Siamo attratti da più persone, quindi la monogamia è impossibile: questa la tesi di Otto Gross, paziente di Freud interpretato da Vincent Cassel. E' vero? L'idea dell'uomo che ha bisogno di varie partner per spargere il suo seme è un bel condizionamento sociale. Provare attrazione nei confronti di più persone è normale, ma non vedo nulla di male in un po' di autocontrollo. Altra idea interessante e molto evoluta per l'epoca: attraverso il sesso ci si «perde» nell'altro Nell'unione sessuale si crea qualcosa di nuovo perché si dissolvono le proprie barriere. E questo fa paura? Fondersi con un'altra persona rende molto vulnerabili, e non basta nemmeno: se vuoi mantenere una connessione profonda con un partner, devi cambiare la testa e pensare a lei, non più solo a te stesso. Gli uomini hanno paura di perdersi in questo senso? Parlando per stereotipi, sono spaventati dalla perdita del controllo. Dagli uomini ci si aspetta che dominino le emozioni e il grado di coinvolgimento. Quindi il macho è colui che non si fonde con nessuno? È così. E quando certi uomini vanno in giro dicendo con quante donne sono stati a letto, tentano di coprire un 'insicurezza, «forse non sono abbastanza interessante se non faccio sapere a tutti che sono stato con...». Vale anche per alcune donne, naturalmente Freud non volle raccontare un suo sogno a Jung, lei ce ne racconterebbe uno suo? Sono in piedi davanti a una casa, con la porta aperta. Davanti a me c'è un corridoio con varie porte e persone che leggono fumetti e giornali. Io sono fuori e guardo un albero. Un corvo col becco di un pappagallo viene da me e mi becca un occhio, tirandolo fuori dall'orbita. lo rientro in casa, vado a leggere i fumetti e mi accorgo che la vista è sempre più debole. A quel punto, il sogno finisce Succedeva tra i 7 e i 30anni. Tornando al sesso, si sostiene che sia la cosa più piacevole è anche quella che reprimiamo di più. E vero e questo causa un sacco di problemi, rende la gente persino violenta. Molti di coloro che diventano presidenti o primi ministri sono uomini che avrebbero dovuto confrontarsi con i loro problemi sessuali. Fanno guerre, combinano casini nel mondo proprio perché non hanno capito cene dinamiche legate al sesso. Perché il sesso è così represso? In parte per quello che dicevamo prima, perché anche se cerchi di evitarlo, e dici che non significa niente, in realtà fisicamente implica impegnarsi in qualcosa, interagire in modo intimo, cioè coinvolgersi e diventare emozionalmente vulnerabile. E questo spaventa. Qual' è la cura? Ascoltare una persona chiedersi che cosa sente, avere interesse per l'altro. Quello che offre a una donna sono spazio e attenzioni? Anche a un uomo, direi. Se fai sesso o ti relazioni con qualcuno, meglio che lo ascolti, meglio per l'altro, ma meglio anche per te. Recensioni Paola Casella. Europa Ci sono autori che non smettono mai di crescere. Uno di questi è David Cronenberg, il regista canadese che ha esordito sul grande schermo negli anni Settanta e Ottanta dedicandosi prevalentemente all’horror e alla tematica dell’ibridazione fra uomo e tecnologia. Negli ultimi anni Cronenberg ha compiuto una svolta di maturità che lo ha portato ad essere sempre più accessibile al grande pubblico. L’attore alter ego del regista in questa sua svolta è Viggo Mortensen, un divo sui generis poiché dietro l’apparenza atletica e belloccia (era l’Aragorn della saga de Il signore degli anelli) nasconde un cervello di prim’ordine (è poeta, musicista, pittore e parla correntemente sette lingue). Mortensen è stato il protagonista di A history of violence, il primo film del cambiamento di Cronenberg, e poi de La promessa dell’assassino, entrambi eccellenti esempi di una capacità di rinnovamento per rendere più comprensibili i temi di sempre: la riflessione sull’evoluzione e involuzione maschile, sulla sessualità e le sue perversioni, sulla violenza come componente imprescindibile (ma non per questo giustificabile) della natura umana. Temi che confluiscono anche in A dangerous method, insolito triangolo intellettuale ed erotico fra Sigmund Freud (Mortensen, appunto), Carl Jung (interpretato dal divo del momento Michael Fassbender) e la loro paziente Sabina Spielrein (Keira Knightley). La prima scelta che Cronenberg compie è estetica: il regista, noto per le sue scene d’azione attentamente coreografate, sceglie qui di raggelare ogni movimento in una serie di tableaux vivant incorniciati da ambientazioni di primo Novecento, periodo di furiosi fermenti intellettuali e scientifici compressi e confinati in una società rigida e poco disposta al cambiamento (un contrasto che, poco dopo le vicende narrate, sarebbe esploso nella prima guerra mondiale). All’interno di queste «quinte teatrali» che ricordano quelle ideate da Rohmer per La nobildonna e il duca, i personaggi si muovono come burattini con o senza fili, a seconda di quanto, in quel momento, prevalgano in loro l’impulso vitale o le convenzioni della società mitteleuropea di inizio Novecento. Con grande ironia Freud e Jung rappresentano contemporaneamente il punto alto del ragionamento umano e la fallibilità della natura degli uomini, principalmente maschi. Se infatti Sabina Spielrein è aperta alla sperimentazione (anche sessuale) e alla novità fino alle estreme conseguenze (e nel suo caso furono davvero estreme: morì uccisa dai nazisti insieme