Comunicazione e giornalismo: nuove vie e vecchie questioni
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Comunicazione e giornalismo: nuove vie e vecchie questioni
I Quaderni Ceur Comunicazione e giornalismo: nuove vie e vecchie questioni Appunti del Workshop Camplus 1 1 La Fondazione C.E.U.R., Centro Europeo Università e Ricerca, è un’istituzione culturale ed educativa che fa parte dei Collegi universitari di merito legalmente riconosciuti dal Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca. Essa nasce nel 1990 dall’iniziativa di professori universitari, imprenditori e professionisti e, come da statuto, si prefigge di offrire agli studenti e ai giovani ricercatori universitari le migliori condizioni per essere protagonisti della costruzione del proprio futuro. La Fondazione gestisce attualmente 8 Collegi di merito, a Milano, Bologna, Catania e Torino, che fanno parte del network Camplus e in cui viene valorizzato al meglio il talento di ogni studente. Fondazione C.E.U.R. Piazza della Resistenza, 9 40122 Bologna Tel. +39 (051) 5287474 Fax +39 (051) 5287476 www.ceur.it Comunicazione e giornalismo: nuove vie e vecchie questioni Appunti del Workshop Camplus Relatori: Enrico Castelli, Direttore Rai sede Milano Alessandro Banfi, Condirettore Videonews Giovanni Santambrogio, Docente di giornalismo Università Cattolica Sacro Cuore Gian Guido Vecchi, Giornalista Corriere della Sera Luigi Amicone, Direttore Tempi Marco Bardazzi, Caporedattore de La Stampa Giuseppe Braga, Direttore Rivista Volare 5 6 NOTA DI REDAZIONE: Il 14 e 15 dicembre 2012 a Milano, presso il Collegio di merito Camplus Turro della Fondazione C.E.U.R., 30 ragazzi selezionati tra i 700 del network nazionale Camplus, hanno partecipato attivamente al workshop sul giornalismo. Aspiranti del mestiere, semplici interessati, esploratori delle nuove vie della comunicazione (praticamente tutti) si sono confrontati con 7 giornalisti italiani, introdotti e coordinati da Davide Rondoni. Essi hanno avuto la disponibilità e l’intelligenza di mettersi in gioco con questi giovani non dando niente per scontato, tanto più su un tema che, attraversato com’è dalle nuove potenzialità offerte da internet e dai social network, non si presta certo ad approcci apodittici. Ne è risultato un dialogo ricco di contributi interessanti, di stimoli inediti, utile per chiunque si appresti a metter mano ad un’attività giornalistica e anche per coloro che tale attività svolgono da tempo. Utile a capire e a comunicare l’esperienza della realtà. Qui ne viene dato conto attraverso una sintesi colloquiale e non integrale, che restituisce in ogni caso ad una platea più ampia gli esiti del lavoro svolto. 7 14 dicembre, pomeriggio Rondoni: La comunicazione è sempre stata un aspetto antropologico fondamentale. Siamo in un periodo storico in cui cambiano, sulla via della facilità e della leggerezza, gli strumenti, le abitudini, le potenzialità, le capacità. Ma sono cambiamenti di superficie. Sotto questi avvengono cambiamenti più profondi, che sono cambiamenti di autorevolezza. Comunicare qualcosa significa essere autore. La parola autore deriva da augeo, l’autore è colui che scrivendo crede di aumentare la vita degli altri. Gli antichi dividevano coloro che scrivono in compilator, commentator, scriptor e autor: si può scegliere come fare comunicazione. E se si sceglie di essere autor inizia il rischio. I cambiamenti che si stanno verificando vanno a scardinare proprio il concetto di autorevolezza. Ieri si diceva “l’han detto in televisione”, oggi si dice “è scritto su Wikipedia”. Sono autori che si pongono, sorgono e si contestualizzano in modo diverso. Quello che si può notare è che sta risorgendo l’idea dell’autore collettivo: non sappiamo chi era Omero, così come non sappiamo chi scrive su Wikipedia. Ho fatto questo incipit per introdurre i nostri tre ospiti che hanno sfidato la neve per essere qui. La parola a Castelli. Castelli: “Fatti separati dalle opinioni, è possibile?”, questo è il titolo che mi è stato dato. Vi faccio una domanda: a chi di voi piace la neve? E a chi di voi non piace? Ecco, qui sta il dilemma. Immaginate la differenza di titoli che usciranno sul giornale. Questo esempio banale dà l’idea del problema. Facciamo un passo indietro. I giornali raccontano notizie, ma che cosa vuol dire “notizia”? Lo Zingarelli recita: “L’annuncio di un fatto recente portato a conoscenza del pubblico”. Ma perché alcuni fatti diventano notizia e altri no? Prima del “come” viene data una notizia, bisogna chiedersi “perché” una notizia viene selezionata piuttosto di un’altra. C’è un elemento di discrezionalità sempre presente nel nostro lavoro. Un altro manuale, Dirizza, dice che un fatto diventa notizia per “la singolarità e la novità, per le conseguenze che può avere sulla vita della gente, per la vicinanza della zona di diffusione del medium, per i riflessi di coinvolgimento emotivo che un fatto ha”. L’esempio classico è “un cane che morde un uomo non fa notizia, un uomo che morde un cane diventa notizia” per la singolarità del fatto. In base a che cosa un fatto diventa notizia? Aggiungo, l’interesse dell’editore che c’è alle spalle del giornale. E la scelta editoriale del Direttore, che ha una propria impostazione culturale. La vicinanza dei media, dicevo prima. La figura del reporter sta andando un po’ 8 perdendosi, ma è fondamentale che il giornalista si trovi accanto ai fatti. E la notizia può assumere rilievo grazie alla vicinanza dei giornalisti. Ciò rende più spontanea la scelta di un fatto piuttosto che un altro. Per la televisione, la presenza di un filmato, cambia radicalmente la valorizzazione della notizia. Ma tra il fatto e la notizia c’è di mezzo il giornalista: l’aspetto umano ha un’importanza decisiva. Faccio un esempio. Se un bicchiere d’acqua è pieno a metà, uno può titolare: “Ecco un bicchiere mezzo pieno”; un altro può titolare “Ecco un bicchiere mezzo vuoto”. O ancora, se il contenuto non è importante per l’editore:”ecco un bicchiere di vetro”. Chi ha ragione? Chi è più obiettivo? Tutti, solo che ciascun giornalista ha raccontato la realtà del bicchiere secondo proprie categorie, propri stimoli o propri interessi. Un fatto può essere interpretato in modo diametralmente opposto. Ma chi ha ragione? Qualcuno ha sbagliato? No, ognuno mette l’accento su cose diverse. Uso una definizione di Umberto Eco: “Il mito dell’obiettività, con l’immagine correlativa del giornale indipendente, camuffa semplicemente la riconosciuta e fatale prospetticità di ogni notizia. Per il semplice fatto che io scelgo di dire una cosa piuttosto che un’altra, ho già interpretato”. E poi, Oriana Fallaci: “Ciò non piacerà ai cultori del giornalismo obiettivo, per i quali il giudizio è mancanza di obiettività, ma la cosa mi turba pochissimo. Quello che essi chiamano obiettività non esiste. L’obiettività è ipocrisia, presunzione, può esistere solo l’onestà di chi fornisce la notizia o il ritratto”. Io sono dell’idea che l’obiettività con la O maiuscola non esista. Ognuno si pone di fronte a un fatto con l’esperienza che ha. Bisogna però abbandonare i propri pregiudizi, porsi davanti a ciò che che si è chiamati a raccontare il più possibile disposti a lasciarsi interrogare e colpire dalla realtà. E ci sono una serie di sfumature che tendono a raggiungere quella verità dei fatti che è la completezza dei fattori in gioco. Finisco in bellezza con una citazione