Untitled - Barz and Hippo

Transcript

Untitled - Barz and Hippo
Dopo oltre quarant'anni di film, Cronenberg è ormai un autore consacrato dal successo e da un vero e
proprio culto tributatogli dai numerosi estimatori della sua cinematografia, sempre potente e originale.
Nel corso degli ultimi anni, tuttavia, il regista è passato attraverso nuove fasi che lo hanno fatto
giudicare dagli uni 'più maturo', dagli altri eccessivamente 'normalizzato'. La questione si ripropone con
il suo ultimo lavoro, in cui il rigore storico e l'importanza data ai dialoghi non impediscono al film di farsi
apprezzare per l'abile e intensa messa in scena delle pulsioni più o meno perverse che furono alla
base della scoperta stessa dell'inconscio e del suo funzionamento.
.
scheda tecnica
durata:
93 MINUTI
nazionalità:
GRAN BRETAGNA, GERMANIA, CANADA
anno:
2011
regia:
DAVID CRONENBERG
soggetto:
CHRISTOPHER HAMPTON, JOHN KERR
sceneggiatura:
CHRISTOPHER HAMPTON
fotografia:
PETER SUSCHITZKY
montaggio:
RONALD SANDERS
costumi:
DENISE CRONENBERG
musica:
HOWARD SHORE
scenografia:
JAMES MCATEER
casting:
DEIRDRE BOWEN
distribuzione:
BIM
Interpreti:
MICHAEL FASSBENDER (Carl Jung), KEIRA KNIGHTLEY (Sabina Spielrein),
VIGGO MORTENSEN (Sigmund Freud), VINCENT CASSEL (Otto Gross), SARAH GADON (Emma
Jung), KATHARINA PALM (Martha Freud), CHRISTIAN SERRITIELLO (L'agente).
David Cronenberg
Nato a Toronto nel 1943, è uno dei maggiori registi canadesi. Pur dichiarandosi ateo, è affascinato da
temi letterari che hanno a che fare con la morte e l'aldilà: fin da giovanissimo scrive racconti di
fantascienza e mistero. Inizialmente si divide tra la passione per la letteratura e quella per le scienze
naturali, in particolare la botanica e l'entomologia. Nel 1963 assiste alla proiezione di un film realizzato
da un suo compagno di corso: poco tempo dopo, noleggia una cinepresa 16 mm e gira due
cortometraggi. Inizia così una carriera nella televisione canadese e nel cinema indipendente. Con i suoi
primi film, tra cui Stereo (1969) e Il demone sotto la pelle (1975), diviene un regista di culto per la sua
capacità di rivitalizzare e modernizzare l'horror, le storie di vampiri e temi affini. Emergono già alcuni
suoi tratti caratteristici, come l'attenzione realistica per la dimensione psicologica delle storie e dei
personaggi, nonché per lo sviluppo e le possibili conseguenze del progresso scientifico e tecnologico.
Seguono Blood. La covata malefica, un horror più classico, e Scanners (1981), che gli assicura una
notevole popolarità. La potenza visiva del suo stile si impone insieme al fascino delle sue storie, che
introducono nel travaglio della realtà quotidiana elementi fortemente disturbanti, sospesi tra la
dimensione orrorifica, lo scandaglio introspettivo e la fantascienza e sorretti da uno spessore di
investigazione esistenziale e sociale. Una major di Hollywood gli offre a quel punto la regia de Il ritorno
dello Jedi, ma Cronenberg rifiuta. preferendo la libertà precaria delle piccole produzioni. Dopo
Videodrome (1983) e La zona morta (1983), nel 1986 arriva anche il vero e proprio successo al
botteghino, con La mosca: un giovane scienziato dedito a esperimenti sul teletrasporto rimane vittima di
un errore casuale, in seguito al quale il dna di una mosca entra a far parte del suo stesso codice
genetico, determinandone l'inesorabile trasformazione. Dopo Inseparabili (1988) con Jeremy Irons,
Cronenberg torna a esplorare i territori più estremi della mente, con
Il pasto nudo (1991) basato
sull'omonimo romanzo di William Burroughs, cui seguono M. Butterfly (1993), Crash (1996) e il film
'cyberpunk' eXistenZ. Con Spider, entra nei meandri della psiche di uno schizofrenico e, nonostante la
forte dimensione allucinatoria del film, di fatto inizia un percorso verso una narrazione più lineare e
introspettiva, lontana dai motivi fantascientifici e paranormali che lo avevano accompagnato fino ad
allora. Nel 2005 dirige magistralmente William Hurt, Viggo Mortensen e Maria Bello in A History of
Violence, nel quale proprio la veste apparentemente convenzionale della narrazione fa del film una
riflessione metaforica e metacinematografica non solo sulla violenza, ma sull'ideologia sottesa dal
racconto di violenza di stile hollywoodiano, di cui capovolge l'assunto fondamentale. Il nemico infatti
non viene da fuori, ma dallo stesso luogo da cui vengono la sicurezza e la normalità quotidiana: dagli
aspetti più oscuri della mente del protagonista. Lo sguardo ambiguo di Mortensen, caldo e freddo nello
stesso tempo, torna in La promessa dell'assassino. Mortensen è anche fra gli interpreti dell'ultimo
lavoro del "depravato sovrano dell'horror venereo, barone del sangue", una definizione irrisoria eppure
amata da Cronenberg, ma che in questo caso non gli calza.
la parola ai protagonisti
David Cronenberg
Che cosa risponde alle accuse di didascalicità, di aver fatto un film troppo 'storico'?
Non aspettatevi un biopic su Freud! Ho girato ancora una volta in Europa, tra Germania e Austria, dopo
i miei due film londinesi, A History of Violence e La promessa dell'assassino, ma non per mimare
accademicamente epoca, ambienti e protagonisti nell'ora della nascita della psicoanalisi. Ho
semplicemente risvegliato, rendendola contemporanea, la relazione tumultuosa, tra il 1904 e il 1912,
del giovane Jung con Freud, suo mentore. La sceneggiatura che lo stesso Hampton ha derivato dalla
sua pièce ci sprofonda in una storia di follia, d'adulterio e di rivalità maschile, accesa da Sabina,
divenuta psicanalista dopo essere stata internata a diciannove anni per «isteria grave» e seguita da
Jung che ne sarà il medico, lo psichiatra, l'amante. Con A Dangerous Method ho cercato di fare un film
elegante che parlasse di abissi emozionali, ma non perdesse la capacità di sedurre lo spettatore.
Lo stile cambia a seconda delle cose che si raccontano. Se dovessi avvicinarlo ad alti miei lavori direi
che somiglia a Crash perché anche lì, al centro della vicenda, c'è un gruppo di persone considerate
distruttive rispetto al resto della società in cui vivono.
Siamo di fronte a un nuovo, tormentato triangolo, gelidamente amniotico, come quello dei gemelli-rivali
per amore della stessa donna in Inseparabli?
Il personaggio che più mi ha coinvolto è Sabina Spielrein - interpretata da Keira Knightley - nota per
essere stata una delle amanti di Jung, ma anche una delle prime donne psicanaliste. Le si deve, in
psicoanalisi. il concetto di pulsione di morte, poi elaborato da Freud. Sabina non è stata unicamente un
successo terapeutico di Jung, è stata il cardine d'un dramma d'amore, nel turbinio della nascita della
psicoanalisi, rivelato solo nel 1977 con il ritrovamento del diario della donna e della corrispondenza
incrociata con Freud e Jung È da anni che m'interesso a questa storia, a quel periodo complesso della
ricerca medica: mi son letto tutte le biografie esistenti dei tre protagonisti.
Un intreccio inscindibile: ne ha fatto un Jules e Jim da lettino?
