Comunicazione e giornalismo: nuove vie e vecchie questioni

Transcript

Comunicazione e giornalismo: nuove vie e vecchie questioni
I Quaderni Ceur
Comunicazione
e giornalismo:
nuove vie e vecchie questioni
Appunti del Workshop Camplus
1
1
La Fondazione C.E.U.R., Centro Europeo Università e Ricerca, è un’istituzione culturale ed educativa
che fa parte dei Collegi universitari di merito legalmente riconosciuti dal Ministero dell’Istruzione,
Università e Ricerca. Essa nasce nel 1990 dall’iniziativa di professori universitari, imprenditori e
professionisti e, come da statuto, si prefigge di offrire agli studenti e ai giovani ricercatori universitari
le migliori condizioni per essere protagonisti della costruzione del proprio futuro.
La Fondazione gestisce attualmente 8 Collegi di merito, a Milano, Bologna, Catania e Torino, che
fanno parte del network Camplus e in cui viene valorizzato al meglio il talento di ogni studente.
Fondazione C.E.U.R.
Piazza della Resistenza, 9
40122 Bologna
Tel. +39 (051) 5287474
Fax +39 (051) 5287476
www.ceur.it
Comunicazione e giornalismo:
nuove vie e vecchie questioni
Appunti del Workshop Camplus
Relatori:
Enrico Castelli, Direttore Rai sede Milano
Alessandro Banfi, Condirettore Videonews
Giovanni Santambrogio, Docente di giornalismo Università Cattolica Sacro Cuore
Gian Guido Vecchi, Giornalista Corriere della Sera
Luigi Amicone, Direttore Tempi
Marco Bardazzi, Caporedattore de La Stampa
Giuseppe Braga, Direttore Rivista Volare
5
6
NOTA DI REDAZIONE:
Il 14 e 15 dicembre 2012 a Milano, presso il Collegio di merito Camplus Turro della
Fondazione C.E.U.R., 30 ragazzi selezionati tra i 700 del network nazionale Camplus,
hanno partecipato attivamente al workshop sul giornalismo. Aspiranti del mestiere, semplici
interessati, esploratori delle nuove vie della comunicazione (praticamente tutti) si sono
confrontati con 7 giornalisti italiani, introdotti e coordinati da Davide Rondoni. Essi hanno
avuto la disponibilità e l’intelligenza di mettersi in gioco con questi giovani non dando niente
per scontato, tanto più su un tema che, attraversato com’è dalle nuove potenzialità offerte
da internet e dai social network, non si presta certo ad approcci apodittici. Ne è risultato un
dialogo ricco di contributi interessanti, di stimoli inediti, utile per chiunque si appresti a metter
mano ad un’attività giornalistica e anche per coloro che tale attività svolgono da tempo. Utile
a capire e a comunicare l’esperienza della realtà. Qui ne viene dato conto attraverso una
sintesi colloquiale e non integrale, che restituisce in ogni caso ad una platea più ampia gli esiti
del lavoro svolto.
7
14 dicembre, pomeriggio
Rondoni: La comunicazione è sempre stata un aspetto antropologico fondamentale. Siamo in un periodo storico in cui cambiano, sulla via della facilità e della
leggerezza, gli strumenti, le abitudini, le potenzialità, le capacità. Ma sono cambiamenti di superficie. Sotto questi avvengono cambiamenti più profondi, che sono
cambiamenti di autorevolezza.
Comunicare qualcosa significa essere autore. La parola autore deriva da augeo,
l’autore è colui che scrivendo crede di aumentare la vita degli altri. Gli antichi dividevano coloro che scrivono in compilator, commentator, scriptor e autor: si può
scegliere come fare comunicazione. E se si sceglie di essere autor inizia il rischio.
I cambiamenti che si stanno verificando vanno a scardinare proprio il concetto di
autorevolezza. Ieri si diceva “l’han detto in televisione”, oggi si dice “è scritto su
Wikipedia”. Sono autori che si pongono, sorgono e si contestualizzano in modo
diverso. Quello che si può notare è che sta risorgendo l’idea dell’autore collettivo:
non sappiamo chi era Omero, così come non sappiamo chi scrive su Wikipedia.
Ho fatto questo incipit per introdurre i nostri tre ospiti che hanno sfidato la neve
per essere qui. La parola a Castelli.
Castelli: “Fatti separati dalle opinioni, è possibile?”, questo è il titolo che mi è stato
dato. Vi faccio una domanda: a chi di voi piace la neve? E a chi di voi non piace?
Ecco, qui sta il dilemma. Immaginate la differenza di titoli che usciranno sul giornale.
Questo esempio banale dà l’idea del problema.
Facciamo un passo indietro. I giornali raccontano notizie, ma che cosa vuol dire
“notizia”? Lo Zingarelli recita: “L’annuncio di un fatto recente portato a conoscenza
del pubblico”. Ma perché alcuni fatti diventano notizia e altri no? Prima del “come”
viene data una notizia, bisogna chiedersi “perché” una notizia viene selezionata
piuttosto di un’altra. C’è un elemento di discrezionalità sempre presente nel nostro lavoro. Un altro manuale, Dirizza, dice che un fatto diventa notizia per “la
singolarità e la novità, per le conseguenze che può avere sulla vita della gente, per
la vicinanza della zona di diffusione del medium, per i riflessi di coinvolgimento
emotivo che un fatto ha”. L’esempio classico è “un cane che morde un uomo non
fa notizia, un uomo che morde un cane diventa notizia” per la singolarità del fatto.
In base a che cosa un fatto diventa notizia? Aggiungo, l’interesse dell’editore che
c’è alle spalle del giornale. E la scelta editoriale del Direttore, che ha una propria
impostazione culturale.
La vicinanza dei media, dicevo prima. La figura del reporter sta andando un po’
8
perdendosi, ma è fondamentale che il giornalista si trovi accanto ai fatti. E la notizia
può assumere rilievo grazie alla vicinanza dei giornalisti. Ciò rende più spontanea la
scelta di un fatto piuttosto che un altro. Per la televisione, la presenza di un filmato,
cambia radicalmente la valorizzazione della notizia. Ma tra il fatto e la notizia c’è di
mezzo il giornalista: l’aspetto umano ha un’importanza decisiva.
Faccio un esempio. Se un bicchiere d’acqua è pieno a metà, uno può titolare: “Ecco
un bicchiere mezzo pieno”; un altro può titolare “Ecco un bicchiere mezzo vuoto”. O ancora, se il contenuto non è importante per l’editore:”ecco un bicchiere
di vetro”. Chi ha ragione? Chi è più obiettivo? Tutti, solo che ciascun giornalista ha
raccontato la realtà del bicchiere secondo proprie categorie, propri stimoli o propri
interessi.
