leggi un estratto - Novecento Editore
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GIALLI E NOIR METROPOLITANI 4 GIALLI E NOIR METROPOLITANI collana diretta da: Paolo Roversi direzione editoriale: Calogero Garlisi redazione: Elena Chiappara Eugenio Nastri comunicazione: Gabriele Dadati commerciale: Marco Bianchi progetto grafico: Studio Grafico Ceccherini, Milano ISBN 978-88-95411-69-9 Novecento Editore è un marchio Novecento media srl Copyright © 2014 Novecento media srl via Carlo Tenca, 7 - 20124, Milano www.novecentoeditore.it - [email protected] Fatto ogni possibile tentativo per rintracciare il titolare dei diritti dell’immagine in copertina, l’editore resta a disposizione di chi, in futuro, potesse rivendicarli a norma di legge. APPUNTAMENTO CON IL MALE A cura di Fabrizio Fulio-Bragoni Racconti di Cristiana Astori Rocco Ballacchino Giorgio Ballario Fabio Beccacini Andrea Borla Piero Calò Fabrizio Fulio-Bragoni Alessandro Perissinotto Luca Rinarelli Roberto Saporito Massimo Tallone Sara Tedesco Silvio Valpreda Novecento Editore Alessandro Perissinotto Quattro quartetti con finale di morte Quartetto numero 1: in trappola [da leggere ascoltando il Quartetto per archi n.14 in re minore D810 di Franz Schubert, noto anche come La morte e la fanciulla] Nel buio sento il respiro caldo di Valeria avvicinarsi a me. Sento che tra poco cadrà l’ultima barriera, e sarà la fine. Nessuno è mai sopravvissuto all’abbraccio mortale di Valeria. Ho paura. La paura è come una vibrazione metallica che ti scuote da dentro. Quando una ha paura scappa, ma quando non può scappare ha ancora più paura. E io, qui, al buio, non posso scappare. Posso solo attendere che Valeria arrivi. Ma come ci sono finita qui? È tutta colpa della signora Monticone. “Lei che è una signorina robusta – mi ha detto quell’arpia – vada lei a vedere cosa c’è dietro quella porta 5 in fondo al corridoio delle cantine”. “Cosa mai ci dovrebbe essere?”, le ho risposto io, tutt’altro che conciliante. “Non lo so”, ha fatto lei, “forse un cadavere: non sente che puzza che viene da lì?” “Signora, questa casa ha trecento anni, secolo più secolo meno. Questo significa che è quasi più vecchia di lei, dunque, se anche le cantine puzzano un po’ non c’è da preoccuparsi”. Lei si è offesa moltissimo e, per farmi perdonare, ho dovuto prometterle che avrei cercato di capire cosa si nascondeva dietro a quella porta. Ho preso una pila e sono scesa in cantina. La porta in fondo al corridoio era chiusa, naturalmente. Allora ho provato a fare come nei film americani, le ho dato una spallata, convinta che mi avrebbero subito ricoverata al CTO con una clavicola fratturata. E invece no. La porta è crollata al primo colpo, cadendo a terra con un rumore di tuono che è rimbombato in tutto il palazzo. Ho puntato la torcia e il fascio di luce ha illuminato un cunicolo angusto, con le pareti e la volta di mattoni pieni, antichi. È lì che è cominciato il mio viaggio verso Valeria, il mio viaggio verso la morte. Mi sono incamminata lungo la galleria: era molto stretta, ma abbastanza alta da poter procedere in piedi, o quasi. Ho percorso un centinaio di metri, ma forse erano molti meno: nel buio si ha sempre una strana percezione delle distanze. E lì di buio ce n’era parecchio, come qui adesso. Con la mia piccola pila riuscivo appena a creare 6 una bolla di luce dentro la quale galleggiavo in un universo nero. Un centinaio di metri, dicevo. Considerando il punto dal quale ero partita, ora dovevo trovarmi più o meno all’altezza di via del Carmine. Facevo passi piccoli e attenti; il fondo era duro, ma sconnesso, come di terra battuta. A un tratto i miei piedi hanno urtato qualcosa di morbido