La realtà storica è davvero drammatica e affascinante: e, nel privato, diventa una straordinaria variante
del menage à trois. Non che Sabina abbia avuto una relaziono con Freud, ma è un fatto che. per
studiare al suo fianco, ha lasciato perdere Jung: il quale ha vissuto questa scelta come una forma di
tradimento.
Il film riafferma, com'è frequente nel suo cinema, da La Mosca a Crash, il ruolo chiave della donna...
Sì, Sabina è una spinta creatrice, ma anche una vittima della società in cui vive. È appassionante
osservare come certe forme di follia spariscano con il tempo. C'era una volta una malattia chiamata
isterìa, dal greco che significa utero, dunque patologia da ascrivere esclusivamente alla donna. È un
po' questo il soggetto e il pungolo di A Dangerous Method: le malattie che sono invenzioni culturali più
che fisiologiche. Di cui Sabina è stata cavia ideale, in quanto donna tutta passione e intelligenza:
dunque disturbante, per l'epoca.
Tra lenzuola e sedute di studio, quel terremoto assai intimo è all'origine d'una svolta storica nei metodi
della psicoanalisi: a questo allude il titolo?
Quel triangolo incontrollato provoca un giro di boa totale nelle teorie freudiane. Rendendosi conto che il
ricorso all'ipnosi non ha che un'efficacia temporanea. Freud sceglie di sperimentare il metodo della
parlata libera, della confidenza segreta: la Talking Cure, che dà il titolo alla pièce di Hampton. Zurigo e
Vienna diventano cosi la cornice d'un racconto, molto noir, di scoperte intellettuali e sessuali, registivittime Jung e Freud, cui s'aggiunge il tossicomane e sbandato Otto Gross, ben deciso a oltrepassare
ogni limite.
La psicanalisi ha ancora una sua validità, è ancora quel caposaldo per la cultura odierna?
La psichiatria ha naturalmente influenzato tutti i miei film, anche se, fino a questo momento, a
differenza di altri registi, non l'avevo mai affrontata direttamente. Per chi è cresciuto in quest'epoca è
impossibile prescindere dal carisma e dal potere di una figura come quella di Freud. Molte delle cose
che noi oggi diamo per scontate, il ruolo della sfera irrazionale, le caratteristiche della sessualità,
l'importanza della fase infantile nell'evoluzione degli esseri umani, si devono a lui. Di recente, la
risonanza magnetica ha dimostrato che esiste tanta attività cerebrale non accessibile alla nostra
coscienza, esattamente ciò che teorizzava Freud.
Cronenberg, lei proviene da una famiglia ebrea progressista. Che peso ha avuto il fatto che Freud
fosse ebreo, nella storia della cultura?
A un certo punto Jung lo dice chiaramente "la psicanalisi è una cosa da ebrei", associarla alla radice
ebraica era una maniera per screditarla, Freud ne era consapevole. La sua diffusione è stata ostacolala
dall'antisemitismo, dalla II Guerra Mondiale, dal fatto che in Europa la cultura cattolica con il suo tipo di
approccio alla sessualità sia molto più forte che negli Stati Uniti. Non è un caso che New York sia la
citta più psicoanalizzata del mondo.
Mortensen per la terza volta consecutiva suo protagonista. Ha preso il posto di Jeremy Irons, altro suo
attore feticcio?
Per il ruolo di Freud, in realtà, avevo previsto all'inizio Christoph Waltz, che poi ha detto no per i troppi
impegni, dopo la sua rinuncia che ho richiamato il "mio" attore, che è stato anche - non dimentichiamolo
- un grande Aragorn nel Signore degli Anelli... Non è stato l'unico ritrovamento: al film s'è associato
subito il produttore britannico Jeremy Thomas, che mi aveva reso possibili film come Il pasto nudo o
Crash.
È già al lavoro su nuovi film?
L'anno prossimo uscirà Cosmopolis, un thriller basato sul romanzo di Don DeLillo, protagonista Robert
Pattinson, giovane finanziere raggomitolato nel fondo della sua limousine mentre è in gioco l'intera sua
fortuna. Intanto, sto vagliando altri progetti, anche di numeri 2: La mosca 2, La promessa dell'assassino
2... O anche Cerchio blu dei Matarese, da Robert Ludlum. Dopo la psicoanalisi, sto approfondendo la
fisica, per un adattamento del romanzo As She Climbed Across the Table di Jonathan Lethern di cui
dovrebbe scrivere la sceneggiatura Bruee Wagner (Nightmare 3). Ma quel che più m'attira al momento
è la regia di una storia di Joe Penhall (lo sceneggiatore di The Road), su una studentessa universitaria
che, a dispetto della razionalità del suo fidanzato, ricercatore scientifico, si sente perseguitata da Lac,
una sorta di vuoto intelligente che trasborda in un'altra dimensione.
Sempre sogni e
incubi, proiezioni, angosciose e seducenti, in un altrove della realtà o del corpo, da
Videodrome a eXistenZ. È questo che lei sogna e che confesserebbe al suo Freud? Qual è il suo
cinema notturno?
I film sono come i sogni, soggetti alla stessa, incontrollabile dinamica. E viceversa, i sogni sono i nostri
film. Oggi forse il cinema ha cambiato il modo di sognare. I nostri sogni son debitori delle componenti
oniriche del grande schermo: montaggio, effetti speciali... Il mio? È di sognare una sceneggiatura
perfetta, da trasporre pari pari, una volta sveglio, in film. Ma finora non mi è mai successo. Finora...».
Viggo Mortensen
Viggo Mortensen tira fuori dalla tasca un taccuino con la foto classica, anziana e barbuta, di Sigmund
Freud. «Capisce perché all'inizio non ne volevo sapere del ruolo? Non mi ci vedevo, fisicamente».
Malgrado le reticenze iniziali, l'atto re feticcio di David Cronenberg ha poi accettato di incarnare il padre
della psicanalisi (con l'aiuto di protesi e molto trucco) in A Dangerous Method, applauditissimo film in
concorso alla Mostra.
Mortensen, che cosa le ha fatto cambiare idea?
La voglia di tornare sul set con David per la terza volta. E il fatto che nel film Freud non è il vecchio
malato di cancro che tutti conosciamo. È un uomo di cinquant'anni, pieno di vita ed energia. Tutti i
personaggi del triangolo del film, Freud, Sabina Spielrein e Gustav Jung, sono raccontati come esseri
umani. Grazie alle loro lettere, molte delle quali purtroppo ancora non divulgate, abbiamo ricosnuito tre
personalità in conflitto più per orgoglio che per teorie scientifiche. Infantili come i loro pazienti.
Lei ha scelto la chiave dell'umorismo.
Era accennato in sceneggiatura, io ci sono balzato sopra. Ci ho costruito il personaggio, intorno a
quella ironia secca e sottilissima. L'umorismo implica il sentirsi a proprio agio, potersi permettere di
ridere. L'ironia di Freud era figlia della cultura ebraica, del sentirsi in svantaggio, perseguitati. Per
questo le sue battute erano veloci. Invisibili a molti, irresistibili per chi le coglieva.
Per diventare Freud c'è voluto coraggio?
È una bella responsabilità. Sono stato colpito dalla normalità dell'uomo e dalla sua umanità. Certo,
Freud era colto e intelligente, adorava la musica, l'arte, il suo ufficio assomigliava più a un museo che a
uno studio, ma il resto della casa era davvero normale. Mi ha stupito molto anche il suo senso
dell'umorismo, è simile a quello di David e anche al mio: secco, intellettuale, tagliente.
Con Cronenberg è al terzo film, tra poco girerete il quarto. Lui ha dichiarato che parlare di lei è come
parlare della propria moglie
Non ci prendiamo mai troppo sul serio, e poi sappiamo trovare l'assurdo in ogni situazione.