alle figlie), la mente e il corpo di Jung e Freud restano parzialmente immobilizzati nelle convenzioni e convinzioni che li hanno preceduti e seguiti, e nella debolezza intrinseca della loro natura. Se dovessimo riassumere il tema principale di A dangerous method, diremmo: la fragilità dell’ego maschile, illustrata con grande tenerezza e comprensione da un uomo, il regista, che ancora oggi si domanda, con grande onestà intellettuale, perché le donne (e soprattutto la loro sessualità) gli incutano così tanta paura, e perché gli uomini, così capaci di procedere come frecce acuminate verso un obiettivo, permettano che intime debolezze alterino il percorso della loro mente e del loro corpo. Il difetto di A dangerous method è sicuramente l’eccessiva didascalicità: essendo indirizzato prevalentemente ad un pubblico nordamericano che probabilmente conosce poco le vicende della Vienna di inizio secolo scorso (e non ha certamente visto il film di Roberto Faenza, Prendimi l’anima, che trattava della relazione fra la Spielrein e Jung), il film si preoccupa di spiegare tutto, costringendo gli attori a occasionali monologhi da sussidiario. Ma la maestria visiva di Cronenberg nel contrastare tormenti interiori e ambienti ordinatissimi, furia sessuale e struttura familiare, ipocrisie sociali e umane verità è strabiliante, e i due attori protagonisti sono abilissimi nel mostrare le sfaccettature contraddittorie dei loro ruoli. Keira Knightley invece è fisicamente perfetta per incarnare il tipo di sensualità sofferta e spigolosa decantata da Klimt e da Schiele, non a caso contemporanei di Freud. A dangerous method funziona per coppie di opposti, occasionalmente spaiate dalla carta matta femminile, che sono lo specchio dei contrasti dell’epoca: poveri e ricchi, ariani ed ebrei, padri e figli. E trova un modo originale per illuminare le debolezze degli uomini ed illustrarne le conseguenze sulla Storia. Daniele de Angelis. Cineclandestino.it Si dice che i grandi autori girino in fondo sempre lo stesso film, peraltro senza mai ripetersi perché consapevoli di come lo scarto risieda tutto nella prospettiva da cui l'opera viene narrata. Anche in A Dangerous Method - presentato nel Concorso Ufficiale di Venezia 2011 - affiorano tutte le tematiche care a quel geniale regista di nome David Cronenberg, cineasta che ha esplorato generi e infinite risorse della Settima Arte con una coerenza unica che non finisce mai di stupire. Nel corso del tempo e dei film Cronenberg è passato dalla mutazione fisica, rappresentata nei suoi horror più estremi e devastanti come i primi della sua ormai lunga carriera, a quella psicologica e dell'anima, resa esplicita attraverso uno stile fatto di immagini e parole dove il lavoro di sottrazione e sintesi è sempre di una esemplarità totale. Con sullo sfondo la cronica incapacità umana di afferrare quel cosiddetto carpe diem che l’esistenza ogni tanto propone, nel nome di un pessimismo tipicamente cronenberghiano che pellicola dopo pellicola è andato affinandosi in meravigliosa vis poetica. Definire compiutamente un’opera quale A Dangerous Method risulta, al solito, impresa impossibile. Potrebbe sembrare a prima vista un viaggio dal sapore vagamente didattico agli albori della psicoanalisi nel racconto del rapporto tra i padri putativi Sigmund Freud e Carl Gustav Jung, ma ovviamente tale affermazione condurrebbe totalmente fuori strada. Per Cronenberg infatti la psicoanalisi - e l’incontro artistico tra lui e i due numi tutelari pareva davvero scritto nel destino… - non è mai un fine, ma un mezzo per proseguire il proprio sempre aperto discorso sull’incompiutezza dell’identità umana, sempre inevitabilmente in cerca di qualcosa di differente anche quando si tratta, diegeticamente parlando, di luminari di uno specifico campo della medicina. Ed infatti il motore narrativo di A Dangerous Method non è identificabile nei due illustri personaggi maschili - benissimo interpretati dal fido Viggo Mortensen e dalla rivelazione Michael Fassbender - ma in quello femminile, segnatamente nella Sabina Spielrein (una maiuscola prova d’attrice di Kiera Knightley, in tutta evidenza alle prese con un ruolo spartiacque della sua ancor giovane carriera…) dapprima paziente di Jung ed in seguito collaboratrice di Freud. Donna capace, con la sua sensibile ed acuta femminilità (l'ennesima vittoria della Carne "cronenberghiana"), di portare il primo, attraverso un rapporto sentimentale a dir poco sfaccettato, all’amara comprensione di se stesso ed il secondo a rimettere in discussione le proprie certezze teoriche nello specifico campo di pertinenza. A Dangerous Method, tra i tanti volti mostrati, è uno straordinario racconto di decostruzione umana, articolato in una serie di scatole cinesi dove come sempre lo spettatore deve obbligatoriamente intervenire per colmare cesure altrimenti destinate a rimanere vuote e erranti, in nome di quella che è la differenza centrale tra il cinema narrativo e quello che non fornisce risposte ma pone esclusivamente domande, peraltro sempre condotte sul filo di una inderogabile ambiguità. Se in Spider (2002) Cronenberg aveva realizzato una sorta di perfetta soggettiva di una mente umana in assai precario equilibrio sul baratro della follia, riguardo A Dangerous Method si ritorna alla stessa tematica, ma azzerando gli scarti tra il mondo immaginario e quello (forse) reale. Ed infatti la figura della Spielrein pencola tra pazzia iniziale e la lungimiranza illuminata del finale (diventerà psichiatra a propria volta), da paziente quasi irrecuperabile ad unica possibile curatrice del male nemmeno troppo oscuro di Jung, character a cui Cronenberg riserva tra le righe la sua solidarietà perché non fossilizzato in sterili certezze. L’epilogo di A Dangerous Method si tinge così spontaneamente dei toni da melodramma “raffreddato” tanto cari al cineasta canadese: il vero amore - sia pur nelle forme più diverse e bizzarre - passa accanto solo una volta nella vita senza essere colto nell’interezza del suo significato nell’unico momento opportuno. E dopo, anche un singolo attimo, sarà sempre troppo tardi. Resta, in uno dei tipici finali magistrali alla Cronenberg, solo la certezza di aver finalmente compreso la verità, del tutto spogliati di ogni ipocrisia; ma rimanendo in solitudine su una panchina, a contemplare un futuro carico in quel remoto passato come ora - di fosche nubi in avvicinamento. L’Uomo è infine solo. Impotente di fronte a sconvolgimenti epocali (guerre e nazismo erano alla porte) ma vivo. Con in mano, forse, la chiave per l’accesso ad un qualsiasi senso. Ammesso che esso esista; nella vita al pari di questo ennesimo, mai scontato e sempre “scomodo”, capolavoro cronenberghiano. Alessandra De Luca. Avvenire I demoni sotto la pelle sono sempre stati i grandi protagonisti del suo cinema, capace di fotografare paranoie e mutazioni, contagi e abissi della mente. Ieri le ossessioni di David Cronenberg sono tornate al Festival di Venezia dove in concorso è stato presentato 'A Dangerous Method', il film che mette a fuoco gli albori della psicoanalisi già entrata prepotentemente in campo in uno dei suoi film precedenti, 'Spider'. (...) Affidandosi a lunghi e fitti duelli verbali (non a caso il film è tratto dal testo teatrale 'The Talkin Cure' di Christopher Hampton, anche sceneggiatore della pellicola), Cronenberg usa come al solito la macchina da presa come un bisturi per sezionare questa volta non la carne, bensì l'intelletto dei suoi personaggi, registrando crolli emotivi e dolorosi strappi, tumultuosi sentimenti che irrompono in claustrofobici ambienti sociali e desideri inconfessati che chiedono di essere riconosciuti. Se Jung contesta a Freud la rigidità della teoria che vede nella sessualità l'origine dei disturbi del comportamento, il maestro rimprovera all'allievo il suo interesse per il misticismo. Se Freud non intendeva curare i pazienti, ma aiutarli a prendere coscienza della propria situazione e accettarsi, Jung era convinto si potesse offrire loro una via di salvezza. Prima che la psicanalisi modificasse per sempre la consapevolezza di sé delle persone, sembra dire il regista, c'è chi ha visto formarsi sulla propria pelle le cicatrici indelebili di una trasformazione epocale del pensiero moderno. «C'è cosi tanto materiale prezioso nelle lettere che questi tre personaggi si sono scritti per anni - dice il regista - che non è stato difficile ricostruire i rapporti intercorsi tra loro. Fare un film ambientato in un'epoca diversa è una grande sfida, perché non puoi semplicemente mettere gli attori in abiti antichi e sperare che questo basti. È una questione etica, bisogna saper comprendere e catturare lo spirito del tempo». Giovanni Bogani. La Nazione Keira Knightley, David Cronenberg, Viggo Mortensen, Michael Fassbender. La piratessa dei Caraibi, qui tuffata agli inizi del Novecento, chiusa in manicomio, nelle vestaglie di Sabina Spielrein, paziente e poi amante di Carlo Gustav Jung: prima psicotica, poi a sua volta psicanalista. Una storia che era stata raccontata anche da due registi italiani: Roberto Faenza con "Prendimi l'anima" e Carlo Lizzani in "Cattiva". A raccontarla, stavolta, David Cronenberg, regista dei film più psicotici e psichedelici che si possano immaginare, da La mosca a Crash. Al loro fianco in "A Dangerous Method", in un cast in cui spicca anche Vincent Cassel, due sex symbol. Freud, nel film, ha il volto di Viggo Mortensen, attore/feticcio di Cronenberg. Qui, è un padre della psicanalisi vagamente western. Jung, il suo allievo più soft, meno dogmatico e più letterario, è Michael Fassbender. Che per ironia della sorte è in Shame di Steve McQueen proprio uno di quei tipi che Jung dovrebbe curare: un malato di sesso compulsivo e ossessivo. «Ho imparato a conoscere Jung grazie a un libro per ragazzi, tipo "Tutto quello che volete sapere su Jung" - dice Fassbender -. Ma la sceneggiatura era così precisa che alla fine mi sembrava di averlo studiato io stesso». Se Fassbender si è preparato con un Bignami, il regista David Cronenberg è invece un cultore della materia: «Abbiamo recuperato gran parte delle lettere che si sono scambiati Sabina Spielrein e Cari Gustav Jung», dice. «A quel tempo, le lettere erano come le mail di Internet: ne scrivevano anche due al giorno, e ognuna era ricca di riferimenti alla vita quotidiana. Ma niente paura, il mio film non è un esercizio accademico. E' anche divertente. Volevo raccontare Jung e Freud non attraverso le loro posizioni intellettuali, ma tramite le loro passioni umane, il loro orgoglio che li faceva diventare puntigliosi come bambini». A chi gli chiede come mai questo film sia stilisticamente molto più "normale" del solito, Cronenberg risponde: «Sono