e informe che mi si è subito annodato intorno alle caviglie, come un boa risvegliato da un lungo sonno. “Vai via brutta bestia! Sciò!” Ho tirato calci all’impazzata e la misteriosa entità che mi aveva intrappolato è stata scagliata qualche metro avanti a me. L’ho illuminata. Era uno straccio. No, meglio. Era la giubba di una divisa antica. Ho pensato a Pietro Micca, ma poi mi sono detta che la sua doveva essersi sbrindellata nello scoppio. Quella era la giubba di un altro soldato e sapevo che, da un momento all’altro, avrei dovuto attendermi il suo scheletro, con tanto di moschetto ancora a tracolla. Un bivio: destra o sinistra, diritto non si può andare, terzo non dato. Ho preso a sinistra e ho camminato ancora. È bastato che mi distraessi un attimo e la galleria mi ha punita. È stato un colpo secco, preciso, implacabile; un abbassamento improvviso della volta, e la mia fronte lo ha preso in pieno. Il contraccolpo mi ha sbattuta contro la parete di mattoni e quella, contro ogni legge della 7 fisica, si è sgretolata sotto il mio peso. Ho attraversato quel muro come Gatto Silvestro, lasciando un buco con la mia sagoma, e mi sono ritrovata in questa specie di caverna ad attendere che si compia il mio destino. Una caverna chiusa da ogni lato, ora che il muro, crollando, si è richiuso alle mie spalle. Una caverna che si aprirà solo per fare entrare Valeria. Non sono tanto lontana dal mondo civile, ma nessuno può accorgersi di me. Io invece sento i rumori della città. Sento, ad esempio, l’altoparlante di Porta Susa che, con la sua voce nasale, annuncia la partenza dei treni: “Regionale per Chieri è pronto sul primo binario tronco”. “Attenzione al terzo binario, treno turistico a vapore in arrivo. Allontanarsi dal terzo binario”. E poi ci sono le voci degli operai che lavorano alla metropolitana. Sono vicini. Li sento ora che Valeria tace, ma tra un attimo ci sarà solo la sua voce e nient’altro. Ecco, la sento. Valeria è qui, con tutto il suo peso, 765 tonnellate, e con i suoi denti che ruotano instancabili e lenti. I suoi denti mordono la terra, scavano la galleria dove passeranno i treni del nuovo metrò di Torino. Valeria, la spaventosa talpa meccanica lunga cento metri che divora pietre. Con la pila illumino il sottile diaframma di roccia che ci divide. Vedo i sassi che si muovono. Ecco che spunta un pezzo di quella straordinaria bocca di ferro. Ecco le zanne! Avanza piano, ma inesorabile: dieci metri al giorno. Significa che tra un’ora quelle zanne saranno sulle mie carni e io non ho vie di fuga. Il ru8 more della macchina sovrasta ogni mio urlo. Mi rimane un’ora da vivere, un’ora in compagnia della paura… Quartetto numero 2: il vestito d’oro [da leggere ascoltando Quartetto per archi in Re minore KV 421 di Wolfgang Amadeus Mozart] No, non tremo, voglio essere coraggioso fino in fondo. Che questo fosse il mio destino lo so da sempre, ma quando l’ora si avvicina, il sapere peggiora le cose. Anche perché è un sapere confuso, fatto di sentito dire, di voci riportate da altri che ci sono passati prima di me, voci che parlano di individui mostruosi e della fine dei nostri compagni più vecchi. “La fine”, dice uno che la sa lunga, “inizia nel momento in cui ti spogliano, in cui ti tolgono il tuo bel vestito dorato, o rosso o blu”. “E allora per resistere basta tenersi stretto stretto il vestito, basta appiccicarselo addosso”, risponde uno dei più giovani. “No”, replica ancora il saggio, “perché se fai così pensano che tu sia uno di quelli cattivi e ti fanno fare una fine ancora peggiore, una fine infamante”. “Comunque”, riprende un altro, “dopo che ti hanno spogliato ti mettono in una cavità oscura e ti sciolgono piano; senti