di Benedetto XVI: “La comunicazione autentica esige coraggio e risolutezza, esige la determinazione di quanti operano nei media per non indebolirsi sotto il peso di tanta informazione e per non adeguarsi a verità parziali e provvisorie. Esige piuttosto la ricerca e la diffusione di quello che è il senso e il fondamento ultimo dell’esistenza umana, personale e sociale. In questo modo i media posso contribuire costruttivamente alla diffusione di tutto quanto è buono e vero”. Grazie Banfi: Io devo parlare di “Molta informazione, nessuna informazione”. È un paradosso che viviamo tutti, siamo bombardati da notizie, anche inutili. La parola chiave è “interesse generale”. Che differenza c’è tra notizia e pettegolezzo? La notizia riguarda la vita di tutti noi, il pettegolezzo al contrario posso non saperlo. Quando leggendo qualcosa la reazione naturale è “ma chi se ne frega?” vuol dire che non mi riguarda, che non influirà sulla mia vita, che non ne sarò condizionato. Negli ultimi anni la confusione tra notizia e pettegolezzo è aumentata. Aleksandr Solženicyn fu 9 il più grande dissidente dell’Unione Sovietica, negli anni ’80 fuggì e andrò a vivere nel Wyoming. E a un certo punto disse: “Non ne posso più del sistema dei mass media occidentale. Ho il diritto di non sapere”. Era vissuto in un regime dove una notizia poteva essere un reato. Le notizie erano accuratamente selezionate. Eppure si ribella. Quanto è giusto questo sentimento! Gran parte della comunicazione di oggi non dà informazioni vere, non fa crescere. Pasolini aveva capito che la grande rivoluzione italiana consumistica del ‘68 era anche una rivoluzione della conoscenza, dell’informazione. Lui parlava di “retorica della bruttezza”. Abbiamo sempre bisogno di ipotesi radicali per avere uno squarcio nella vita quotidiana, per avere un respiro maggiore nel vivere e nell’apprendere quello che facciamo. Ma qual è la buona informazione? Quella di cui anche il sistema ha bisogno? La tendenza all’obiettività non può che essere una tendenza, ma è corretta. È l’avvertire che le nostre sono verità parziali. Ma la stampa è necessaria in un sistema democratico. Nel fondamentale principio del check and balance, cioè del controllo reciproco dei poteri, l’informazione svolge un doppio ruolo: il diritto di raccontare alla gente quello che succede (e il diritto della gente di saperlo) e anche il diritto di controllare attraverso questo racconto che cosa fanno i diversi poteri. Troppe volte si banalizza il discorso e si dice che la stampa fa parte del sistema, ma immaginate se non ci fosse. C’è un altro aspetto in questa vicenda. Marx nel Manifesto del 1848, diceva: “Ogni cosa, nella società capitalistica, è merce”. La notizia è merce, c’è un mercato delle notizie, ha dei meccanismi che fanno parte del mercato. Per esempio, il record storico della trasmissione Matrix è stata la puntata in diretta da Avetrana dell’arresto della cugina di Sara Scazzi, Sabrina Misseri, con cui abbiamo fatto il 42% di ascolto. Una cosa umiliante. Ma significa che nel mondo del giornalismo le notizie sono influenzate, e quindi selezionate, da ciò che alla gente piace. Allo stesso tempo però dobbiamo sentire la necessità di leggere il giornale, di sapere che cosa accade, di renderci conto che il nostro destino c’entra con quello degli altri. Per questo il giornalismo è grande, perché è come la piazza, è un luogo d’incontro, è una grande occasione di comunità. Questa è l’opportunità della molta comunicazione. Per me scrivere è vedere e conoscere la realtà. Santambrogio: Mi è stato affidato un titolo un po’ filosofico “L’epoca della comunicazione e dell’incomunicabilità”. Il primo punto che vorrei affrontare è il silenzio, tratto da Pragmatica della comunicazione umana di Paul Watzlawick, esponente della Scuola di Palo Alto. Dice: “Non si può non comunicare e anche il silenzio è comunicazione”. Ognuno di noi reagisce ad un comportamento, anche nel silenzio c’è interazione. Ecco, il lavoro giornalistico si basa essenzialmente sulla lettura degli eventi, delle parole, dei movimenti. La sensibilità del giornalista è fondamentale, così come la sua capacità di 10 vedere e ascoltare. È quello che si chiama “fiuto giornalistico”. E più ci sono dettagli e particolari più la notizia sarà completa. Il giornalista non è chiamato a trovare la verità, perché la notizia non è un rapporto sulla verità. Ma fa un lavoro di approssimazione ai fatti, che via via aggiorna interpretando e approfondendo. Il concetto di interpretazione è importante, bisogna essere educati all’interpretazione. Più siamo informati e sensibili più siamo in grado di interpretare. Umberto Eco in Una bustina di Minerva scrive che “i giornali erano letti tra le righe”. Questo per dire che c’è molto di non detto e allusivo, c’è sempre un margine di interpretazione. Una grande lezione di scrupoloso lavoro di interpretazione per arrivare a cogliere il vero significato dei fatti e delle parole lo vediamo in quel capolavoro che prende il nome di Bibbia glossata: ogni testo dell’Antico e del Nuovo Testamento viene letto parola per parola (glossa interlineare), a cui si aggiunge a lato del testo la “glossa ordinaria” che costituisce una raccolta di interpretazione tratte dalle opere dei Padri della Chiesa; in aggiunta a queste due letture se ne aggiunge una terza, la postilla, che offre un commento morale alle stesse parole e frasi. La nostra situazione odierna è definita “biomediatica”: noi viviamo un passaggio e stiamo facendo un salto, non tanto di strumenti ma, come diceva Rondoni, di autorevolezza. Internet, che inizialmente era un luogo di incontro, adesso è un ambiente in cui noi diventiamo comunicatori nel bene e nel male, con responsabilità o con leggerezza. La crisi della carta stampata porta con sé questo cambiamento di atteggiamento: noi stessi siamo giornalisti, tutti sono comunicatori e produttori di informazione. I media tradizionali (giornali e tv) ormai si servono di registrazioni o fotografie degli utenti, per esempio. L’essere biomediatici sottolinea l’importanza dell’utilizzo dei mezzi: il telefonino è ormai un nostro prolungamento. Certo, noi non siamo il telefonino, ma non riusciamo più a vivere senza. Non abbiamo mai letto né scritto come adesso. Tendiamo a rendere pubblico il privato, comunichiamo di più, finendo col fare concorrenza alle pubblicazioni commerciali attraverso quello che si chiama citizien journalism. Questa ipercomunicazione avviene all’interno di una caduta di valori che segnala una solitudine incredibile. La domanda che vi lascio è: in questa “solitudine da rumore” è possibile il superamento della nuova solitudine digitale? Io credo di sì. Una notizia può essere riportata in modi diversi, ma ciò significa che dovremmo leggere più giornali e magari anche qualche blog, investendo una quantità di tempo oltre le nostre possibilità. È possibile avere un’idea complessiva più facilmente? È vero che per ogni notizia non si può avere una verità assoluta, ma in ambito scientifico secondo me la notizia è una. Mentre i giornali tendono a interpretare anche queste. Non dovrebbe essere totalmente oggettivo? Per esempio, quando ci fu la notizia dell’HIV nacque una psicosi collettiva anche per colpa dei giornali… 11 Molto viene riportato in funzione scandalistica, soprattutto in televisione, e non educativa. Il giornalista non dovrebbe selezionare le notizie a prescindere dal successo nel