cambiato. Prima esploravo tutte le possibilità del cinema. Ora no. Do al film quello che la storia richiede. Non mi sento in dovere di "cronenberghizzare" per forza un film». Come ha scelto il cast? «Avevano tutti bisogno di una terapia psicanalitica. Li ho presi per farli familiarizzare con l'idea», scherza il regista. «Adesso sono molto migliorati: si vestono da soli». Poi Cronenberg si fa serio: «Che cosa volevo raccontare? Una delle più grandi rivoluzioni del mondo. Fino a quel momento si credeva che gli esseri umani fossero sulla via per diventare angeli. La psicoanalisi ha infranto questa illusione: ha detto che siamo tutti animali, che la coscienza è solo una parte della nostra anima. Che il suo fondo torbido ne è la vera sostanza». Silvio Danese. Il Giorno Nei film di David Cronenberg, tra i massimi cineasti del nostro tempo, le pulsioni di amore, sesso, violenza, polimorfismo, morte, vivono momenti felici di vetilà nascoste illuminate bene. Citiamo Crash e Il pasto nudo, perché sono prodotti da Jemey Thomas, che è tornato a lavorare con Cronenebrg per A Dangerous Method, ma più recenti e frequentati dal pubblico sono A History of Violence e La promessa dell'assassino. Fare un film sollecitando la biografia e le idee di Jung e Freud, per Cronenberg è una scelta intellettuale, intima, come se un chirurgo, tra mille operazioni, decidesse di fermarsi un momento e capire come è diventato un medico che taglia corpi. Ricostruendo (da una pièce di Christopher Hampton) i dettagli storici delle esplorazioni scientifiche, tra Zurigo e Vienna, del 30enne Jung (Michael Fassbender) e del suo mentore 50enne Freud (Viggo Mortensen), Cronenberg tiene stretti nel film, e nella logica emotiva e intellettuale dello spettatore, i fili della passione tra l'insoddisfatto Jung e la nevrotica Sabina (Keira Knightley, candidata alla Coppa Volpi), che suggerì la questione della tensione mortale della sessualità. E' una scelta fondamentale: in quella relazione, supervisionata da un Freud trincerato nelle sue convinzioni, ci sono luci, ombre, materia e ossessioni di una delle grandi scoperte dell'umanità. Figli di ogni crisi della mente mentre diventavano genitori della psicoanalisi. Marco Minniti. Movieplayer.it C'era molta attesa intorno a questo A Dangerous Method, film nato da una piece teatrale che il suo stesso autore Christopher Hampton ha trasformato in una sceneggiatura; una storia che esplora da vicino i torbidi ed ambigui rapporti tra tre personalità che si riveleranno fondamentali per l'evoluzione della scienza psichiatrica del ventesimo secolo. Non è casuale l'interesse per un soggetto come questo da parte di un regista come David Cronenberg, la cui evoluzione, negli ultimi anni, è stata peculiare: dalla graficità corporea delle sue pellicole degli anni '80 e (in parte) '90, alla predilezione di soggetti sulla carta più classici (A History of Violence e La promessa dell'assassino), in cui le ossessioni del regista canadese si sono spostate sul piano della mente e dei suoi labirinti, e in cui il tema della mutazione che da sempre lo affascina è divenuto tutto interno alla psiche umana, senza per questo perdere in pregnanza e forza espressiva. Cronenberg, qui, prosegue coerentemente in questo discorso, lavorando di nuovo su un soggetto non suo e insinuando nelle pieghe del racconto le sue tematiche di sempre, in quel binomio tra sesso e morte, pulsioni erotiche e istinti autodistruttivi, che qui viene asciugato di ogni spettacolarità filmica e fatto risalire alla sua fonte originale. C'è una riflessione sul potere e sulla dipendenza, sul desiderio di possesso e sulla voglia di plasmare e riplasmare l'altro (che sia un amante o un proprio allievo) a proprio piacimento; c'è l'eterno contrasto tra natura e cultura, tra la necessità di soddisfare le proprie pulsioni e l'imperativo sociale di reprimerle, e i diversi modi di affrontare e gestire, da parte di ognuno, questo dualismo. Ci sono, soprattutto, tre personalità forti che tentano di trovare un riscontro, nel complesso intrecciarsi dei loro rapporti, alle teorie da loro elaborate, finendo per venirne consumati e profondamente cambiati. Il tema della mutazione torna dunque sul piano dei rapporti interpersonali, e su quello più squisitamente sociologico, come pretesa da parte della società di modificare l'individuo reprimendone gli istinti più profondi: l'unico personaggio che, nel film, sembra essere immune da questo processo è quello di Otto Gross, psichiatra dal carattere amorale e nichilista passato sotto le cure di Jung, e il cui sfrenato individualismo finisce per avere un'influenza fondamentale sul giovane psichiatra e sul rapporto con la sua paziente. Quello che tuttavia ci si chiede, guardando questo A Dangerous Method, è se 100 minuti non siano forse troppo pochi per sviscerare tutti i temi contenuti in una sceneggiatura sì equilibrata ma che, specie nella prima parte, stenta un po' a far emergere il necessario aspetto emotivo della vicenda. La stessa componente sadomasochistica del rapporto tra Jung e Sabina, conseguenza delle drammatiche esperienze infantili di quest'ultima, non gode di un adeguato approfondimento, se non nei termini, piuttosto superficiali, di un rovesciamento dei rapporti di potere e del ruolo realmente dominante tra i due, che nell'ultima parte del film è decisamente appannaggio della ragazza. La