Mai stato in analisi?
Una ventina di anni fa, e sono riuscito a tirare fuori cose che non direi a un amico. Amo questa idea
della confessione senza punizione, trovo affascinante che la persona che ascolta non abbia alcun
coinvolgimento emotivo. Tuttavia per me non funzionò, era come parlare a un tassista. Ma la mia
terapia è stata fare il cinema, che è nato più o meno insieme alla psicanalisi».
«Mai reprimere nulla»: è una massima del film applicabile nella vita vera/ secondo lei?
È un'idea ammirabile, ma alla fine può diventare distruttiva. Se lei avesse appena subito un lutto e a me
venisse da raccontarle barzellette sulla morte, mi reprimerei di sicuro.
Siamo attratti da più persone, quindi la monogamia è impossibile: questa la tesi di Otto Gross, paziente
di Freud interpretato da Vincent Cassel. E' vero?
L'idea dell'uomo che ha bisogno di varie partner per spargere il suo seme è un bel condizionamento
sociale. Provare attrazione nei confronti di più persone è normale, ma non vedo nulla di male in un po'
di autocontrollo.
Altra idea interessante e molto evoluta per l'epoca: attraverso il sesso ci si «perde» nell'altro
Nell'unione sessuale si crea qualcosa di nuovo perché si dissolvono le proprie barriere.
E questo fa paura?
Fondersi con un'altra persona rende molto vulnerabili, e non basta nemmeno: se vuoi mantenere una
connessione profonda con un partner, devi cambiare la testa e pensare a lei, non più solo a te stesso.
Gli uomini hanno paura di perdersi in questo senso?
Parlando per stereotipi, sono spaventati dalla perdita del controllo. Dagli uomini ci si aspetta che
dominino le emozioni e il grado di coinvolgimento.
Quindi il macho è colui che non si fonde con nessuno?
È così. E quando certi uomini vanno in giro dicendo con quante donne sono stati a letto, tentano di
coprire un 'insicurezza, «forse non sono abbastanza interessante se non faccio sapere a tutti che sono
stato con...». Vale anche per alcune donne, naturalmente
Freud non volle raccontare un suo sogno a Jung, lei ce ne racconterebbe uno suo?
Sono in piedi davanti a una casa, con la porta aperta. Davanti a me c'è un corridoio con varie porte e
persone che leggono fumetti e giornali. Io sono fuori e guardo un albero. Un corvo col becco di un
pappagallo viene da me e mi becca un occhio, tirandolo fuori dall'orbita. lo rientro in casa, vado a
leggere i fumetti e mi accorgo che la vista è sempre più debole. A quel punto, il sogno finisce
Succedeva tra i 7 e i 30anni.
Tornando al sesso, si sostiene che sia la cosa più piacevole è anche quella che reprimiamo di più.
E vero e questo causa un sacco di problemi, rende la gente persino violenta. Molti di coloro che
diventano presidenti o primi ministri sono uomini che avrebbero dovuto confrontarsi con i loro problemi
sessuali. Fanno guerre, combinano casini nel mondo proprio perché non hanno capito cene dinamiche
legate al sesso.
Perché il sesso è così represso?
In parte per quello che dicevamo prima, perché anche se cerchi di evitarlo, e dici che non significa
niente, in realtà fisicamente implica impegnarsi in qualcosa, interagire in modo intimo, cioè coinvolgersi
e diventare emozionalmente vulnerabile. E questo spaventa.
Qual' è la cura?
Ascoltare una persona chiedersi che cosa sente, avere interesse per l'altro.
Quello che offre a una donna sono spazio e attenzioni?
Anche a un uomo, direi. Se fai sesso o ti relazioni con qualcuno, meglio che lo ascolti, meglio per l'altro,
ma meglio anche per te.
Recensioni
Paola Casella. Europa
Ci sono autori che non smettono mai di crescere. Uno di questi è David Cronenberg, il regista
canadese che ha esordito sul grande schermo negli anni Settanta e Ottanta dedicandosi
prevalentemente all’horror e alla tematica dell’ibridazione fra uomo e tecnologia. Negli ultimi anni
Cronenberg ha compiuto una svolta di maturità che lo ha portato ad essere sempre più accessibile al
grande pubblico. L’attore alter ego del regista in questa sua svolta è Viggo Mortensen, un divo sui
generis poiché dietro l’apparenza atletica e belloccia (era l’Aragorn della saga de Il signore degli anelli)
nasconde un cervello di prim’ordine (è poeta, musicista, pittore e parla correntemente sette lingue).
Mortensen è stato il protagonista di A history of violence, il primo film del cambiamento di Cronenberg,
e poi de La promessa dell’assassino, entrambi eccellenti esempi di una capacità di rinnovamento per
rendere più comprensibili i temi di sempre: la riflessione sull’evoluzione e involuzione maschile, sulla
sessualità e le sue perversioni, sulla violenza come componente imprescindibile (ma non per questo
giustificabile) della natura umana.
Temi che confluiscono anche in A dangerous method, insolito triangolo intellettuale ed erotico fra
Sigmund Freud (Mortensen, appunto), Carl Jung (interpretato dal divo del momento Michael
Fassbender) e la loro paziente Sabina Spielrein (Keira Knightley).
La prima scelta che Cronenberg compie è estetica: il regista, noto per le sue scene d’azione
attentamente coreografate, sceglie qui di raggelare ogni movimento in una serie di tableaux vivant
incorniciati da ambientazioni di primo Novecento, periodo di furiosi fermenti intellettuali e scientifici
compressi e confinati in una società rigida e poco disposta al cambiamento (un contrasto che, poco
dopo le vicende narrate, sarebbe esploso nella prima guerra mondiale). All’interno di queste «quinte
teatrali» che ricordano quelle ideate da Rohmer per La nobildonna e il duca, i personaggi si muovono
come burattini con o senza fili, a seconda di quanto, in quel momento, prevalgano in loro l’impulso
vitale o le convenzioni della società mitteleuropea di inizio Novecento.
Con grande ironia Freud e Jung rappresentano contemporaneamente il punto alto del ragionamento
umano e la fallibilità della natura degli uomini, principalmente maschi. Se infatti Sabina Spielrein è
aperta alla sperimentazione (anche sessuale) e alla novità fino alle estreme conseguenze (e nel suo
caso furono davvero estreme: morì uccisa dai nazisti insieme alle figlie), la mente e il corpo di Jung e
Freud restano parzialmente immobilizzati nelle convenzioni e convinzioni che li hanno preceduti e
seguiti, e nella debolezza intrinseca della loro natura.
Se dovessimo riassumere il tema principale di A dangerous method, diremmo: la fragilità dell’ego
maschile, illustrata con grande tenerezza e comprensione da un uomo, il regista, che ancora oggi si
domanda, con grande onestà intellettuale, perché le donne (e soprattutto la loro sessualità) gli incutano
così tanta paura, e perché gli uomini, così capaci di procedere come frecce acuminate verso un
obiettivo, permettano che intime debolezze alterino il percorso della loro mente e del loro corpo.
Il difetto di A dangerous method è sicuramente l’eccessiva didascalicità: essendo indirizzato
prevalentemente ad un pubblico nordamericano che probabilmente conosce poco le vicende della
Vienna di inizio secolo scorso (e non ha certamente visto il film di Roberto Faenza, Prendimi l’anima,
che trattava della relazione fra la Spielrein e Jung), il film si preoccupa di spiegare tutto, costringendo
gli attori a occasionali monologhi da sussidiario. Ma la maestria visiva di Cronenberg nel contrastare
tormenti interiori e ambienti ordinatissimi, furia sessuale e struttura familiare, ipocrisie sociali e umane
verità è strabiliante, e i due attori protagonisti sono abilissimi nel mostrare le sfaccettature
contraddittorie dei loro ruoli. Keira Knightley invece è fisicamente perfetta per incarnare il tipo di
sensualità sofferta e spigolosa decantata da Klimt e da Schiele, non a caso contemporanei di Freud. A
dangerous method funziona per coppie di opposti, occasionalmente spaiate dalla carta matta
femminile, che sono lo specchio dei contrasti dell’epoca: poveri e ricchi, ariani ed ebrei, padri e figli. E
trova un modo originale per illuminare le debolezze degli uomini ed illustrarne le conseguenze sulla
Storia.