Un fatto può essere interpretato in modo diametralmente opposto. Ma chi ha
ragione? Qualcuno ha sbagliato? No, ognuno mette l’accento su cose diverse. Uso
una definizione di Umberto Eco: “Il mito dell’obiettività, con l’immagine correlativa
del giornale indipendente, camuffa semplicemente la riconosciuta e fatale prospetticità di ogni notizia. Per il semplice fatto che io scelgo di dire una cosa piuttosto
che un’altra, ho già interpretato”. E poi, Oriana Fallaci: “Ciò non piacerà ai cultori
del giornalismo obiettivo, per i quali il giudizio è mancanza di obiettività, ma la cosa
mi turba pochissimo. Quello che essi chiamano obiettività non esiste. L’obiettività
è ipocrisia, presunzione, può esistere solo l’onestà di chi fornisce la notizia o il ritratto”. Io sono dell’idea che l’obiettività con la O maiuscola non esista. Ognuno si
pone di fronte a un fatto con l’esperienza che ha. Bisogna però abbandonare i propri pregiudizi, porsi davanti a ciò che che si è chiamati a raccontare il più possibile
disposti a lasciarsi interrogare e colpire dalla realtà. E ci sono una serie di sfumature
che tendono a raggiungere quella verità dei fatti che è la completezza dei fattori in
gioco. Finisco in bellezza con una citazione di Benedetto XVI: “La comunicazione
autentica esige coraggio e risolutezza, esige la determinazione di quanti operano
nei media per non indebolirsi sotto il peso di tanta informazione e per non adeguarsi a verità parziali e provvisorie. Esige piuttosto la ricerca e la diffusione di quello
che è il senso e il fondamento ultimo dell’esistenza umana, personale e sociale. In
questo modo i media posso contribuire costruttivamente alla diffusione di tutto
quanto è buono e vero”. Grazie
Banfi: Io devo parlare di “Molta informazione, nessuna informazione”. È un paradosso che viviamo tutti, siamo bombardati da notizie, anche inutili. La parola chiave
è “interesse generale”. Che differenza c’è tra notizia e pettegolezzo? La notizia
riguarda la vita di tutti noi, il pettegolezzo al contrario posso non saperlo. Quando
leggendo qualcosa la reazione naturale è “ma chi se ne frega?” vuol dire che non mi
riguarda, che non influirà sulla mia vita, che non ne sarò condizionato. Negli ultimi
anni la confusione tra notizia e pettegolezzo è aumentata. Aleksandr Solženicyn fu
9
il più grande dissidente dell’Unione Sovietica, negli anni ’80 fuggì e andrò a vivere
nel Wyoming. E a un certo punto disse: “Non ne posso più del sistema dei mass
media occidentale. Ho il diritto di non sapere”. Era vissuto in un regime dove una
notizia poteva essere un reato. Le notizie erano accuratamente selezionate. Eppure si ribella. Quanto è giusto questo sentimento! Gran parte della comunicazione di
oggi non dà informazioni vere, non fa crescere. Pasolini aveva capito che la grande
rivoluzione italiana consumistica del ‘68 era anche una rivoluzione della conoscenza, dell’informazione. Lui parlava di “retorica della bruttezza”. Abbiamo sempre
bisogno di ipotesi radicali per avere uno squarcio nella vita quotidiana, per avere un
respiro maggiore nel vivere e nell’apprendere quello che facciamo.
Ma qual è la buona informazione? Quella di cui anche il sistema ha bisogno? La
tendenza all’obiettività non può che essere una tendenza, ma è corretta. È l’avvertire che le nostre sono verità parziali. Ma la stampa è necessaria in un sistema
democratico. Nel fondamentale principio del check and balance, cioè del controllo
reciproco dei poteri, l’informazione svolge un doppio ruolo: il diritto di raccontare
alla gente quello che succede (e il diritto della gente di saperlo) e anche il diritto di
controllare attraverso questo racconto che cosa fanno i diversi poteri. Troppe volte
si banalizza il discorso e si dice che la stampa fa parte del sistema, ma immaginate
se non ci fosse. C’è un altro aspetto in questa vicenda. Marx nel Manifesto del
1848, diceva: “Ogni cosa, nella società capitalistica, è merce”. La notizia è merce,
c’è un mercato delle notizie, ha dei meccanismi che fanno parte del mercato. Per
esempio, il record storico della trasmissione Matrix è stata la puntata in diretta da
Avetrana dell’arresto della cugina di Sara Scazzi, Sabrina Misseri, con cui abbiamo
fatto il 42% di ascolto. Una cosa umiliante. Ma significa che nel mondo del giornalismo le notizie sono influenzate, e quindi selezionate, da ciò che alla gente piace.
Allo stesso tempo però dobbiamo sentire la necessità di leggere il giornale, di sapere che cosa accade, di renderci conto che il nostro destino c’entra con quello
degli altri. Per questo il giornalismo è grande, perché è come la piazza, è un luogo
d’incontro, è una grande occasione di comunità. Questa è l’opportunità della molta
comunicazione. Per me scrivere è vedere e conoscere la realtà.
Santambrogio: Mi è stato affidato un titolo un po’ filosofico “L’epoca della comunicazione e dell’incomunicabilità”.
Il primo punto che vorrei affrontare è il silenzio, tratto da Pragmatica della comunicazione umana di Paul Watzlawick, esponente della Scuola di Palo Alto. Dice:
“Non si può non comunicare e anche il silenzio è comunicazione”. Ognuno di noi
reagisce ad un comportamento, anche nel silenzio c’è interazione. Ecco, il lavoro
giornalistico si basa essenzialmente sulla lettura degli eventi, delle parole, dei movimenti. La sensibilità del giornalista è fondamentale, così come la sua capacità di
10
vedere e ascoltare. È quello che si chiama “fiuto giornalistico”. E più ci sono dettagli
e particolari più la notizia sarà completa.
Il giornalista non è chiamato a trovare la verità, perché la notizia non è un rapporto
sulla verità. Ma fa un lavoro di approssimazione ai fatti, che via via aggiorna interpretando e approfondendo. Il concetto di interpretazione è importante, bisogna
essere educati all’interpretazione. Più siamo informati e sensibili più siamo in grado di interpretare. Umberto Eco in Una bustina di Minerva scrive che “i giornali
erano letti tra le righe”. Questo per dire che c’è molto di non detto e allusivo, c’è
sempre un margine di interpretazione. Una grande lezione di scrupoloso lavoro
di interpretazione per arrivare a cogliere il vero significato dei fatti e delle parole
lo vediamo in quel capolavoro che prende il nome di Bibbia glossata: ogni testo
dell’Antico e del Nuovo Testamento viene letto parola per parola (glossa interlineare), a cui si aggiunge a lato del testo la “glossa ordinaria” che costituisce una raccolta
di interpretazione tratte dalle opere dei Padri della Chiesa; in aggiunta a queste due
letture se ne aggiunge una terza, la postilla, che offre un commento morale alle
stesse parole e frasi.
La nostra situazione odierna è definita “biomediatica”: noi viviamo un passaggio
e stiamo facendo un salto, non tanto di strumenti ma, come diceva Rondoni, di
autorevolezza. Internet, che inizialmente era un luogo di incontro, adesso è un ambiente in cui noi diventiamo comunicatori nel bene e nel male, con responsabilità
o con leggerezza. La crisi della carta stampata porta con sé questo cambiamento
di atteggiamento: noi stessi siamo giornalisti, tutti sono comunicatori e produttori
di informazione. I media tradizionali (giornali e tv) ormai si servono di registrazioni
o fotografie degli utenti, per esempio. L’essere biomediatici sottolinea l’importanza
dell’utilizzo dei mezzi: il telefonino è ormai un nostro prolungamento. Certo, noi
non siamo il telefonino, ma non riusciamo più a vivere senza. Non abbiamo mai
letto né scritto come adesso. Tendiamo a rendere pubblico il privato, comunichiamo di più, finendo col fare concorrenza alle pubblicazioni commerciali attraverso
quello che si chiama citizien journalism. Questa ipercomunicazione avviene all’interno di una caduta di valori che segnala una solitudine incredibile. La domanda che
vi lascio è: in questa “solitudine da rumore” è possibile il superamento della nuova
solitudine digitale? Io credo di sì.
Una notizia può essere riportata in modi diversi, ma ciò significa che dovremmo leggere più giornali e magari anche qualche blog, investendo una quantità di tempo oltre le
nostre possibilità. È possibile avere un’idea complessiva più facilmente?
È vero che per ogni notizia non si può avere una verità assoluta, ma in ambito scientifico secondo me la notizia è una. Mentre i giornali tendono a interpretare anche queste. Non dovrebbe essere totalmente oggettivo? Per esempio, quando ci fu la notizia
dell’HIV nacque una psicosi collettiva anche per colpa dei giornali…
11
Molto viene riportato in funzione scandalistica, soprattutto in televisione, e non educativa. Il giornalista non dovrebbe selezionare le notizie a prescindere dal successo nel
pubblico?
