Zero in condotta Jean Vigo

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Zero in condotta Jean Vigo
Zero in condotta
Jean Vigo
Jean Vigo
Jean Vigo (Parigi, 26 aprile 1905 - Parigi, 5 ottobre
1934) fu un regista francese, da molti considerato
come uno dei maestri del cinema, nonostante la sua
breve vita.
Figlio dell'anarchico Eugene Bonaventure de Vigo, il
direttore del giornale Le Bonnet Rouge, relativamente
influente, il quale si firmava Miguel Almereyda (il
cognome è anagramma di Y a la merde).
Nel 1914 suo padre viene arrestato e chiuso nella
prigione di Fresnes. Verrà trovato morto, strangolato
dai lacci delle sue scarpe (suicidato?).
Negli anni della scuola passa da un liceo all'altro,
senza riuscire a socializzare con i compagni di scuola.
Nel 1929 realizza À propos de Nice, un film muto di 25
minuti che esamina le disuguaglianze sociali nella
Nizza degli anni 1920. Nel 1931 gira Taris, roi de l'eau, un elegante documentario
di 11 minuti sul campione di nuoto Jean Taris, tra le prime opere con riprese
subacquee.
Nel 1933 gira Zéro de conduite, film di soli 47 minuti che rappresenta una
ribellione scolastica: quattro collegiali puniti per cattiva condotta si rivoltano
contro le autorità scolastiche attaccandole con colpi di cuscino e sberleffi, fino a
fuggire per i tetti del collegio verso un immaginario mondo di libertà.
Infine nel 1934 realizza L'atalante, lungometraggio che la tubercolosi (peggiorata
anche dalla lavorazione del film ambientato sui canali della Francia settentrionale)
non gli consentirà di finire. Si tratta di una delle storie d'amore più amate dagli
appassionati e dagli studiosi di cinema.
Jean Vigo muore di tubercolosi a Parigi e viene sepolto nel Cimetière Parisien de
Bagneux.
I suoi film negli anni '30 vengono
Filmografia
giudicati antipatriottici e vengono
(1930)
• À propos de Nice – documentario
censurati
dalle
autorità
governative
francesi.
• Taris, roi de l'eau – cortometraggio (1931)
Successivamente sono entrate fra
le opere che hanno influenzato
• Zero in condotta (Zéro de conduite) (1933)
maggiormente i successivi sviluppi
della cinematografia francese e
• L'Atalante (L'Atalante)
(1934)
mondiale.
Francois Truffaut parla di Jean Vigo
Ho avuto la fortuna di scoprire tutti i film di Jean Vigo in un’unica volta, un sabato pomeriggio
del 1946, al Sèvres-Pathé grazie al cine-club La chambre noire animato da André Bazin e altri
collaboratori di “La Revue du Cinéma”. Entrando in sala ignoravo persino il nome di Jean Vigo,
ma fui preso immediatamente da un’ammirazione sterminata per quest’opera che tutta insieme
non raggiunge nemmeno i duecento minuti di proiezione.
In principio ho avuto più simpatia per Zéro de conduite (1933), probabilmente per
identificazione avendo solo tre o quattro anni più dei collegiali di Vigo. Poi, a forza di vedere e
rivedere i due film, ho finito per preferire definitivamente L’Atalante (1934) che mi sarà per
sempre impossibile dimenticare quando mi trovo a dover rispondere a questionari del tipo:
“Quali sono, secondo lei, i dieci migliori film del mondo?”. In un certo senso, Zéro de conduite
sembrerebbe rappresentare qualcosa di più raro di L’Atalante perché i capolavori consacrati
all’infanzia nella letteratura o nel cinema si contano sulle dita di una mano. Questi ci
sconvolgono doppiamente perché all’emozione estetica si aggiunge un’emozione biografica,
personale e intima. Tutti i film di bambini sono film d’epoca perché ci riportano alle nostre
braghette corte, alla scuola, alla lavagna, alle vacanze, al nostro esordio nella vita.
Come in quasi tutte le opere prime, c’è in Zéro de conduite un aspetto sperimentale, idee di
ogni tipo più o meno ben integrate nella sceneggiatura e girate con l’aria di dire “proviamo
anche questo, per vedere che effetto fa”. Penso, per esempio, alla festa del collegio in cui su
una tribuna, che è nello stesso tempo un tirassegno da fiera, alcuni manichini sono messi in
mezzo a personaggi reali. Cosa che poteva fare René Clair nello stesso periodo; un idea
comunque datata. Ma per un idea intellettualistica di questo tipo, quante superbe invenzioni si
possono contare, comiche, poetiche o strazianti, tutte comunque di una grande forza visiva e di
una crudezza ancora ineguagliata!
Quando, dopo poco, gira L’Atalante, Vigo ha evidentemente appreso la lezione di Zéro de
conduite e questa volta raggiunge la perfezione, raggiunge il capolavoro. Usa ancora il ralenti
per ottenere effetti poetici ma rinuncia all’accelerato per quelli comici, non ricorre più ai
manichini, si limita a porre davanti al suo obiettivo una realtà che trasforma in incantesimo e
filmando prosa ottiene senza sforzo poesia.