regia è caratterizzata dal consueto rigore e dalla complessiva asciuttezza che abbiamo visto nel Cronenberg più recente, squarciata solo dai momenti, visivamente più forti, degli incontri tra i due amanti; ma sembra anch'essa soffrire, a tratti, di un'ingessatura tra le maglie di uno script che non sempre riesce a dare il necessario spessore ai personaggi e alle loro vicende. Personaggi che comunque godono di buone caratterizzazioni, dall'inquieto Michael Fassbender al volutamente granitico Viggo Mortensen nei panni dei due colleghi-rivali, oltre a un Vincent Cassel beffardo ed efficace nel ruolo di Otto Gross, e soprattutto a una Keira Knightley che supera brillantemente le insidie del ruolo, dando spessore, forza emotiva e credibilità al personaggio della futura psichiatra Sabina. Prove attoriali che si rivelano un elemento fondamentale di un film sì imperfetto ma affascinante, che conferma il suo autore come esponente di un cinema in grado di rimettersi sempre in gioco, senza aver paura di suscitare discussioni ed, eventualmente, dividere. Federico Pontiggia. Il Fatto quotidiano “La psicanalisi è servita. Erano attori nevrotici, ora ridono e si vestono da soli: sono diventate persone migliori". In A Dangerous Method ha messo sul lettino Viggo Mortensen (Freud), Michael Fassbender (Jung) e Keira Knightley (Sabina Spielrein, la donna del triangolo), David Cronenberg per ora ci scherza su, e cazzeggia: "Ho 68 anni come la Mostra, e sono nato il 15 marzo come Le idi di Clooney” Ma riderà col Leone in mano? Domanda da strizzacervelli, anzi, da critici: A Dangerous Method è un film di Cronenberg? A ributtare gli occhi su La mosca, Inseparabili, M. Butterfly, il pedigree non si trova. Il regista canadese s'è normalizzato, fa il suo onesto compitino, filologicamente corretto e poco più, e ha il coraggio di ammetterlo: "Forse sono cambiato, è vero. Il tempo che dedico alle riprese non è più quello di una volta, al montaggio sono molto più veloce. Ma dò sempre al film quello che mi chiede". Forse uno qualsiasi andrebbe bene, ma da lui - nonostante la china degli ultimi Spider, A History of Vìolence e La promessa dell'assassino - era lecito aspettarsi di più. Sullo schermo grande di Venezia, viceversa, approda "una torbida storia di avvincenti scoperte in nuovi territori della sessualità e dell'intelletto" già pronta per il piccolo schermo, ma il punto è un altro: a chi interessa ancora la singolar tenzone tra Freud e Jung, che ha già riempito migliaia di pagine e fotogrammi? Se Mortensen e il superfìgo Fassbender mettono fascino e bravura e Vincent Cassel dà amoralità a Otto Gross, la Knightley fa l'isterica statuina, si becca le sue goduriose sculacciate da Jung e non convince mai: Cronenberg la paragona "allo scienziato della Mosca che prova su di sé la scoperta", ma Keira fa solamente di scucchia virtù. Tra le immagini che non dimenticheremo di Venezia 68 c'è il suo prognatismo: la mascella tirata fuori istericamente, le dita a uncino, il pericolo è qui e ora, altro che metodo. Ma è in buona compagnia: il Philippe Garrel di Un été brulant tratta la Bellucci come il suo maestro Godard trattò la Bardot de II disprezzo, ovvero - sarà la Laguna? - a pesci in faccia. Giorgio Carbone. Libero Il "metodo pericoloso" del titolo è quello freudiano. Che un secolo fa scoperchiò la pentola dell'inconscio dando un nome alle più represse pulsioni sessuali. Il "metodo" è già materia di studio quando alla vigilia della Grande Guerra il giovane psichiatra Cari Gustav Jung scrive (la prima di una marea di epistole) al "padre" del metodo Sigmund Freud proponendosi come devoto allievo. Jung ha in cura una ragazza ebrea, Sabina Spielrein traumatizzata da esperienze infantili. Jung chiede a Freud consigli e il "maestro" glieli dà. Con ottimi risultati (la ragazza migliora). Ma Freud gli manda anche (scambi tra colleghi legati da reciproca stima) anche un suo paziente. Otto Gross, uno psicopatico porcellone che si vanta di aver buttato nel cesso ogni remora morale (Freud, benché ateo, risente dell'educazione ebraica, Jung, poi è figlio di un pastore luterano). Gross prevarica il fragile Jung. Ma cosa aspetta a prendersi la bella ragazza? (…). Piacerà un sacco. Almeno a due categorie di persone. A coloro che amano molto l'ultimo David Cronenberg ("La promessa dell'assassino", "History of violence") e solo a corrente alternata quello delle opere precedenti (sì per"Inseparabili", no di brutto per "Il pasto nudo" e "Spider"), sì a quelli che dai tempi di "Relazioni pericolose" stimano Christopher Hampton come uno dei maggiori scrittori di cinema e teatro viventi. Messe da parte le sue tematiche sui parassiti afrodisiaci, David si conferma qui grande narratore e grandissimo direttore d'attori (Keira Knightley sembra nata per la parte, Viggo Mortensen è un Freud plausibilissimo e il muscolare Michael Fassbender suggerisce bene il nevrotico arrivismo di Jung). Christopher Hampton. Come con "Relazioni pericolose" alla base della sceneggiatura ci sono delle lettere (che nel romanzo epistolare di Chrodelos de Laclos erano inventate). Qui invece a essere rielaborato e l'autentico, fittissimo carteggio tra Freud e Jung. Si scrissero moltissimo i due grandi. Scrivere, scrivere e scrivere di nevrosi e di follia era un mezzo per esorcizzare i rispettivi fantasmi, depositarli nel limbo del pezzo di carta. Hampton