E se la notizia contrasta con l’interesse dell’editore? Il giornale come si comporta?
Banfi: Riguardo alle notizie scientifiche spesso riguarda l’Organizzazione mondiale
della sanità. Se c’è un caso dove la responsabilità della stampa è relativa, è proprio
questo. Non esiste una notizia scientifica, esiste una notizia il cui argomento è la
scienza, ma la scienza per sua natura è confutabile. Non esiste la notizia vera per
scienza, sennò pensiamo che ci siano notizie di cronaca meno attendibili di quelle
di scienza. La notizia è sempre uguale, che sia riguardo a un libro, a una madre che
uccide un figlio, alle minigonne. È il modo di dare la notizia che conta, ci sono dei
criteri da rispettare in tutti i casi.
Quanto alla tv educativa ci fu un nobile tentativo di Bernabei, grande intellettuale
manager che costruì la Rai del dopoguerra. Quella era una Rai pedagogico-educativa, fatta di romanzi, teatro, con una grande ipotesi formativa. Ma nell’informazione,
l’educazione fa sempre un po’ paura, perché l’avvicina alla propaganda, all’ideologia. La tv educativa è un esperimento finito. La cosa importante è tener presente
che ci deve essere un confine tra propaganda e informazione, soprattutto in un
mezzo così forte come la televisione.
Castelli: Certo, concretamente è impossibile leggere tutti i giornali. Quindi che fai?
Il discorso va capovolto: parti da un’ipotesi di lettura dalla realtà. Seguendo questa
ipotesi ti rendi conto se il giornale che leggi ti rispecchia o meno.
Santambrogio: Se c’è una notizia contro l’editore il giornale cosa fa? Non la dà. O
la dà in un determinato modo. La domanda è: tacere o darne un’interpretazione?
Scatta la valutazione della notizia.
C’è un interesse che porta a dire “soprassediamo”, ma la concorrenza è ormai evidente. Direi che ormai è impossibile non dare una notizia.
Parto dal presupposto che la folla sia irrazionale, come diceva Manzoni. Però secondo
me c’è una responsabilità del giornalista da cui non si può prescindere.
Noi in quanto contemporanei siamo facilmente offuscati dalle idee del periodo storico in cui viviamo. Ci sono degli eventi per cui noi non siamo sensibilizzati e che, ciò
nonostante, potrebbero avere delle conseguenze sconvolgenti… Poi la modalità e la
velocità con cui le informazioni vengono date, conta. Però secondo me, e com’è scritto
nel saggio “Divertirsi da morire” di Neil Postman, ciò ne sminuisce il valore, la qualità
sta scadendo. È vero?
12
Banfi: Ci rendiamo conto di che cos’è la responsabilità. Il tema dell’emulazione è
un tema verissimo. Come per esempio i suicidi per ragione economica dell’ultimo
periodo: la cosa rischiava di creare la notizia che dava. E in questo caso è efficace
l’autocensura, perché quando gli agenti esterni intervengono in materia della libertà
di stampa succedono sempre dei pasticci.
Castelli: I giornali vivono il tempo in cui vivono, è evidente. Certo, dove può agire un giornalista? Nell’anticipare, nell’intravvedere un aspetto che potrà diventare
caratteristica generale, nel cogliere una novità, ma qui entra in campo l’intelligenza
del soggetto. È il fiuto di cui si parlava prima.
Santambrogio: C’è un articolo interessantissimo sul primo numero dell’Europeo,
giornale che nacque con il giornalismo d’inchiesta e dove si formarono le più grandi
firme italiane come la Fallaci, la Cederna... Tra queste inchieste, un grande giornalista come Tommaso Besozzi smonta la versione ufficiale della morte del bandito
Giuliano. È un giornalismo di osservazione e ricostruzione: cerca di incastrare i
pezzi in un puzzle di dati e di fatti. Questo per dire che spesso il giornalista si trova
in una situazione di rumore sui fatti ma di profondo silenzio sulle vere dinamiche,
e deve superare questi silenzi, questi sbarramenti. Uno strumento che ha il giornalista per guardare più in là, che è legato alla sua credibilità, è l’agenda di rapporti
che costruisce nel tempo.
Un giornalista che non tiene relazioni, che non costruisce legami di conoscenze,
non esiste. Per esempio, il papa ha sottolineato, il giorno dell’Immacolata, come
l’evangelista Luca storicizzi l’evento del Battista. Una notizia che non aveva peso,
vede i potenti fare da cornice a una persona ritenuta allora irrilevante. Se noi sappiamo di Erode, Pilato, Tiberio, lo sappiamo attraverso un episodio che all’epoca
era irrilevante. Infatti si dice che il lavoro del giornalista è da storico del presente.
È stato detto che il gusto influenza la notizia. Ma non dovrebbe essere il contrario? Se
i giornalisti sono i professionisti dell’informazione, non dovrebbero essere loro a influenzare il mio gusto? Perché andare alla ricerca di particolari scabrosi? Non tutta la gente
è parte del pubblico del Colosseo…
Santambrogio: All’origine della notizia esiste un processo dell’informazione. Il giornalista come procede di solito? O si alza e va alla ricerca di un fatto o prende
un lancio d’agenzia e ne racconta, cercando altre informazioni e facendo qualche
telefonata. Non necessariamente assecondo un gusto, ma scelgo un determinato
taglio. Ci sono dei modelli giornalistici che hanno dei referenti e un modello teorico alle spalle. Lo teorizzò Paolo Mieli per quanto riguarda Cultura e spettacoli,
per esempio, attraverso il modello della contrapposizione. Diciamo che spesso il
giornalismo asseconda determinati gusti, perché c’è una domanda di curiosità. La
lettura che fa il giornalista di un fatto non segue un gusto popolare, ma segue la
13
scelta del mio Direttore, del mio giornale. Si trova davanti a una richiesta a cui deve
dare una precisa risposta.
Nel fare le notizie ci sono molte fonti che offrono notizie ai giornali, da una conferenza stampa al tweet di un giocatore. La notizia ha sempre una paternità, a volte
è nascosta. Il giornalista, che deve fare un lavoro di scavo per mettere in campo
tutti gli interessi. Su determinati fenomeni, come l’ipersensibilità su certi fenomeni,
agisce il giornalista, che deve fare un lavoro di scavo ma mettere in campo tutti gli
interessi. È il rischio che si prende il giornalista: deve sapere smontare o smascherare notizie e informazioni che vengono create ad arte per poter arrivare a un
determinato punto.
Poi io diffido dalla finalità educativa dell’informazione. È ovvio che nell’informarsi
una persona si forma (leggere il Fatto è diverso che leggere Libero, per esempio).
Ma chiedere che un giornalista si preoccupi di formare, non lo condivido. Perché
nel momento in cui un giornale si ponesse il proposito di educare, fa scivolare l’informazione nell’ideologia.
Adesso paradossalmente tutti fanno i giornalisti, ma non si rischia di avere una deriva
che si discosti troppo tra quello che in realtà deve essere un lavoro quasi chirurgico?
Sì, da una parte apre scenari interessanti, ma dall’altra un giornalista deve fare un
preciso percorso…
Abbiamo parlato della notizia come merce collegato a Marx. Penso al mito di Tantalo:
la notizia a volte diventa anche questo. E il giornalista a volte mette in scena delle figure appositamente per creare una notizia. Il giornalista insomma non solo prende i fatti,
ma a volte può anche crearli alla ricerca di una determinata risposta dall’ascoltatore.
