Alcuni momenti della civiltà latina

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Alcuni momenti della civiltà latina
Classe 1 ^ C
Professoressa Adele Papa
Assistente tecnico: Salvatore Valletta
Tema trattato: “Alcuni momenti della civiltà latina ”
Obiettivi : Realizzazione di una monografia sui primi aspetti della civiltà latina
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Avvicinare l’alunno al mondo latino attraverso la presentazione della sua civiltà
Individuare gli aspetti fondamentali della civiltà e della cultura latina
Consapevolezza dell’importanza della civiltà latino che costituisce le “radici” della nostra
Capacità di confrontare la civiltà latina con le altre civiltà, oggetto di studio degli alunni
Approccio consapevole e meditato con le nuove tecnologie
Capacità di strutturare graficamente il testo ( economia e funzionalità dello spazio comunicativo )
Descrizione dell’attività:
La tematica è stata affrontata dalla prof.ssa Papa per dare direttive organizzative e gli orientamenti
per la ricerca. E’ stata elaborata , pertanto , una mappa concettuale che è servita come guida per
tutto il lavoro. Successivamente la classe è stata divisa in gruppi di lavoro , a ciascuno dei quali è
stato affidato il compito di effettuare ricerche sui vari argomenti. In laboratorio, infine,il materiale
raccolto è stato organizzato in un unico documento Word.
Strumenti dell’attività:
• Seminari di approfondimento e dibattiti in classe con la guida dell’insegnante
• Filmati
• Documenti reperibili in rete
• Materiale didattico in forma cartacea sintetizzato e schematizzato al fine di rendere più
accessibile e chiaro l’argomento proposto
Modalità d’uso:
Si seguiranno criteri di opportunità , secondo le esigenze contingenti
Alcuni
momenti
della civiltà
latina.
Amore e
matrimonio.
Il calendario
della prima
età regia (di
Romolo e
Numa).
Le case
latine.
La scuola
primaria.
Il teatro
Romano.
La
prostituzione a
Roma
Amore nel
matrimonio e
matrimonio
senza amore.
La famiglia e
l’ educazione
dei giovani.
Il tempio di
Giove
Capitolino.
La cena dei
Romani.
La donna e i
poteri del
pater
familias.
L’ ideale
educativo e l’
organizzazion
e della
La scuola del
grammaticus
Gli schiavi nel
mondo
Romano.
L’organizzazio
ne di un
accampamento
La scuola del
retor.
Acconciature,orn
amenti di bellezza
delle donne
romane
La pena di morte
a Roma in età
repubblicana
Amore e matrimonio: breve storia del matrimonio a Roma
La più antica tra queste forme di matrimonio,la confarreatio,fuori dall’ambito ristretto dalla classe
sacerdotale fu presto abbandonata,soprattutto per motivi di interesse economico. Con essa infatti la
donna perdeva ogni diritto sui suoi beni o eventuali eredità,che sarebbero passati alla famiglia del
marito;questi,da parte sua,in caso di divorzio avrebbe dovuto restituire alla famiglia della moglie la
dote e aggiungervi la metà del suo patrimonio,se le motivazioni addotte a giustificare la separazione
non fossero state ritenute soddisfacenti. Già nel XII Tavole è contemplato così il matrimonio sine
manu, e nella tarda repubblica ci si sposa quasi esclusivamente per coemptio e usus. Con la seconda
metà del I secolo a.C. e la messa in discussione dei valori tradizionali,l’istituto matrimoniale entra
in crisi: nell’ambito del suo propagandistico programma di restaurazione del mos maiorum,
Augusto si vede costretto a tentare di porvi un freno con leggi contro il celibato e le relazioni
extraconiugali, ma senza conseguenza di lunga durata. In età imperiale l’usus è la norma, e sarà
gradualmente sostituito,in prosieguo di tempo dal matrimonio religioso cristiano, privo anch’esso di
implicazioni giuridiche.
Amore nel matrimonio e matrimonio senza amore
Si legge spesso che nel mondo romano il matrimonio,combinato dalle famiglie,nasceva da interessi
economici o politici più che da amore;vero, ma ciò vale per le classi sociali elevate,quelle che
poteva trarre un effettivo vantaggio da legami di parentela acquisiti:ecco cosi Giulia,figlia di
Cesare,data in moglie a Pompeo a sancire il primo triumvirato,Claudia,figliastra di Marco
Antonio,data dodicenne a Ottaviano a sancire il secondo (e restituita illibata alla madre un paio
d’anni più tardi,fatto che smaschera la natura meramente politica di questo matrimonio). È molto
probabile che nelle classi inferiori le cose potessero andare diversamente,e il “matrimonio d’amore”
fosse meno raro di quanto si possa pensare leggendo certi testi di storia. Bisogna però intendersi sul
significato di “amore”. Nella morale popolare greca e latina,così come in ambito filosofico,la
passione amorosa è vista essenzialmente come una malattia dell’animo,rovinosa sia per l’equilibrio
mentale che per il patrimonio,da rifuggire per quanto possibile:il matrimonio viene molto spesso
visto come un buon espediente per tutelarsi preventivamente da un tale pericolo. Si configura quindi
come un luogo di sentimenti “tiepidi”, del rispetto reciproco,della procreazione e della tranquillità
effettiva,non certo di sensualità e passione.
Come si sposavano i Romani?
A Roma non c’era un’unica maniera di sposarsi. Semplificando,possiamo identificare un
matrimonio “religioso”,detto confarreatio, vari tipi di matrimonio “civile”, dissolubili con maggiore
facilità,come la coemptio, e l’usus, una sorta di “libera covivenza”. La confarreatio e la coemptio
prevedevano entrambi il rispetto di un rituale ben preciso. La cerimonia del fidanzamento,gli
sponsalia, aveva preceduto talvolta di anni le nozze vere e proprie:in quella occasione alla sponsa
era stato donato un anello e il suo pater familias l’aveva promessa solennemente,in presenza di
testimoni, allo sponsus o al con suocero; se infatti,come accadeva quasi sempre,il matrimonio era
combinato dalle famiglie,i fidanzati potevano anche essere poco più che bambini. Raggiunta l’età
minima per la celebrazione del rito(almeno dodici anni per le ragazze,quattordici per i maschi),il
giorno veniva scelto fra quelli fasti: il periodo più adatto pare fosse la seconda metà di giugno. Era
molto curata l’acconciatura della sposa: con una punta di lancia (hasta caelibaris) le si spartivano i
capelli in sei ciocche,poi riunite con nastri e unguenti fissanti in un’alta crocchia; indossava poi una
tunica bianca di estrema semplicità (stola), e le veniva annodata in vita una fascia che sarebbe stata
sciolta soltanto la sera, nella camera nuziale,dal marito; quindi si copriva il capo con un velo color
arancione fiammante (flammeum), compiendo così il gesto (nubere,”velarsi”) che dà il nome alla
cerimonia stessa (nuptiae). I giocattoli dell’infanzia erano stati nel frattempo consacrati a una
divinità,a marcare il passaggio dall’età infantile a quella adulta. Un sacerdote (aruspex) sacrificava
quindi un animale e ne esaminava i visceri per verificare l’assenza divino al matrimonio:se non si
riscontravano impedimenti,si procedeva al rito vero e proprio in presenza di dieci testimoni. Nella
coenfarreatio gli sposi,seduti su uno sgabello coperto con la pelle di una pecora sacrificata per
l’occasione (pellis lanata), si dividevano una focaccia di farro ( da cui il nome del rito); quindi la
pronuba - una donna,scelta tra gli amici di famiglia,di costumi irreprensibili,sposatasi una volta sola
(univira) e il cui marito fosse ancora in vita – univa le mani destre degli sposi (dexsterarum unitio).
