CAPITOLO 2 I TRATTI COMPLESSI Tratti semplici e tratti complessi

Transcript

CAPITOLO 2 I TRATTI COMPLESSI Tratti semplici e tratti complessi
CAPITOLO 2
I TRATTI COMPLESSI
Tratti semplici e tratti complessi
Come detto nel capitolo precedente, la genetica classica studia fondamentalmente i cosiddetti “tratti
mendeliani semplici”, quelli in cui, cioè, un determinato tratto del fenotipo è direttamente prodotto
dall’attività di uno specifico gene. Nel caso delle patologie genetiche, saranno considerati tratti
mendeliani semplici le patologie causate da mutazioni di specifici geni. Così, ad esempio mutazioni
del gene DMD provocheranno la Distrofia Muscolare di Duchenne, mutazioni del gene CFTR
provocheranno la Fibrosi Cistica e mutazioni del gene FGFR3 provocheranno il nanismo. In tutti
questi casi, i tratti semplici mostrano delle precise caratteristiche:
- Il fenotipo deriva esclusivamente dall’azione del gene, senza alcuna influenza ambientale;
- Il fenotipo è di tipo “qualitativo” (ad es. forma o colore) e non di tipo “quantitativo”;
- Il fenotipo è del tipo dicotomico, ossia “del tutto o nulla”. Questo significa, ad esempio,
che esisteranno persone affette da una certa malattia e persone sane per quella malattia,
divisi in gruppi assolutamente netti;
- Il fenotipo viene trasmesso in base alle leggi di Mendel.
Nella genetica del comportamento, invece, la maggior parte delle condizioni che analizzeremo sarà
rappresentata non da “tratti semplici”, ma da “tratti complessi”, ossia da caratteri che derivano
dall’interazione di fattori genetici e fattori ambientali. I tratti complessi avranno caratteristiche
diverse da quelle dei tratti semplici, che possono così essere riassunte:
-
Il fenotipo deriva dall’interazione tra fattori genetici (rappresentati dall’azione non di un
solo ma, di più geni) e ambientali;
-
Il fenotipo è di tipo quantitativo (es. peso o altezza);
-
Il fenotipo non è di tipo dicotomico. Esisteranno, infatti, diverse gradazioni nella
manifestazione fenotipica di un tratto complesso, in particolare per quanto riguarda le
patologie multifattoriali. Questo concetto verrà, tra breve, approfondito quando
parleremo del comportamento come tratto complesso;
-
Il fenotipo si trasmette con modalità che non seguono le leggi di Mendel.
Esaminiamo nel dettaglio le caratteristiche appena elencate, utilizzando come esempio di tratto
complesso quello del peso corporeo.
Tutti sanno bene che il peso di un individuo deriva dall’interazione di fattori genetici e ambientali.
La quantità e qualità di cibo ingerito, infatti, sono assolutamente rilevanti nel determinare il peso
corporeo di un individuo, così come lo è l’esercizio fisico. E’ anche noto che esiste una diversa
suscettibilità individuale a diventare più o meno pesanti, in quanto, a parità di cibo ingerito, alcuni
individui tendono ad ingrassare più di altri, evidentemente a causa di fattori genetici. Questi fattori,
però, non sono rappresentati da un solo gene, ma da molti geni. Alcuni di questi geni controlleranno
il metabolismo, ossia la capacità di consumare o accumulare le calorie ingerite col cibo; altri
regoleranno il senso di sazietà, rendendo alcuni individui, a parità di cibo ingerito, ancora bisognosi
di mangiare rispetto ad altri. Ecco dunque che, la componente genetica del peso corporeo non è
monogenica ma multigenica.
Il secondo punto importante rispetto ai tratti complessi è che essi sono tratti quantitativi. Il peso
corporeo, per rimanere all’esempio già utilizzato, è un tratto quantitativo, quindi misurabile, e non
qualitativo. Questo accade perché l’interazione tra diversi geni e diversi fattori ambientali
provocherà una vasta gamma di possibili fenotipi, tutti compresi nella definizione di peso corporeo.
Per lo stesso motivo il tratto complesso non è dicotomico. Non si può essere “pesanti” o “non
pesanti”, in quanto esisteranno una serie continua di diversi possibili pesi corporei, che andranno a
caratterizzare una serie di condizioni che vanno dalla costituzione corporea magra a quella obesa.