pubblico? E se la notizia contrasta con l’interesse dell’editore? Il giornale come si comporta? Banfi: Riguardo alle notizie scientifiche spesso riguarda l’Organizzazione mondiale della sanità. Se c’è un caso dove la responsabilità della stampa è relativa, è proprio questo. Non esiste una notizia scientifica, esiste una notizia il cui argomento è la scienza, ma la scienza per sua natura è confutabile. Non esiste la notizia vera per scienza, sennò pensiamo che ci siano notizie di cronaca meno attendibili di quelle di scienza. La notizia è sempre uguale, che sia riguardo a un libro, a una madre che uccide un figlio, alle minigonne. È il modo di dare la notizia che conta, ci sono dei criteri da rispettare in tutti i casi. Quanto alla tv educativa ci fu un nobile tentativo di Bernabei, grande intellettuale manager che costruì la Rai del dopoguerra. Quella era una Rai pedagogico-educativa, fatta di romanzi, teatro, con una grande ipotesi formativa. Ma nell’informazione, l’educazione fa sempre un po’ paura, perché l’avvicina alla propaganda, all’ideologia. La tv educativa è un esperimento finito. La cosa importante è tener presente che ci deve essere un confine tra propaganda e informazione, soprattutto in un mezzo così forte come la televisione. Castelli: Certo, concretamente è impossibile leggere tutti i giornali. Quindi che fai? Il discorso va capovolto: parti da un’ipotesi di lettura dalla realtà. Seguendo questa ipotesi ti rendi conto se il giornale che leggi ti rispecchia o meno. Santambrogio: Se c’è una notizia contro l’editore il giornale cosa fa? Non la dà. O la dà in un determinato modo. La domanda è: tacere o darne un’interpretazione? Scatta la valutazione della notizia. C’è un interesse che porta a dire “soprassediamo”, ma la concorrenza è ormai evidente. Direi che ormai è impossibile non dare una notizia. Parto dal presupposto che la folla sia irrazionale, come diceva Manzoni. Però secondo me c’è una responsabilità del giornalista da cui non si può prescindere. Noi in quanto contemporanei siamo facilmente offuscati dalle idee del periodo storico in cui viviamo. Ci sono degli eventi per cui noi non siamo sensibilizzati e che, ciò nonostante, potrebbero avere delle conseguenze sconvolgenti… Poi la modalità e la velocità con cui le informazioni vengono date, conta. Però secondo me, e com’è scritto nel saggio “Divertirsi da morire” di Neil Postman, ciò ne sminuisce il valore, la qualità sta scadendo. È vero? 12 Banfi: Ci rendiamo conto di che cos’è la responsabilità. Il tema dell’emulazione è un tema verissimo. Come per esempio i suicidi per ragione economica dell’ultimo periodo: la cosa rischiava di creare la notizia che dava. E in questo caso è efficace l’autocensura, perché quando gli agenti esterni intervengono in materia della libertà di stampa succedono sempre dei pasticci. Castelli: I giornali vivono il tempo in cui vivono, è evidente. Certo, dove può agire un giornalista? Nell’anticipare, nell’intravvedere un aspetto che potrà diventare caratteristica generale, nel cogliere una novità, ma qui entra in campo l’intelligenza del soggetto. È il fiuto di cui si parlava prima. Santambrogio: C’è un articolo interessantissimo sul primo numero dell’Europeo, giornale che nacque con il giornalismo d’inchiesta e dove si formarono le più grandi firme italiane come la Fallaci, la Cederna... Tra queste inchieste, un grande giornalista come Tommaso Besozzi smonta la versione ufficiale della morte del bandito Giuliano. È un giornalismo di osservazione e ricostruzione: cerca di incastrare i pezzi in un puzzle di dati e di fatti. Questo per dire che spesso il giornalista si trova in una situazione di rumore sui fatti ma di profondo silenzio sulle vere dinamiche, e deve superare questi silenzi, questi sbarramenti. Uno strumento che ha il giornalista per guardare più in là, che è legato alla sua credibilità, è l’agenda di rapporti che costruisce nel tempo. Un giornalista che non tiene relazioni, che non costruisce legami di conoscenze, non esiste. Per esempio, il papa ha sottolineato, il giorno dell’Immacolata, come l’evangelista Luca storicizzi l’evento del Battista. Una notizia che non aveva peso, vede i potenti fare da cornice a una persona ritenuta allora irrilevante. Se noi sappiamo di Erode, Pilato, Tiberio, lo sappiamo attraverso un episodio che all’epoca era irrilevante. Infatti si dice che il lavoro del giornalista è da storico del presente. È stato detto che il gusto influenza la notizia. Ma non dovrebbe essere il contrario? Se i giornalisti sono i professionisti dell’informazione, non dovrebbero essere loro a influenzare il mio gusto? Perché andare alla ricerca di particolari scabrosi? Non tutta la gente è parte del pubblico del Colosseo… Santambrogio: All’origine della notizia esiste un processo dell’informazione. Il giornalista come procede di solito? O si alza e va alla ricerca di un fatto o prende un lancio d’agenzia e ne racconta, cercando altre informazioni e facendo qualche telefonata. Non necessariamente assecondo un gusto, ma scelgo un determinato taglio. Ci sono dei modelli giornalistici che hanno dei referenti e un modello teorico alle spalle. Lo teorizzò Paolo Mieli per quanto riguarda Cultura e spettacoli, per esempio, attraverso il modello della contrapposizione. Diciamo che spesso il giornalismo asseconda determinati gusti, perché c’è una domanda di curiosità. La lettura che fa il giornalista di un fatto non segue un gusto popolare, ma segue la 13 scelta del mio Direttore, del mio giornale. Si trova davanti a una richiesta a cui deve dare una precisa risposta. Nel fare le notizie ci sono molte fonti che offrono notizie ai giornali, da una conferenza stampa al tweet di un giocatore. La notizia ha sempre una paternità, a volte è nascosta. Il giornalista, che deve fare un lavoro di scavo per mettere in campo tutti gli interessi. Su determinati fenomeni, come l’ipersensibilità su certi fenomeni, agisce il giornalista, che deve fare un lavoro di scavo ma mettere in campo tutti gli interessi. È il rischio che si prende il giornalista: deve sapere smontare o smascherare notizie e informazioni che vengono create ad arte per poter arrivare a un determinato punto. Poi io diffido dalla finalità educativa dell’informazione. È ovvio che nell’informarsi una persona si forma (leggere il Fatto è diverso che leggere Libero, per esempio). Ma chiedere che un giornalista si preoccupi di formare, non lo condivido. Perché nel momento in cui un giornale si ponesse il proposito di educare, fa scivolare l’informazione nell’ideologia. Adesso paradossalmente tutti fanno i giornalisti, ma non si rischia di avere una deriva che si discosti troppo tra quello che in realtà deve essere un lavoro quasi chirurgico? Sì, da una parte apre scenari interessanti, ma dall’altra un giornalista deve fare un preciso percorso… Abbiamo parlato della notizia come merce collegato a Marx. Penso al mito di Tantalo: la notizia a volte diventa anche questo. E il giornalista a volte mette in scena delle figure appositamente per creare una notizia. Il giornalista insomma non solo prende i fatti, ma a volte può anche crearli alla ricerca di una determinata risposta dall’ascoltatore. Il problema è che la notizia deve vendere, deve essere appetibile… Il mito di Tantalo, l’uomo che non si disseta mai pur bevendo: in fondo questo è il nostro rapporto con la realtà. C’è un parametro che rende ragione e sdrammatizza il