li fa esorcizzare forsennatamente fino all'inevitabile conclusione che tutto, proprio tutto non si può esorcizzare. Mariuccia Ciotta. Il Manifesto Una pièce tira l'altra, e dopo Polanski, Cronenberg con il suo A Dangerous Method (concorso), spericolata indagine sulla triade d'oro della psicoanalisi, Sigmund Freud, Carl Gustav Jung e Sabina Spielrein, new entry nel mondo degli strizzacervelli in seguito alla scoperta del suo epistolario. Succede però che il «ritrovamento» di grandi protagoniste della storia non superi le ragioni della loro cancellazione. Scomode presenze negli indici accademici. Così il film presenta: Freud, Jung e Sabina. Lei, donna-schermo, trait-d'union di una relazione impossibile, personale e teorica tra il macho Sigmund (Viggo Mortensen) con la sua «fissazione» sul sesso, esibito in forma di sigaro a lunga durata, e il femmineo Carl Jung (Michael Fassbender, Hunger di Steve McQueen), l'allievo prediletto, futuro erede dell'autore dell''Interpretazione dei sogni In mezzo, lei, la 18enne russa Sabina (Keira Knightley, Pirati dei Caraibi) che arriva alla clinica di Zurigo del 29enne Jung come una donna-lupo, isteria a mille, una furia. L'attrice deforma il suo visetto da testimonial di Coco Chanel in una maschera dell'orrore, digrignante e tremante, prima di abbandonarsi alla freudiana «terapia delle parole» applicata da Jung. Lo stupore morale di Cronenberg, canadese di rigore calvinista, ci ha regalato i migliori incubi con Videodrome, La Mosca, Crash, Spider fino al delirio purissimo dì eXistenZ ed è qui a confronto con le origini della «malattia». Raccontami la tua infanzia... Ma come è successo a Polanski, anche Cronenberg deve spremere i suoi demoni da un testo «moderato», la sceneggiatura di Christopher Hampton, pluripremiato drammaturgo inglese, autore di script di successo che ha tradotto per il cinema il suo lavoro teatrale, The Talking Cure (ispirato al libro di John Kerr, A Most Dangerous Method). In campo c'è il produttore Jeremy Thomas, già in tandem con Cronenberg in Crash e in II pasto nudo. D segno del regista è più un mood sotterraneo e (come per Polanski e Garrel) un modo di fare cinema per cui il film lievita e vola via, lontano dai «caratteri», da questa Sabina amante appiccicosa di Jung, sempre pronto a sculacciarla per darle godimenti di paterna memoria A corrompere l'impettito studioso, sposato con una prolifica Emma (notevolissima Sarah Gadon dal viso spettrale) ci pensa un degenerato Otto Gross (Vincent Casse]), psicanalista sfrenato nel seguire la terapia del piacere, e fautore della poligamia. Insomma, Jung si abbandona a pensieri erotico-mistici, astrologia, spiritualismo... new age. Freud non Io sopporta, lo mette in guardia, ma. paradossalmente, il pansessista Jung comincia a diffidare del binomio freudiano sessualità-disordini emotivi. Mentre se ascoltasse un po' di più Spielrein. invece di frustrarla, il dissidente approderebbe in anticipo al femminismo cyborg di Judith Butler e Donna Haraway passando per Simone De Beauvoir. Teorie sul (trans) gender che Freud ha ben illuminato. Il padre della psicoanalisi in questi quadretti bignami fa invece una figuraccia, un po' trombone e, a sorpresa, sionista. Sarà vero che per conquistare alla sua causa Sabina Spielrein e allontanarla dal ricco borghese «esoterico» Jung le ricordi «che noi ebrei dobbiamo stare insieme»? Siamo più o meno nel 1933, l'anno di Hitler. Nel 1941 la psicoanalista dimenticata che ha suggerito a Freud di considerare il sesso come una «perdita di sé», una frantumazione dell'io, in bilico sulla pulsione di morte, fu catturata e uccisa dai nazisti insieme alle sue due figlie. A lei, Roberto Faenza ha dedicato nel 2003 Prendimi l'anima, concentrato sul carteggio epistolare con Jung. Speriamo in un sequel. Alessandra Levantesi Kezich. La Stampa Nel reparto psicologia di molte librerie, all'opera omnia dell'austriaco dottor Freud e dello svizzero dottor Jung è giustamente riservato uno scaffale a parte, speciale. E chissà che direbbero i due padri fondatori della psicoanalisi nel vedersi così emblematicamente riuniti, considerato che per profonde divergenze teoriche spezzarono nel giro di pochi anni un rapporto maestro (Freud)- allievo (Jung), avviato in maniera promettente. A Dangerous Method di David Cronenberg ripercorre fra il 1904 e il 1913 le tappe principali di quell'incontro/scontro, nel quale giocò importanza fondamentale la presenza di un terzo personaggio (anch'esso reale): Sabina Spielrein, fanciulla ebreo-russa malata di isteria su cui per prima Jung sperimentò la «talkative cure» inventata da Freud. Nel 1906 Sabina è guarita e perdutamente innamorata del suo mentore. Lui cede alla passione (proibita, in quanto medico e uomo sposato), scoprendo di sé un io segreto, fino a quel momento represso; poi rompe il legame perché troppo «codardo filisteo borghese» per lasciare la moglie ricca e comprensiva. Intelligente e dotata, Sabina passa allora a studiare con Freud, maturando personali intuizioni sul rapporto intrinseco sesso/ morte: mentre il mistico, sciamanico Jung si fa sempre più sicuro che l'idea freudiana di mettere la libido alla base di tutto sia riduttiva. Il film incornicia l'intrigante triangolo nel paesaggio rasserenato, tranquillo dei laghi svizzeri e della Vienna austro-ungarica, prima che l'Europa venga inondata del sangue