Il problema è che la notizia deve vendere, deve essere appetibile…
Il mito di Tantalo, l’uomo che non si disseta mai pur bevendo: in fondo questo è il
nostro rapporto con la realtà. C’è un parametro che rende ragione e sdrammatizza il
problema dell’invadenza della notizia. A me pare che in questa situazione ci sia una
possibilità in più, un di più di rapporto con la realtà. Ben sapendo che c’è un’infinitezza
che è inattingibile.
Santambrogio: Nel mare dell’informazione, la figura del giornalista non scompare,
anzi. Più aumenta la confusione, più diventa necessaria la sua presenza per un ruolo
di discernimento in ciò che accade. Tutti diventiamo giornalisti perché con i mezzi
che abbiamo a disposizione, diamo rilievo a tutto ciò che ci succede: è il giornalismo diffuso. Però in questa proliferazione di fonti c’è bisogno di un giornalista che
riesca a offrire al lettore, secondo i criteri di notiziabilità, una guida. . E aiuti anche
ad avere un rapporto con la realtà più serio e senza il rischio di perdersi. Bisogna
14
avere riferimenti credibili e diventare più critici e profondi, legati all’approfondimento e allo studio. La pluralità dei mezzi non ci esime da uno studio personale più
approfondito, anzi.
Rondoni: Faccio un’introduzione per presentare Vecchi: mia nonna non era molto
informata ma non per questo era peggiore di me. Noi viviamo in un’epoca in cui
crediamo che l’uomo sia migliore in quanto informato. È una versione minore di
un’altra idea secondo cui l’uomo è migliore se è acculturato. Ma nel momento in
cui si è diffusa la cultura dei giornali, la stessa idea si è adeguata. Se prima era l’uomo
colto il migliore (quello che Leopardi chiamava “la società stretta”) adesso è l’uomo
informato. Noi siamo in un momento in cui si dimostra che non è vero. E non è
detto che l’essere più informati renda più capaci di una rapporto sicuro con il reale,
anzi. Ciò mi rende più insicuro del rapporto con la realtà. Sono due assunti diversi:
io non credo che l’uomo informato sia meglio. Per cui mia nonna è migliore di tanti
giornalisti. Camus diceva: “Tra la giustizia e mia madre, preferisco mia madre”. Abbiamo la presunzione che essere informati renda migliori, ma non è vero.
Vecchi: Intanto bisogna capire che cosa intendiamo per informazione. Mi venivano
in mente le Olimpiche di Pindaro, quando il poeta si lamenta perché vengono esaltati solo gli atleti , mentre oggi possiamo avere qualche vaga idea di chi ha vinto le
Olimpiadi perché lui lo ha scritto. Il tempo fa giustizia.
Il discorso dell’informazione ha a che fare con il rapporto tra la cronaca e la storia,
con il rapporto con la realtà. Ma la definizione “storico del presente” credo che sia
un ossimoro, non ho questa presunzione e non credo che sia possibile. Per fare
lo storico bisogna avere una distanza storica, la difficoltà del giornalismo è cercare
di raccontare la realtà in diretta. La pretesa di fare storia in diretta è illusoria, credo
che sia già molto riuscire a raccontare l’oggi in modo corretto.
Io appartengo a una generazione che ha visto nella vita di redazione un cambiamento epocale. Adesso fa ridere, ma la prima volta che sono entrato al Corriere,
alla fine degli anni Ottanta, avevo ancora davanti le macchine da scrivere e i miei
primi pezzi li ho scritti con una Olivetti.
Su internet, in questo oceano sterminato di notizie, il ruolo del giornalista rimane.
Perché la gente cerca informazioni su internet dalle fonti di informazione accreditate. I siti più visti sono Corriere, Repubblica, Stampa, quindi il ruolo non sfuma,
pur cambiando molte cose. Bisogna guardare in positivo a questa moltiplicazione di
notizie. Per esempio, la censura è praticamente impossibile adesso.
Però questo cambiamento nei mezzi comporta sicuramente un cambiamento nella
vita del giornalista e nella sua formazione. Il rapporto con i vecchi giornalisti per
15
me è stato fondamentale. Io ho avuto la fortuna di iniziare a lavorare nella cronaca,
l’ABC del giornalismo. Col passare degli anni questo modo di formarsi è sfumato
sempre di più. Se adesso si entra in una redazione sono tutti lì. C’è il paradosso che
esce e racconta chi ha fatto carriera, mentre i giovani stanno in redazione a guardare il video. Mentre è l’esatto contrario di quello che dovrebbe avvenire: l’uscire
diventa una prerogativa di quelli che sono già da molto in un giornale per poterselo
permettere, come se fosse un privilegio e non la base della professione. Questo è
un serio problema perché il rapporto con la realtà è un rapporto mediato.
Per cui il rischio è che il lavoro del giornalista si riduca alla sintesi e alla selezione
delle notizie, tutto a distanza. E questo cambia, cambia tragicamente. Perché la
capacità di selezionare le notizia la devi alla formazione che hai avuto.
Quando lei parla del vecchio modo di fare giornalismo io penso a una sorta di giornalismo investigativo. Ma quello di oggi è ancora un giornalista? Ci interessa la deontologia
del lavoro del giornalista… è un lavoro che ha un futuro o l’idea del “giornalismo cittadino” porterà a una nuova figura? La nostra sfida è capire qual è. Un giornalista con la
sua esperienza che cosa può dire a una ragazzo di vent’anni che vuol fare il giornalista?
Non sono due cose distinte. In questo momento tutti i giornali si pongono il problema di distinguere ciò che andrà in rete da ciò che andrà sulla carta. Io non
credo che scomparirà la carta: i mezzi sono diversi, per cui a ciascun mezzo competerà un modo di trattare le notizie in modo differente. La notizia si dà di slancio
sull’online e la si approfondisce poi sulla carta, non si escludono le due cose. Così
come non si escludono i due profili di giornalista, è sempre la stessa persona che
fa due pezzi con un taglio diverso. Ma noi stessi non sappiamo ancora come fare
materialmente, non abbiamo ancora risolto. È tutto in fieri. La Stampa per esempio
ha creato una struttura della redazione circolare, un open space, per la più facile
comunicazione delle notizie.
Ma ci sarà ancora il lavoro del giornalista. Il rischio è che si dividano le due figure,
che ci sia il giornalista in batteria e quello a contatto con la realtà. Impoverirebbe
anche il giornalista che esce al quale comunque è richiesto di conoscere la rete,
perché sono ormai strumenti del mestiere. Qualcosa si perderà, però credo che
uno debba cercare di portare l’eredità del modo classico di fare il giornalista per
non perdere troppo.
Il rischio non è che scomparendo la vecchia generazione, non ci sia più nessuno che
saprà fare il mestiere fuori?
Sì, quello è il rischio, tra cui la perdita di alcuni automatismi, come controllare l’Ansa. Però dipenderà da noi, dalle responsabilità che ci vogliamo prendere. Io propo16
nevo che gli stagisti non venissero mandati agli Interni o agli Esteri perché vuol dire
passare il tempo davanti al video, ma in Cronaca perché l’unico modo per avere
un contatto con la realtà. Ma stiamo parlando di cose che non abbiamo risolto. Le
domande che fate a me, sono quelle che ci facciamo noi, con una consapevolezza
maggiore rispetto a due anni fa. Ma non vi posso dare delle risposte chiuse, perché
non abbiamo ancora la soluzione.
Lei ha parlato del rapporto con i vecchi giornalisti come palestra per la professione.
Quindi lei che cosa consiglierebbe in questo momento di grande difficoltà?
Vale sempre quello che diceva Montanelli: “Leggete Flaubert”. Il giornalismo consiste nella scrittura, e per saper scrivere devi leggere. Poi ti crei quella conoscenza di
fondo che ti serve per qualsiasi cosa tu faccia. Sono quegli strumenti che ti servono
per orientarti nel magna informe dell’informazione. Poi è ovvio che se conosci
l’inglese è meglio e che devi essere pratico con il computer, ma queste sono cose
comuni e assodate. La differenza la fa la tua cultura, il tuo spirito critico, la tua conoscenza della natura umana.