problema dell’invadenza della notizia. A me pare che in questa situazione ci sia una possibilità in più, un di più di rapporto con la realtà. Ben sapendo che c’è un’infinitezza che è inattingibile. Santambrogio: Nel mare dell’informazione, la figura del giornalista non scompare, anzi. Più aumenta la confusione, più diventa necessaria la sua presenza per un ruolo di discernimento in ciò che accade. Tutti diventiamo giornalisti perché con i mezzi che abbiamo a disposizione, diamo rilievo a tutto ciò che ci succede: è il giornalismo diffuso. Però in questa proliferazione di fonti c’è bisogno di un giornalista che riesca a offrire al lettore, secondo i criteri di notiziabilità, una guida. . E aiuti anche ad avere un rapporto con la realtà più serio e senza il rischio di perdersi. Bisogna 14 avere riferimenti credibili e diventare più critici e profondi, legati all’approfondimento e allo studio. La pluralità dei mezzi non ci esime da uno studio personale più approfondito, anzi. Rondoni: Faccio un’introduzione per presentare Vecchi: mia nonna non era molto informata ma non per questo era peggiore di me. Noi viviamo in un’epoca in cui crediamo che l’uomo sia migliore in quanto informato. È una versione minore di un’altra idea secondo cui l’uomo è migliore se è acculturato. Ma nel momento in cui si è diffusa la cultura dei giornali, la stessa idea si è adeguata. Se prima era l’uomo colto il migliore (quello che Leopardi chiamava “la società stretta”) adesso è l’uomo informato. Noi siamo in un momento in cui si dimostra che non è vero. E non è detto che l’essere più informati renda più capaci di una rapporto sicuro con il reale, anzi. Ciò mi rende più insicuro del rapporto con la realtà. Sono due assunti diversi: io non credo che l’uomo informato sia meglio. Per cui mia nonna è migliore di tanti giornalisti. Camus diceva: “Tra la giustizia e mia madre, preferisco mia madre”. Abbiamo la presunzione che essere informati renda migliori, ma non è vero. Vecchi: Intanto bisogna capire che cosa intendiamo per informazione. Mi venivano in mente le Olimpiche di Pindaro, quando il poeta si lamenta perché vengono esaltati solo gli atleti , mentre oggi possiamo avere qualche vaga idea di chi ha vinto le Olimpiadi perché lui lo ha scritto. Il tempo fa giustizia. Il discorso dell’informazione ha a che fare con il rapporto tra la cronaca e la storia, con il rapporto con la realtà. Ma la definizione “storico del presente” credo che sia un ossimoro, non ho questa presunzione e non credo che sia possibile. Per fare lo storico bisogna avere una distanza storica, la difficoltà del giornalismo è cercare di raccontare la realtà in diretta. La pretesa di fare storia in diretta è illusoria, credo che sia già molto riuscire a raccontare l’oggi in modo corretto. Io appartengo a una generazione che ha visto nella vita di redazione un cambiamento epocale. Adesso fa ridere, ma la prima volta che sono entrato al Corriere, alla fine degli anni Ottanta, avevo ancora davanti le macchine da scrivere e i miei primi pezzi li ho scritti con una Olivetti. Su internet, in questo oceano sterminato di notizie, il ruolo del giornalista rimane. Perché la gente cerca informazioni su internet dalle fonti di informazione accreditate. I siti più visti sono Corriere, Repubblica, Stampa, quindi il ruolo non sfuma, pur cambiando molte cose. Bisogna guardare in positivo a questa moltiplicazione di notizie. Per esempio, la censura è praticamente impossibile adesso. Però questo cambiamento nei mezzi comporta sicuramente un cambiamento nella vita del giornalista e nella sua formazione. Il rapporto con i vecchi giornalisti per 15 me è stato fondamentale. Io ho avuto la fortuna di iniziare a lavorare nella cronaca, l’ABC del giornalismo. Col passare degli anni questo modo di formarsi è sfumato sempre di più. Se adesso si entra in una redazione sono tutti lì. C’è il paradosso che esce e racconta chi ha fatto carriera, mentre i giovani stanno in redazione a guardare il video. Mentre è l’esatto contrario di quello che dovrebbe avvenire: l’uscire diventa una prerogativa di quelli che sono già da molto in un giornale per poterselo permettere, come se fosse un privilegio e non la base della professione. Questo è un serio problema perché il rapporto con la realtà è un rapporto mediato. Per cui il rischio è che il lavoro del giornalista si riduca alla sintesi e alla selezione delle notizie, tutto a distanza. E questo cambia, cambia tragicamente. Perché la capacità di selezionare le notizia la devi alla formazione che hai avuto. Quando lei parla del vecchio modo di fare giornalismo io penso a una sorta di giornalismo investigativo. Ma quello di oggi è ancora un giornalista? Ci interessa la deontologia del lavoro del giornalista… è un lavoro che ha un futuro o l’idea del “giornalismo cittadino” porterà a una nuova figura? La nostra sfida è capire qual è. Un giornalista con la sua esperienza che cosa può dire a una ragazzo di vent’anni che vuol fare il giornalista? Non sono due cose distinte. In questo momento tutti i giornali si pongono il problema di distinguere ciò che andrà in rete da ciò che andrà sulla carta. Io non credo che scomparirà la carta: i mezzi sono diversi, per cui a ciascun mezzo competerà un modo di trattare le notizie in modo differente. La notizia si dà di slancio sull’online e la si approfondisce poi sulla carta, non si escludono le due cose. Così come non si escludono i due profili di giornalista, è sempre la stessa persona che fa due pezzi con un taglio diverso. Ma noi stessi non sappiamo ancora come fare materialmente, non abbiamo ancora risolto. È tutto in fieri. La Stampa per esempio ha creato una struttura della redazione circolare, un open space, per la più facile comunicazione delle notizie. Ma ci sarà ancora il lavoro del giornalista. Il rischio è che si dividano le due figure, che ci sia il giornalista in batteria e quello a contatto con la realtà. Impoverirebbe anche il giornalista che esce al quale comunque è richiesto di conoscere la rete, perché sono ormai strumenti del mestiere. Qualcosa si perderà, però credo che uno debba cercare di portare l’eredità del modo classico di fare il giornalista per non perdere troppo. Il rischio non è che scomparendo la vecchia generazione, non ci sia più nessuno che saprà fare il mestiere fuori? Sì, quello è il rischio, tra cui la perdita di alcuni automatismi, come controllare l’Ansa. Però dipenderà da noi, dalle responsabilità che ci vogliamo prendere. Io propo16 nevo che gli stagisti non venissero mandati agli Interni o agli Esteri perché vuol dire passare il tempo davanti al video, ma in Cronaca perché l’unico modo per avere un contatto con la realtà. Ma stiamo parlando di cose che non abbiamo risolto. Le domande che fate a me, sono quelle che ci facciamo noi, con una consapevolezza maggiore rispetto a due anni fa. Ma non vi posso dare delle risposte chiuse, perché non abbiamo ancora la soluzione. Lei ha parlato del rapporto con i vecchi giornalisti come palestra per la professione. Quindi lei che cosa consiglierebbe in questo momento di grande difficoltà? Vale sempre quello che diceva Montanelli: “Leggete Flaubert”. Il giornalismo consiste nella scrittura, e per saper scrivere devi leggere. Poi ti crei quella conoscenza di fondo che ti serve per qualsiasi cosa tu faccia. Sono quegli strumenti che ti servono per orientarti nel magna informe dell’informazione. Poi è ovvio che se conosci l’inglese è meglio e che devi essere pratico con il computer, ma queste sono cose comuni e assodate. La differenza la fa la tua cultura, il tuo spirito critico, la tua conoscenza della natura umana. Rondoni: Faccio una domanda io, ora. Finché il rapporto con le fonti è neutro, va bene. Ma se tu fossi uno che costantemente pubblica pezzi contro il Vaticano, ti risponderebbero allo stesso modo? Vecchi: Dipende molto dall’intelligenza delle fonti. Per i partiti non è così, ma nel mio settore valutano la correttezza. Io posso anche dire che la tua è una politica scellerata ma se ho riportato correttamente quello che hai detto, non c’è rancore. C’è la diffidenza nei confronti di quello che altera o travisa le cose, ma è anche giusto. 