Più tardi,al termine del corteo nuziale,la sposa pronunciava la frase formulare:<< Ubi tu Gaius ego
Gaia>>,e inoltre:<< Ti seguirò dovunque andrai>> e <<da questo momento mi chiamo come ti
chiami tu>>,cioè << esco dalla famiglia di mio padre per entrare a tutti gli effetti nella tua>>,il cui
pater familias (il marito stesso o,se ancora vivente,il suocero) acquisiva la più completa podestà
sulla donna (passaggio in manum). La donna otteneva così il titolo onorifico di matrona e l’unione
era così solenne e vincolante che il divorzio era ammesso solo in casi estremi. La coemptio lasciava
maggior libertà: il passaggio in manum non era automatico e si poteva ottenere il divorzio senza
adire a vie legali, ma semplicemente convocando amici e parenti comuni e fornendo loro buone
motivazioni a giustificare la fine dell’unione. Il rito consisteva nella firma di un simbolico contratto
di vendita tra suocera e marito o in una promessa formale in presenza di testimoni. La donna invece
di matrona veniva chiamata semplicemente uxor. In entrambi i casi,giunte le tre o le quattro del
pomeriggio aveva inizio il banchetto nuziale,offerto dalla famiglia della sposa,al termine del quale
si formava un corteo ad accompagnare gli sposi alla nuova casa,tra i canti,gli schiamazzi e le
battutacce degli amici. Giunti a destinazione lo sposo sollevava di peso la moglie e la portava oltre
la soglia,gesto apotropaico dalle motivazioni oscure sopravvissuto fino ai nostri giorni. Accanto a
questi matrimoni “regolari” stava l’usus o convivenza:la donna si trasferiva senza tante formalità a
casa dell’uomo. Se entrambi avessero avuto fama di persone dabbene,l’unione era considerata del
tutto rispettabile e la donna veniva considerata moglie a tutti gi effetti,solvo quelli giuridici.
Entrambi i conviventi mantenevano il controllo dei rispettivi patrimoni,non vi era dote e il legame
poteva sciogliersi senza problemi in qualunque momento. Per legge,tuttavia,se la convivenza fosse
durata un anno intero,i due si sarebbero trovati legalmente sposati,e per di più la donna sarebbe
passata in manum, come nella confarreatio, con tutte le conseguenze del caso;bastava però
un’interruzione temporaneo di soli tre giorni,e tale pericolo sarebbe stato scongiurato:era perciò
tradizione che la donna facesse ritorno a casa dei genitori in occasione del parentalia, festa dei
defunti,che durava proprio tre giorni,dal 13 al 15 febbraio. I figli nati da tale unione erano tuttavia
illegittimi.
La famiglia e l’educazione dei giovani.
Il mondo latino, soprattutto in epoca arcaica, riconosceva la famiglia un ruolo fondamentale nella
formazione delle giovani generazioni. Sebbene, nel corso dei secoli, l’insegnamento domestico
tendesse gradualmente ad essere abbandonato, il modello educativo familiare tradizionale rimase in
vigore fino al periodo tardo arcaico. Il primo luogo del fanciullo romano era dunque la domus: qui il
bambino non veniva affidato, come in Grecia, a un'ancella, ma riceveva cure e attenzioni dalla
madre, accanto alla quale spesso era presente un'altra figura educativa femminile, una parente
anziana, la quale si preoccupava di vegliare sui giovani della casa. La donna moglie e madre era
oggetto di grande rispetto e considerazione. In seguito, quando il bambino raggiungeva i 7 anni, il
pater familias si assumeva il compito di istruirlo ed educarlo. Egli non solo gli insegnava i primi
rudimenti (leggere, scrivere, e fare di conto), ma curava anche la sua formazione di futuro cittadino,
portandolo con se nelle cerimonie civili e religiose, affinchè il figlio imparasse quei processi e
quelle norme che, secondo il mos maiorum, “l'antico costume degli antenati” erano il fondamento
della tradizione ed il patrimonio spirituale della romanità. Come si è ben visto, i romani
attribuivano grande importanza all'educazione dei giovani. I genitori educavano i fanciulli molto
severamente, insegnavano loro che il coraggio, la lealtà e la onestà sono le doti più importanti per
un uomo. La giornata per i giovani romani cominciava all'alba. Dopo una colazione semplice essi si
recavano a scuola, dove imparavano la storia della loro città, etc. A 17 anni il giovane romano
diventava “cittadino”: per quell'occasione abbandonava i suoi abiti da ragazzo e vestiva la “toga
virile”., il grande manto bianco con il quale si vestivano i patrizi. Egli entrava così a far parte della
vita pubblica. I figli dei plebei non andavano a scuola: lavoravano nella bottega del padre, se questo
era artigiano, o nei campi, se era un contadino. La ragazza imparava solamente le attività e la
dedizione domestiche. Domum servavit, lanam fecit, dice una delle prime iscrizioni funebri
dedicata ad una donna. Badare alla case e filare era infatti il traguardo educativo delle ragazze nella
prima società romana.
Il calendario della prima età regia (di Romolo e Numa).
Il calendario di Romolo comprendeva solo dieci mesi: quattro (marzo aprile maggio e giugno),
avevano nomi propri (si tratta fondamentalmente della stagione primaverile e potrebbe trattarsi di un
anticuum exemplum di suddivisione del tempo; infatti erano noti agli antichi, anni che duravano tre
o quattro mesi, come presso gli egiziani e gli arcadi), mentre gli altri sei (quintilis, sextilis,
september, october, november, december) avevano nomi numerali, dal che si evince che marzo
doveva essere il primo mese e dicembre l'ultimo, per un totale, appunto di dieci mesi, i quali non
corrispondevano né all'anno lunare né a quello solare.10 mesi come i mesi della gravidanza
(considerato durante 274 giorni) e come le dieci dita delle mani e le divisioni in dieci curie di
ciascuna tribù (Ramni, Titienses, Luceri).L'anno coincideva sostanzialmente con il tempo della
gravidanza delle donne (facendo coincidere alcune date, come il 15 marzo, capodanno del calendario
rotuleo, in cui si celebrava la festa di Anna Perenna, cioè della fecondità femminile; e il 23 dicembre,
festa della terminalia, quando scadeva la gravidanza ideale e l'anno, e quindi avveniva la nascita),
lungo quanto quello delle fordae boves, delle “vacche gravide”, e del ciclo produttivo del farro,
durata che aveva già caratterizzato il calendario proto-urbano, se non già anche quello preurbano.Questi 10 mesi in cui si distribuiscono le feste più antiche ( scritti a carattere grande tra le
quali spiccano vari culti di carattere tipicamente umano).In questo calendario il mese era strettamente
legato ai cicli lunari ( mensis = lunazione) ma non dipendeva più dalla causalità dell'osservazione
diretta. Si trattava pertanto di mesi lunari convenzionali e non empirici, per cui le calende ( che
sarebbero coincise poi col primo giorno da ogni mese) erano previste a data fissa, anche se il brutto
tempo non permetteva la visione della luna nuova (in origine un pontefice osservava l'apparizione
del crescente lunare e ne informava il Re).I punti fissi del mese coincidevano per tanto con le fasi
lunari: novilunio, quando si annunciava il primo quarto di luna o nonae, data nella quale si
proclamavano le feste nel mese, e plenilunio o idus. Essendo il mese lunare, che si diceva “siderale”
o “sinodico”, di giorni 29, i mesi dovevano comprendere alternativamente 30 e 29 giorni; è