Infine, prendiamo in considerazione l’ultima caratteristica, ossia il fatto i tratti complessi non sono
trasmessi in modo mendeliano. Abbiamo detto che la componente genetica dei tratti complessi non
è di tipo monogenico, ma multigenico. Per il peso corporeo esistono, pertanto, diversi geni di
suscettibilità. Ognuno di questi geni si trasmetterà in modo mendeliano, ossia avrà il 50% di
possibilità di essere ereditato dalla prole. La possibilità, però, che tutti i geni di suscettibilità
vengano trasmessi alla prole è molto minore. Se quindi un individuo è obeso per la presenza di una
serie di varianti geniche che aumentano la sua suscettibilità all’accumulo di grasso, non
necessariamente, tutti questi geni saranno trasmessi in blocco a uno o più figli. Inoltre, visto che
questi geni rappresentano solo un elemento di suscettibilità allo sviluppo di un tratto complesso,
anche se un individuo ereditasse da un genitore tutti i geni di suscettibilità ad un peso corporeo
elevato, la presenza di diverse abitudini alimentari potrebbe condizionare fortemente l’effettivo
manifestarsi del tratto in questione. Pertanto, nel caso dei tratti complessi non si assiste mai alla
presenza di alberi genealogici in cui la malattia si trasmette in modo mendeliano; tuttavia, poiché
ovviamente come detto, i singoli geni di suscettibilità vengono comunque ereditati in modo
mendeliano, la possibilità che in una stessa famiglia un determinato tratto complesso si presenti in
diversi membri è maggiore rispetto a quello che accade nella popolazione generale. Si assisterà,
pertanto al fenomeno della “aggregazione familiare”, ossia della presenza in determinate famiglie
di un numero di individui che presentano lo stesso tratto complesso maggiore rispetto alla frequenza
osservabile nella popolazione generale.
Da tutto quello che si è detto, è facile comprendere come il comportamento umano sia da
considerare un tratto complesso. Infatti, sicuramente il nostro carattere è il risultato di una
componente innata (genetica), ma anche delle esperienze di vita che vengono svolte dall’individuo
(ambiente). Inoltre, il comportamento non è un tratto dicotomico, ma presenta tutta una serie di
possibili variabili che sfumano l’una nell’altra. Il comportamento umano, pertanto, segue le stesse
regole che abbiamo visto, in generale, essere valide per i tratti complessi. Ci si potrebbe chiedere,
peraltro, se in presenza di una chiara patologia del comportamento (es. autismo, schizofrenia) non ci
si trovi di fronte a tratti dicotomici, ossia a condizioni che siano distinguibili in modo netto come
presenti o assenti. Come vedremo in seguito, questo è un punto molto delicato. Per alcune
patologie, quali i disturbi dell’umore o la schizofrenia, la variabilità della condizione di malattia è
tale da poter dire che in realtà non si possa operare una distinzione netta tra un sano e un malato.
Esistono persone all’apparenza assolutamente normali che, in realtà, ad un attento esame,
presentano caratteristiche peculiari di alcune condizioni psicopatologiche. In questo caso abbiamo
una situazione simile a quella che avviene per altre patologie considerate quali tratti complessi,
come ad esempio le patologie cardiovascolari. Potremmo considerare queste patologie come una
condizione dicotomica, dividendo gli individui in: chi ha avuto un infarto o un ictus e chi non li ha
avuti, ma questo sarebbe un grave errore. L’infarto o l’ictus sono, infatti, solo l’evento finale della
patologia cardiovascolare, raggiunto a seguito dell’instaurarsi di un quadro di disfunzioni organiche
quali l’ipertensione, l’aumento di colesterolo e trigliceridi nel sangue, la formazione di placche di
aterosclerosi, e via dicendo. L’individuo che possiede queste disfunzioni, ma non ha ancora
sviluppato l’evento finale (infarto o ictus), non è considerabile come una persona “sana”. Allo
stesso modo, come vedremo, esistono una serie di segni che contraddistinguono l’aumentata
suscettibilità a condizioni quali la depressione o la schizofrenia, anche in persone che non hanno
ancora avuto manifestazioni tali da poter essere diagnosticati come affetti da queste patologie.
Abbiamo, quindi, una condizione differente da quella delle malattie monogeniche, ossia dai
cosiddetti tratti semplici. Nel caso di questi ultimi, infatti, un individuo o è affetto dalla malattia
oppure non lo è, senza vie di mezzo. Pertanto, anche la presenza/assenza di quadri clinici
conclamati di patologie del comportamento umano va, comunque, inquadrata sotto la definizione di
tratti complessi.