17 14 dicembre, serata Si è tenuta una testimonianza di Luigi Amicone, Direttore di “Tempi”, sul tema “Cosa vuol dire, oggi, fare il giornalismo corsaro?” 15 dicembre, mattina Rondoni: Ringrazio Marco Bardazzi e Giuseppe Braga di aver trovato il tempo per essere qui. Proseguiamo sull’onda di ieri, sulla forma della testimonianza e del racconto di questioni e problemi affrontati nella loro carriera. Bardazzi: Buongiorno a tutti. Sono caporedattore centrale della Stampa a Torino, prima ho fatto il corrispondente dagli Stati Uniti per l’Ansa, prima ancora ho fatto il cronista giudiziario in Toscana e a Milano. Ora sono Digital editor, una nuova figura che fa da caporedattore centrale ma che coordina tutti i contenuti digitali del giornale e li integra con quelli cartacei. Che cosa vuol dire? È ciò di cui vorrei parlarvi, intrecciando anche esperienze personali. Oggi abbiamo la necessità di occuparci di cose digitali portandoci dietro la tradizione che abbiamo alle spalle, ma adeguandola al presente. Parto, visto che il mio tema è “Old media vs new media”, dallo scandalo Watergate: Bob Woodward e Carl Bernstein arrivarono al punto di far dimettere Nixon, per un’inchiesta giornalistica. Ogni giornalista che si rispetti ha il sogno di trovare uno scoop come il Watergate. Parto da qui per raccontarvi questo episodio: il giugno scorso era l’anniversario del Watergate e Bob Woodward e Carl Bernstein vennero invitati alla scuola di giornalismo di Yale. Gli studenti, nel confronto con i due giornalisti, fecero una tesi sullo scandalo e ne venne fuori che in due settimane avrebbero fatto dimettere Nixon. Utilizzando i social, Twitter, Facebook, per coinvolgere il maggior numero di forze nel loro lavoro. Bob Woodward e Carl Bernstein ne rimasero sconvolti: nessuno degli studenti aveva pensato di uscire e andare a parlare fisicamente con delle persone. Tutto funzionava sulla base delle possibilità che offre la rete. Non c’era il rapporto umano. A mio avviso, hanno ragione entrambi. Due anni fa vi avrei detto di andare a noleggiare “Tutti gli uomini del presidente” da Blockbuster, ma oggi non c’è più nemmeno Blockbuster. Tutto questo fa parte dello stesso scenario che mette in contrapposizione la generazione dei giornalisti del Watergate con la nuova generazione dei futuri giornalisti. Li contrappone anche per un altro motivo: il giornale per cui lavoravano Woodward e Bernstein, il Washington Post, era il colosso dell’informazione americana. Oggi è un giornale locale, ristretto, in gravissime difficoltà per lo stesso motivo per cui ha chiuso Blockbuster e per cui le case discografiche sono in crisi. 18 Ho messo insieme un po’ di cose: il bello del giornalismo, l’inchiesta, l’andare a scavare nella realtà; il problema del giornalismo oggi è che è un modello di business che non sta più in piedi e che va ripensato; le opportunità del giornalismo, il fatto che quarant’anni fa questa storia andava raccontata in un modo e oggi si racconterebbe in modo completamente diverso. Io credo che non ci sia mai stato un momento così interessante come oggi per fare giornalismo anche se non c’è mai stato un momento di crisi come oggi per i giornali: è in crisi il sistema dei giornali, non è in crisi, anzi prospera, il giornalismo. Perché si legge più di prima, siamo più informati di prima, abbiamo sempre più accesso alle notizie. C’è il problema di capire che tipo di radici ha questa informazione, su che cosa si basa. Ci sono vari esempi che ci aiutano a capire questo scenario. Il giornale di riferimento, soprattutto per chi ha la passione di trasformare il giornalismo in ambito digitale, è il Guardian inglese, che prima e meglio degli altri sta utilizzando tutte le nuove possibilità con l’intento di mettere tutto a disposizione di tutti nella maniera più ampia possibile. Stanno sfidando il New York Times in casa, sono il terzo sito mondiale di traffico per le news, in continua crescita e un modello per tutti noi. Però in 4 anni hanno visto dimezzare le copie cartacee e quest’anno hanno chiuso con un buco di 75 milioni di sterline nel bilancio. C’è stata una profonda crisi nel 2008-2009 per i giornali, cominciata negli Stati Uniti. Da qui siamo partiti io e Massimo Gaggi, tutt’ora inviato negli USA, per fare un’inchiesta di cui abbiamo parlato nel libro “L’ultima notizia”. Adesso l’Europa sta vivendo la stessa crisi mediatica che ha colpito prima gli Stati Uniti. Questa complessità nel definire il valore del lavoro che io faccio, anche in termini di valore intellettuale, di copyright, sta creando delle scuole di pensiero e un dibattito internazionale interessante perché riguarda tutti: l’informazione ci riguarda a prescindere dal fatto che uno faccia il giornalista o meno. L’opinione che emerge, e che negli USA ha largo seguito, è quella che sostiene che bisogna dar spazio al potere dei Network per cambiare il giornalismo. La fede nella saggezza collettiva della folla, il crowd sourcing come fonte per fare giornalismo. Secondo me, è una cosa bellissima. Il giornalista come organizzatore di comunità, di citizien journalism, di un giornalismo fatto dal basso. Cresce anche l’idea di un giornalismo volontario piuttosto che professionistico, di un giornalismo che ha come modello la conversazione rispetto a ciò che è sempre stato fatto fino a ora che è monodirezionale. Ma si pone subito un interrogativo: se deve prevalere la saggezza della rete, servono ancora i giornalisti? Io penso che ci siano delle cose da preservare importanti, pur abbracciando tutto ciò che c’è di nuovo, e qui sta la dialettica tra i due report del Watergate e i ragazzi. La redazione tradizionale ha però dei valori imprescindibili: il metodo di raccontare la realtà. Il fatto che ci sia chi si dedica a mettere un ordine tra le tante cose che si 19 possono raccontare in una giornata. E il fatto di avere dei testimoni esperti: attraverso il citizen journalism (giornalismo partecipativo) abbiamo tanti testimoni, sì, ma c’è bisogno di un testimone esperto. Cioè di uno che sappia inserire in un contesto ciò che sta accadendo, che mi sappia dire che cosa significa una presenza rispetto a un’altra, che conosca la storia di un paese, che sia al corrente dei rapporti tra gli stati. C’è bisogno di un’esperienza che la somma dei testimoni presenti non mi possono dare. È giusto che ci sia una chiave d’interpretazione. Infine, ha un valore la credibilità, messa fortemente in dubbio in questo scenario. L’informazione per tanti anni ha vissuto basandosi sulla pubblicità e sulle vendite dei giornali come fonte di guadagno, oggi questo non è più possibile. Io credo che questa crisi, come tutte, nasconda un’opportunità. Nel