interessante notare come nessuna festa antica cade oltre il 27 del mese “siderale”: non potevano
infatti esistere feste che cadevano nei giorni senza luna, quando il tempo sacramentale definito si
interrompeva in una sorta di tempo neutro. Dunque nel calendario rotuleo l'anno durava 295 giorni e
terminava il 23 dicembre, ai cosiddetti terminalia, cioè al termine del ciclo vitale dopodichè
cominciava un periodo intermedio, interposto tra il vecchio ed il nuovo anno, ma proiettato piuttosto
verso il nuovo anno (perchè sotto il seme di marte), che durava 21 giorni (forse quelli nei quali la
femmina non era feconda dopo il parto).L'oscillazione della durata dei mesi (30-29 giorni), era
minore rispetto al calendario successivo: mancavano, comunque, 59 giorni all'anno lunare e 90 a
quello solare, né si sa come avvenisse l'inserimento di questi giorni e se oscillassero anche le none (6
e 7 del mese) e le idi (14-15 del mese).Era previsto invece il sistema delle calende e delle idi, con
supremazia delle idi sulle carende (capodanno il 15 marzo e idi come feriae publicae; le uniche
calende che erano feriae erano quelle di marzo, quando più tardi il capodanno si fece coincidere con
l'1 di marzo, rinnovo del fuoco di Vesta).Le calende erano sotto la tutela di Iuno Novella, i cui
sacrifici venivano eseguiti dal re(nella curia calabra, cioè la casa di Romolo sul campidoglio) e dalla
regina (nella regia ai piedi del palatium) e le idi erano sotto la tutela di un giove cui il flamine
sacrificava l'ovis idulis, l'agnello delle idi, sull'Arx (non sul campidoglio). E' probabile che il culto di
giove fosse preminente nelle idi, ma non esclusivo, nel senso che poteva convivere con altri culti
nello stesso giorni festivo. La preminenza di Giove-Giunone sugli altri dei caratterizza il culto civico
della prima età regia cioè il periodo della formazione della città, mentre la dominanza di Giove sulle
altre divinità, Giunone compresa, caratterizza il culto civico della seconda età regia, cioè della città
in sé compiuta. Marte è il dio del primo mese dell'anno (Ops, cioè Opi, dea della fertilità), lo
conclude. La struttura del calendario rotuleo si armonizzava bene con la costituzione rotulea:
seguono entrambe il sistema decimale, le curie vengono portate a trenta, come giorni del mese, 10
per ciascuna delle 3 tribù, come i loro mesi dell'anno. E per tanto il calendario della prima età regia,
relativo a Romolo - Numa (maturato fino ad Anco Marcio e forse anche fino al primo Tarquinio), ad
apparire come prima cosciente opera di sistemazione unitaria, da vedersi in connessione con la
fondazione e la formazione della città. È dunque solo questo il calendario esemplare, creato una volta
e per sempre, immodificabile e riconoscibile nella sua struttura (tramite le lettere grandi) quindi non
confondibile con le 2 grandi modifiche successive della 2° età regia e del tempo di Cesare e con i
relativi cambiamenti di dettaglio. In seguito il calendario della seconda età regia attribuiti dagli
antichi o a Numa o ai Tarquini, e con tutta probabilità del tempo dei Tarquini, anzi e forse
riconoscibile alla rifondazione della città ad opera di Servio Tullio e /o alla fondazione del culto
Giove Ottimo Massimo. Si tratta del primo calendario costituito da 12 mesi dell'anno. Ma i mesi
aggiunti non sono gennaio e febbraio essendo quest'ultimi due mesi caratterizzati da feste
antichissime, che non potevano essere sposate perchè fissate indelebilmente nella memoria vivente
dei Romani. Un calendario, infatti, non è soltanto una suddivisione cronologica, ma anche un
insieme di feste ancorate a giorni particolare del mese. I mesi aggiunti non possono essere quelli di
settembre e di novembre (secondo l'importantissimo studioso Einar Gjerstad, 1973), perchè gli unici
del tutto privi di feste antiche (cioè in caratteri grandi) e comunque poverissimi di feste (solo più
tardi a settembre le calende erano dedicate eccezionalmente a Giove oltre che a Giunone).
Il tempio di Giove Capitolino.
L’importanza che il tempio di Giove, aedes Iovis Optimi Maximi, assume nel mondo, come centro e
simbolo della grandezza romana, rende interessanti e degne di studio persino le notizie ammontate
di leggende che ci sono pervenute riguardo a esso. Iniziato da Tarquinio il Superbo, fu dedicato,
secondo la tradizione, solo nel 509, dal console M. Orazio, nel primo anno della repubblica: il
giorno della dedicazione era festeggiato alle idi di Settembre. Il tempio sorgeva sulla estremità
meridionale del colle Capitolino o Campidoglio: la pianta doveva essere quella quadrata del tempio
tuscanico; le tre celle erano dedicate a Minerva, Giunone, Giove. Quella di Giove serviva anche per
le sedute del senato; l’immagine di Giove veniva, come si diceva, dall’Etruria ( Plinio il Vecchio,
Naturalis Historia XXXV, 157), e doveva essere di terracotta come le figure del timpano e sugli
angoli, il volto di Giove era dipinto di minio. Nell’83 a.c. il tempio fu distrutto da un incendio, ma
successivamente venne ricostruito con maggiore magnificenza e arricchito con la statua di Giove
criselefantina ( cioè d’oro e d’avorio). Devastato da altri incendi nel 69 e nell’80 d.c. , fu
nuovamente ricostruito e dedicato nell’82 da Domiziano. Con la caduta dell’Impero Romano
d’Occidente, cominciarono le depredazioni barbariche di quel gran tempio che per tanti secoli era
stato centro spirituale della Romanità. Nella cella centrale del tempio di Giove Capitolino stava il
Dio Termine in forma di pietra di confine, sopra la quale vi era un’apertura nel tetto perché al Dio
Termine si doveva sacrificare a cielo scoperto. La leggenda spiegava questo fatto con ciò che Livio
narra nel passo riportato. Quella pietra potè essere il simbolo divino dei templi in cui la divinità era
adorata in forma di asta o di pietra, come Giove Feretrio che ebbe culto antichissimo sul colle
Capitolino in forma di silex, “selce” (Iupiter lapis). Come in Grecia lo Zeus orios, Giove fu in Roma
il protettore dei confini e della proprietà e Iupiter-Terminus ben trova il suo fondamento presso un
popolo che fu il creatore del ferreo diritto di proprietà. Templum, vovisse religionibus, exaugurare,
fana sacellaque, vota, inaugurata, consacrata numen, addixere ( termine tecnico da addicere per
indicare il responso favorevole degli auguri), omen, augurium prodigium, cecinere vates, sono tutti
termini che fanno parte del lessico religioso e, dunque, dello stesso campo semantico riguardante
ciò che è sacro.
La “cena” dei Romani
La cena per i Romani era l’unico pasto vero e proprio. Infatti i pasti di nome erano tre , cioè ,oltre la
cena ,lo ientaculum ( la colazione ,diremmo noi) e il prandium (corrispondente al nostro pranzo di
mezzogiorno). Però lo ientaculum molto spesso veniva saltato ,e,quando c’era , era molto semplice
e rapido,per esempio consisteva di pane e formaggio; il prandium veniva consumato per lo più in
piedi ed era generalmente formato di cibi freddi ,uno spuntino,insomma. La frugalità dei pasti
precedenti si spiega abbastanza facilmente se si pensa che la cena cominciava verso l’hora
nona,cioè ,più o meno,alle tre del pomeriggio. La cena nelle famiglie agiate,avveniva nel triclinium.