Rondoni: Faccio una domanda io, ora. Finché il rapporto con le fonti è neutro, va
bene. Ma se tu fossi uno che costantemente pubblica pezzi contro il Vaticano, ti
risponderebbero allo stesso modo?
Vecchi: Dipende molto dall’intelligenza delle fonti. Per i partiti non è così, ma nel
mio settore valutano la correttezza. Io posso anche dire che la tua è una politica
scellerata ma se ho riportato correttamente quello che hai detto, non c’è rancore.
C’è la diffidenza nei confronti di quello che altera o travisa le cose, ma è anche
giusto.
17
14 dicembre, serata
Si è tenuta una testimonianza di Luigi Amicone, Direttore di “Tempi”, sul tema
“Cosa vuol dire, oggi, fare il giornalismo corsaro?”
15 dicembre, mattina
Rondoni: Ringrazio Marco Bardazzi e Giuseppe Braga di aver trovato il tempo
per essere qui. Proseguiamo sull’onda di ieri, sulla forma della testimonianza e del
racconto di questioni e problemi affrontati nella loro carriera.
Bardazzi: Buongiorno a tutti. Sono caporedattore centrale della Stampa a Torino,
prima ho fatto il corrispondente dagli Stati Uniti per l’Ansa, prima ancora ho fatto il
cronista giudiziario in Toscana e a Milano. Ora sono Digital editor, una nuova figura
che fa da caporedattore centrale ma che coordina tutti i contenuti digitali del giornale e li integra con quelli cartacei. Che cosa vuol dire? È ciò di cui vorrei parlarvi,
intrecciando anche esperienze personali. Oggi abbiamo la necessità di occuparci di
cose digitali portandoci dietro la tradizione che abbiamo alle spalle, ma adeguandola al presente.
Parto, visto che il mio tema è “Old media vs new media”, dallo scandalo Watergate: Bob Woodward e Carl Bernstein arrivarono al punto di far dimettere Nixon,
per un’inchiesta giornalistica. Ogni giornalista che si rispetti ha il sogno di trovare
uno scoop come il Watergate. Parto da qui per raccontarvi questo episodio: il
giugno scorso era l’anniversario del Watergate e Bob Woodward e Carl Bernstein
vennero invitati alla scuola di giornalismo di Yale. Gli studenti, nel confronto con i
due giornalisti, fecero una tesi sullo scandalo e ne venne fuori che in due settimane avrebbero fatto dimettere Nixon. Utilizzando i social, Twitter, Facebook, per
coinvolgere il maggior numero di forze nel loro lavoro. Bob Woodward e Carl
Bernstein ne rimasero sconvolti: nessuno degli studenti aveva pensato di uscire e
andare a parlare fisicamente con delle persone. Tutto funzionava sulla base delle
possibilità che offre la rete. Non c’era il rapporto umano.
A mio avviso, hanno ragione entrambi. Due anni fa vi avrei detto di andare a noleggiare “Tutti gli uomini del presidente” da Blockbuster, ma oggi non c’è più nemmeno Blockbuster. Tutto questo fa parte dello stesso scenario che mette in contrapposizione la generazione dei giornalisti del Watergate con la nuova generazione dei
futuri giornalisti. Li contrappone anche per un altro motivo: il giornale per cui lavoravano Woodward e Bernstein, il Washington Post, era il colosso dell’informazione
americana. Oggi è un giornale locale, ristretto, in gravissime difficoltà per lo stesso
motivo per cui ha chiuso Blockbuster e per cui le case discografiche sono in crisi.
18
Ho messo insieme un po’ di cose: il bello del giornalismo, l’inchiesta, l’andare a
scavare nella realtà; il problema del giornalismo oggi è che è un modello di business
che non sta più in piedi e che va ripensato; le opportunità del giornalismo, il fatto
che quarant’anni fa questa storia andava raccontata in un modo e oggi si racconterebbe in modo completamente diverso. Io credo che non ci sia mai stato un momento così interessante come oggi per fare giornalismo anche se non c’è mai stato
un momento di crisi come oggi per i giornali: è in crisi il sistema dei giornali, non è
in crisi, anzi prospera, il giornalismo. Perché si legge più di prima, siamo più informati di prima, abbiamo sempre più accesso alle notizie. C’è il problema di capire
che tipo di radici ha questa informazione, su che cosa si basa. Ci sono vari esempi
che ci aiutano a capire questo scenario. Il giornale di riferimento, soprattutto per chi
ha la passione di trasformare il giornalismo in ambito digitale, è il Guardian inglese,
che prima e meglio degli altri sta utilizzando tutte le nuove possibilità con l’intento
di mettere tutto a disposizione di tutti nella maniera più ampia possibile. Stanno
sfidando il New York Times in casa, sono il terzo sito mondiale di traffico per le
news, in continua crescita e un modello per tutti noi. Però in 4 anni hanno visto
dimezzare le copie cartacee e quest’anno hanno chiuso con un buco di 75 milioni
di sterline nel bilancio.
C’è stata una profonda crisi nel 2008-2009 per i giornali, cominciata negli Stati
Uniti. Da qui siamo partiti io e Massimo Gaggi, tutt’ora inviato negli USA, per fare
un’inchiesta di cui abbiamo parlato nel libro “L’ultima notizia”. Adesso l’Europa sta
vivendo la stessa crisi mediatica che ha colpito prima gli Stati Uniti.
Questa complessità nel definire il valore del lavoro che io faccio, anche in termini
di valore intellettuale, di copyright, sta creando delle scuole di pensiero e un dibattito internazionale interessante perché riguarda tutti: l’informazione ci riguarda
a prescindere dal fatto che uno faccia il giornalista o meno. L’opinione che emerge,
e che negli USA ha largo seguito, è quella che sostiene che bisogna dar spazio al
potere dei Network per cambiare il giornalismo. La fede nella saggezza collettiva
della folla, il crowd sourcing come fonte per fare giornalismo. Secondo me, è una
cosa bellissima. Il giornalista come organizzatore di comunità, di citizien journalism,
di un giornalismo fatto dal basso. Cresce anche l’idea di un giornalismo volontario
piuttosto che professionistico, di un giornalismo che ha come modello la conversazione rispetto a ciò che è sempre stato fatto fino a ora che è monodirezionale. Ma
si pone subito un interrogativo: se deve prevalere la saggezza della rete, servono
ancora i giornalisti? Io penso che ci siano delle cose da preservare importanti, pur
abbracciando tutto ciò che c’è di nuovo, e qui sta la dialettica tra i due report del
Watergate e i ragazzi.
La redazione tradizionale ha però dei valori imprescindibili: il metodo di raccontare
la realtà. Il fatto che ci sia chi si dedica a mettere un ordine tra le tante cose che si
19
possono raccontare in una giornata. E il fatto di avere dei testimoni esperti: attraverso il citizen journalism (giornalismo partecipativo) abbiamo tanti testimoni, sì, ma
c’è bisogno di un testimone esperto. Cioè di uno che sappia inserire in un contesto
ciò che sta accadendo, che mi sappia dire che cosa significa una presenza rispetto
a un’altra, che conosca la storia di un paese, che sia al corrente dei rapporti tra gli
stati. C’è bisogno di un’esperienza che la somma dei testimoni presenti non mi
possono dare. È giusto che ci sia una chiave d’interpretazione. Infine, ha un valore
la credibilità, messa fortemente in dubbio in questo scenario.