il tuo corpo che diventa liquido e dopo un attimo sei morto”. “Se sei fortunato ti sciolgono pian piano. Altrimenti 9 prima ti stritolano, il tuo corpo non diventa liquido, o meglio, prima viene ridotto in mille pezzi e solo dopo viene sciolto, ma a quel punto sei già morto e non ti dico le sofferenze!” Approfitto di un attimo di silenzio per chiedere ancora al più esperto: “Scusa, ma perché tutti noi parliamo con queste ‘e’ larghe e con questa cadenza così pacata anche se stiamo andando incontro alla morte?” “Non lo sai? È per via del fatto che siamo tutti sei bogia nen, dei torinesi purosangue; anzi, c’è perfino chi sostiene che siamo uno degli emblemi di Torino”. Dicono che quando stai per morire ti passi davanti agli occhi tutta la tua vita. E allora io rivedo i miei primi istanti, al piano terra di quella casa in via Cesana, quartiere San Paolo, il tepore iniziale, poi un po’ di freddo che passa subito appena mi mettono il mio bel vestitino dorato. E poi penso al momento in cui mi sistemano qui, accanto ai miei amici. Il tempo trascorso insieme a parlare del futuro. E infine la mia mente ritorna a quello che è successo stamattina: a quello scossone, forte come un terremoto, a quel rumore di campanello e di monete, a quella voce crudele che, parlando di noi, diceva: “Vedrà come saranno contenti i bambini quando li avranno tra le mani!” Ed eccoli i bambini. In certi casi sanno essere feroci, tremendi, molto più degli adulti. Noi stiamo qui, stretti l’uno all’altro, e loro danno l’assalto al nostro rifugio. Le loro voci sono agitate: “Prima io. No tocca a me. Non è vero, li hanno regalati a me”. 10 Sento la prima barriera che cede. Sento la porta che si apre. Vedo sollevarsi il materassino rigido eppure soffice che ci avevano disteso sopra per proteggerci. Che gesto ipocrita, ci hanno protetto perché andassimo a morire in perfetto stato, integri, senza neanche un’ammaccatura. Loro ne godono quando noi crepiamo e provano ancora più gusto se la morte ci trova in buona salute. Ecco, ora siamo allo scoperto. Io e i miei compagni intendo. Non c’è più nulla che ci separi dal nostro ultimo istante. Vedo una mano che si avvicina, una mano rapace, cattiva. Sta per acciuffarmi, è su di me, ora mi prende… No, ha preso il mio compagno, quello della seconda fila. Sono sempre i più buoni quelli che se ne vanno per primi. Non vorrei guardare, ma non riesco a distogliere lo sguardo: lo spettacolo è orrendo. Lo sta spogliando, gli sta togliendo il suo bel vestitino dorato e ora… No, no! È troppo crudele! Il sacrificio del primo dei nostri si è appena consumato che subito un’altra mano torna a colpire: penso proprio che sia il mio turno. La mano indugia su di noi. Credo che sia indecisa tra quelli col vestito color oro antico e quelli col vestito color oro rosso. Sotto il vestito siamo tutti uguali, ma loro non lo sanno e stanno lì, in sospeso, prolungando la nostra agonia. Poi, all’improvviso, la mano colpisce: ha scelto l’oro rosso. Sono salvo, ma per quanto? 11 Anche il secondo compagno se n’è andato. Sento distintamente il rumore del suo stritolamento. Lui non l’hanno sciolto, l’hanno disintegrato. Adesso le mani si moltiplicano, fameliche. Strappano i miei compagni dal loro ultimo, piccolo rifugio. Uno dopo l’altro. No, nooo!!! Sono senza difesa. “Ne è rimasto uno solo”, dice feroce il capo dei bambini, un tipo da pubblicità televisiva, biondo e glaciale come un nazista di sette anni. “Chi lo prende?” “Io, lo prendo io”, fa una bambina. “Mi dispiace piccola”, risponde sprezzante il biondo, “questo mi spetta di diritto”. La sua mano mi afferra. Vorrei resistere ma non so come. Le sue dita grassocce mi spogliano e mi stringono