In esso, intorno a una mensa, erano disposti, più o meno a ferro di cavallo ,tre lecti
(imus,medium,summus),su cui i convitati stavano sdraiati tre per letto; intorno alla mensa si
trovavano così, al massimo, nove convitati. In un triclinium ,però, potevano esservi anche tre a
quattro mensae,e cioè fino a 27 o a 36 invitati. Vi erano naturalmente banchetti più o meno
sontuosi, più o meno raffinati; banchetti in cui il principale godimento consisteva in una
conversazione intelligente , e banchetti da cui ci si aspettava soltanto un cibo succulento. E , in fatto
di cibi succulenti e abbondanti e manipolati con preziosità, i Romani non scherzavano davvero;ché
un cuoco bravo (uno schiavo naturalmente , il coquus) era una merce preziosa e si pagava fior di
quattrini . Ma anche qui non bisogna esagerare,considerando i Romani ,come qualche volta si fa,
tanti ghiottoni. Certo ,però,una cena media era ben più abbondante di un nostro pranzo. Vi erano
almeno sette portate (ferula, da fero=porto). Il banchetto si divideva in tre parti : la più importante ,
la cena propriamente detta, era quella centrale ,che comprendeva le portate più <<solide>> : le carni
, i pesci , e molti dei vari pasticci in cui i cuochi erano specializzati .Essa era preceduta
dall’antipasto , la gustatio, composto di vari cibi ,ma specialmente di uova; il banchetto si chiudeva
poi con le secondae mensae ,in cui si mangiava ,solo per poter bere meglio, cibi atti a stuzzicare la
sete , e si bevevo molto. In ogni banchetto, anche nel più raffinato ,non c’era convitato che non
portasse la carne alla bocca con le dita , perché la forchetta era ancora da inventare. Le persone fini ,
però, trovavano modo di distinguersi ,cercando di sporcarsi il meno possibile . Del resto passavano
degli schiavi con l’incarico di versare acqua sulle mani dei convitati e di asciugar loro le mani con
un tovagliolo che tenevano sul braccio. Le forchette mancavano ; ma di cucchiai ce ne erano diversi
tipi : da quelli molto grandi ,detti trullae ,a quelli piccolissimi , cochleae, usati per le uova e le
conchiglie . Anche i coltelli c’erano ; del resto la carne veniva distribuita a pezzi piuttosto piccoli
,perché c’era uno schiavo addetto a tagliarla prima che fosse messa nei piatti , il carptor. Era già
stata fatta la brutta invenzione dello stuzzicadenti. Le tovaglie furono in uso dall’epoca di
Domiziano in poi. I tovaglioli spesso se li portavano i convitati da casa e se li riportavano pieni di
cibi . La cena si prolungava molto , fino a sera avanzata o anche fino a notte e persino all’alba. I
convitati erano variamente intrattenuti : ascoltavano uno schiavo che leggeva ad alta voce, o un
comoedus che recitava qualche passo; ma potevano esservi anche cantori ,suonatori di cetra ,
ballerine e antenati di quei buffoni che incontreremo molti secoli dopo. Quanto ai cibi , noi ,
naturalmente , non ne conosciamo tutti i particolari . Però, in linea generale ,si potrebbe dire che i
Romani amavano cibi più manipolati dei nostri e mescolanze di sapori che a noi sembrano
contrastanti . la materia prima con cui le vivande venivano preparate , nelle grandi linee ,era la
stessa di oggi: più o meno le stesse carni, gli stessi pesci , cibi e soprattutto bevande ,che noi
amiamo e che ci sembrano perfino quasi indispensabili ,il caffè , per esempio , erano sconosciute ai
Romani . Non esistevano i liquori ; e il vino si beveva caldo , allungato e filtrato lì per lì ,perché la
sua limpidezza lasciava sempre piuttosto a desiderare .
Le case latine
La maggior parte dei Latini abitava in grandi costruzioni (insulae), edifici non molto solidi e fatti in
gran parte di legno, che correvano spesso il rischio di crollare o di bruciare. Nel loro aspetto
esteriore le insulae non dovevano distinguersi molto dai casermoni moderni. C’ erano dei grattaceli,
sia pure molto rari; le case di quattro o cinque piani (tabulata), poi, erano abbastanza frequenti. In
questi casermoni i Latini abitavano in alloggi d’ affitto (cenacula), più o meno belli, più o meno
belli, più o meno cari. Come in genere nelle nostre case, nelle insulae vi erano molte finestre sulla
strada. Vi poteva essere anche un cortile interno, ma questo in ogni casa non bastava a dar luce al
casamento. Molte finestre, ma purtroppo non altrettanto luce, almeno quando le finestre chiuse:
infatti al posto dei nostri vetri vi erano delle pelli o delle tele, o, addirittura, sportelli di legno. Le
lastre di vetro per le finestre (specularia) erano conosciute dai latini, ma dovevano essere riservate
alle case dei ricchi e, in genere, non erano molto usate. E poi erano lastre di mezzo centimetro di
spessore e opache. Ma le insulae avevano anche altri grossi difetti; per esempio quasi tutte erano
fredde: c’ era a volte una specie di riscaldamento centrale, molto rudimentale, ma era certo
insufficiente; l’ acqua corrente mancava, e non parliamo dei servizi igienici!La casa di un cittadino,
che aveva avuto la fortuna di nascere in una famiglia ricca, era naturalmente molto diversa. Di case
signorili, anche se non di Roma, ma provinciali, noi abbiamo un’ idea molto precisa attraverso
quelle conservateci a Pompei. Anzi, la domus, la casa signorile, è la casa romana che conosciamo
meglio. A differenza delle insulae, una casa signorile romana era molto diversa da una casa
moderna. Intanto la domus non aveva finestre. Ma non bisogna credere che la vita dei cittadini
romani ricchi si svolgesse al buio; infatti i Romani vivevano molto all’ aperto o nei cortili, che
erano la parte più bella e naturalmente più luminosa della domus. Quella dei Romani era insomma
una concezione della casa tipicamente meridionale. Inoltre le stanze che non prendevano luce dalla
strada, la prendevano dai cortili interni, per mezzo di porte che si aprivano su di essi. Sulla strada vi
era una sola apertura: è questa l’ ingresso di un solo corridoio diviso a metà dalla porta: la porta
(ianua), perciò, non si trovava sulla parte esterna, come nelle nostre case, ma più all’ interno. La
parte anteriore del corridoio, quella prima della porta, si chiamava vestibulum, quella posteriore
fauces. Dalle fauces si passava in un primo cortile, atrium, al centro del quale era una vasca
(compluvium) destinata a raccogliere l’ acqua piovana; acqua che non aveva solo una funzione
ornamentale, ma serviva anche negli usi domestici. L’apertura dell’ atrio, da cui l’ acqua penetrava,
si chiamava impluvium; da essa, naturalmente, l’ atrium e tutta la parte della casa che dava sull’
atrio prendevano luce. Anticamente l’ atrio era il centro della vita domestica; poi, col passare degli
anni e con l’ aumento delle esigenze, divenne un’ anticamera, e la vita domestica si spostò più verso
l’ interno. Le stanze laterali che davano sull’ atrio erano generalmente piccole e poco luminose:
sull’ atrio si aprivano anche il lararium, una cappellina in cui erano le statue dei Lari e dei Penati e
il tablinum, una grande stanza che fronteggiava la porta dì ingresso: essa nei tempi più antichi era la
stanza del pater familias. Attraverso il tablinum ci si trovava in un altro cortile scoperto, circondato
da un portico, cioè il peristylium; questa era la parte più allegra e più bella della casa; ricca di
piante, di fiori, di statue; spesso anche ornata da una fontana. Sul peristilio si aprivano porte di altre
stanze: le camere da letto (cubicola), un altro salotto, diremmo noi, più grande, chiamato exedra, e
la sala da pranzo triclinum. Non abbiamo parlato delle celle degli schiavi (cellae servorum), della
cucina (culina), dei bagni (balnea) perché questi locali non avevano un posto fisso nella casa
romana; potevano trovarsi sull’ atrium, oppure in una qualsiasi ala della casa. Ai lati del vestibulum
vi erano delle stanze, che spesso si aprivano sulla strada, non sull’atrio; in tal caso servivano da
botteghe (tabernae). Non vi erano generalmente piani superiori, ma talvolta qualche stanza
sopraelevata, per esigenze familiari.
Le donne e i poteri del Pater Familias
La condizione delle donne libere era caratterizzata dalla sottoposizione a un uomo che,se non era un
padrone in senso giuridico,lo era peraltro di fatto:il Pater Familias.Ma per intendere a fondo
l’ampiezza dei poteri che il Pater poteva esercitare sulla donna è necessaria una breve digressione
sulla natura della patria potestas.La patria potestas romana era qualcosa di molto diverso dall’attuale
potestà che spetta ai genitori sui figli. E non solo perché oggi questa potestà spetta, in molti paesi,ad
ambedue i genitori congiuntamente,e non solo al padre(in Italia,dalla riforma del diritto di famiglia
approvata nel 1975,sia pur con i limiti tutt’altro che trascurabili,come quello determinato dal fatto
che qualora sia necessario prendere decisioni di grave necessità e urgenza,il potere decisionale
spetta al padre);ma anche e soprattutto perché la potestà dei genitori sui figli è oggi concepita come
un istituto protettivo,destinato a integrare le capacità in fieri del figlio minorenne. In altri termini è
stabilita nell’interesse di questi ,mentre la patria potestas era un istituto potestativo e perpetuo.