L’informazione per tanti anni ha vissuto basandosi sulla pubblicità e sulle vendite
dei giornali come fonte di guadagno, oggi questo non è più possibile. Io credo che
questa crisi, come tutte, nasconda un’opportunità. Nel contestare questa dinamica,
vengono messe in discussione anche l’opinione, l’ideologia, la faziosità del giornalista. La convinzione esistente fino a poco tempo fa era: anche se non interessa al
lettore, io ho chi mi copre le spese. Oggi questo non può più esistere, ci sarà il
bisogno di stare al vaglio della rete, con un dialogo che mi giudica in continuazione
e quindi, auspicabilmente, sarò sempre più sotto controllo da parte dei miei lettori.
Questo potrebbe essere positivo per il giornalismo del domani perché forse toglierà tanti limiti che oggi ci fanno dire “i giornali non sono credibili, sono faziosi e non
meritano i nostri soldi”.
Io faccio un po’ il difensore della casta: siamo sicuramente chiusi in un ordine professionale, chiusi dentro le redazioni, è vero, e io spero che questa casta si diluisca
sempre di più nel tempo. Però mi sento di fare anche un minimo di difesa d’ufficio
a quella professionalità e a quella qualità che nei giornali, nelle grandi istituzioni giornalistiche con una storia, è presente e che io spero continui a perseverare.
Rivendico questa cosa anche per ricordare a tutti che cosa succederebbe se l’ecosistema mutasse in maniera tale per cui scomparisse questa presenza di professionisti
che si occupano ogni giorno di raccontare le cose come avvengono e tutto fosse
affidato alla saggezza della rete. Se Twitter fosse un grande barbecue, noi giornalisti
siamo quelli che portano la carne, di cui tutti discutono. Poi siamo felicissimi che
ci sia qualcuno che porta le salse e le spezie, ma la carne continuano a portarla le
redazioni. Spariscono le redazioni e dopo vi fate le grigliate con le verdure, che va
bene lo stesso, però tenete presente che l’informazione nasce ancora in gran parte
in questi luoghi. Che hanno difficoltà di riorganizzazione perché è diventato difficile
dare un valore a ciò che fanno. Come possiamo riassumere tutto questo? Quando
ho scritto il libro col mio amico Gaggi lo riassumemmo nella “Legge delle 6 C”. Ciò
che noi giornalisti continuiamo a portare nelle redazioni tradizionali sono: contenuti, credibilità, creatività. Le tre C che arrivano dal mondo digitale sono la comunità,
la conversazione e la condivisione. C’è bisogno di mettere insieme queste sei C.
Ma c’è bisogno anche della Contaminazione: i giornali hanno bisogno di aprirsi a
20
una serie di realtà con cui prima non avrebbero mai collaborato. Ce n’è un’ottava, il
Caos, che è quella che vediamo tutti i giorni perché l’informazione è ormai diventata liquida, frammentaria ed io credo che sia pericolosa anche per l’esigenza di avere
una narrativa comune sui fatti. E quindi saremo sempre di più in balia di input, che
in assenza di un metodo, renderanno difficile per noi farci un’opinione.
Il giornalismo ha le 5 W: What, When, Where, Who, Why. Quattro W ce le siamo
già giocate, il giornalismo di domani sarà fatto di Why e di How. Specialmente per la
parte cartacea, che sarà fatta di approfondimenti, di chiavi di lettura, senza ripetere
ciò che per tutta la giornata si è già letto o sentito.
Lei che cosa ne pensa dell’abolizione dell’ordine dei giornalisti? Che cosa significherebbe l’abolizione dell’ordine?
Io non sono certo a favore dell’ordine dei giornalisti, ha una serie di problemi anche
perché affonda le radici in epoca fascista e comincia a essere datato. Io sono per
un apertura diversa, per un giornalismo fatto su curriculum, non su una tessera che
ti viene data dopo una serie di passaggi obbligati. Io vorrei scegliere la gente sulla
base delle capacità che ha e di ciò che ha fatto. C’è solo una cosa su cui io vorrei
spendere una parola buona: io cominciai bussando alla porta di una redazione,
da studente universitario con la passione per il giornalismo, dicendo “vorrei fare il
giornalista”. Oggi rispetto a allora ci sono almeno 15 corsi e scuole che ti garantiscono un percorso e un orientamento. Se dobbiamo andare a pescare gente per
fare gli stage nella redazione, lo facciamo nelle scuole di giornalismo, perché lì la
professione viene trasmessa e insegnata con un certo ordine. Questo è un merito
dell’ordine. Detto questo, sono d’accordo con te, è antistorico e andrebbe superato, anche se non so come.
La mia domanda riguarda il fenomeno di digitalizzazione. Secondo me la carta continua ad avere una certa autorevolezza tale per cui, un giornalista come lei che passa
all’online continua ad avere un certo numero di lettori, se lo faccio io non mi conosce
nessuno e avrò sempre un numero di lettori ridotto, pur magari dando notizie importanti. È vero?
Il giornalismo non sta tutto passando dalla carta all’online, si sta integrando. Faccio
l’esempio del posto dove lavoro io. Fino a poco tempo fa, lo si poteva definire un
quotidiano nato nel 1867. Oggi è una testata giornalistica fondata nel 1867 con
tutta la sua storia che però si occupa di raccogliere e distribuire informazione su
piattaforme cartacee e digitali. Ai nostri giornalisti non è che chiediamo di fare più
cose, sì le facciamo, ma la cosa che sta cambiando è: di fronte alla realtà che devo
raccontare ho la possibilità di farlo con tempi e approcci diversi, e questo è un
arricchimento, cambia lo storytelling del mondo. Sarà sempre meno un racconto
21
lineare. È come la differenza tra il compito scritto, con un inizio, uno svolgimento e
una fine, e la ricerca fatta sul cartoncino bristol, dove vedi tante cose e hai svariati
porte d’accesso. Al giornalista è chiesta la capacità di raccontare gli stessi eventi con
modalità diverse. In tutto questo, la carta manterrà una sua particolarità e una sua
importanza legata all’approfondimento. A mio avviso, la carta sopravvivrà con delle
fogliazioni minori e un prezzo più alto.
Secondo me la carta non è solo veicolo di autorevolezza, ma l’approccio del lettore
è diverso da quello con l’online. Su internet assumo una notizia velocemente, leggo il
titolo e mi faccio un’idea molto superficiale dell’accaduto. C’è proprio una perdita di
affezione tra il pubblico e la notizia. Secondo lei ci sarà, come per il cibo, il ritorno a
una filosofia slow food anche per l’approccio alla lettura o ci dovremo abituare alla
velocità, che presuppone leggerezza e superficialità?
Sono d’accordo con le cose che dici. La velocità e la frammentazione a me fanno
paura. Siamo sempre più distratti. Ci sono degli aspetti però interessanti da capire,
senza sembrare che io faccia difesa d’ufficio. Anch’io sono per la libreria e il libro di
carta letto in poltrona, però mi accorgo di opportunità che prima non avevo. L’IPad
è diverso dal lap-top che è quello che gli americani chiamano uno strumento lean
forward: io sono proteso in avanti verso la realtà e con un impegno che mi porta
a distrarmi e a immagazzinare dei pezzi velocemente. L’IPad è invece un lean back,
che ha il vantaggio di non essere nemico del libro e dall’approfondimento, non ha
caso io lo leggo sul divano: evidenzio, copio, modifico. E non a caso il long article,
che sembrava ormai impossibile da proporre, sta invece ricomparendo nell’epoca
lean back, perché lo strumento si presta a farlo. Non bisogna spaventarsi del fatto
che esista.
Braga: Proverò a partire dagli spunti di Marco. Il mio approccio è completamente
diverso dal suo, per una diversa storia e una diversa forma mentis. Ma prima: quanti
di voi vogliono fare i giornalisti? Perché ci sono due o tre cose che è importante che
sappiate. I dati li sapete? La caduta verticale maggiore è stata tra il 2011-2012: la
pubblicità, che rappresenta il 60% degli introiti di un giornale, è calata in media del
16,3%; le vendite hanno perso il 3% del fatturato netto; il costo di un giornalista
è rimasto lo stesso, è 101mila euro all’anno aziendale; l’occupazione è crollata del
7,2%. C’è una crescita del 36% del web e il 50% dei giornali ha un sito correlato.