forte: l’ultima cosa che vedo, appoggiato sul tavolo, è il mio vestitino di carta dorata con sopra scritto Gianduiotto di Torino, poi vedo soltanto il gorgo scuro della sua bocca divoratrice. Quartetto numero 3: una notte al museo [da leggere ascoltando Quartetto per archi n.2 op.17, di Béla Bartók] Suonava il cellulare, suonava il campanello, suonava il telefono, suonava la sua agenda elettronica e in mezzo a tutti quei trilli, tra un “pronto” e un “ti richiamo dopo”, lui continuava a ripetere che era ora di svecchiare l’im12 magine internazionale di Torino, che era ora di finirla con i soliti abbinamenti: Torino uguale FIAT, Torino uguale Juve; e basta! “Giusto!”, gli avevo risposto, “non c’è solo la Juve, c’è anche il Toro”. “Non ha capito niente”, aveva replicato “volevo dire che è ora di puntare sulla cultura, sullo sviluppo multiangolare, è ora di inserire Torino all’interno di un progetto di image management che generi un trend positivo, è giunta l’ora di una palingenesi comunicativa, l’ora di dare a Torino un’immagine che coniughi dialetticamente la molteplicità delle sue tradizioni, delle sue vocazioni e delle sue aspirazioni”. E intanto il telefono trillava, trillava… Io ero rimasto lì, a cercare almeno una frase sensata in mezzo a quello sproloquio, ma lui mi aveva incalzato: “Si faccia venire una buona idea per cambiare l’immagine di questa città, con tutti i soldi che le diamo”. “Io veramente, dottor Colasberna, ho un contratto di stagista a tempo determinato e prendo…” “Non cominciamo con le rivendicazioni sindacali, mi butti lì un’idea promozionale nuova: basta con l’industria, basta con il calcio, va bene lo sport, ma uno sport diverso; ecco, si faccia venire in mente un’idea che unisca lo sport e la cultura, che ne so, le piste da sci olimpiche e il Museo Egizio”. “Una mummia sugli sci…”, avevo detto io pensando alla cosa più cretina che potesse passarmi per il cervello. 13 “Fantastico, ecco l’idea che ci voleva. Una mummia sugli sci, cultura e sport: mettiamola in pratica subito!” E lì ha iniziato a formulare il suo piano delirante. Ha parlato per un’ora, facendo schemi e tracciando itinerari sulle mappe del Museo Egizio. Io non volevo crederci, ma lui ha concluso il discorso dicendo: “Se ci tiene al suo stipendio da stagista precario veda di non farsi prendere dalla paura ed esegua”. Facile a dirsi: non farsi prendere dalla paura. Non lo sa mica lui cosa significa farsi chiudere dentro il Museo Egizio di notte. I sarcofaghi, illuminati dalla mia torcia, sembrano guardarmi con cattiveria, sembra che sappiano cosa sto per fare. Una profanazione, ecco cosa sto per fare. Una profanazione della memoria e del buon senso. Il piano di city marketing del mio superiore è lucidamente folle: adesso devo aprire un sarcofago e, in un punto nascosto, incidere un minuscolo geroglifico, in cui si vede un faraone con due lunghe aste ai piedi, un faraone con gli sci. “Ci penseranno gli egittologi a spiegare il rapporto della civiltà egizia con le montagne olimpiche, ad affermare che per fare le piramidi si sono ispirati alla punta del Rocciamelone: Torino, la città del faraone sugli sci”. “Ma dottor Colasberna, nessuno crederà mai a una panzana simile!” “Ne abbiamo raccontante di peggiori e se le sono bevute”. E così, eccomi qui, in piena notte, con queste mummie cattive e questo odore di chiuso che mi fa starnutire. 