Manifestazione di una posizione di assoluta supremazia del pater,la patria potestas,dunque,durava
indipendentemente dall’età di coloro che vi erano sottoposti ,fino a che il pater era in vita. Al
momento della morte di questi,inoltre,venivano liberati solo i discendenti diretti,vale a dire i figli e
le figlie,nonché i figli di queste,se il loro padre naturale era premorto. Tutti gli altri passavano sotto
la potestas di costoro divenuti Pater Familias. A Roma,insomma,era libero dalla patria potestà solo
chi non aveva ascendenti. E vediamo,ciò premesso,qual era la condizione di chi vi era sottoposto,in
particolare delle donne.Se noi seguiamo,nel tempo,la vita di un filius familias,vediamo che il primo
potere che il padre poteva esercitare su di lui era quello di esporlo. Al momento della nascita,infatti
con un gesto molto significativo, i neonati,maschi o femmine che fossero,venivano posti ai piedi del
pater,che poteva a sua scelta e senza alcun bisogno di spiegarne le motivazioni sollevarli da terra
prendendoli nelle braccia,e con questo accettarli nella famiglia(tollere o suscipere liberos),oppure
lasciarli dove erano stati deposti,e quindi liberarsi di loro abbandonandoli a se stessi,in un canestro
sulle acque del fiumi o in altri luoghi nei quali erano comunque destinati a morire di freddo e di
stenti. Ma quando si trattava di una figlia femmina la cerimonia era diversa,e il padre se non voleva
esporla,doveva esplicitamente ordinare che fosse alimentata. E’ a partire dal momento della
nascita,dunque,che le femmine venivano discriminate:sopravvivere, per una femmina,era più
difficile che per un maschio. La circostanza(del resto riscontrabile presso tutte le popolazioni che
praticavano l’esposizione dei neonati,come già vista a proposito della Grecia)è confermata da una
disposizione di legge,attribuita a Romolo. I cittadini romani che esponevano i figli maschi ,ovvero
quelli che esponevano la figlia femmina primogenita(cosi aveva stabilito Romolo)sarebbero stati
puniti con la confisca di metà del patrimonio. La ragione della norma è evidente:l’interesse
collettivo che la popolazione non venisse decimata. Ma il limite posto al diritto di esporre le
femmine era in realtà molto blando. La donna romana,in assenza di efficaci contraccettivi,nel corso
della vita partoriva un numero elevato di figli. Di fronte alla primogenita,la cui vita era
salvaguardata da questa regola,ben più di una figlia cadetta restava in balia di una consuetudine che
la condannava a una morte se non inesorabile quantomeno molto probabile. E anche nell’ipotesi più
fortunata che avesse salva la vita,era comunque condannata a una vita tutt’altro che felice. La
possibilità di salvezza di un neonato esposto,era infatti legata al fatto che qualcuno lo raccogliesse.
E questo accadeva,di regola,per ragioni tutt’altro che filantropiche. Raccogliere un
neonato,soprattutto se era di sesso femminile,poteva essere un ottimo investimento economico.
Allevata in casa,e utilizzata fin dalla più tenera età per i lavori domestici,una fanciulla,non appena
ne aveva l’età,poteva essere venduta(ricavandone un utile tutt’altro che irrilevante a chi l’acquistava
per utilizzarla come schiava,o,più spesso, per avviarla alla prostituzione).Ma vediamo ora,qual era
la vita delle filiae che sfuggivano alla dura sorte dell’esposizione. Prescindiamo pure dal fatto che i
figli,nipoti e ulteriori discendenti potevano in qualunque momento essere venduti dal pater,e in
questo caso si venivano a trovare presso l’acquirente in una condizione formalmente diversa dalla
schiavitù,detta causa mancipii,infatti,non era una situazione caratteristica della condizione
femminile ,ma una conseguenza della sottoposizione alla patria potestas,sotto questo profilo
identica sulle femmine e sui maschi. Sottoposizione dura,evidentemente,e solo in minima parte
mitigata dalla disposizione delle XII Tavolette,secondo le quali il padre che avrebbe venduto più di
tre volte il figlio avrebbe perso la patria potestas su di lui:i limiti fissati da questa norma,come è
evidente,lasciavano infatti uno spazio amplissimo all’uso e all’abuso dei poteri paterni.
L’ideale educativo e l’organizzazione della scuola
Accanto all’insegnamento domestico Roma conobbe anche un sistema scolastico extra-familiare,
che deve la sua organizzazione all’influenza di modelli ellenistici. Le prime testimonianze sono
della seconda metà del III secolo e in seguito, nel corso del II e del I secolo, venne definito un
sistema di istruzione articolato su tre livelli, ognuno dei quali era affidato a un insegnante
stipendiato dalle famiglie degli alunni (la scuola romana era una scuola privata); il livello inferiore
era costituito dal ludus litterarius, a cui seguivano la scuola del grammaticus e, solo per chi volesse
dedicarsi alla vita politica o all’attività del foro, quella del rhetor.
Scuola primaria
La scuola elementare era frequentata da fanciulli tra i sette e gli undici anni. In essa un maestro
(ludi magister o litterator) raccoglieva intorno a sé un gruppo di allievi e forniva loro l’istruzione
primaria, insegnando a leggere e a scrivere, e utilizzando sistemi didattici basati soprattutto sulla
memoria (poesie, sentenze, le leggi delle XII tavole). Il maestro elementare proveniva dal mondo
degli schiavi; era uno schiavo affrancato, non godeva di prestigio sociale e non gli si richiedeva un
alto livello di preparazione professionale. In seguito, non si sa con precisione a che punto degli
studi, il calculator e il notarius insegnavano rispettivamente il calcolo e la stenografia. La scuola
non aveva sede in un edificio adibito a questo specifico scopo ma poteva essere sistemata in una
veranda aperta su un giardino (pergula), in una sala o anche in una bottega (taberna). Modesto era
l’arredamento: il maestro sedeva sulla cathedra, una sedia con schienale, mentre gli alunni su
sgabelli, tenendo sulle ginocchia tutto l’occorrente per le lezioni, le tavolette cerate (pugillares) e lo
stilo, utilizzati per gli esercizi quotidiani di trascrizione di lettere, sillabe, parole e frasi; in
alternativa si usavano materiali cartacei (fogli di papiro), calamo e inchiostro. Per i calcoli i
principianti imparavano a contare con le dita e dei sassolini (calculi), e in seguito utilizzavano
l’abacus, una sorta di “pallottoliere”. Le lezioni, sia pure con brevi intervalli e con un’interruzione a
mezzogiorno per il pranzo, duravano tutto il giorno, cominciando di primo mattino. Le punizioni
corporali, consistenti di solito in colpi di bastoncino sulle dita o di frusta sulla schiena nuda, erano
frequenti: il poeta Orazio ricorda il suo maestro Orbilio come plagossus (quello che picchiava).
La scuola del grammaticus
Terminata la fase elementare degli studi, il fanciullo romano passava alla scuola del grammaticus
per un periodo che variava tra i tre e i cinque anni. Come i maestri elementari, all’inizio i
grammatici provenivano dalle fila degli schiavi e dei liberti, ma godevano di maggior prestigio e
ricevevano maggiori retribuzioni. I programmi consistevano nello studio della letteratura latina e
greca e puntavano sulla lettura e sull’interpretazione soprattutto di opere di poesia, ma anche di
prosa. Diversamente, quindi, da quanto avveniva nella scuola primaria, l’insegnamento secondario
presupponeva la presenza di libri di testo che erano preparati dallo stesso maestro. Alla fine di
questo corso di studi, i giovani romani sapevano parlare e scrivere correttamente in latino e greco;
l’apprendimento della lingua greca era del resto considerato indispensabile per una persona colta. I
romani erano un popolo “bilingue” e avevano frequenti contatti col mondo greco: gli schiavi greci
abbondavano preso le famiglie romane, assidui erano i rapporti commerciali con le città della
Magna Grecia. Anche le donne conoscevano questa lingua.
La scuola del rhetor
Sotto la guida del rhetor il giovane romano completava l’educazione liberale e si impadroniva della
scienza del discorso pubblico. Gli autori su cui si concentrava l’insegnamento dei rhetores erano i
prosatori sia latini che greci, e tra essi in primo luogo gli oratori. Il maestro spiegava i testi, ne
faceva la parafrasi, esaminava le figure del linguaggio e gli allievi ne traevano argomenti e modelli
per gli esercizi quotidiani. Dell’insegnamento di livello superiore faceva parte anche la filosofia, in
particolare la dialettica. Con il tempo andò scadendo il prestigio dell’insegnamento retorico. La
rovina della scuola rischiava di diventare la rovina della libertà: la scuola diviene la scuola del
conformismo e dell’ossequio al potere, come Tacito e altri scrittori dell’epoca non mancheranno di
denunciare.