della Grande Guerra. Interni agiati e confortevoli, belle ville, un avanguardistico ospedale psichiatrico: nella fotografia di Peter Suschitzky tutto appare luminoso, mentre il copione di Christopher Hampton, autore del dramma ispiratore della pellicola, mette a contrasto dialoghi di cristallina finezza non disgiunta da ironia con aggrovigliate situazioni provocate dal sotterraneo caos delle emozioni. E' probabilmente lo scarto fra le idee e il fattore umano che ha fatto scattare l'interesse di Cronenberg, autore postmoderno nella sua vocazione a sviscerare l'animo dei personaggi con la freddezza del vivisezionatore. Qui si direbbe che il regista canadese abbia deciso di ripartire da zero. O meglio dall'inizio, quando in un mondo ancora formale, illuso di un'idea continua di progresso, si affacciarono due rivoluzionari l'ebreo e il protestante, il razionale e lo spiritualista - che, svelando le dinamiche misteriose dell'inconscio, diedero una micidiale scossa a un apparato sociale che pareva indistruttibile: «Lo sanno che gli stiamo portando la peste?» dice Freud sbarcando in America. Michael Fassbender (Jung) e Viggo Mortensen (Freud) sono perfetti, buona la partecipazione di Vincent Cassel, Keira Knightley è attrice che non riesce a convincerci. Maurizio Porro. Corriere della Sera Rotta Zurigo-Vienna, primi del 900: strano triangolo quello formato dai professori Freud e Jung e dalla paziente Sabina Spielrein che poi entrerà nella società psicanalitica, non senza aver fatto prima litigare due santoni dell' inconscio, amoreggiando con Carl Gustav, marito e padre devoto quando vuole lui e reputato dal rivale sciamano brutale e bigotto. Così dopo tante citazioni freudiane di Allen e junghiane di Fellini, i responsabili vengono impietosamente analizzati da Cronenberg nel suo film meno genuflesso al suo stile ma imploso in interni dentro almeno tre nevrosi che si fanno dialogo, dubbio, intelligenza critica assai interessante partendo dal testo di Christopher Hampton, specialista in «relazioni pericolose», A talking cure personalmente ridotto e dal libro di John Kerr A dangerous method. Vengono chiamati sulla chorus line del subconscio molti fattori, il solito Edipo, il connubio ErosThanatos, la famiglia e i suoi orrori, e si cita Wagner, si sentono cavalcare le Walkirie, si accenna al fatto che tutti gli psicanalisti a Vienna erano ebrei nel presagio della persecuzione che verrà, mentre Hugo Bettauer ipotizzava il romanzo La città senza ebrei. Ben tornato al cinema di parola, come Carnage di Polanski, che non rinuncia ad essere un ping pong d' emozioni e di infelicità attuali ma scoperte allora: «Lo sanno che stiamo arrivando a portar loro la peste?», si chiede Freud mentre sbarca a New York. Certo la psicanalisi ha rivoltato il cinema, cui è coeva, e il film di Cronenberg ne tiene il dovuto conto, protetto da una rassicurante patina di ovvietà scientifica che acuisce lo strano ménage a tre in parte già raccontato da Faenza in Prendimi l' anima. E di sicuro senza vincitori né vinti: il dr. Freud, che somiglia a Cecov e mastica enormi sigari fallici, resta pansessuale (Viggo Mortensen crede di essere in un western, pronto alla pistola); Jung, magnifico attore Michael Fassbender, curiosa nel misticismo e Sabina, una Keira Knightley che finalmente senza pirati tra i piedi ci fa vedere come si soffre, viene uccisa in sinagoga dai nazisti dopo essersi maritata. Cronenberg - ora pronto per raccontare la seducente storia della clinica per malati di mente del dr. Blanche - non si accontenta dei fatti ma getta sulla cronaca psicanalitica il germe d' una passione vitale e misteriosa, come una nemesi storica verso chi ha creduto di aver schedato tutte le nostre patologie, mentre ne manca sempre una. Fabio Ferzetti. Il Messaggero Un film gelido e molto controllato su una delle relazioni più bollenti del '900. Uno dei registi più visionari di oggi alle prese con una materia così incandescente (e con personaggi talmente imponenti) che finisce per raffreddare e razionalizzare tutto. La vera storia dello strano triangolo che unì Jung, Freud e Sabina Spielrein, trasformata in cinema sulla base della commedia di Christopher Hampton «The Talking Cure», a sua volta ispirata al libro di John Kerr «A Most Dangerous Method». Dunque piena di dialoghi, di sedute analitiche, di scambi teorici fra Freud e il suo più illustre allievo. Cui fa da controcanto la relazione proibitissima tra Jung e la sua paziente Spielrein, isterica, masochista, autodistruttiva, ma anche colta, poliglotta, dotata di un'intelligenza e un talento che sedurranno lo stesso Freud. Sia pure, almeno nel suo caso, solo sul piano scientifico. Chi si aspettava che Cronenberg avrebbe fatto Cronenberg si disilluda. Stavolta fa il bravo ragazzo. Le sculacciate inflitte all'entusiasta Sabina Spielrein sono riprese con freddezza chirurgica. Il gioco straziante di attrazione e tenore che avvicina e allontana più volte negli anni medico e paziente, non genera scene visionarie ma resta nei confini di una violenza tutta intcriore, più enigmatica che inquietante. Così la scena più «hard» e perversa di «A Dangerous Method» è quella in cui Jung mette alla prova la giovane paziente coinvolgendola nella seduta di analisi della moglie (incinta per giunta). Che si sottopone alla terapia delle libere associazioni mentre Jung cronometra con