14 Lo so che tutto questo non ha senso, ma non voglio perdere il posto. Fuori piove. A scrosci. Di tanto in tanto il bagliore di un fulmine illumina a giorno la sala delle mummie. E in quella luce blu, fredda, che proietta ombre in tutte le direzioni, mi sembra che quei corpi millenari prendano vita. Mi avvicino al sarcofago prescelto. Un altro lampo. È come se, alle mie spalle, sentissi le mummie pronte ad avventarsi su di me. Starnutisco ancora. Maledetta polvere! Ci sono. Sono al sarcofago. Lo forzo; lui si apre con un lamento. Agghiacciante. Con il mio coltellino svizzero incido il geroglifico del faraone sugli sci, chiedendo mentalmente scusa a Iside, a Osiride, al dio sciacallo e alla mia intelligenza: lo so che è una cosa folle, ma è il mio capo che vuole così. Faccio in fretta, alla luce della torcia, seguendo un disegno tracciato proprio dal dottor Colasberna. Richiudo il sarcofago. Cigolio, lamento. Agghiacciante. Ancora uno starnuto, poi un altro. Ma questa volta non è mio, non sono io che ho starnutito. C’è qualcun altro nella sala. O forse è una mummia che si è risvegliata con un raffreddore millenario. Sono paralizzato dal terrore. Tendo l’orecchio. Silenzio. Solo il rumore della pioggia che cade senza sosta. Interrotto, di tanto in tanto dal tuono. Resto immobile. Il cuore mi pulsa nelle tempie e nelle orecchie. Trattengo il fiato. 15 Ecco, l’ho sentito di nuovo, lo starnuto. Punto la torcia nella direzione da cui veniva il rumore. Punto la torcia e lo vedo, vedo il dottor Colasberna, il mio capo. Butto fuori dai polmoni l’aria trattenuta per troppo tempo: è un lungo respiro di sollievo. “Dottor Colasberna”, dico, “è venuto a controllare che facessi un buon lavoro?” “No, sono venuto a finirlo io il lavoro”. Mi si avvicina e intanto continua. “Vedi, forse avevi ragione tu, la storia del geroglifico del faraone sugli sci non va bene, almeno non da sola: ci vuole qualcosa di più interessante per i giornali”. Ora che mi è vicino vedo che stringe in mano un pesante martello. Riprende a parlare: “Allora ho pensato che, per interessare i giornali, sarebbe meglio che la città di Torino, così magica e misteriosa, non venisse solo abbinata a un faraone sugli sci, ma anche alla maledizione del faraone sugli sci. E quando dici maledizione dici morte: cosa ne pensi se questa sera la maledizione del faraone facesse la sua prima vittima, proprio qui, proprio adesso?” Quartetto numero 4: un’oasi di tranquillità [da leggere ascoltando Quartetto per archi in fa maggiore, di Maurice Ravel] Sono un airone, un airone cinerino. Non mi è mai piaciuto questo nome, “cinerino”, è triste come il giorno dei morti, grigio come lo smog. Ma a essere degli aironi cine16 rini ci sono dei vantaggi, ad esempio quello di non essere buono da mangiare. La nostra vita non è come quella delle pernici o dei fagiani, sempre lì a fare attenzione ai cacciatori, sempre in bilico tra l’aria aperta e il forno. Sì, ogni tanto capita qualche incidente, come quello di mio cugino Tommaso, un cugino alla lontana, che, vicino a Vercelli, ha avuto un incontro ravvicinato con un treno ad alta velocità. Per il resto la vita è tranquilla, soprattutto qui, nella riserva dell’isolone di Bertolla, dove ci sono volatili di tutto il mondo e tutti stanno insieme in armonia: tortore, aironi, gufi, cornacchie… Una vita tranquilla dicevo, quasi noiosa, almeno fino a cinque minuti fa. Da cinque minuti è cambiato tutto; è cambiato tutto da quando nella nostra riserva protetta, nel canneto dell’Isolone di Bertolla è arrivato quel cacciatore. Si sono sentiti i suoi passi pesanti calpestare l’erba e le canne, tra mille piccoli scricchiolii. Noi, gli uccelli della riserva intendo, avremmo potuto alzarci in volo e fuggire, ma siamo rimasti impietriti, perché ai cacciatori non siamo abituati. Se gli uomini si avvicinano, e non di molto, di solito è per guardarci, con rispetto, attraverso le lenti dei binocoli. Quelli che vengono qui sono uomini buoni, amici. E comunque