Il teatro romano
Nell’antica Roma lo spettacolo e il divertimento sono parte integrante e importante della vita
pubblica. Uno dei luoghi dove i Romani si incontravano per trascorrere il tempo libero e per
divertirsi è il teatro. Non dobbiamo certo pensare al teatro come lo conosciamo noi oggi; infatti i
primissimi teatri erano costituiti da un palcoscenico di legno lungo e stretto,ma provvisorio, cioè
montato per l’occasione e poi smontato al termine della rappresentazione. Veniva eretto nelle piazze
e davanti ai templi; intorno ad essi gli spettatori assistevano in piedi agli spettacoli. Sul
palcoscenico si esibivano attori, musicisti e, a seconda dello spettacolo, poteva esserci anche il coro.
Il palcoscenico era chiuso in fondo da una parete che aveva tre porte, attraverso le quali gli attori
entravano e uscivano dalla scena. La costruzione di un teatro in pietra fu intrapreso più volte nel
corso del secondo secolo, ma fallì sempre, in quanto in quel periodo il Senato era contro le
rappresentazioni teatrali perché queste erano influenzate dalla cultura greca e la cultura greca non
era gradita allo stato. Fino al 55 a. C Roma non ebbe un teatro in pietra. Fu Pompeo che fece
costruire il primo teatro in muratura con il pretesto che le gradinate del teatro dovevano costituire le
scalinate d’accesso al nuovo tempio di Venere, fatto costruire da Pompeo stesso. A differenza del
teatro greco, il teatro romano non ha necessariamente bisogno di un pendio cui appoggiare le
gradinate; il pendio può venir sostituito da un alto muro esterno, quindi il teatro può essere costruito
su qualsiasi terreno. Il teatro romano ha una forma semicircolare ed è costituito da tre parti:
l’orchestra, dove si trovano i sedili riservati ai senatori; la scena, dove recitano gli attori, e la cavea,
composta da gradinate. La cavea era a sua volta suddivisa in tre settori: quello più vicino
all’orchestra era riservato all’ordine equestre; il mediano agli uomini ed ai soldati e il più alto e
scomodo alle donne. Una tettoia inclinata di legno, oltre a proteggere gli elementi della scena,
serviva anche per trasmettere verso la cavea la voce degli attori; inoltre, per amplificare le voci,
venivano posti sul palcoscenico vasi di bronzo o terracotta. Le rappresentazioni teatrali erano
gratuite e si svolgevano di giorno: il sipario si abbassava scomparendo nella fossa al bordo del
palcoscenico ed iniziava la rappresentazione. La situazione era molto diversa da quella attuale:
infatti, alla luce del sole, nel teatro all’aperto, tutto l’edificio era visibile e quindi non si potevano
creare effetti illusionistici. Gli scenari variavano a seconda della rappresentazione: ci potevano
essere porticati e templi, vedute di città, grotte con giardini, fontane, ecc. Si usavano a volte anche
alcune macchine teatrali, come, ad esempio, un gancio legato ad una carrucola posto in alto alla
scena, per mezzo del quale apparivano gli esseri volanti e gli dei; oppure si utilizzava una botola
aperta nell’orchestra, con un passaggio che conduceva all’esterno, mediante il quale era possibile
simulare apparizioni dell’oltretomba. La selezione e la messa in scena degli spettacoli era affidata
ad un edile. Le compagnie di attori erano composte prima da tre attori poi mano a mano sempre di
più fino ad arrivare a sei, mettendo in risalto più personaggi prima marginali. Anche a Roma gli
attori erano esclusivamente maschi e non si sa se usassero o meno maschere. Tutto il teatro romano
arcaico è tradotto dal greco, o letteralmente oppure rielaborando artisticamente il
contenuto(vertere). La contaminatio invece era l’inserimento di scene provenienti da altre
commedie dello stesso autore uno diverso(fatto reso possibile grazie alla linearità del teatro greco).
Tutti potevano entrare a teatro indiscriminatamente e l’ingresso era gratuito. Dopo il culmine del
teatro romano nel II secolo esso si vede degradare in forme rozze e volgari e cadere in basso. Gli
attori, che erano solo schiavi, indossavano delle grandi maschere, che potevano essere di legno o di
tela e avevano un’apertura all’altezza della bocca fatta di metallo, in modo che la voce si sentisse
meglio. Le maschere avevano un ruolo importante perché esprimevano lo stato d’animo del
personaggio. Inoltre gli attori portavano enorme parrucche fatte di pelo, dai colori vivaci. Anche la
pettinatura era molto importante, perché, dal taglio dei capelli, si poteva capire che ruolo
Gli schiavi nel mondo romano
La schiavitù, oggi da noi giudicata incivile e vergognosa, va considerata criticamente e
storicamente:secondo la mentalità e la cultura di quel tempo i meno dotati erano destinati a lavorare
per i più dotati. Lo stesso filosofo Aristotele riteneva legittima questa istituzione, e ai tempi dei
Romani quasi tutti erano convinti che la natura stessa degli schiavi fosse diversa da quella degli
uomini liberi. Il termine latino che designava lo schiavo era servus, legato al verbo servare,
“salvare”, “conservare”: i prigionieri di guerra,infatti, non venivano uccisi, ma “conservati in vita”,
“salvati” proprio per essere venduti o utilizzati direttamente come schiavi. Nella società romana vi
erano quattro situazione per cui una persona poteva cadere in schiavitù e,da libera, diventare
totalmente dipendente da un’altra:per nascita (servus natus ex ancilla),per debiti (addictus), per
essere stato fatto prigioniero di guerra (captivus) o per scelta, facendosi vendere da un mercante di
schiavi e ottenere così per se una parte della somma. Gli schiavi in vendita erano posti su un palco
girevole (catasta) con un piede imbiancato col gesso (gypsati) e con al collo il titulus,un cartello con
tutte le indicazioni utili al compratore (nome,paese di provenienza,doti fisiche e
intellettuali,particolari abilità,eventuali difetti).
Gli schiavi venivano classificati in:
• Servi pubblici,appartenenti allo stato come i praecones (i banditori), i aviatore, i messi
statali,o gli aeditui,custodi dei templi;
• Familia rustica,cioè schiavi che lavoravano in campagna nelle villae;
• Familia urbana,il gruppo degli schiavi di città,si occupavano di mansioni diversissime:
alcuni erano medici,chirurghi,oppure barbieri,pasticcieri,camerieri,altri accompagnavano a
scuola i figli del padrone,tenevano l’amministrazione del patrimonio
(dispensatores),aiutavano i padroni nelle complesse operazioni del bagno,o nel pulire e
accendere le lampade a olio;altri ancore,più colti,si occupavano dell’istruzione dei figli del
padrone stesso (paedagogi),insegnavano la loro lingua madre,specialmente il greco
(grammatici),copiavano lettere e documenti (amanuenses),leggevano libri ai menbri della
famiglia (lectores),stenografavano (notarii),curavano la biblioteca (bibliothecarii).
Agli inizi della storia di Roma la condizione giuridica e,quindi,di vita degli schiavi era
inumana:infatti non potevano possedere nulla,non potevano opporsi a eventuali soprusi del
padrone,non potevano sposarsi. Successivamente il trattamento degli schiavi migliorò,almeno in
parte:potevano,per esempio,essere affrancati dal padrone o accumulare risparmi (peculium) fino a
raggiungere la somma necessaria per il riscatto (manumissio) e diventare così cittadini liberi.
Potevano anche sposare una donna scelta fra le schiave:in tal caso il matrimonio era definito
contubernium e la moglie conserva.