Geni e ambiente nella determinazione delle caratteristiche comportamentali
A questo punto, è necessario entrare maggiormente nel dettaglio relativamente a quelle che abbiamo
definito come componenti genetica e ambientale dei tratti complessi. Abbiamo detto che i geni, che
regolano la suscettibilità individuale a sviluppare un tratto complesso, sono diversi. Ma dobbiamo, a
questo punto, chiederci che cosa esattamente intendiamo quando parliamo di suscettibilità genetica.
In primo luogo, dobbiamo specificare che questa suscettibilità è legata a delle modificazioni nella
sequenza dei geni in questione, che sono definibili come “varianti geniche” o “polimorfismi
genici”. Queste varianti vanno distinte dalle mutazioni geniche, che sono quelle che provocano le
malattie mendeliane, e che sono delle alterazioni dei geni direttamente responsabili della patologia.
Ad esempio, una delezione del gene DMD è una mutazione, in quanto configura un assetto non
funzionale di questo gene e provoca direttamente, senza alcuna interazione con fattori ambientali, la
Distrofia Muscolare di Duchenne. Nel caso dei tratti complessi non abbiamo mutazioni geniche, ma
solo varianti geniche, ossia assetti di determinati geni che configurano una loro maggiore o minore
efficienza, ma non una totale perdita di funzione. Queste varianti geniche, pertanto, non sono in
grado di provocare direttamente una malattia, ma creano le condizioni per cui un individuo è più o
meno suscettibile alla malattia in questione. Inoltre, alcune delle varianti geniche in questione
potranno essere addirittura protettive contro il manifestarsi di una patologia, rappresentando, quindi,
condizioni che riducono il rischio di ammalarsi. L’insieme dei geni che aumentano il rischio di una
patologia multifattoriale e di quelli che, invece, svolgono un’azione protettiva costituiscono quello
che si definisce come il “background genetico” di un individuo. Facciamo ancora un esempio.
Immaginiamo che ogni individuo possieda 10 geni che possono regolare la sua suscettibilità ad una
malattia cardiovascolare, essendo geni implicati nella regolazione della pressione sanguigna, nel
metabolismo dei grassi, nella risposta allo stress, e via dicendo. Se un certo soggetto avrà 7 geni che
presentano varianti che aumentano la suscettibilità alla malattia cardiovascolare, e 3 geni che invece
riducono questa suscettibilità, l’insieme delle sue varianti geniche, ossia il suo background genetico,
sarà in favore di una aumentata suscettibilità, ma non allo stesso modo di quanto potrebbe accadere
in un individuo che abbia in tutti e 10 i geni delle varianti che aumentano il rischio. Se invece, un
individuo avrà 6 geni protettivi e 4 geni di suscettibilità, si potrà dire che il suo background
genetico è di tipo protettivo, perché il numero di geni che riducono la suscettibilità è maggiore del
numero dei geni che la aumentano.
Il background genetico di un individuo è stabile nel corso degli anni, in quanto le sequenze dei geni
non cambiano e, sebbene durante l'arco della vita possano manifestarsi delle variazioni nelle
capacità funzionali di alcuni geni, possiamo dire che la componente genetica di suscettibilità ad una
patologia con cui un individuo nasce resta la stessa per tutta la vita. Al contrario, la componente
ambientale di un tratto multifattoriale è variabile nel corso della esistenza, ed è molto legata allo
stile di vita di un individuo. Utilizzando ancora l’esempio delle malattie cardiovascolari, è noto che
esistono fattori ambientali di rischio per queste malattie (ad esempio il fumo, un’alimentazione ricca
di grassi, lo stress, ecc.) e fattori ambientali protettivi (l’esercizio fisico, una corretta alimentazione,
ecc.). L’individuo può modificare nel corso della sua vita l’esposizione a fattori ambientali di
rischio e il ricorso a fattori ambientali di protezione. In questo modo, il suo rischio genetico, che è
immutabile, può produrre effetti completamente diversi in base alle componenti ambientali cui
l’individuo si espone.