si tengono a distanza di sicurezza. Ma questo è diverso, questo è un tutt’uno con la sua doppietta. Capisci subito che quel fucile è per lui un’estensione naturale del braccio, che lui vive e ragiona con quel fucile. Lui non caccia per mangiare, per il gusto selvatico della cacciagione sulla tavole; lui caccia per uccidere. E allora non gli importa se l’airone cinerino è 17 buono o meno, non gli importa se le mie carni hanno la consistenza della stoppa e il sapore del fiele: lui vuole solo la morte, la mia morte. Io lo so. Per questo mi sono messo sopra il nido, con le ali spiegate pronte ad accogliere i pallini di piombo che usciranno infuocati dalle canne di quella doppietta. Quei pallini si pianteranno nel mio sterno carenato e leggero, sotto le mie piume, tra le cartilagini delle mie ali; ma almeno non raggiungeranno i piccoli che ancora dormono nel nido. Io cadrò a terra e qualcun altro porterà loro il cibo per continuare a crescere. Guardo l’occhio cattivo dell’uomo che mi fissa attraverso il mirino, vedo la sua mano sinistra che aggiusta la posizione del fucile, mentre il suo indice destro sfiora nervoso il grilletto, pronto a tirarlo definitivamente non appena è certo di colpirmi. Io resto immobile. E a un tratto tutto si blocca. Tutto si zittisce. Tutto è pronto per l’ultimo atto. Io guardo il suo occhio e lui guarda il mio. E non vi scorge paura. No, io non ho paura, perché io so quello che lui non sa. Quello che scoprirà presto a sue spese. A dare il via alla caccia è Oscar, il gatto bianco dalla coda nera che vive qui nell’oasi da quando, dopo aver letto alcuni antichi testi indù, è diventato vegetariano. Lanciato in corsa come un fulmine di pelo, si infila tra le gambe del cacciatore. Nell’occhio dell’uomo ora leggo la sorpresa e il disappunto. Il povero imbecille cerca di mantenere il suo 18 precario equilibro, ma Oscar è nuovamente all’assalto. L’occhio dell’uomo non è più dietro il mirino: quando il gatto lo ha investito per la seconda volta, il fucile gli è scivolato dalle mani ed è partito un colpo. No, non un colpo mortale; i pallini gli hanno devastato una coscia e l’uomo ha sentito nel muscolo un morso feroce. È certo però che il morso più feroce è quello che ha sentito alla spalla sinistra. Dovreste vederlo ora il suo occhio: terrore, terrore allo stato puro. Sì, perché il morso sulla spalla sinistra è quello di Alfio. Alfio è un leone importato clandestinamente dal padrone di una villa in collina che lo teneva per stupire gli invitati alle sue feste faraoniche. Un giorno Alfio ha aperto un varco nella recinzione ed è fuggito. Ha vagato un po’ tra Pino, Pecetto e Baldissero, ridendo quando la gente lo prendeva per una pantera. Poi si è scocciato di quella vita errabonda ed è venuto con noi. Alfio non è riuscito a diventare del tutto vegetariano, ma per fortuna ci sono i bracconieri, così lui si toglie qualche soddisfazione. Sono tanti e diversi gli animali che hanno trovato rifugio qui. L’occhio del cacciatore adesso assomiglia a una biglia di vetro, di quelle con cui i bambini giocano ai giardinetti. Quelle biglie che piacciono tanto a Rufus: ne fa collezione, dice. Rufus, il gufo, di solito le raccoglie quando i bambini hanno finito di giocare: ne dimenticano sempre 19 qualcuna tra la ghiaia, dice. E lui è abituato a prendere la biglia nel becco e a portarla nel suo nido. No, Rufus, quella non è una biglia, non puoi portartela via… Troppo tardi. Speriamo che adesso Rufus non inizi una nuova collezione. L’occhio dell’uomo ora non c’è più. E, per la verità, tra dieci minuti, quando Alfio avrà finito, non ci sarà più neanche il resto. Ah, che pace. Questa è proprio un’oasi di tranquillità. 20