Daniele de Angelis. Cineclandestino.it
Si dice che i grandi autori girino in fondo sempre lo stesso film, peraltro senza mai ripetersi perché
consapevoli di come lo scarto risieda tutto nella prospettiva da cui l'opera viene narrata. Anche in A
Dangerous Method - presentato nel Concorso Ufficiale di Venezia 2011 - affiorano tutte le tematiche
care a quel geniale regista di nome David Cronenberg, cineasta che ha esplorato generi e infinite
risorse della Settima Arte con una coerenza unica che non finisce mai di stupire. Nel corso del tempo e
dei film Cronenberg è passato dalla mutazione fisica, rappresentata nei suoi horror più estremi e
devastanti come i primi della sua ormai lunga carriera, a quella psicologica e dell'anima, resa esplicita
attraverso uno stile fatto di immagini e parole dove il lavoro di sottrazione e sintesi è sempre di una
esemplarità totale. Con sullo sfondo la cronica incapacità umana di afferrare quel cosiddetto carpe
diem che l’esistenza ogni tanto propone, nel nome di un pessimismo tipicamente cronenberghiano che
pellicola dopo pellicola è andato affinandosi in meravigliosa vis poetica.
Definire compiutamente un’opera quale A Dangerous Method risulta, al solito, impresa impossibile.
Potrebbe sembrare a prima vista un viaggio dal sapore vagamente didattico agli albori della
psicoanalisi nel racconto del rapporto tra i padri putativi Sigmund Freud e Carl Gustav Jung, ma
ovviamente tale affermazione condurrebbe totalmente fuori strada. Per Cronenberg infatti la
psicoanalisi - e l’incontro artistico tra lui e i due numi tutelari pareva davvero scritto nel destino… - non
è mai un fine, ma un mezzo per proseguire il proprio sempre aperto discorso sull’incompiutezza
dell’identità umana, sempre inevitabilmente in cerca di qualcosa di differente anche quando si tratta,
diegeticamente parlando, di luminari di uno specifico campo della medicina. Ed infatti il motore
narrativo di A Dangerous Method non è identificabile nei due illustri personaggi maschili - benissimo
interpretati dal fido Viggo Mortensen e dalla rivelazione Michael Fassbender - ma in quello femminile,
segnatamente nella Sabina Spielrein (una maiuscola prova d’attrice di Kiera Knightley, in tutta evidenza
alle prese con un ruolo spartiacque della sua ancor giovane carriera…) dapprima paziente di Jung ed in
seguito collaboratrice di Freud. Donna capace, con la sua sensibile ed acuta femminilità (l'ennesima
vittoria della Carne "cronenberghiana"), di portare il primo, attraverso un rapporto sentimentale a dir
poco sfaccettato, all’amara comprensione di se stesso ed il secondo a rimettere in discussione le
proprie certezze teoriche nello specifico campo di pertinenza.
A Dangerous Method, tra i tanti volti mostrati, è uno straordinario racconto di decostruzione umana,
articolato in una serie di scatole cinesi dove come sempre lo spettatore deve obbligatoriamente
intervenire per colmare cesure altrimenti destinate a rimanere vuote e erranti, in nome di quella che è la
differenza centrale tra il cinema narrativo e quello che non fornisce risposte ma pone esclusivamente
domande, peraltro sempre condotte sul filo di una inderogabile ambiguità. Se in Spider (2002)
Cronenberg aveva realizzato una sorta di perfetta soggettiva di una mente umana in assai precario
equilibrio sul baratro della follia, riguardo A Dangerous Method si ritorna alla stessa tematica, ma
azzerando gli scarti tra il mondo immaginario e quello (forse) reale. Ed infatti la figura della Spielrein
pencola tra pazzia iniziale e la lungimiranza illuminata del finale (diventerà psichiatra a propria volta),
da paziente quasi irrecuperabile ad unica possibile curatrice del male nemmeno troppo oscuro di Jung,
character a cui Cronenberg riserva tra le righe la sua solidarietà perché non fossilizzato in sterili
certezze.
L’epilogo di A Dangerous Method si tinge così spontaneamente dei toni da melodramma “raffreddato”
tanto cari al cineasta canadese: il vero amore - sia pur nelle forme più diverse e bizzarre - passa
accanto solo una volta nella vita senza essere colto nell’interezza del suo significato nell’unico
momento opportuno. E dopo, anche un singolo attimo, sarà sempre troppo tardi. Resta, in uno dei tipici
finali magistrali alla Cronenberg, solo la certezza di aver finalmente compreso la verità, del tutto
spogliati di ogni ipocrisia; ma rimanendo in solitudine su una panchina, a contemplare un futuro carico in quel remoto passato come ora - di fosche nubi in avvicinamento.
L’Uomo è infine solo. Impotente di fronte a sconvolgimenti epocali (guerre e nazismo erano alla porte)
ma vivo. Con in mano, forse, la chiave per l’accesso ad un qualsiasi senso. Ammesso che esso esista;
nella vita al pari di questo ennesimo, mai scontato e sempre “scomodo”, capolavoro cronenberghiano.
Alessandra De Luca. Avvenire
I demoni sotto la pelle sono sempre stati i grandi protagonisti del suo cinema, capace di fotografare
paranoie e mutazioni, contagi e abissi della mente. Ieri le ossessioni di David Cronenberg sono tornate
al Festival di Venezia dove in concorso è stato presentato 'A Dangerous Method', il film che mette a
fuoco gli albori della psicoanalisi già entrata prepotentemente in campo in uno dei suoi film precedenti,
'Spider'. (...) Affidandosi a lunghi e fitti duelli verbali (non a caso il film è tratto dal testo teatrale 'The
Talkin Cure' di Christopher Hampton, anche sceneggiatore della pellicola), Cronenberg usa come al
solito la macchina da presa come un bisturi per sezionare questa volta non la carne, bensì l'intelletto
dei suoi personaggi, registrando crolli emotivi e dolorosi strappi, tumultuosi sentimenti che irrompono in
claustrofobici ambienti sociali e desideri inconfessati che chiedono di essere riconosciuti. Se Jung
contesta a Freud la rigidità della teoria che vede nella sessualità l'origine dei disturbi del
comportamento, il maestro rimprovera all'allievo il suo interesse per il misticismo. Se Freud non
intendeva curare i pazienti, ma aiutarli a prendere coscienza della propria situazione e accettarsi, Jung
era convinto si potesse offrire loro una via di salvezza. Prima che la psicanalisi modificasse per sempre
la consapevolezza di sé delle persone, sembra dire il regista, c'è chi ha visto formarsi sulla propria pelle
le cicatrici indelebili di una trasformazione epocale del pensiero moderno. «C'è cosi tanto materiale
prezioso nelle lettere che questi tre personaggi si sono scritti per anni - dice il regista - che non è stato
difficile ricostruire i rapporti intercorsi tra loro. Fare un film ambientato in un'epoca diversa è una grande
sfida, perché non puoi semplicemente mettere gli attori in abiti antichi e sperare che questo basti. È una
questione etica, bisogna saper comprendere e catturare lo spirito del tempo».