Parlando del comportamento umano, possiamo fare un analogo discorso. Ogni individuo nasce con
una serie di geni che possono aumentare o diminuire la sua suscettibilità a manifestare taluni
comportamenti. E’ evidente, però, che l’esposizione di questo stesso individuo a esperienze di vita
di vario genere potrà fortemente condizionare lo sviluppo di un determinato tratto comportamentale
e, in ultima analisi, anche di vere e proprie patologie del comportamento. I fattori ambientali, nel
caso del comportamento umano, non sono peraltro così facili da identificare come nel caso delle
malattie cardiovascolari. Quali fattori ambientali possono modificare il nostro comportamento?
Sicuramente le esperienze di vita traumatizzanti o lo stress sono fattori ben noti. Ma ne esistono
altri, più sottili e sfumati, e più difficili da identificare.
Facciamo l’esempio dei disturbi dell’alimentazione, ossia dell’anoressia e della bulimia, di cui
parleremo diffusamente in uno specifico capitolo. E’ ormai dimostrato che esistono dei geni di
suscettibilità ai disturbi dell’alimentazione, ossia dei background genetici che aumentano il rischio
di un individuo di sviluppare una condizione di anoressia o di bulimia. Questi background genetici
non sono però capaci da soli di far sviluppare tali condizioni. L’epidemiologia dei disturbi
dell’alimentazione ci dice che, nella quasi totalità dei casi, gli affetti sono adolescenti di sesso
femminile che vivono in paesi industrializzati. E’ noto come in questi paesi esista un
bombardamento da parte dei mass-media volto a diffondere l’idea della magrezza come modello
vincente di affermazione sociale. Ecco dunque che, in presenza di un background genetico
predisponente, specifici fattori sociali (società industrializzate in cui il cibo non è più un valore
ricercato) e psicologici (problematiche dell’età adolescenziale in soggetti di sesso femminile)
rappresentano le componenti ambientali che si innestano sul background genetico portando allo
sviluppo della condizione patologica.
Gli endofenotipi
Come esposto nel capitolo precedente, uno dei capisaldi della genetica classica è quello del concetto
di genotipo e fenotipo, ossia dell’insieme delle caratteristiche genetiche di un individuo e delle
caratteristiche morfologiche e comportamentali che ne derivano. Parlando dei tratti semplici, i
concetti di genotipo e fenotipo sono sufficienti: una mutazione di un certo gene provocherà
immancabilmente uno specifico fenotipo derivante dall’alterata funzione del gene mutato. Le cose,
però, si complicano quando si parla di tratti complessi, in quanto, come abbiamo visto, il fenotipo
finale non è il risultato diretto della azione del genotipo, ma è il prodotto della interazione del
genotipo con alcuni fattori ambientali.
Un’acquisizione, relativamente recente, rispetto alla genetica dei tratti complessi è quella dei
cosiddetti “endofenotipi” o “fenotipi intermedi”, che rappresentano un punto intermedio nel
tragitto che va dal genotipo al fenotipo. Gli endofenotipi sono markers biologici posti tra il genotipo
e il fenotipo finale che possono indicare la suscettibilità allo sviluppo di una patologia, o
rappresentarne segni precoci. La cosa più importante, però, è che gli endofenotipi rappresentano il
prodotto diretto dell’azione dei singoli geni che predispongono allo sviluppo di un tratto complesso.
Facciamo degli esempi per spiegare meglio il concetto di endofenotipo. Sappiamo che mutazioni
dei geni BRCA1 e BRCA2 costituiscono un forte fattore di rischio per lo sviluppo di un tumore alla
mammella. In questo caso, il genotipo in questione è la mutazione di BRCA1 o BRCA2, e il
fenotipo è il tumore mammario. Tuttavia, la mutazione di BRCA1 o BRCA2 non produce
direttamente il tumore, in quanto questo non si svilupperà nel 100% dei portatori di mutazione e,
laddove si manifesti, potrebbe farlo anche in tarda età. E’ evidente, dunque, che dovranno
intervenire anche dei fattori ambientali, oltre che la azione di altri geni, andando a configurare un
tipico quadro di un tratto complesso. Le mutazioni di BRCA1 o BRCA2, pertanto, non causano il
tumore, ma causano la aumentata suscettibilità al tumore. A questo potremmo chiederci: ma in che
cosa consiste, in realtà, quest’aumentata suscettibilità? La risposta è che le mutazioni di BRCA1 e
BRCA2 provocano la cosiddetta “instabilità genomica”, ossia una maggiore tendenza del DNA dei
soggetti portatori di mutazione ad andare incontro a danni di vario tipo e a una minore capacità di
riparare questi danni. Ecco che pertanto abbiamo identificato la corretta successione degli eventi: la
mutazione di BRCA1 o BRCA2 rappresenta il genotipo, il tumore alla mammella rappresenta il
fenotipo, e l’instabilità genomica rappresenta l’endofenotipo. Le mutazioni di BRCA1 e BRCA2,
pertanto, non produrranno direttamente il tumore; il loro prodotto diretto sarà, invece, l’instabilità
genomica che, a sua volta, rappresenterà la suscettibilità a nuovi danni del genoma che, alla fine,
esiteranno nello sviluppo del cancro. E’ essenziale, in questo contesto, precisare che anche le
pazienti portatrici di mutazioni di BRCA1 o BRCA2, che non si ammaleranno di cancro, mostrano
comunque la presenza dell’endofenotipo, in quanto saranno comunque portatrici d’instabilità
genomica. Per tutta una serie di motivi, quali l’assenza di fattori ambientali scatenanti, questa
instabilità genomica però non si traduce sempre ed inevitabilmente nello sviluppo della malattia.