Il fatturato on line è cresciuto del 38% nell’ultimo anno, ma l’online non fattura
le stesse cifre della carta. Qui abbiamo un cortocircuito. Ci spostiamo dalla carta
al web, ma non c’è lo stesso travaso di risorse economiche rispetto al travaso di
lettori. C’è una discrasia tra questi due mondi, uno è fortemente stabile e l’altro è
ancora fumoso. Se volete fare i giornalisti sappiate che gli stipendi probabilmente
verranno abbattuti col prossimo rinnovo del contratto. Adesso un ragazzo che
entra in una redazione prende quanto un impiegato. Insomma, non pensate di
diventare ricchi facendo questo mestiere. Per quello che riguarda l’accesso alla
22
professione, c’è un livellamento verso il basso: ci sono più modi di esprimersi ma,
dato che manca uno sbarramento, chiunque può mettersi a scrivere. La moltiplicazione di possibilità abbassa la soglia d’ingresso nel mestiere. Siamo in una fase,
dal punto di vista umano, di incredibile confusione, poi comincerà una selezione
naturale. Quelli di voi che vogliono fare i giornalisti, quale che sia il mezzo con cui
lo farete, sappiate che è un problema secondario. Che voi lo scriviate in inglese o
italiano, su Twitter o su Facebook, resta un problema: bisogna avere qualcosa da
dire. Cambierà il mezzo, ma dovrete comunque sapere di che cosa state parlando.
Bisogna partire da prima: perché non è come vendere pomodori o scarpe. Avrete
a che fare con cose impalpabili: come si fa a toccare la storia di un uomo? Come
si fa a entrare in casa di uno a cui è morto un caro? Come si fa a calcolare quanto
vale una notizia?
Che cos’è che può fare di voi un giornalista? Davide m’ha detto: racconta la tua
esperienza. Tenete presente una cosa: siamo in Italia. Prima di arrivare al Guardian
dobbiamo riuscire a fare un’inchiesta decente. Non che i nostri giornalisti non siano bravi, ma è un problema culturale dei direttori, degli editori, di un paese che
vive in un sistema clientelare strutturato. Io sono nato al Resto del Carlino, poi
sono passato all’Ansa-Emilia Romagna, poi sono tornato al Resto del Carlino. Dove
s’impara? E qui entriamo nel tema “Non solo grande stampa”. La stampa locale è
specializzata. Se volete cominciare a fare questo lavoro, prendete un gessetto, fate
un segno per terra, contate cinquanta passi e tracciate un altro segno. Per giorni
non vi muovete di lì, finché non avete guardato e raccontato tutto. E vi accorgerete
che non sapevate niente. Questo è l’ABC. Se non imparate a raccontare una cosa
in maniera analogica, col digitale non sarete in grado di fare nulla. Perché il nostro
cervello contiene un universo, ma abbiamo soltanto due mani. Quando accediamo
eccessivamente alle informazioni, come succede sulla rete, abbiamo l’effetto contrario: tantissime notizie e nessuna. Bisogna utilizzare tutti gli strumenti per quello
che sono: lavatrici; bisogna recuperare lo spazio mentale per fare le cose con i
nostri mezzi. La realtà è che se non ci si muove personalmente, le notizie non si
beccano. Altrimenti diventiamo tutti dei microfoni perché abbiamo il rimbalzo con
mille sfumature di una notizia sul web. Ma il nostro mestiere non è quello dei microfoni! Se io faccio questo mestiere è perché voglio raccontare qualcosa.
Allora nel nostro Piccolo decalogo degli apprendisti ho scritto:
Non imbrogliate, non ve ne fate niente. In questo mestiere è faticoso, non dura, è
costoso e prima o poi morirete e che cosa portate a casa? Penserete: “Bella forza!”.
Falso. Il giornalista è un mentitore perché il fatto di vedere la propria firma da qualche parte stimola tutti i peggiori istinti narcisistici. E se non hai un ferreo autocontrollo e due, tre paletti etici finisci col pensare di essere Dio al terzo pezzo. Quindi
copiate, imitate, leggete Manzoni, Buzzati, la Fallaci. Ma copiate le cose lette, non
23
quelle che ci sono sulla rete perché potrebbero non essere vere. Poi studiate la
storia e vi accorgete che gli uomini fanno sempre le stesse cose.
Su Facebook ho fatto un’esperienza. Quest’estate sono andato in motocicletta in
Francia. Tutte le sere scrivevo 4000/5000 battute, quantità insensata per Facebook.
Ma ne sono rimasto trascinato e le persone anche. Questo è il backfire: di fronte
al consumo convulso e al deprezzamento di quello che c’è nella rete, una cosa in
completa controtendenza, ha funzionato benissimo. Questo vuol dire che finita la
sbornia, c’è bisogno di un bicchiere di latte, il desiderio di rallentare. C’è bisogno di
un mondo che noi possiamo maneggiare.
Prima impariamo a fare le cose bene, come la gamba della sedia, scriveva Peguy.
Che se non la costruisci bene, la sedia si rompe o non viene venduta. Ma la costruisci bene perché è il tuo mestiere. Questa è la differenza che c’è tra mestiere e
professione. Un avvocato, un ingegnere, un architetto sono professionisti, hanno
dei limiti ben precisi. Fare i giornali, invece, è un mestiere. Se avrete la fortuna di
lavorare con la piccola stampa, di fare un training duro, violento e vi troverete in un
incidente stradale avvenuto nella nebbia, a mettere un piede nella porta della casa
del morto perché avete bisogno delle foto, vi verranno mille domande dopo… Prima l’istinto sarà quello di porle, le domande. Però nel momento in cui entrerete in
quella casa, non avrete a che fare né con pomodori né con scarpe, ma avrete a che
fare con delle persone. E quando voi scriverete il vostro pezzo avrete due ordini di
problemi: scrivere la verità e scrivere la realtà, che non sono sempre la stessa cosa.
Perché la realtà è quella che hai davanti, la verità è quella che coglie alle spalle. Tu
ti trovi davanti a una persona sotto shock e ti dà tutto quello che vuoi, un’ora dopo
non te la darà più, e devi essere abbastanza psicologo da capirlo altrimenti non la
becchi la foto. Questo dovete imparare. Questa è la realtà, la verità è quando voi
poi vi mettete davanti al computer e vi chiedete: “E adesso che cosa racconto?” e
quello che viene fuori dipende dal fatto di essere rimasti aperti a tutti questi momenti, compreso quello del piede nella porta. Questo farà la differenza. I mezzi
che utilizzerete, sono solo tecniche. Voi tradurrete quello che avrete imparato e
dipenderà da come avrete allenato la vostra sensibilità.
Questo è un mestiere semplice, lo rendiamo difficile noi, per sentirci importanti.
Ma è pericoloso. È inutile che pensiate di andare in giro per il mondo a raccontare
belle storie, perché vi corrono dietro con il mitra. Negli anni di Nera e giudiziaria
che feci, capitava che mi telefonassero di notte per minacciarmi: è il problema della
cronaca locale. Ma insegna che nel vicino c’è tutto il lontano. In Pakistan avete lo
stesso cuore, la stessa testa, le stesse mani che avete sulle foci del Po. Non abbiate
paura di sembrare provinciali, abbiate l’orgoglio di esserlo, perché è molto più difficile scrivere di chi avete vicino. E ricordatevi che la vostra opinione è la cosa meno
interessante che ci sia. Ma non bisogna confondere l’opinione con l’aver trovato
24
qualcosa da raccontare.