Giovanni Bogani. La Nazione
Keira Knightley, David Cronenberg, Viggo Mortensen, Michael Fassbender. La piratessa dei Caraibi, qui
tuffata agli inizi del Novecento, chiusa in manicomio, nelle vestaglie di Sabina Spielrein, paziente e poi
amante di Carlo Gustav Jung: prima psicotica, poi a sua volta psicanalista. Una storia che era stata
raccontata anche da due registi italiani: Roberto Faenza con "Prendimi l'anima" e Carlo Lizzani in
"Cattiva". A raccontarla, stavolta, David Cronenberg, regista dei film più psicotici e psichedelici che si
possano immaginare, da La mosca a Crash. Al loro fianco in "A Dangerous Method", in un cast in cui
spicca anche Vincent Cassel, due sex symbol. Freud, nel film, ha il volto di Viggo Mortensen,
attore/feticcio di Cronenberg. Qui, è un padre della psicanalisi vagamente western. Jung, il suo allievo
più soft, meno dogmatico e più letterario, è Michael Fassbender. Che per ironia della sorte è in Shame
di Steve McQueen proprio uno di quei tipi che Jung dovrebbe curare: un malato di sesso compulsivo e
ossessivo. «Ho imparato a conoscere Jung grazie a un libro per ragazzi, tipo "Tutto quello che volete
sapere su Jung" - dice Fassbender -. Ma la sceneggiatura era così precisa che alla fine mi sembrava di
averlo studiato io stesso».
Se Fassbender si è preparato con un Bignami, il regista David Cronenberg è invece un cultore della
materia:
«Abbiamo recuperato gran parte delle lettere che si sono scambiati Sabina Spielrein e Cari Gustav
Jung», dice. «A quel tempo, le lettere erano come le mail di Internet: ne scrivevano anche due al
giorno, e ognuna era ricca di riferimenti alla vita quotidiana. Ma niente paura, il mio film non è un
esercizio accademico. E' anche divertente. Volevo raccontare Jung e Freud non attraverso le loro
posizioni intellettuali, ma tramite le loro passioni umane, il loro orgoglio che li faceva diventare
puntigliosi come bambini».
A chi gli chiede come mai questo film sia stilisticamente molto più "normale" del solito, Cronenberg
risponde: «Sono cambiato. Prima esploravo tutte le possibilità del cinema. Ora no. Do al film quello che
la storia richiede. Non mi sento in dovere di "cronenberghizzare" per forza un film». Come ha scelto il
cast? «Avevano tutti bisogno di una terapia psicanalitica. Li ho presi per farli familiarizzare con l'idea»,
scherza il regista. «Adesso sono molto migliorati: si vestono da soli». Poi Cronenberg si fa serio: «Che
cosa volevo raccontare? Una delle più grandi rivoluzioni del mondo. Fino a quel momento si credeva
che gli esseri umani fossero sulla via per diventare angeli. La psicoanalisi ha infranto questa illusione:
ha detto che siamo tutti animali, che la coscienza è solo una parte della nostra anima. Che il suo fondo
torbido ne è la vera sostanza».
Silvio Danese. Il Giorno
Nei film di David Cronenberg, tra i massimi cineasti del nostro tempo, le pulsioni di amore, sesso,
violenza, polimorfismo, morte, vivono momenti felici di vetilà nascoste illuminate bene. Citiamo Crash e
Il pasto nudo, perché sono prodotti da Jemey Thomas, che è tornato a lavorare con Cronenebrg per A
Dangerous Method, ma più recenti e frequentati dal pubblico sono A History of Violence e La promessa
dell'assassino. Fare un film sollecitando la biografia e le idee di Jung e Freud, per Cronenberg è una
scelta intellettuale, intima, come se un chirurgo, tra mille operazioni, decidesse di fermarsi un momento
e capire come è diventato un medico che taglia corpi. Ricostruendo (da una pièce di Christopher
Hampton) i dettagli storici delle esplorazioni scientifiche, tra Zurigo e Vienna, del 30enne Jung (Michael
Fassbender) e del suo mentore 50enne Freud (Viggo Mortensen), Cronenberg tiene stretti nel film, e
nella logica emotiva e intellettuale dello spettatore, i fili della passione tra l'insoddisfatto Jung e la
nevrotica Sabina (Keira Knightley, candidata alla Coppa Volpi), che suggerì la questione della tensione
mortale della sessualità. E' una scelta fondamentale: in quella relazione, supervisionata da un Freud
trincerato nelle sue convinzioni, ci sono luci, ombre, materia e ossessioni di una delle grandi scoperte
dell'umanità. Figli di ogni crisi della mente mentre diventavano genitori della psicoanalisi.
Marco Minniti. Movieplayer.it
C'era molta attesa intorno a questo A Dangerous Method, film nato da una piece teatrale che il suo
stesso autore Christopher Hampton ha trasformato in una sceneggiatura; una storia che esplora da
vicino i torbidi ed ambigui rapporti tra tre personalità che si riveleranno fondamentali per l'evoluzione
della scienza psichiatrica del ventesimo secolo. Non è casuale l'interesse per un soggetto come questo
da parte di un regista come David Cronenberg, la cui evoluzione, negli ultimi anni, è stata peculiare:
dalla graficità corporea delle sue pellicole degli anni '80 e (in parte) '90, alla predilezione di soggetti
sulla carta più classici (A History of Violence e La promessa dell'assassino), in cui le ossessioni del
regista canadese si sono spostate sul piano della mente e dei suoi labirinti, e in cui il tema della
mutazione che da sempre lo affascina è divenuto tutto interno alla psiche umana, senza per questo
perdere in pregnanza e forza espressiva. Cronenberg, qui, prosegue coerentemente in questo
discorso, lavorando di nuovo su un soggetto non suo e insinuando nelle pieghe del racconto le sue
tematiche di sempre, in quel binomio tra sesso e morte, pulsioni erotiche e istinti autodistruttivi, che qui
viene asciugato di ogni spettacolarità filmica e fatto risalire alla sua fonte originale.
C'è una riflessione sul potere e sulla dipendenza, sul desiderio di possesso e sulla voglia di plasmare e
riplasmare l'altro (che sia un amante o un proprio allievo) a proprio piacimento; c'è l'eterno contrasto tra
natura e cultura, tra la necessità di soddisfare le proprie pulsioni e l'imperativo sociale di reprimerle, e i
diversi modi di affrontare e gestire, da parte di ognuno, questo dualismo. Ci sono, soprattutto, tre
personalità forti che tentano di trovare un riscontro, nel complesso intrecciarsi dei loro rapporti, alle
teorie da loro elaborate, finendo per venirne consumati e profondamente cambiati. Il tema della
mutazione torna dunque sul piano dei rapporti interpersonali, e su quello più squisitamente sociologico,
come pretesa da parte della società di modificare l'individuo reprimendone gli istinti più profondi: l'unico
personaggio che, nel film, sembra essere immune da questo processo è quello di Otto Gross,
psichiatra dal carattere amorale e nichilista passato sotto le cure di Jung, e il cui sfrenato individualismo
finisce per avere un'influenza fondamentale sul giovane psichiatra e sul rapporto con la sua paziente.