Se, pertanto, si fa lo sforzo di cercare un’associazione delle varianti geniche non con il fenotipo
finale, ma con l’endofenotipo, sarà più semplice arrivare a capire in che cosa consista la base
genetica dei disturbi multifattoriali. Parleremo diffusamente di alcuni endofenotipi riguardo a
condizioni quali il disturbo bipolare e la schizofrenia, nei capitoli finali. Per il momento, però,
dobbiamo soffermarci su alcune caratteristiche degli endofenotipi ed, in particolare, dobbiamo
elencare i requisiti minimi che un carattere deve presentare per poter essere definito un
endofenotipo di una patologia multifattoriale:
1) l'endofenotipo deve essere associato alla patologia. In altre parole, in certo endofenotipo
deve essere, di norma, sempre presente negli individui affetti da una certa patologia;
2) l'endofenotipo deve essere ereditabile, ossia deve essere trasmissibile alla prole;
3) l'endofenotipo deve essere presente indipendentemente dallo stato della malattia. Questo
significa che l’endofenotipo deve essere presente anche nei momenti in cui un soggetto è in
una fase di remissione dalla malattia (come accade, ad esempio, nei disturbi bipolari o nella
schizofrenia, dove esistono delle fasi in cui i pazienti possono non mostrare segni della
malattia, ma mostreranno la permanenza dell’endofenotipo);
4) l'endofenotipo deve segregare con la malattia in tutti i soggetti affetti di una stessa famiglia,
ossia deve trasmettersi a tutte le persone di una famiglia che sviluppano la patologia;
5) l'endofenotipo deve presentarsi nei familiari non affetti dei pazienti con una frequenza
maggiore di quella riscontrabile nella popolazione generale. Questo è un punto molto
importante: poiché avere ereditato un endofenotipo comporterà una maggiore suscettibilità a
sviluppare una certa patologia, ma non la certezza di svilupparla; esisteranno dei soggetti
che presenteranno l’endofenotipo ma non svilupperanno la patologia conclamata. La
frequenza di questi soggetti sarà ovviamente più alta in una famiglia in cui siano presenti
alcuni casi della patologia in questione, piuttosto che all’interno della popolazione generale.
Un genitore schizofrenico, ad esempio, potrà trasmettere ai figli degli endofenotipi di
schizofrenia, anche se i figli potrebbero non diventare mai schizofrenici. La possibilità di
ereditare un endofenotipo di schizofrenia, pertanto, sarà più alta nelle famiglie in cui ci siano
già presenti uno o più casi conclamati che nella popolazione generale.
La messa a fuoco del concetto di fenotipo intermedio o endofenotipo rappresenta una svolta
fondamentale nella genetica dei tratti complessi, e quindi anche nella genetica del comportamento.
Infatti, identificare esattamente quale processo biologico viene ad essere influenzato dalla presenza
di varianti di specifici geni ci permette di capire quali siano le vie attraverso le quali i geni regolano
la suscettibilità alle patologie multifattoriali, a comprendere quali fattori ambientali siano più
rilevanti nella determinazione del fenotipo finale e a porre le basi per una terapia mirata che non si
basi più sulla cura del sintomo, ma che sia rivolta verso la normalizzazione dei processi biologici
alterati. Soprattutto, questo tipo di studi permetterà di costruire delle terapie personalizzate che
siano basate sulla conoscenza dei difetti molecolari provocati dalla presenza di specifiche varianti
geniche.