Acconciature ornamenti e cure di bellezza delle donne romane
Le donne del periodo repubblicano svolgevano generalmente una vita ritirata all’interno delle mura
domestiche. Con l’ influenza dei costumi orientali,il diffondersi della ricchezza,la maggiore
indipendenza acquisita dalla donna,nell’ ultimo secolo della Repubblica (I sec. a. C.) e con l’ inizio
del’ impero le cose cambiarono: le donne cominciarono a partecipare alla vita sociale, mostrandosi
riccamente vestite,pettinate,truccate,e adornate di gioielli. Il raggiungimento di un’ indipendenza
maggiore coincise con una cura più attenta dell’ aspetto fisico e con un tempo più ampio dedicato
alla cura di sé. Le donne romane si tingevano le chiome e le tinture venivano usate sia per
dissimulare i capelli bianchi sia per modificarne il colore naturale. I capelli potevano assumere
color biondo,nero,rosso,nero bluastro,giallo arancio e qualche volta a mèches,come al giorno d’
oggi,tutta via colori come nero bluastro e giallo arancio si addicevano solo alle cortigiane. Ma la
capigliatura di una donna poteva cambiare,e non solo di colore,anche con l’ uso di parrucche e di
posticci. Esisteva,infatti,un commercio di capelli veri che venivano poi assemblati da esperti:
capelli biondi provenivano dalla Germania,capelli color nero intenso,addirittura,dall’India. Le
donne dovevano ricorrere per necessità alla parrucca quando,per i continui cambiamenti di colore
con sostanze corrosive,i loro capelli si erano indeboliti a tal punto da cadere;procurava danni
irreparabili ai capelli anche il calamistrum,una sorta di arricciacapelli in metallo,che riscaldato al
calore del fuoco serviva a fare i riccioli o i boccoli. In età antica le acconciature femminili erano
semplici,con i capelli raccolti in un boccolo (nodus) ricadente sulla nuca a coda di cavallo o in
trecce avvolte attorno al capo in modo da formare un crocchio sulla sommità: così si pettinavano le
giovinette. L’ acconciatura più usata dalle donne in età Repubblicana era quella di gusto ellenistico
con riga in mezzo,capelli tirati su e raccolti in testa,ricadenti a coda e con riccioli sulla fronte e sul
collo. Le fogge delle acconciature variavano nel tempo secondo le mode spesso lanciate da
personaggi importanti. Alla fine nel I sec. a. C. e all’ inizio dell’ Impero era in voga una pettinatura
detta “all’ Ottavia ”(dal nome della sorella dell’ Imperatore Augusto) costituita da una doppia
treccia che partiva da un nodus sulla fronte e veniva raccolta sulla nuca. In età Imperiale le
acconciature si fecero sempre più elaborate,con l’ aggiunta di posticci e vere e proprie impalcature.
Esse richiedevano una cura particolare e spesso vi erano preposte varie schiave. Per fermare o
modella i capelli si usavano oggetti di diverso tipo: una retina d’ oro o d’ argento,che poteva
assomigliare ad una cuffietta leggerissima,quasi trasparente;un pettine o uno spillone appuntito e
robusto con una capocchia di varia forma. Nelle grandi occasioni si usava ornare l’ acconciatura con
un fermaglio o un diadema con una gemma sulla fronte,al quale potevano essere fissate piume
colorate. I gioielli usate dalle donne romane erano gli anelli,i bracciali,le collane,gli orecchini e le
spille. I primi manufatti di atre orafa dell’ età Repubblicana erano assai modesti,rigidamente
limitati dalle leggi contro il lusso,ma con il passare del tempo essi divennero sempre più fastosi e
vari. Gli anelli (anuli),il cui uso i Romani avevano derivato dagli Etruschi come segno di potere e di
ricchezza,era l’ ornamento più diffuso,portato da uomini e donne. Gli anelli femminili differivano
da quelli degli uomini per la lavorazione più raffinata e per la consuetudine di recare incisa una
forma di buon augurio. I bracciali (armillae),serpentiformi per le braccia e le caviglie,risalivano a
un modello ellenistico ,diffusosi a Roma nel II sec. a. C., quando il culto della dea Egizia Iside,alla
quale il serpente era sacro,penetrò nel mondo Romano. La collana (monile,termine che finì per
indicare ogni ornamento femminile, così come in italiano) era il gioiello più prestigioso e
appariscente. Le collane indossate dalle donne erano per lo più a catena,generalmente orante da
pietre preziose oppure da monete d’ oro o d’ argento e con un grosso pendente nella parte centrale.
Gli orecchini (inaures) erano realizzati a cerchio ritorto o “a spicchio di sfera”,spesso ornato di
pietre dure,ma soprattutto a pendaglio di qualsiasi forma. Le operazioni di cosmesi erano piuttosto
laboriose: contemplandosi allo specchio (speculum) e assiste da una schiava,le donne romane di
condizione elevata si truccavano accuratamente. Per il maquillage del viso,colei che desiderava
accentuare il pallore naturale del volto usava una specie di fondotinta,la cerussa,una biacca a base di
carbonato di piombo;chi invece voleva ravvivare il colorito faceva ricorso a vari tipi di rossetti per
guance e per labbra (il purpurissum,una terra tinta con la porpora;il fucus,rivacato da un lichene;la
feccia di vino;il minio,un ossido di piombo,tossico come la cerussa),che si applicavano con la dita o
con un fine pennello. Per sfumare le palpebre e sottolineare il contorno degli occhi si potevano
usare il nero fumo e il kohl egiziano e per disegnare nèi artificiali la polvere di antimonio. I
cosmetici erano venduti in forma di pastiglie o bastoncini e venivano conservati in appositi cofanetti
(capsae) insieme con gli strumenti necessari per prepararli. Grande attenzione era dedicata al culto
di bellezza,sulle quali il poeta Ovidio,all’inizio del I sec. d.C., scrisse un trattatello intitolato
Medicamina faciēi feminĕae (“I cosmetici delle donne”):di esso sono rimasti solo un centinaio di
versi che si occupano dei trattamenti per avere una pelle liscia e splendente.
La prostituzione a Roma
A Roma la prostituzione era una pratica consueta che veniva giustificata perché consentiva di
sfogare i naturali sfoghi alla gioventù,tutelando la sicurezza delle promesse spose e il buon nome
delle donne maritate. Essa era esercitata dalle meretrices o postribulae o lupae:donne povere,sia
libere sia schiave,che prestavano i loro servizi nei prostiboli,detti “lupanari” (lupanaria),gestiti da
avidi e crudeli lenones (“lenoni”) dai quali erano messe in vendita al miglior offerente;nelle
commedie plautine e terenziane spesso il più grande desiderio delle meretrices è che l’amante le
riscatti dal lenone. Non mancavano però postriboli privati gestiti da matrone o da metrices di alto
livello (“cortigiane”),in cui si trovavano ragazze colte capaci di intrattenere i clienti più raffinati. La
figura della “cortigiana”,ossia la prostituta d’alto bordo,sconosciuta in Roma prima della palliata,era
consueta nel mondo greco:prostitute di tale genere, dette etère,avevano generalmente una buona
cultura e vivevano spesso agiatamente grazie alla generosità dei loro amanti. I
lupanaria,generalmente situati all’incrocio tra due strade secondarie o zone suburbane,dovevano
essere aperti solo la sera. A Pompei,all’incrocio tra due vicoli,vi era ad esempio un grande edificio a
due piani e tre entrate:dall’atrio,al pianterreno,si aprivano cinque cubicoli (celle con letti di pietra a
muro), piccole finestre e una latrina,posta sotto le scale di legno che portavano al piano
superiore,dove c’erano altre cinque stanze e un balcone. Affreschi e graffiti alle pareti
rappresentavano le diverse “prestazioni” che si potevano chiedere e ognuna aveva il suo prezzo.
Anche nelle terme suburbane di Pompei (un complesso risalente all’età Augustea e solo
recentemente restaurato) sono strati trovati quadri a tema erotico di pregevole fattura,che secondo
alcune interpretazioni fungevano da catalogo delle prestazioni offerte. Oltre che nei lupanari e nelle
terme,la prostituzione si praticava nelle caverne,nelle botteghe,nei teatri e in molte case
private,dove le famiglie mettevano a disposizione le proprie schiave (o schiavi,visto che la
prostituzione era anche maschile). Vi erano poi le bustuariae (da bustum,luogo funebre,tomba),che
si trovavano nei pressi dei cimiteri,e le schiere di “passeggiatrici”. A Roma la prostituzione era
regolamentata da una serie di leggi: le prostitute non potevano mantenere il nome di
famiglia,dovevano farsi riconoscere indossando vesti speciali e dovevano essere iscritte nel registro
degli edìli (cioè in una lista tenuta da questi magistati,che si occupavano del mercato e dell’ordine
pubblico,e quindi anche della prostituzione e di eventuali processi a carico di prostitute),un
espediente per eludere eventuali incriminazioni per reati di adulterio (stuprum),in quanto le
prostitute non potevano contrarre matrimonio. Alla fine dell’epoca Repubblicana la diffusione della
prostituzione a Roma era tale che in ogni angolo della città vi erano postriboli. Il fenomeno si andò
sempre più espandendo: ne approfittò,ad esempio,l’imperatore Caligola (37-41 d.C.) che,per
rimpinguare le casse dello Stato,introdusse una tassa sulla prostituzione.