Quello che tuttavia ci si chiede, guardando questo A Dangerous Method, è se 100 minuti non siano
forse troppo pochi per sviscerare tutti i temi contenuti in una sceneggiatura sì equilibrata ma che,
specie nella prima parte, stenta un po' a far emergere il necessario aspetto emotivo della vicenda. La
stessa componente sadomasochistica del rapporto tra Jung e Sabina, conseguenza delle drammatiche
esperienze infantili di quest'ultima, non gode di un adeguato approfondimento, se non nei termini,
piuttosto superficiali, di un rovesciamento dei rapporti di potere e del ruolo realmente dominante tra i
due, che nell'ultima parte del film è decisamente appannaggio della ragazza. La regia è caratterizzata
dal consueto rigore e dalla complessiva asciuttezza che abbiamo visto nel Cronenberg più recente,
squarciata solo dai momenti, visivamente più forti, degli incontri tra i due amanti; ma sembra anch'essa
soffrire, a tratti, di un'ingessatura tra le maglie di uno script che non sempre riesce a dare il necessario
spessore ai personaggi e alle loro vicende. Personaggi che comunque godono di buone
caratterizzazioni, dall'inquieto Michael Fassbender al volutamente granitico Viggo Mortensen nei panni
dei due colleghi-rivali, oltre a un Vincent Cassel beffardo ed efficace nel ruolo di Otto Gross, e
soprattutto a una Keira Knightley che supera brillantemente le insidie del ruolo, dando spessore, forza
emotiva e credibilità al personaggio della futura psichiatra Sabina. Prove attoriali che si rivelano un
elemento fondamentale di un film sì imperfetto ma affascinante, che conferma il suo autore come
esponente di un cinema in grado di rimettersi sempre in gioco, senza aver paura di suscitare
discussioni ed, eventualmente, dividere.
Federico Pontiggia. Il Fatto quotidiano
“La psicanalisi è servita. Erano attori nevrotici, ora ridono e si vestono da soli: sono diventate persone
migliori". In A Dangerous Method ha messo sul lettino Viggo Mortensen (Freud), Michael Fassbender
(Jung) e Keira Knightley (Sabina Spielrein, la donna del triangolo), David Cronenberg per ora ci
scherza su, e cazzeggia: "Ho 68 anni come la Mostra, e sono nato il 15 marzo come Le idi di Clooney”
Ma riderà col Leone in mano? Domanda da strizzacervelli, anzi, da critici: A Dangerous Method è un
film di Cronenberg? A ributtare gli occhi su La mosca, Inseparabili, M. Butterfly, il pedigree non si trova.
Il regista canadese s'è normalizzato, fa il suo onesto compitino, filologicamente corretto e poco più, e
ha il coraggio di ammetterlo: "Forse sono cambiato, è vero. Il tempo che dedico alle riprese non è più
quello di una volta, al montaggio sono molto più veloce. Ma dò sempre al film quello che mi chiede".
Forse uno qualsiasi andrebbe bene, ma da lui - nonostante la china degli ultimi Spider, A History of
Vìolence e La promessa dell'assassino - era lecito aspettarsi di più. Sullo schermo grande di Venezia,
viceversa, approda "una torbida storia di avvincenti scoperte in nuovi territori della sessualità e
dell'intelletto" già pronta per il piccolo schermo, ma il punto è un altro: a chi interessa ancora la singolar
tenzone tra Freud e Jung, che ha già riempito migliaia di pagine e fotogrammi? Se Mortensen e il
superfìgo Fassbender mettono fascino e bravura e Vincent Cassel dà amoralità a Otto Gross, la
Knightley fa l'isterica statuina, si becca le sue goduriose sculacciate da Jung e non convince mai: Cronenberg la paragona "allo scienziato della Mosca che prova su di sé la scoperta", ma Keira fa
solamente di scucchia virtù. Tra le immagini che non dimenticheremo di Venezia 68 c'è il suo
prognatismo: la mascella tirata fuori istericamente, le dita a uncino, il pericolo è qui e ora, altro che
metodo. Ma è in buona compagnia: il Philippe Garrel di Un été brulant tratta la Bellucci come il suo
maestro Godard trattò la Bardot de II disprezzo, ovvero - sarà la Laguna? - a pesci in faccia.
Giorgio Carbone. Libero
Il "metodo pericoloso" del titolo è quello freudiano. Che un secolo fa scoperchiò la pentola dell'inconscio
dando un nome alle più represse pulsioni sessuali. Il "metodo" è già materia di studio quando alla vigilia
della Grande Guerra il giovane psichiatra Cari Gustav Jung scrive (la prima di una marea di epistole) al
"padre" del metodo Sigmund Freud proponendosi come devoto allievo. Jung ha in cura una ragazza
ebrea, Sabina Spielrein traumatizzata da esperienze infantili. Jung chiede a Freud consigli e il
"maestro" glieli dà. Con ottimi risultati (la ragazza migliora). Ma Freud gli manda anche (scambi tra
colleghi legati da reciproca stima) anche un suo paziente. Otto Gross, uno psicopatico porcellone che si
vanta di aver buttato nel cesso ogni remora morale (Freud, benché ateo, risente dell'educazione
ebraica, Jung, poi è figlio di un pastore luterano). Gross prevarica il fragile Jung. Ma cosa aspetta a
prendersi la bella ragazza? (…).
Piacerà un sacco. Almeno a due categorie di persone. A coloro che amano molto l'ultimo David
Cronenberg ("La promessa dell'assassino", "History of violence") e solo a corrente alternata quello delle
opere precedenti (sì per"Inseparabili", no di brutto per "Il pasto nudo" e "Spider"), sì a quelli che dai
tempi di "Relazioni pericolose" stimano Christopher Hampton come uno dei maggiori scrittori di cinema
e teatro viventi. Messe da parte le sue tematiche sui parassiti afrodisiaci, David si conferma qui grande
narratore e grandissimo direttore d'attori (Keira Knightley sembra nata per la parte, Viggo Mortensen è
un Freud plausibilissimo e il muscolare Michael Fassbender suggerisce bene il nevrotico arrivismo di
Jung).
Christopher Hampton. Come con "Relazioni pericolose" alla base della sceneggiatura ci sono delle
lettere (che nel romanzo epistolare di Chrodelos de Laclos erano inventate). Qui invece a essere
rielaborato e l'autentico, fittissimo carteggio tra Freud e Jung. Si scrissero moltissimo i due grandi.
Scrivere, scrivere e scrivere di nevrosi e di follia era un mezzo per esorcizzare i rispettivi fantasmi,
depositarli nel limbo del pezzo di carta. Hampton li fa esorcizzare forsennatamente fino all'inevitabile
conclusione che tutto, proprio tutto non si può esorcizzare.
Mariuccia Ciotta. Il Manifesto
Una pièce tira l'altra, e dopo Polanski, Cronenberg con il suo A Dangerous Method (concorso),
spericolata indagine sulla triade d'oro della psicoanalisi, Sigmund Freud, Carl Gustav Jung e Sabina
Spielrein, new entry nel mondo degli strizzacervelli in seguito alla scoperta del suo epistolario. Succede
però che il «ritrovamento» di grandi protagoniste della storia non superi le ragioni della loro
cancellazione. Scomode presenze negli indici accademici. Così il film presenta: Freud, Jung e Sabina.
Lei, donna-schermo, trait-d'union di una relazione impossibile, personale e teorica tra il macho
Sigmund (Viggo Mortensen) con la sua «fissazione» sul sesso, esibito in forma di sigaro a lunga
durata, e il femmineo Carl Jung (Michael Fassbender, Hunger di Steve McQueen), l'allievo prediletto,
futuro erede dell'autore dell''Interpretazione dei sogni In mezzo, lei, la 18enne russa Sabina (Keira
Knightley, Pirati dei Caraibi) che arriva alla clinica di Zurigo del 29enne Jung come una donna-lupo,
isteria a mille, una furia. L'attrice deforma il suo visetto da testimonial di Coco Chanel in una maschera
dell'orrore, digrignante e tremante, prima di abbandonarsi alla freudiana «terapia delle parole»
applicata da Jung.
