Il Salice Piangente

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Il Salice Piangente
Il Salice Piangente
di Emanuele Biolcati
Ed ecco che la virtuosa rana salta rapidamente nello stagno sotto il Salice
Piangente. Sapevate che si raccontano strane storie intorno a quell’imponente
signore delle piante?
Tanto tempo prima infatti, a sentire l’autorevole parere del signor Gufosvaldo, che mai a memoria di animale aveva narrato un aneddoto celando parte della
verità né esasperando parti poco credibili, quel grosso albero stendeva verso il
cielo azzurro le sue rigogliose fronde. E non c’era abitante della Valle del Fiume
Grosso che non si fermava qualche decina di secondi a rimirare quello spettacolare capolavoro vegetale. Il signor Gufosvaldo ci trasmette la sua rispettabile
versione della realtà limitandosi al suo particolare punto di vista: è ben noto
infatti che egli vive solo durante la notte e anche durante queste ore di buio a
stento si trattiene nel sottobosco, preferendo di gran lunga le alte quote.
Per conoscere i più intimi segreti del Salice Piangente dobbiamo ricorrere alle
leggende che da oltre cento generazioni si trasmettono a voce nella famiglia dei
Conigli Marronpezzati. Oggi il membro più anziano della comunità è il signor
Denteforato, il quale, pur non avendo visto nemmeno la metà delle estati vissute
dal signor Gufosvaldo, si trova cosı̀ impedito dall’età avanzata che ormai non
lascia uscire neanche una baffo fuori dalla sua tana.
Stando al parere del venerando signor Denteforato, il Salice Piangente davvero
non nacque cosı̀ triste. Infatti ci racconta che uno zio di un amico di sua nonna
aveva veduto l’albero erto in tutta la sua staura. Certo, a quel tempo doveva
essere giovane giovane e pertanto molto sottile e slanciato, ma nessuna foglia
poteva sognare di chinarsi sotto i caldi raggi di sole. Accidenti signor Denteforato, questa parte di storia l’abbiamo già detta, ciò che ci preme sapere è
quando e per quale stravagante ragione il Salice Piangente decise di diventare il
più malinconico tra gli alberi.
Oh, il buon coniglio decide di rintanarsi ancora più in profondità, tutto
indispettito. Ecco allora farsi preziosa la saggezza del signor Gufosvaldo, che
ritiene un fatto, che qui di seguito racconteremo, abbastanza importante da
essere stato la causa di questo strano intristimento.
Accadde che una notte, una ragazza dagli occhi neri e lucenti come l’acqua
dello stagno all’ombra della luna, fosse scappata dalla rumorosa città e si fosse
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inoltrata fin sotto le radici dell’imponente salice. Ormai esausta per il lungo
cammino e sicura di non essere osservata da esseri umani, si abbandonò in un
triste pianto sommesso. Dopo alcuni minuti, il signor Gufosvaldo intravide un
suo carissimo amico allocco e volle andare a salutarlo. Quando ritornò vicino al
salice, la ragazza era ancora lı̀ seduta sull’umida sponda dello stagno, ma una
losca figura cercava di comunicare con lei.
Oh oh, chiedo venia al signor Denteforato. Dovete sapere, miei pazienti
lettori, che il venerando coniglio si è ricordato all’improvviso tutto, o almeno
cosı̀ dice, e si è sentito offeso poiché io ho avuto l’ardire di chiamare losca figura
quello che si è rivelato essere invece lo zio dell’amico di sua nonna. Tento allora
di continuare il mio racconto, sperando in una collaborazione di questi due fidati
storici!
Ebbene, il signor Codarruffata, tale era il nome dello zio dell’amico della
nonna del signor Denteforato, era stato disturbato nel sonno da quel pianto
sommesso e volle chiarire quali fossero i confini del suo territorio. Solo per
questa ragione si avvicinò per la prima volta a un umano. Tutto erto nella sua
piccolissima statura si fece sentire eccome da quella seccatrice, ma lei non sembrava capire un accidenti di ciò che usciva da sotto i lunghi baffi. Ad agevolare la
conversazione scese controvoglia fino a terra il signor Gufosvaldo. Questi infatti,
dovete sapere, aveva imparato qualcosa della brutta lingua degli umani, ma non
pensiate che volesse far un favore al coniglio: si sa che questi goffi uccelli sono i
più sgorbutici abitanti della foresta! Tuttavia non voleva perdere l’occasione di
sentirsi importante mostrando la sua abilità al coniglio, e tradusse per lui.
Qui c’è un po’ di discordanza tra le due versioni, ma il signor Denteforato mi perdonerà se farò maggior affidamento ai ricordi del signor Gufosvaldo
che era presente sul posto. Le parole che giunsero alle orecchie della ragazza
furono le più sconnesse e ridicole che lei avesse mai sentito! Il signor Codarruffata insisteva nel far saper all’umana che alcune sue lacrime erano cadute
proprio nell’imboccatura della sua tana e che avendo egli una zampina malata
non avrebbe potuto scavare un’altra entrata, con quindi il rischio di morire annegato. Tutti questi concetti assunsero significati completamente differenti nella
traduzione del tronfio signor Gufosvaldo che, non conoscendo tanti termini nello
strano idioma, sostituiva a suo piacere le parole. Cosı̀ la ragazza seppe che dei
suoi capelli del gomito stavano cadendo sul ramo taurino del coniglio davanti
a lei; e che questi, causa la sua golosità di vitelli, non poteva scavare un’altra
capriola azzura nella terra.
Al suono di queste bizzarre parole la ragazza scoppiò in una sonora risata,
e fu un ridere naturale, liberatorio, ingenuo. Lascio immaginare che espressioni
si susseguirono sul signor Gufosvaldo e sul signor Codarrufata! Questi tanto
più l’umana rideva, quanto più velocemente cercava nuove argomentazioni, confondendo maggiormente il suo traduttore che non pronunciava più nemmeno
frasi di senso compiuto.
Dall’alto delle sue fronde il solitario salice non distingueva altro che la fresca
risata della ragazza che continuava già da molto. Ma la curiosità era troppo
forte e non resistette: per cercare di capire la ragione di quella ilarità fece uno
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sforzo immenso e finalmente riuscı̀ a percepire le buffisime parole dei due agitati
urlatori.
Solo quando il signor Codarruffata scappò per la disperazione e il signor
Gufosvaldo volò in cerca di un po’ di sollievo per il suo ormai arido becco, la
ragazza volse i suoi grandi occhi neri verso l’alto. Rimase di sasso nel vedere
che il salice sotto cui si era seduta aveva piegato le verdi fronde sulla sua testa.
Convinta di aver ricevuto un segno di quella che gli umani chiamano Provvidenza, si alzò e serena come non mai fece ritorno in città, pronta ad affrontare
ogni suo problema.
Ed ecco svelato il mistero del Salice Piangente, che è diventato tale non per
malinconia come credeva chi gli assegnò un cosı̀ errato nome, ma per scacciare
la tristezza e la solitudine, chinandosi a rubare un po’ di quell’allegria che scorre
vicino a uno stagno, vicino a una tana, vicino a un nido, o vicino. . . a voi, miei
lettori, e perché no? Sappiate che ne scorre sempre moltissima accanto a voi,
tutto sta nel non smettere mai di abbassare le vostre fronde, seppur dovesse
risultare difficile, per non perderla mai.
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