contestare questa dinamica, vengono messe in discussione anche l’opinione, l’ideologia, la faziosità del giornalista. La convinzione esistente fino a poco tempo fa era: anche se non interessa al lettore, io ho chi mi copre le spese. Oggi questo non può più esistere, ci sarà il bisogno di stare al vaglio della rete, con un dialogo che mi giudica in continuazione e quindi, auspicabilmente, sarò sempre più sotto controllo da parte dei miei lettori. Questo potrebbe essere positivo per il giornalismo del domani perché forse toglierà tanti limiti che oggi ci fanno dire “i giornali non sono credibili, sono faziosi e non meritano i nostri soldi”. Io faccio un po’ il difensore della casta: siamo sicuramente chiusi in un ordine professionale, chiusi dentro le redazioni, è vero, e io spero che questa casta si diluisca sempre di più nel tempo. Però mi sento di fare anche un minimo di difesa d’ufficio a quella professionalità e a quella qualità che nei giornali, nelle grandi istituzioni giornalistiche con una storia, è presente e che io spero continui a perseverare. Rivendico questa cosa anche per ricordare a tutti che cosa succederebbe se l’ecosistema mutasse in maniera tale per cui scomparisse questa presenza di professionisti che si occupano ogni giorno di raccontare le cose come avvengono e tutto fosse affidato alla saggezza della rete. Se Twitter fosse un grande barbecue, noi giornalisti siamo quelli che portano la carne, di cui tutti discutono. Poi siamo felicissimi che ci sia qualcuno che porta le salse e le spezie, ma la carne continuano a portarla le redazioni. Spariscono le redazioni e dopo vi fate le grigliate con le verdure, che va bene lo stesso, però tenete presente che l’informazione nasce ancora in gran parte in questi luoghi. Che hanno difficoltà di riorganizzazione perché è diventato difficile dare un valore a ciò che fanno. Come possiamo riassumere tutto questo? Quando ho scritto il libro col mio amico Gaggi lo riassumemmo nella “Legge delle 6 C”. Ciò che noi giornalisti continuiamo a portare nelle redazioni tradizionali sono: contenuti, credibilità, creatività. Le tre C che arrivano dal mondo digitale sono la comunità, la conversazione e la condivisione. C’è bisogno di mettere insieme queste sei C. Ma c’è bisogno anche della Contaminazione: i giornali hanno bisogno di aprirsi a 20 una serie di realtà con cui prima non avrebbero mai collaborato. Ce n’è un’ottava, il Caos, che è quella che vediamo tutti i giorni perché l’informazione è ormai diventata liquida, frammentaria ed io credo che sia pericolosa anche per l’esigenza di avere una narrativa comune sui fatti. E quindi saremo sempre di più in balia di input, che in assenza di un metodo, renderanno difficile per noi farci un’opinione. Il giornalismo ha le 5 W: What, When, Where, Who, Why. Quattro W ce le siamo già giocate, il giornalismo di domani sarà fatto di Why e di How. Specialmente per la parte cartacea, che sarà fatta di approfondimenti, di chiavi di lettura, senza ripetere ciò che per tutta la giornata si è già letto o sentito. Lei che cosa ne pensa dell’abolizione dell’ordine dei giornalisti? Che cosa significherebbe l’abolizione dell’ordine? Io non sono certo a favore dell’ordine dei giornalisti, ha una serie di problemi anche perché affonda le radici in epoca fascista e comincia a essere datato. Io sono per un apertura diversa, per un giornalismo fatto su curriculum, non su una tessera che ti viene data dopo una serie di passaggi obbligati. Io vorrei scegliere la gente sulla base delle capacità che ha e di ciò che ha fatto. C’è solo una cosa su cui io vorrei spendere una parola buona: io cominciai bussando alla porta di una redazione, da studente universitario con la passione per il giornalismo, dicendo “vorrei fare il giornalista”. Oggi rispetto a allora ci sono almeno 15 corsi e scuole che ti garantiscono un percorso e un orientamento. Se dobbiamo andare a pescare gente per fare gli stage nella redazione, lo facciamo nelle scuole di giornalismo, perché lì la professione viene trasmessa e insegnata con un certo ordine. Questo è un merito dell’ordine. Detto questo, sono d’accordo con te, è antistorico e andrebbe superato, anche se non so come. La mia domanda riguarda il fenomeno di digitalizzazione. Secondo me la carta continua ad avere una certa autorevolezza tale per cui, un giornalista come lei che passa all’online continua ad avere un certo numero di lettori, se lo faccio io non mi conosce nessuno e avrò sempre un numero di lettori ridotto, pur magari dando notizie importanti. È vero? Il giornalismo non sta tutto passando dalla carta all’online, si sta integrando. Faccio l’esempio del posto dove lavoro io. Fino a poco tempo fa, lo si poteva definire un quotidiano nato nel 1867. Oggi è una testata giornalistica fondata nel 1867 con tutta la sua storia che però si occupa di raccogliere e distribuire informazione su piattaforme cartacee e digitali. Ai nostri giornalisti non è che chiediamo di fare più cose, sì le facciamo, ma la cosa che sta cambiando è: di fronte alla realtà che devo raccontare ho la possibilità di farlo con tempi e approcci diversi, e questo è un arricchimento, cambia lo storytelling del mondo. Sarà sempre meno un racconto 21 lineare. È come la differenza tra il compito scritto, con un inizio, uno svolgimento e una fine, e la ricerca fatta sul cartoncino bristol, dove vedi tante cose e hai svariati porte d’accesso. Al giornalista è chiesta la capacità di raccontare gli stessi eventi con modalità diverse. In tutto questo, la carta manterrà una sua particolarità e una sua importanza legata all’approfondimento. A mio avviso, la carta sopravvivrà con delle fogliazioni minori e un prezzo più alto. Secondo me la carta non è solo veicolo di autorevolezza, ma l’approccio del lettore è diverso da quello con l’online. Su internet assumo una notizia velocemente, leggo il titolo e mi faccio un’idea molto superficiale dell’accaduto. C’è proprio una perdita di affezione tra il pubblico e la notizia. Secondo lei ci sarà, come per il cibo, il ritorno a una filosofia slow food anche per l’approccio alla lettura o ci dovremo abituare alla velocità, che presuppone leggerezza e superficialità? Sono d’accordo con le cose che dici. La velocità e la frammentazione a me fanno paura. Siamo sempre più distratti. Ci sono degli aspetti però interessanti da capire, senza sembrare che io faccia difesa d’ufficio. Anch’io sono per la libreria e il libro di carta letto in poltrona, però mi accorgo di opportunità che prima non avevo. L’IPad è diverso dal lap-top che è quello che gli americani chiamano uno strumento lean forward: io sono proteso in avanti verso la realtà e con un impegno che mi porta a distrarmi e a immagazzinare dei pezzi velocemente. L’IPad è invece un lean back, che ha il vantaggio di non essere nemico del libro e dall’approfondimento, non ha caso io lo leggo sul divano: evidenzio, copio, modifico. E non a caso il long article, che sembrava ormai impossibile da proporre, sta invece ricomparendo nell’epoca lean back, perché lo strumento si presta a farlo. Non bisogna spaventarsi del fatto che esista. Braga: Proverò a partire dagli spunti di Marco. Il mio approccio è completamente diverso dal suo, per una diversa storia e una diversa forma mentis. Ma prima: quanti di voi vogliono fare i giornalisti? Perché ci sono due o tre cose che è importante che sappiate. I dati li sapete? La caduta verticale maggiore