puntualità davvero svizzera (e quasi comica) i suoi tempi di reazione. In tanta compostezza, il cardine segreto del film finisce per essere lo psicanalista selvaggio Otto Gross (Vincent Cassel), eretico e outcast che predica e pratica la liberazione di ogni pulsione (...). Poche scene ma decisive, considerando anche la biografia di questo reietto tossicomane e forse psicotico ma a suo modo geniale, destinato a morire di stenti e rimosso per decenni dalla psicoanalisi ufficiale, ma amico di Kafka e intellettuale influente. Chissà, magari senza un copione così strutturato, Cronenberg gli avrebbe dato ben altro peso. Vedrete che prima o poi qualcuno lo farà. Piera De Tassis. Panorama Chi si aspettava da Cronenberg un film alla Cronenberg non troverà ossessioni e visioni, follie ed eccessi delle sue pellicole precedenti. Insomma, siamo sempre a livelli alti, ma manca la zampata che aggredisce nella carne, come l'acciaio nel suo capolavoro Crash. Il regista canadese mette in scena con fredda, chirurgica razionalità le tensioni profonde che regolano i rapporti tra il giovane psicoanalìsta Cari Gustav Jung, il suo mentore Sigmund Freud e la tormentata russa Sabina Spielrein, isterica e disturbatissima, che diventerà paziente e amante del primo, poi psicoanalista lei stessa, contribuendo alle teorie sulla sessualità del secondo. L'idea di Cronenberg, che si ispira per il film alla pièce teatrale di Christopher Hampton, è quella di mettere a nudo corpo e anima dei personaggi costringendo sul lettino i due pionieri della terapia della parola e facendoli interloquire in compostissimi dialoghi teorici affinché emergano le nevrosi di un'umanità fino a quel momento schiacciata tra rigide convenzioni sociali e incandescenti desideri repressi. L'isterica esemplare Keira Knightley è un mostro digrignante che allunga e deforma il muso come un licantropo e non mi piace affatto, benché sospetti che sia interamente cronenberghiano l'accostamento tra la psicosi e Alien. Scivolamenti progressivi con perversione stavolta lieve, ma decisa battaglia frontale del puritano Freud contro il misticismo junghiano che avanza nel disprezzo delle regole dell'analisi con il suo mondo affollato di mostri, miti e misteriche simbologie. Al cinema, come in psicoanalisi, continuo a preferire Viggo Mortensen-Freud, ma l'irruenza sexy della neostar Michael Fassbender, Jung, si fa notare. Paolo D'Agostini, Repubblica Pur non realizzando un film all'altezza dei suoi due precedenti, ambedue interpretati da Viggo Mortensen che torna anche qui, Cronenberg riesce in A dangerous method ad aggirare con classe quasi tutte le trappole del film biografico e in particolare sui grandi protagonisti e sui temi della psicoanalisi. Tutti spunti che, quando il cinema ne ha tratto ispirazione, hanno regolarmente provocato naufragi nel ridicolo. Dunque con un certo sprezzo del pericolo e sorprendendo nell'allontanarsi dal suo mondo di fantasia per scegliere invece un soggetto quasi didascalico, il regista canadese ha messo in scena il caso di Sabina Spielrein, che, da quando è stato reso celebre grazie al ritrovamento e alla pubblicazione delle sue carte, molto tempo dopo la morte avvenuta durante la seconda guerra mondiale, ha già dato materia a due film italiani (Cattiva di Lizzani e Prendimi l'anima di Faenza). E delle sue relazioni con il fondatore della teoria e della terapia psicoanalitica Sigmund Freud e con il suo allievo prediletto e poi principale antagonista CarI Gustav Jung. Non è la sede per misurare quanto disti la reale dimensione biografica e scientifica dall'adattamento che Cronenberg ne ha fatto alle esigenze narrative e alla propria sensibilità. Si può solo dire che la sua preferenza va a Jung. Il quale, non ancora trentenne all'inizio del racconto che prende grosso modo il decennio tra primi Novecento e vigilia della Grande Guerra, riceve nella sua clinica svizzera una giovanissima paziente, Sabina, ebrea russa di famiglia benestante. La cura alla luce della nuova terapia inventata da Freud a Vienna, portando alla superficie della consapevolezza l'intreccio, che è motivo di terribile sofferenza per la giovane, tra dolore e piacere, tra umiliazione delle punizioni ricevute da un padre violento e godimento sessuale che dalle stesse umiliazioni ella trae. Via via che la cura ottiene risultati Jung sospinge Sabina verso lo studio e la pratica psichiatrica, mentre di pari passo ne diventa l'amante, anche brutale e feroce, come la ragazza gli chiede di essere. La figura di Sabina e i comportamenti di Jung verso di lei – sofferti e contraddittori rispetto al suo comportamento pubblico improntato a morigeratezza e rigore – diventano il motivo scatenante delle divergenze e rivalità tra l'allievo e il maestro e mentore Freud. Anche passando per l'intervento di un'altra figura storica, quella di Otto Gross che predica nel confronto con Jung le virtù della poligamia e l'innaturalità della monogamia o in altre parole la liberazione degli istinti contro il reprimere e reprimersi che non sono sinonimo di civiltà ma di malattia, sullo sfondo c'è il contrasto (cui non è estranea la distanza tra l'ebreo austriaco e il protestante svizzero) tra la ferma convinzione scientifica di Freud a proposito dei limiti invalicabili della terapia e della professione psicoanalitiche, e la ricerca di Jung anche oltre e al di là di quei limiti.