Lo stupore morale di Cronenberg, canadese di rigore calvinista, ci ha regalato i migliori incubi con
Videodrome, La Mosca, Crash, Spider fino al delirio purissimo dì eXistenZ ed è qui a confronto con le
origini della «malattia». Raccontami la tua infanzia... Ma come è successo a Polanski, anche
Cronenberg deve spremere i suoi demoni da un testo «moderato», la sceneggiatura di Christopher
Hampton, pluripremiato drammaturgo inglese, autore di script di successo che ha tradotto per il cinema
il suo lavoro teatrale, The Talking Cure (ispirato al libro di John Kerr, A Most Dangerous Method). In
campo c'è il produttore Jeremy Thomas, già in tandem con Cronenberg in Crash e in II pasto nudo.
D segno del regista è più un mood sotterraneo e (come per Polanski e Garrel) un modo di fare cinema
per cui il film lievita e vola via, lontano dai «caratteri», da questa Sabina amante appiccicosa di Jung,
sempre pronto a sculacciarla per darle godimenti di paterna memoria A corrompere l'impettito studioso,
sposato con una prolifica Emma (notevolissima Sarah Gadon dal viso spettrale) ci pensa un
degenerato Otto Gross (Vincent Casse]), psicanalista sfrenato nel seguire la terapia del piacere, e
fautore della poligamia. Insomma, Jung si abbandona a pensieri erotico-mistici, astrologia,
spiritualismo... new age. Freud non Io sopporta, lo mette in guardia, ma. paradossalmente, il
pansessista Jung comincia a diffidare del binomio freudiano sessualità-disordini emotivi. Mentre se
ascoltasse un po' di più Spielrein. invece di frustrarla, il dissidente approderebbe in anticipo al
femminismo cyborg di Judith Butler e Donna Haraway passando per Simone De Beauvoir. Teorie sul
(trans) gender che Freud ha ben illuminato. Il padre della psicoanalisi in questi quadretti bignami fa
invece una figuraccia, un po' trombone e, a sorpresa, sionista. Sarà vero che per conquistare alla sua
causa Sabina Spielrein e allontanarla dal ricco borghese «esoterico» Jung le ricordi «che noi ebrei
dobbiamo stare insieme»? Siamo più o meno nel 1933, l'anno di Hitler. Nel 1941 la psicoanalista
dimenticata che ha suggerito a Freud di considerare il sesso come una «perdita di sé», una
frantumazione dell'io, in bilico sulla pulsione di morte, fu catturata e uccisa dai nazisti insieme alle sue
due figlie. A lei, Roberto Faenza ha dedicato nel 2003 Prendimi l'anima, concentrato sul carteggio
epistolare con Jung. Speriamo in un sequel.
Alessandra Levantesi Kezich. La Stampa
Nel reparto psicologia di molte librerie, all'opera omnia dell'austriaco dottor Freud e dello svizzero dottor
Jung è giustamente riservato uno scaffale a parte, speciale. E chissà che direbbero i due padri
fondatori della psicoanalisi nel vedersi così emblematicamente riuniti, considerato che per profonde
divergenze teoriche spezzarono nel giro di pochi anni un rapporto maestro (Freud)- allievo (Jung),
avviato in maniera promettente. A Dangerous Method di David Cronenberg ripercorre fra il 1904 e il
1913 le tappe principali di quell'incontro/scontro, nel quale giocò importanza fondamentale la presenza
di un terzo personaggio (anch'esso reale): Sabina Spielrein, fanciulla ebreo-russa malata di isteria su
cui per prima Jung sperimentò la «talkative cure» inventata da Freud.
Nel 1906 Sabina è guarita e perdutamente innamorata del suo mentore. Lui cede alla passione
(proibita, in quanto medico e uomo sposato), scoprendo di sé un io segreto, fino a quel momento
represso; poi rompe il legame perché troppo «codardo filisteo borghese» per lasciare la moglie ricca e
comprensiva. Intelligente e dotata, Sabina passa allora a studiare con Freud, maturando personali
intuizioni sul rapporto intrinseco sesso/ morte: mentre il mistico, sciamanico Jung si fa sempre più
sicuro che l'idea freudiana di mettere la libido alla base di tutto sia riduttiva.
Il film incornicia l'intrigante triangolo nel paesaggio rasserenato, tranquillo dei laghi svizzeri e della
Vienna austro-ungarica, prima che l'Europa venga inondata del sangue della Grande Guerra. Interni
agiati e confortevoli, belle ville, un avanguardistico ospedale psichiatrico: nella fotografia di Peter
Suschitzky tutto appare luminoso, mentre il copione di Christopher Hampton, autore del dramma
ispiratore della pellicola, mette a contrasto dialoghi di cristallina finezza non disgiunta da ironia con
aggrovigliate situazioni provocate dal sotterraneo caos delle emozioni. E' probabilmente lo scarto fra le
idee e il fattore umano che ha fatto scattare l'interesse di Cronenberg, autore postmoderno nella sua
vocazione a sviscerare l'animo dei personaggi con la freddezza del vivisezionatore. Qui si direbbe che il
regista canadese abbia deciso di ripartire da zero. O meglio dall'inizio, quando in un mondo ancora
formale, illuso di un'idea continua di progresso, si affacciarono due rivoluzionari l'ebreo e il protestante,
il razionale e lo spiritualista - che, svelando le dinamiche misteriose dell'inconscio, diedero una
micidiale scossa a un apparato sociale che pareva indistruttibile: «Lo sanno che gli stiamo portando la
peste?» dice Freud sbarcando in America. Michael Fassbender (Jung) e Viggo Mortensen (Freud) sono
perfetti, buona la partecipazione di Vincent Cassel, Keira Knightley è attrice che non riesce a
convincerci.
Maurizio Porro. Corriere della Sera
Rotta Zurigo-Vienna, primi del 900: strano triangolo quello formato dai professori Freud e Jung e dalla
paziente Sabina Spielrein che poi entrerà nella società psicanalitica, non senza aver fatto prima litigare
due santoni dell' inconscio, amoreggiando con Carl Gustav, marito e padre devoto quando vuole lui e
reputato dal rivale sciamano brutale e bigotto. Così dopo tante citazioni freudiane di Allen e junghiane
di Fellini, i responsabili vengono impietosamente analizzati da Cronenberg nel suo film meno
genuflesso al suo stile ma imploso in interni dentro almeno tre nevrosi che si fanno dialogo, dubbio,
intelligenza critica assai interessante partendo dal testo di Christopher Hampton, specialista in
«relazioni pericolose», A talking cure personalmente ridotto e dal libro di John Kerr A dangerous
method. Vengono chiamati sulla chorus line del subconscio molti fattori, il solito Edipo, il connubio ErosThanatos, la famiglia e i suoi orrori, e si cita Wagner, si sentono cavalcare le Walkirie, si accenna al
fatto che tutti gli psicanalisti a Vienna erano ebrei nel presagio della persecuzione che verrà, mentre
Hugo Bettauer ipotizzava il romanzo La città senza ebrei. Ben tornato al cinema di parola, come
Carnage di Polanski, che non rinuncia ad essere un ping pong d' emozioni e di infelicità attuali ma
scoperte allora: «Lo sanno che stiamo arrivando a portar loro la peste?», si chiede Freud mentre
sbarca a New York. Certo la psicanalisi ha rivoltato il cinema, cui è coeva, e il film di Cronenberg ne
tiene il dovuto conto, protetto da una rassicurante patina di ovvietà scientifica che acuisce lo strano
ménage a tre in parte già raccontato da Faenza in Prendimi l' anima. E di sicuro senza vincitori né vinti:
il dr. Freud, che somiglia a Cecov e mastica enormi sigari fallici, resta pansessuale (Viggo Mortensen
crede di essere in un western, pronto alla pistola); Jung, magnifico attore Michael Fassbender, curiosa
nel misticismo e Sabina, una Keira Knightley che finalmente senza pirati tra i piedi ci fa vedere come si
soffre, viene uccisa in sinagoga dai nazisti dopo essersi maritata. Cronenberg - ora pronto per
raccontare la seducente storia della clinica per malati di mente del dr. Blanche - non si accontenta dei
fatti ma getta sulla cronaca psicanalitica il germe d' una passione vitale e misteriosa, come una nemesi
storica verso chi ha creduto di aver schedato tutte le nostre patologie, mentre ne manca sempre una.