è stata tra il 2011-2012: la pubblicità, che rappresenta il 60% degli introiti di un giornale, è calata in media del 16,3%; le vendite hanno perso il 3% del fatturato netto; il costo di un giornalista è rimasto lo stesso, è 101mila euro all’anno aziendale; l’occupazione è crollata del 7,2%. C’è una crescita del 36% del web e il 50% dei giornali ha un sito correlato. Il fatturato on line è cresciuto del 38% nell’ultimo anno, ma l’online non fattura le stesse cifre della carta. Qui abbiamo un cortocircuito. Ci spostiamo dalla carta al web, ma non c’è lo stesso travaso di risorse economiche rispetto al travaso di lettori. C’è una discrasia tra questi due mondi, uno è fortemente stabile e l’altro è ancora fumoso. Se volete fare i giornalisti sappiate che gli stipendi probabilmente verranno abbattuti col prossimo rinnovo del contratto. Adesso un ragazzo che entra in una redazione prende quanto un impiegato. Insomma, non pensate di diventare ricchi facendo questo mestiere. Per quello che riguarda l’accesso alla 22 professione, c’è un livellamento verso il basso: ci sono più modi di esprimersi ma, dato che manca uno sbarramento, chiunque può mettersi a scrivere. La moltiplicazione di possibilità abbassa la soglia d’ingresso nel mestiere. Siamo in una fase, dal punto di vista umano, di incredibile confusione, poi comincerà una selezione naturale. Quelli di voi che vogliono fare i giornalisti, quale che sia il mezzo con cui lo farete, sappiate che è un problema secondario. Che voi lo scriviate in inglese o italiano, su Twitter o su Facebook, resta un problema: bisogna avere qualcosa da dire. Cambierà il mezzo, ma dovrete comunque sapere di che cosa state parlando. Bisogna partire da prima: perché non è come vendere pomodori o scarpe. Avrete a che fare con cose impalpabili: come si fa a toccare la storia di un uomo? Come si fa a entrare in casa di uno a cui è morto un caro? Come si fa a calcolare quanto vale una notizia? Che cos’è che può fare di voi un giornalista? Davide m’ha detto: racconta la tua esperienza. Tenete presente una cosa: siamo in Italia. Prima di arrivare al Guardian dobbiamo riuscire a fare un’inchiesta decente. Non che i nostri giornalisti non siano bravi, ma è un problema culturale dei direttori, degli editori, di un paese che vive in un sistema clientelare strutturato. Io sono nato al Resto del Carlino, poi sono passato all’Ansa-Emilia Romagna, poi sono tornato al Resto del Carlino. Dove s’impara? E qui entriamo nel tema “Non solo grande stampa”. La stampa locale è specializzata. Se volete cominciare a fare questo lavoro, prendete un gessetto, fate un segno per terra, contate cinquanta passi e tracciate un altro segno. Per giorni non vi muovete di lì, finché non avete guardato e raccontato tutto. E vi accorgerete che non sapevate niente. Questo è l’ABC. Se non imparate a raccontare una cosa in maniera analogica, col digitale non sarete in grado di fare nulla. Perché il nostro cervello contiene un universo, ma abbiamo soltanto due mani. Quando accediamo eccessivamente alle informazioni, come succede sulla rete, abbiamo l’effetto contrario: tantissime notizie e nessuna. Bisogna utilizzare tutti gli strumenti per quello che sono: lavatrici; bisogna recuperare lo spazio mentale per fare le cose con i nostri mezzi. La realtà è che se non ci si muove personalmente, le notizie non si beccano. Altrimenti diventiamo tutti dei microfoni perché abbiamo il rimbalzo con mille sfumature di una notizia sul web. Ma il nostro mestiere non è quello dei microfoni! Se io faccio questo mestiere è perché voglio raccontare qualcosa. Allora nel nostro Piccolo decalogo degli apprendisti ho scritto: Non imbrogliate, non ve ne fate niente. In questo mestiere è faticoso, non dura, è costoso e prima o poi morirete e che cosa portate a casa? Penserete: “Bella forza!”. Falso. Il giornalista è un mentitore perché il fatto di vedere la propria firma da qualche parte stimola tutti i peggiori istinti narcisistici. E se non hai un ferreo autocontrollo e due, tre paletti etici finisci col pensare di essere Dio al terzo pezzo. Quindi copiate, imitate, leggete Manzoni, Buzzati, la Fallaci. Ma copiate le cose lette, non 23 quelle che ci sono sulla rete perché potrebbero non essere vere. Poi studiate la storia e vi accorgete che gli uomini fanno sempre le stesse cose. Su Facebook ho fatto un’esperienza. Quest’estate sono andato in motocicletta in Francia. Tutte le sere scrivevo 4000/5000 battute, quantità insensata per Facebook. Ma ne sono rimasto trascinato e le persone anche. Questo è il backfire: di fronte al consumo convulso e al deprezzamento di quello che c’è nella rete, una cosa in completa controtendenza, ha funzionato benissimo. Questo vuol dire che finita la sbornia, c’è bisogno di un bicchiere di latte, il desiderio di rallentare. C’è bisogno di un mondo che noi possiamo maneggiare. Prima impariamo a fare le cose bene, come la gamba della sedia, scriveva Peguy. Che se non la costruisci bene, la sedia si rompe o non viene venduta. Ma la costruisci bene perché è il tuo mestiere. Questa è la differenza che c’è tra mestiere e professione. Un avvocato, un ingegnere, un architetto sono professionisti, hanno dei limiti ben precisi. Fare i giornali, invece, è un mestiere. Se avrete la fortuna di lavorare con la piccola stampa, di fare un training duro, violento e vi troverete in un incidente stradale avvenuto nella nebbia, a mettere un piede nella porta della casa del morto perché avete bisogno delle foto, vi verranno mille domande dopo… Prima l’istinto sarà quello di porle, le domande. Però nel momento in cui entrerete in quella casa, non avrete a che fare né con pomodori né con scarpe, ma avrete a che fare con delle persone. E quando voi scriverete il vostro pezzo avrete due ordini di problemi: scrivere la verità e scrivere la realtà, che non sono sempre la stessa cosa. Perché la realtà è quella che hai davanti, la verità è quella che coglie alle spalle. Tu ti trovi davanti a una persona sotto shock e ti dà tutto quello che vuoi, un’ora dopo non te la darà più, e devi essere abbastanza psicologo da capirlo altrimenti non la becchi la foto. Questo dovete imparare. Questa è la realtà, la verità è quando voi poi vi mettete davanti al computer e vi chiedete: “E adesso che cosa racconto?” e quello che viene fuori dipende dal fatto di essere rimasti aperti a tutti questi momenti, compreso quello del piede nella porta. Questo farà la differenza. I mezzi che utilizzerete, sono solo tecniche. Voi tradurrete quello che avrete imparato e dipenderà da come avrete allenato la vostra sensibilità. Questo è un mestiere semplice, lo rendiamo difficile noi, per sentirci importanti. Ma è pericoloso. È inutile che pensiate di andare in giro per il mondo a raccontare belle storie, perché vi corrono dietro con il mitra. Negli anni di Nera e giudiziaria che feci, capitava che mi telefonassero di notte per minacciarmi: è il problema della cronaca locale. Ma insegna che nel vicino c’è tutto il lontano. In Pakistan avete lo stesso cuore, la stessa testa, le stesse mani che avete sulle foci del Po. Non abbiate paura di sembrare provinciali, abbiate l’orgoglio di esserlo, perché è molto più difficile scrivere di chi avete vicino. E ricordatevi che la vostra opinione è la cosa meno interessante che ci sia. Ma non bisogna confondere l’opinione con l’aver trovato 24 qualcosa da raccontare. Allora che cosa ci serve se vogliamo