L’organizzazione di un accampamento
Gli accampamenti romani potevano essere di due tipi: mobili,se l’esercito era in marcia, e stanziali
(stativa castra) se destinati a una lunga permanenza delle truppe. Di solito erano mobili gli
accampamenti estivi (aestiva), stanziali quelli invernali (hiberna), che servivano ad accogliere le
truppe per periodi di tempo più lunghi, quando le condizioni climatiche sfavorevoli consigliavano
una sosta prolungata. Sia che la sosta fosse limitata nel tempo sia che l’esercito alloggiasse per un
periodo relativamente lungo, l’accampamento era strutturato secondo regole precise.Quando
l’esercito si doveva accampare, il comandante mandava in ricognizione un distaccamento formato
da un tribuno e da alcuni centurioni per ricercare il luogo più adatto per fermarsi. Qui veniva posto
l’accampamento(castra, castrorum) che per i Romani non era semplicemente un campo con tende,
ma un vero e proprio campo trincerato. I tribuni stabilivano per prima cosa l’ubicazione del
praetorium (il “reparto comando”), dove collocare la tenda del comandante. Gli sterratori e i
muratori, sotto la guida dei centurioni esperti, scavavano intorno all’area prescelta un fossato
(fossa), profondo circa due metri e largo tre e mezzo, e poi, con la terra ricavata unita a materiali di
diverso genere (legname, pietre ecc,), formavano verso l’interno un terrapieno (aggeri) sormontato
da una palizzata (vallum). Per la costruzione della palizzata ogni soldato aveva con sé alcuni pioli
che facevano parte del suo equipaggiamento personale.Fra la trincea e le prime file di tende vi era
una distanza di circa 70 metri (intervallum) che poneva queste ultime al riparo dalla gittata delle
armi da lancio nemiche.Completavano le opere di fortificazione (munitiones) alcuni fortini
(castella) in cui prendevano posto le sentinelle (extrabitores,vigiliae,custodes) ed eventualmente
piccoli reparti di pronto intervento (praesidia).L’accampamento era sempre di forma quadrata o
rettangolare ed era percorso da due vie principali (il cardo o via principalis e il decumanus) che si
tagliavano ad angolo retto davanti al praetorium. Ai due estremi del decumanus si aprivano la porta
praetoria (porta del generale) a est e la porta decumana a ovest. Di fianco al praetorium, che di
solito era nel punto più elevato del campo, vi era un ampio spazio per le adunate (forum), dove
sorgevano le arae e il tribunal, ossia il podio su cui prendeva posto il generale per rivolgere discorsi
alle truppe(allocutiones) e per amministrare gli affari dell’esercito.Gli ufficiali (legati,tribuni) erano
alloggiati lungo la via principalis, mentre le tende dei soldati (contubernia), raggruppate per reparto
e disposte secondo un ordine ben preciso,erano collocate nei diversi settori del campo, su strade
secondarie. Come si può notare, montare un accampamento era un’operazione piuttosto complessa e
faticosa, tanto più se ci si fermava in un lungo per un tempo limitato, magari dopo aver marciato o
combattuto tutto il giorno. Eppure un accampamento così ben strutturato offriva notevoli vantaggi e
superiorità difensiva:-innanzitutto era sempre recintato e difeso da un fossato e questo rendeva più
difficile un attacco a sorpresa da parte del nemico. In tal modo il numero delle sentinelle era
fortemente ridotto, in quanto erano sufficienti poche postazioni di guardia sulle torrette per
controllare l’intero accampamento;-in caso di attacco nemico, le strade interne dell’accampamento,
tracciate ad angolo retto, consentivano una via di movimento ordinata, disciplinata e non caotica in
un momento di estremo pericolo: ciascun soldato dormiva in una tenda sempre nella medesima
posizione rispetto alle altre, quindi conosceva bene quale era il percorso più breve per raggiungere i
posti di combattimento;-infine una struttura così ben architettata doveva fungere da deterrente per il
nemico: attaccare – magari di notte o di sorpresa- un avversario accampato disordinatamente poteva
risultare un’impresa tutto sommato agevole; diverso era tentare un assalto a un accampamento
strutturato e adeguatamente difeso.
La pena di morte a Roma in età repubblicana
La pena di morte era prevista dal primo codice legislativo romano, le leggi delle XII tavole, sia
nella forma della vendetta privata sia come facoltà connessa all’imperium dei magistrati superiori.
Per quanto riguarda le pene “pubblicane”, i supplizi erano gestiti da appositi magistrati, i tresviri
capitales (che avevano però anche altre mansioni di polizia), e avvenivano secondo varie modalità:i rei di alto tradimento erano condannati alla furca: legati a un albero a forma di ypsilon, con la
testa bloccata sulla biforcazione, essi venivano fustigati con le verghe e poi decapitati con la scure;
a questa pena faceva riferimento l’insegna che simboleggiava il potere coercitivo dei magistrati,
costituita appunto da un fascio di verghe e una scure; per la stessa tipologia di reati era prevista
anche la precipitazione dalla rupe Tarpa, sul Campidoglio;-le Vestali che erano venute meno
all’obbligo di castità erano condannate a essere sepolte vive, una pena che si configurava di fatto
come un atto sacrificale; è attestato infatti, ancora nel periodo della seconda guerra punica, il ricorso
sporadico, in situazioni di grave pericolo per lo Stato, ai sacrifici umani mediante sepoltura di
individui viventi di nazionalità straniera (Galli e Greci), come prescritto dai Libri Sibillini (Livio,
Ab urbe condita libri, XXII,57);-gli incendiari erano condannati alla fustigazione e al rogo;-i
parricidi subivano la “pena del sacco”: erano chiusi all’interno di un sacco impermeabile, con il
capo coperto da un cappuccio di pelle di lupo, insieme a una scimmia, un cane e una vipera, e
gettati nel fiume Tevere. Ai cittadini più influenti e alle donne veniva offerta tuttavia una morte e
più “dignitosa”, in un luogo appartato e con un sistema più veloce: calati nel Tullianum, una stanza
sotterranea del carcere Mamertino, essi venivano strangolati con un gesto rapido e violento da
appositi carnefici. Solo agli schiavi e agli stranieri poteva essere applicata la pena della
crocifissione, simile per certi aspetti a quella della furca, con la differenza che il condannato veniva
lasciato morire legato e sospeso alla croce (costituita da due pali a forma di T) e non decapitata con
la scure.Una serie di norme,tuttavia, varate in età repubblicana ( dal V all’inizio del II secolo a.C.),
resero la pena capitale di fatto inapplicabile ai cives Romani e la sostituirono con l’esilio. Le leges
Valeriae e le leges Porciae avevano vietato infatti ai magistrati di mandare a morte i cittadini senza
concedere loro la provocatio ad populum,ossia l’appello al popolo riunito nei comizi centuriati, che
fungevano anche da tribunale popolare per i reati più gravi; la procedura di appello era però così
lunga e complessa che poteva essere adottata solo in casi eccezionali e nulla impediva agli imputati
in attesa di giudizio di fuggire dal territorio (a Roma non esisteva la carcerazione duratura).Inoltre
la giurisdizione penale ordinaria era stata trasferita dai consoli ai tribunali permanenti (quaestiones
perpetuae), che non potevano comminare sentenze capitali. Ciò spiega perché la condanna a morte
dei catilinari fu un evento assolutamente eccezionale e giuridicamente “abnorme” nel quadro
dell’età repubblicana (le cose cambieranno nel I secolo d.C., quando la pena di morte sarà
reintrodotta in forme diverse da quelle tradizionali e usata per eliminare l’opposizione politica al
principato).