Fabio Ferzetti. Il Messaggero
Un film gelido e molto controllato su una delle relazioni più bollenti del '900. Uno dei registi più visionari
di oggi alle prese con una materia così incandescente (e con personaggi talmente imponenti) che
finisce per raffreddare e razionalizzare tutto. La vera storia dello strano triangolo che unì Jung, Freud e
Sabina Spielrein, trasformata in cinema sulla base della commedia di Christopher Hampton «The
Talking Cure», a sua volta ispirata al libro di John Kerr «A Most Dangerous Method». Dunque piena di
dialoghi, di sedute analitiche, di scambi teorici fra Freud e il suo più illustre allievo. Cui fa da
controcanto la relazione proibitissima tra Jung e la sua paziente Spielrein, isterica, masochista,
autodistruttiva, ma anche colta, poliglotta, dotata di un'intelligenza e un talento che sedurranno lo
stesso Freud. Sia pure, almeno nel suo caso, solo sul piano scientifico.
Chi si aspettava che Cronenberg avrebbe fatto Cronenberg si disilluda. Stavolta fa il bravo ragazzo. Le
sculacciate inflitte all'entusiasta Sabina Spielrein sono riprese con freddezza chirurgica. Il gioco
straziante di attrazione e tenore che avvicina e allontana più volte negli anni medico e paziente, non
genera scene visionarie ma resta nei confini di una violenza tutta intcriore, più enigmatica che
inquietante. Così la scena più «hard» e perversa di «A Dangerous Method» è quella in cui Jung mette
alla prova la giovane paziente coinvolgendola nella seduta di analisi della moglie (incinta per giunta).
Che si sottopone alla terapia delle libere associazioni mentre Jung cronometra con puntualità davvero
svizzera (e quasi comica) i suoi tempi di reazione.
In tanta compostezza, il cardine segreto del film finisce per essere lo psicanalista selvaggio Otto Gross
(Vincent Cassel), eretico e outcast che predica e pratica la liberazione di ogni pulsione (...). Poche
scene ma decisive, considerando anche la biografia di questo reietto tossicomane e forse psicotico ma
a suo modo geniale, destinato a morire di stenti e rimosso per decenni dalla psicoanalisi ufficiale, ma
amico di Kafka e intellettuale influente. Chissà, magari senza un copione così strutturato, Cronenberg
gli avrebbe dato ben altro peso. Vedrete che prima o poi qualcuno lo farà.
Piera De Tassis. Panorama
Chi si aspettava da Cronenberg un film alla Cronenberg non troverà ossessioni e visioni, follie ed
eccessi delle sue pellicole precedenti. Insomma, siamo sempre a livelli alti, ma manca la zampata che
aggredisce nella carne, come l'acciaio nel suo capolavoro Crash. Il regista canadese mette in scena
con fredda, chirurgica razionalità le tensioni profonde che regolano i rapporti tra il giovane psicoanalìsta
Cari Gustav Jung, il suo mentore Sigmund Freud e la tormentata russa Sabina Spielrein, isterica e
disturbatissima, che diventerà paziente e amante del primo, poi psicoanalista lei stessa, contribuendo
alle teorie sulla sessualità del secondo.
L'idea di Cronenberg, che si ispira per il film alla pièce teatrale di Christopher Hampton, è quella di
mettere a nudo corpo e anima dei personaggi costringendo sul lettino i due pionieri della terapia della
parola e facendoli interloquire in compostissimi dialoghi teorici affinché emergano le nevrosi di
un'umanità fino a quel momento schiacciata tra rigide convenzioni sociali e incandescenti desideri
repressi.
L'isterica esemplare Keira Knightley è un mostro digrignante che allunga e deforma il muso come un
licantropo e non mi piace affatto, benché sospetti che sia interamente cronenberghiano l'accostamento
tra la psicosi e Alien. Scivolamenti progressivi con perversione stavolta lieve, ma decisa battaglia
frontale del puritano Freud contro il misticismo junghiano che avanza nel disprezzo delle regole
dell'analisi con il suo mondo affollato di mostri, miti e misteriche simbologie. Al cinema, come in
psicoanalisi, continuo a preferire Viggo Mortensen-Freud, ma l'irruenza sexy della neostar Michael
Fassbender, Jung, si fa notare.
Paolo D'Agostini, Repubblica
Pur non realizzando un film all'altezza dei suoi due precedenti, ambedue interpretati da Viggo
Mortensen che torna anche qui, Cronenberg riesce in A dangerous method ad aggirare con classe
quasi tutte le trappole del film biografico e in particolare sui grandi protagonisti e sui temi della
psicoanalisi. Tutti spunti che, quando il cinema ne ha tratto ispirazione, hanno regolarmente provocato
naufragi nel ridicolo.
Dunque con un certo sprezzo del pericolo e sorprendendo nell'allontanarsi dal suo mondo di fantasia
per scegliere invece un soggetto quasi didascalico, il regista canadese ha messo in scena il caso di
Sabina Spielrein, che, da quando è stato reso celebre grazie al ritrovamento e alla pubblicazione delle
sue carte, molto tempo dopo la morte avvenuta durante la seconda guerra mondiale, ha già dato
materia a due film italiani (Cattiva di Lizzani e Prendimi l'anima di Faenza). E delle sue relazioni con il
fondatore della teoria e della terapia psicoanalitica Sigmund Freud e con il suo allievo prediletto e poi
principale antagonista CarI Gustav Jung.
Non è la sede per misurare quanto disti la reale dimensione biografica e scientifica dall'adattamento
che Cronenberg ne ha fatto alle esigenze narrative e alla propria sensibilità. Si può solo dire che la sua
preferenza va a Jung. Il quale, non ancora trentenne all'inizio del racconto che prende grosso modo il
decennio tra primi Novecento e vigilia della Grande Guerra, riceve nella sua clinica svizzera una
giovanissima paziente, Sabina, ebrea russa di famiglia benestante. La cura alla luce della nuova
terapia inventata da Freud a Vienna, portando alla superficie della consapevolezza l'intreccio, che è
motivo di terribile sofferenza per la giovane, tra dolore e piacere, tra umiliazione delle punizioni ricevute
da un padre violento e godimento sessuale che dalle stesse umiliazioni ella trae. Via via che la cura
ottiene risultati Jung sospinge Sabina verso lo studio e la pratica psichiatrica, mentre di pari passo ne
diventa l'amante, anche brutale e feroce, come la ragazza gli chiede di essere. La figura di Sabina e i
comportamenti di Jung verso di lei – sofferti e contraddittori rispetto al suo comportamento pubblico
improntato a morigeratezza e rigore – diventano il motivo scatenante delle divergenze e rivalità tra
l'allievo e il maestro e mentore Freud. Anche passando per l'intervento di un'altra figura storica, quella
di Otto Gross che predica nel confronto con Jung le virtù della poligamia e l'innaturalità della
monogamia o in altre parole la liberazione degli istinti contro il reprimere e reprimersi che non sono
sinonimo di civiltà ma di malattia, sullo sfondo c'è il contrasto (cui non è estranea la distanza tra l'ebreo
austriaco e il protestante svizzero) tra la ferma convinzione scientifica di Freud a proposito dei limiti
invalicabili della terapia e della professione psicoanalitiche, e la ricerca di Jung anche oltre e al di là di
quei limiti.