cominciare a fare questo mestiere? Mettersi calmi, mettersi un paio di scarpe comode e andare a piedi. È un lavoro che si fa a piedi, non seduti, non in autobus, non in treno. È un mestiere analogico per definizione: abbiamo mani e cervello che lavorano in modo analogico e possiamo maneggiare poche cose per volta. La libertà è un concetto fondamentale, ma se non sei padrone della libertà che ti viene data dai mezzi è come una pistola carica: né buona né cattiva, ma dipende da chi la prende in mano. Se volete fare questo mestiere iniziate con un approccio romantico e praticissimo. Abbiate fiducia che si può fare, ma sappiate che consegnerete mani e piedi ad un mestiere che è di un’incredibile bellezza (sono poche le occasioni di vivere e essere pagati per leggere l’umanità), ma che vi porterà a una vita di sacrificio, come tutte le vite che sono piene. Ciò che rende capace di approcciare una professione non sono innanzi tutto le abilità relative a quella professione ma è la forza del soggetto, e quello che lei ci ha raccontato, nella sua appassionata testimonianza, mi ha fatto venire in mente la virtù cristiana della fortezza. Che è una cosa che nel caos in cui viviamo è la prerogativa fondamentale che bisogna avere. Non per fare i giornalisti, ma per essere uomini. San Paolo diceva “tutto è vostro, ma voi siete di Cristo”. Scrivere si impara scrivendo? Un bravo scrittore può essere un bravo giornalista? Preferireste qualcuno che sa andare a citofonare, parlare e indagare perché tanto si può imparare a scrivere? Braga: Hai toccato un tema… Tradizionalmente i giornalisti si dividono in due categorie: quelli che sanno scrivere e quelli che sanno trovare le notizie. È vero in parte. I grandi inchiestisti spesso poi non hanno una prosa letteraria di pari livello rispetto alla propria capacità d’indagine. E viceversa, i grandi scrittori sono troppo concentrati sulla lingua per andare a ficcare le mani dove ce le si sporca. C’è però una riserva di eccezione piuttosto ampia. Man mano che la scolarizzazione ha dato strumenti lessicali migliori, anche chi una volta era un pellegrino terribile che però era bravissimo a trovare notizie, ha innalzato il suo livello. È peggiorata invece la capacità di introspezione, la voglia e il sentimento della necessità di andare a approfondire. Per quanto riguarda la scrittura c’è solo un metodo: leggere tantissimo e scrivere di continuo. Io non ho una grande fiducia nelle scuole di giornalismo, sono sincero. Perché il più delle volte sono scuole di obbedienza. E questo non è un mestiere per persone per bene, è per persone oneste, ma è diverso. Bardazzi: Braga ha messo la passione dentro il contenitore tecnologico di cui par25 lavo all’inizio, per fortuna ci ha riportato sul terreno antropologico. Le due cose stanno insieme. Io vorrei solo insistere sull’aspetto che oggi è più urgente. Interessa chi sei tu di fronte alla storia da raccontare, certo. In questo momento storico, la tua capacità di scrivere una storia è importantissima, ma conta un po’ meno. Io ho bisogno che tu mi riporti la storia in vari formati: foto, voci, video. La tua bravura sta nel raccontarmela in tutti i modi che vuoi, ma le modalità narrative di oggi richiedono che tu me la porti in maniera multimediale. Quindi se oggi volete fare i giornalisti, dovete leggere, certo, ma dovrete anche essere digitali. Secondo me non è questione di idee o di saper scrivere. Il punto è che qui c’è potenziale umano, c’è la possibilità di creare un blog tra i ragazzi che siamo noi e lavorare. Sono queste le sfide oggi: o decidiamo di scendere in campo, perché tutti scribacchiamo, ma come? Braga: È quello il punto: che tutti scribacchiate. Se voi vi fate un blog, vi leggono quelli dei blog e rimarrà in un mare magnum. Non c’è modo di farlo venir fuori. Il mio suggerimento è, se avete una storia bellissima, scrivete e mandatela a qualcuno che la legge. Perché il pezzo di carta ha dei confini e il monitor no. Affrancatevi dal rischio del mondo del continuo, potatevi nel mondo del discreto, create dei confini. E’un po’ una strana variante dell’effetto Venturi: un fluido tende a mantenere la stessa quantità di moto. Se stringete il corridoio va più forte. Quindi più sono stretti i confini che vi date, più è forte l’impatto di quello che fate. Il vero problema è che è tutto troppo largo quindi niente si muove più. Scrivete una storia bellissima e forse cinque volte no ma alla sesta qualcuno dirà “Che bella”. Questo è il vero pericolo: che siamo tutti costretti a una velocità che non ci compete. Dovrete affrancarvi da questa rapidità, rallentate e fate un lavoro di grande qualità. Anch’io preferisco la carta stampata. Ma il problema è l’accessibilità, come faccio a sapere che verrà letto? Mi piacerebbe tantissimo mandare un pezzo in via Solferino, ma chi mai lo leggerà? Braga: Non mandarlo in via Solferino, mandalo in una realtà più piccola. Dove può essergli consentito di essere letto. Qualunque sogno di grandezza verrà giustamente umiliato alla base, e probabilmente vi farete anche dal male. Partite forte e piano: bisogna imparare ad essere lenti in fretta. Bisogna essere rapidi, certo, ma l’accuratezza è decisiva. E non diciamo “non c’è lavoro”, perché non c’è mai lavoro e non c’è mai la possibilità. Lo sbarramento è sempre forte, la lotta per la vita è durissima e i vecchi non vogliono mollare mai. Non è adesso che siamo gerontocrati, l’umanità lo è. La domanda falsa è “dove c’è un posto di lavoro?” perché è dove sei tu che riesci a fartelo. 26 Evitate i luoghi affollati. Stringete, rallentate, scrivete meno ma molto bene, approfondite di più. Cercate di essere inediti, originali non nella stramberia, ma nelle cose che succedono. Leggete tutti i giornali locali: troverete una storia meravigliosa. Sono le vicende umane che contano. Rondoni: Volevo lasciare delle spie accese. Perché uno vuol fare il giornalista? Perché nel raccontare il mondo c’è sempre qualcosa di interessante. Se vuoi fare il giornalista per vanità, è un’altra questione. Nella motivazione deve contare di più il fatto che c’è qualcosa che ti piace nel raccontare il mondo. Accennava a questo Beppe: ci può essere un gusto a raccontare la propria opinione nei blog, ma in quel caso la finalità è mettersi in mostra non fare giornalismo. Un’altra questione che è stata affrontata è la narrazione comune. Ma che cos’è che la rende comune? È il fatto che i narratori sono tesi a cercare il vero nella realtà che hanno di fronte. Questo rende la narrazione interessante: la ricerca del vero, che non è l’obiettività, ma è il rapporto tra il soggetto e l’oggetto. Il tuo racconto deve diventare interessante attraverso un lavoro che fai su te stesso, sulla scrittura, sulla conoscenza, sulle informazioni, sugli strumenti. C’è un aspetto di lavoro che nessuno vi pagherà, ma che è fondamentale. Il problema, come diceva Eliot, è tener ben presente la differenza tra il gusto di vedere il proprio nome a stampa o credere che nel mondo ci sia qualcosa di interessante da raccontare. Son due cose radicalmente diverse. Tant’è vero che nel nome dell’uno, vedere il proprio nome a stampa, si è disposti a qualsiasi cosa. Se invece si è convinti che ci sia qualcosa di vero nel mondo da raccontare, allora uno si mette in una disposizione di lavoro che è esattamente il contrario: imparare, scoprire, conoscere. Guardatevi dalla seduzione di vedere il proprio nome a stampa. 27