Superficialmente, si potrebbe paragonare la carriera-lampo di Vigo a quella di Radiguet. In
ambedue i casi, si tratta di autori giovani, scomparsi prematuramente non lasciando che due
opere. Nell’uno e nell’altro caso, la prima opera è scopertamente autobiografica, la seconda
apparentemente più lontana dall’autore perché basata su materiale esterno. Stimare meno
L’Atalante perché si tratta di un’opera commissionata significa dimenticare che le opere
seconde sono sempre su commissione: Le bal du Comte d’Orgel fu commissionata da Cocteau a
Radiguet o da Radiguet a se stesso. Per principio, ogni opera seconda è importante perché
permette di determinare se l’artista non sia l’uomo di una sola opera, cioè un dilettante dotato
oppure un creatore, l’uomo di un colpo di fortuna oppure colui che si sta evolvendo. Infine si
può notare un identico tragitto di Vigo e Radiguet, il passaggio dal realismo e dalla rivolta al
preziosismo e all’estetismo (parole usate qui nel senso migliore). Anche se si potrebbe infine
fantasticare su quale meraviglioso Diable au corps avrebbe potuto realizzare Jean Vigo, non
voglio prolungare oltre questo confronto tra lo scrittore e il cineasta. Notiamo solo che nei saggi
dedicati a Jean Vigo vengono fatti spesso i nomi di Alain-Fournier, Rimbaud e Céline, ogni volta
con buoni argomenti.
[…]
I cineasti come tutti gli artisti cercano il realismo o piuttosto cercano di cogliere la loro realtà e
sono generalmente tormentati dallo scarto tra ciò che hanno voluto e ciò che hanno ottenuto,
tra la vita come essi la sentono e come riescono a riprodurla.
Penso che Vigo avrebbe avuto molti motivi per essere più contento di se stesso che i suoi
colleghi, perché è andato più avanti di ciascuno di loro nella restituzione delle diverse realtà:
quella delle cose, degli ambienti, dei personaggi, dei sentimenti, più avanti anche e
soprattutto nella resa della realtà fisica. E mi domando anche se sia esagerato parlare a
proposito di Vigo di cinema olfattivo. Questa idea mi è venuta dopo che un giornalista mi ebbe
detto un giorno, per esibire un argomento decisivo contro un film che mi piaceva, Le vieil
homme et l’enfant (Il vecchio e il bambino, 1966): “E poi è un film che puzza ai piedi”.
Sul momento non ho risposto niente ma ci ho ripensato dicendomi: ecco un argomento che
“puzza” fortemente all’estrema destra e che avrebbero potuto usare i censori che hanno
proibito Zéro de conduite; del resto Salès Gomès nota che gli articoli ostili ai film di Vigo
contenevano frasi del tipo: “È acqua di bidet” oppure “Si scivola nella fogna” ecc. André Bazin
in un articolo su Vigo ha usato un’espressione molto felice parlando del suo “gusto quasi
osceno della carne”, perché è vero che nessuno ha filmato la pelle dell’uomo così crudamente
come Vigo. Niente di ciò che si è mostrato sullo schermo nei successivi trent’anni ha
eguagliato in questo campo l’immagine della mano grassa del professore sulla piccola mano
bianca del ragazzo in Zéro de conduite o degli abbracci di Dita Parlo e Jean Dasté quando
stanno facendo l’amore o, meglio ancora, quando si sono lasciati e un montaggio parallelo ce
li mostra che si rigirano, ciascuno nel proprio letto, lui nel suo barcone, lei nella stanza
d’albergo, tutti e due in preda al male d’amore, in una scena in cui la prodigiosa partitura di
Maurice Jaubert gioca un ruolo di prima importanza, sequenza carnale e lirica che costituisce
esattamente un accoppiamento a distanza.
Esteta e realista, Vigo è un regista che ha evitato tutte le pecche dell’estetismo e del realismo.
Ha manipolato un materiale esplosivo, per esempio Dita Parlo in abito da sposa sul barcone in
mezzo alla nebbia o, in senso contrario, l’esibizione della biancheria sporca accumulata
nell’armadio di Jean Dasté e ogni volta se l’è cavata grazie alla sua delicatezza, raffinatezza,
humour, eleganza, intelligenza, intuizione e sensibilità.
Qual era il segreto di Jean Vigo? È probabile che vivesse più intensamente della media della
gente. Il lavoro del cinema è ingrato per il suo frazionamento. Si riprendono da cinque a
quindici secondi di film poi si sta fermi per un’ora. Non si trova sul set l’occasione di
eccitamento che prende uno scrittore come Henry Miller davanti al suo tavolo di lavoro. Alla
ventesima pagina una specie di febbre lo prende, lo trascina e questo è formidabile, sublime
forse. Sembra che Vigo lavorasse continuamente in questo stato di trance e senza perdere
nulla della sua lucidità. Si sa che era già malato mentre girava i suoi due film e anche che ha
girato certe sequenze di Zéro de conduite steso su un letto da campo. È naturale quindi che
prevalga quest’idea dello stato febbrile in cui si trovava girando. È assolutamente possibile e
plausibile. È esatto che si possa essere effettivamente più brillanti, più forti, più intensi
quando si è febbricitanti. A un suo amico che lo consigliava di non stancarsi, di risparmiarsi,
Vigo rispose che sentiva che il tempo non gli sarebbe bastato e che doveva dare tutto e
subito. Per questo sembra plausibile che Vigo, sapendosi condannato, sia stato stimolato da
questa scadenza, da questo tempo contato. Dietro la cinepresa, doveva trovarsi nello stato
d’animo di cui parla Ingmar Bergman: “Bisogna girare ogni film come se fosse l’ultimo”.