Allora che cosa ci serve se vogliamo cominciare a fare questo mestiere? Mettersi
calmi, mettersi un paio di scarpe comode e andare a piedi. È un lavoro che si fa
a piedi, non seduti, non in autobus, non in treno. È un mestiere analogico per
definizione: abbiamo mani e cervello che lavorano in modo analogico e possiamo
maneggiare poche cose per volta. La libertà è un concetto fondamentale, ma se
non sei padrone della libertà che ti viene data dai mezzi è come una pistola carica:
né buona né cattiva, ma dipende da chi la prende in mano.
Se volete fare questo mestiere iniziate con un approccio romantico e praticissimo.
Abbiate fiducia che si può fare, ma sappiate che consegnerete mani e piedi ad un
mestiere che è di un’incredibile bellezza (sono poche le occasioni di vivere e essere
pagati per leggere l’umanità), ma che vi porterà a una vita di sacrificio, come tutte
le vite che sono piene.
Ciò che rende capace di approcciare una professione non sono innanzi tutto le abilità
relative a quella professione ma è la forza del soggetto, e quello che lei ci ha raccontato, nella sua appassionata testimonianza, mi ha fatto venire in mente la virtù
cristiana della fortezza. Che è una cosa che nel caos in cui viviamo è la prerogativa
fondamentale che bisogna avere. Non per fare i giornalisti, ma per essere uomini. San
Paolo diceva “tutto è vostro, ma voi siete di Cristo”.
Scrivere si impara scrivendo? Un bravo scrittore può essere un bravo giornalista? Preferireste qualcuno che sa andare a citofonare, parlare e indagare perché tanto si può
imparare a scrivere?
Braga: Hai toccato un tema… Tradizionalmente i giornalisti si dividono in due categorie: quelli che sanno scrivere e quelli che sanno trovare le notizie. È vero in
parte. I grandi inchiestisti spesso poi non hanno una prosa letteraria di pari livello
rispetto alla propria capacità d’indagine. E viceversa, i grandi scrittori sono troppo
concentrati sulla lingua per andare a ficcare le mani dove ce le si sporca. C’è però
una riserva di eccezione piuttosto ampia. Man mano che la scolarizzazione ha dato
strumenti lessicali migliori, anche chi una volta era un pellegrino terribile che però
era bravissimo a trovare notizie, ha innalzato il suo livello. È peggiorata invece la
capacità di introspezione, la voglia e il sentimento della necessità di andare a approfondire. Per quanto riguarda la scrittura c’è solo un metodo: leggere tantissimo e
scrivere di continuo. Io non ho una grande fiducia nelle scuole di giornalismo, sono
sincero. Perché il più delle volte sono scuole di obbedienza. E questo non è un
mestiere per persone per bene, è per persone oneste, ma è diverso.
Bardazzi: Braga ha messo la passione dentro il contenitore tecnologico di cui par25
lavo all’inizio, per fortuna ci ha riportato sul terreno antropologico.
Le due cose stanno insieme. Io vorrei solo insistere sull’aspetto che oggi è più
urgente. Interessa chi sei tu di fronte alla storia da raccontare, certo. In questo
momento storico, la tua capacità di scrivere una storia è importantissima, ma conta
un po’ meno. Io ho bisogno che tu mi riporti la storia in vari formati: foto, voci,
video. La tua bravura sta nel raccontarmela in tutti i modi che vuoi, ma le modalità
narrative di oggi richiedono che tu me la porti in maniera multimediale. Quindi se
oggi volete fare i giornalisti, dovete leggere, certo, ma dovrete anche essere digitali.
Secondo me non è questione di idee o di saper scrivere. Il punto è che qui c’è potenziale umano, c’è la possibilità di creare un blog tra i ragazzi che siamo noi e lavorare. Sono
queste le sfide oggi: o decidiamo di scendere in campo, perché tutti scribacchiamo,
ma come?
Braga: È quello il punto: che tutti scribacchiate. Se voi vi fate un blog, vi leggono
quelli dei blog e rimarrà in un mare magnum. Non c’è modo di farlo venir fuori. Il
mio suggerimento è, se avete una storia bellissima, scrivete e mandatela a qualcuno
che la legge. Perché il pezzo di carta ha dei confini e il monitor no. Affrancatevi dal
rischio del mondo del continuo, potatevi nel mondo del discreto, create dei confini. E’un po’ una strana variante dell’effetto Venturi: un fluido tende a mantenere la
stessa quantità di moto. Se stringete il corridoio va più forte. Quindi più sono stretti
i confini che vi date, più è forte l’impatto di quello che fate. Il vero problema è che è
tutto troppo largo quindi niente si muove più. Scrivete una storia bellissima e forse
cinque volte no ma alla sesta qualcuno dirà “Che bella”.
Questo è il vero pericolo: che siamo tutti costretti a una velocità che non ci compete. Dovrete affrancarvi da questa rapidità, rallentate e fate un lavoro di grande
qualità.
Anch’io preferisco la carta stampata. Ma il problema è l’accessibilità, come faccio a
sapere che verrà letto? Mi piacerebbe tantissimo mandare un pezzo in via Solferino,
ma chi mai lo leggerà?
Braga: Non mandarlo in via Solferino, mandalo in una realtà più piccola. Dove
può essergli consentito di essere letto. Qualunque sogno di grandezza verrà giustamente umiliato alla base, e probabilmente vi farete anche dal male. Partite forte
e piano: bisogna imparare ad essere lenti in fretta. Bisogna essere rapidi, certo, ma
l’accuratezza è decisiva. E non diciamo “non c’è lavoro”, perché non c’è mai lavoro
e non c’è mai la possibilità. Lo sbarramento è sempre forte, la lotta per la vita è durissima e i vecchi non vogliono mollare mai. Non è adesso che siamo gerontocrati,
l’umanità lo è. La domanda falsa è “dove c’è un posto di lavoro?” perché è dove sei
tu che riesci a fartelo.
26
Evitate i luoghi affollati. Stringete, rallentate, scrivete meno ma molto bene, approfondite di più. Cercate di essere inediti, originali non nella stramberia, ma nelle
cose che succedono. Leggete tutti i giornali locali: troverete una storia meravigliosa.
Sono le vicende umane che contano.
Rondoni: Volevo lasciare delle spie accese. Perché uno vuol fare il giornalista? Perché nel raccontare il mondo c’è sempre qualcosa di interessante. Se vuoi fare il
giornalista per vanità, è un’altra questione. Nella motivazione deve contare di più
il fatto che c’è qualcosa che ti piace nel raccontare il mondo. Accennava a questo
Beppe: ci può essere un gusto a raccontare la propria opinione nei blog, ma in quel
caso la finalità è mettersi in mostra non fare giornalismo.
Un’altra questione che è stata affrontata è la narrazione comune. Ma che cos’è che
la rende comune? È il fatto che i narratori sono tesi a cercare il vero nella realtà che
hanno di fronte. Questo rende la narrazione interessante: la ricerca del vero, che
non è l’obiettività, ma è il rapporto tra il soggetto e l’oggetto.
Il tuo racconto deve diventare interessante attraverso un lavoro che fai su te stesso,
sulla scrittura, sulla conoscenza, sulle informazioni, sugli strumenti.
C’è un aspetto di lavoro che nessuno vi pagherà, ma che è fondamentale. Il problema, come diceva Eliot, è tener ben presente la differenza tra il gusto di vedere il
proprio nome a stampa o credere che nel mondo ci sia qualcosa di interessante da
raccontare. Son due cose radicalmente diverse. Tant’è vero che nel nome dell’uno, vedere il proprio nome a stampa, si è disposti a qualsiasi cosa. Se invece si è
convinti che ci sia qualcosa di vero nel mondo da raccontare, allora uno si mette
in una disposizione di lavoro che è esattamente il contrario: imparare, scoprire,
conoscere. Guardatevi dalla seduzione di vedere il proprio nome a stampa.
27