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II edizione LibrAperto Le fiabe di Hans Christian Andersen “Proprio dalla realtà viene fuori la fiaba più meravigliosa” Educare con le fiabe 6 ottobre 2012 ROBERTO FILIPPETTI Insegnante di lettere, autore di testi e corsi di formazione sulle fiabe di Andersen e sul valore della lettura Nel 1973 è uscito “Contro Maestro Ciliegia”1, un libro di Giacomo Biffi che mi ha travolto: ho voluto guardare Andersen come lui guarda Collodi. In quel periodo insegnavo in una scuola dove mostravo ai miei alunni il lavoro di Giotto: anche Giotto è un grande racconto. Nell’introduzione del mio libro2 ci sono alcune note sul valore terapeutico del racconto, termine del prof. Pajno Ferrara di Verona, neuropsichiatra infantile. Oggi tenterò di leggere delle fiabe, come ho fatto qualche settimana fa nelle mie classi superiori. Ho iniziato l’anno con tre delle fiabe che trovate nel fascicolo che vi è stato distribuito. Uno studente ha alzato una mano scettico: “Professore, siamo alle superiori!”, invece poi si sono entusiasmati. Che i nostri ragazzi si entusiasmino è il premio che attendiamo. Entusiasmo viene dal greco, c’è dentro theos: le fiabe entusiasmano, Giotto entusiasma: la bellezza entusiasma, affascina, attrae. Mi è stato chiesto di cominciare con un’introduzione alla figura di Andersen per poi entrare nei testi. Hans Christian Andersen è nato il 2 aprile 1805 a Odense, nella Danimarca centrale, da un ciabattino e una lavandaia: sentirà sempre il peso delle sue misere origini, insieme alla baldanza che sgorga dalla consapevolezza della propria inalienabile dignità; ovvero, come dirà nell’autobiografico Il brutto anatroccolo, «siamo nati in un pollaio», ma «siamo usciti da un uovo di cigno»: questo vale per ciascuno di noi, perché siamo immagine e somiglianza di Dio. Vi racconto alcuni dettagli sulla vita di Andersen, tratti dai recenti studi di Nicola S. Barbieri. Almeno cinque persone di casa sua sono persone di cui si vergogna. La madre Anne Marie, da bambina, era stata un giorno mandata a mendicare, tanto erano gravi le ristrettezze economiche della sua famiglia, ma non ne aveva avuto il coraggio e si era messa tutto il giorno a piangere sotto un ponte. Voi fiorentini, che nel Medioevo soccorrevate i “poveri vergognosi”, potete capirlo. La nonna materna, molto povera, era finita in prigione ed era morta all’ospizio dei poveri. Il nonno paterno era affetto da una grave forma di demenza, e vagava per la città e per i suoi dintorni, preso in giro dai bambini ed evitato dagli adulti. Hans Christian se ne vergognava, come si vergognerà per i problemi di alcoolismo della madre o per l’ingombrante figura della sorellastra, più anziana, che la madre aveva avuto da una relazione prima del matrimonio. A fronte di queste cinque persone di cui si vergognava, ci furono due figure decisive. Molto positiva fu la figura della nonna paterna, Anne Catherine, che gli narrò fiabe e racconti fin dalla più tenera età. A volte il bambino la seguiva sul lavoro in ospedale, dove si prendeva cura dei malati di mente: aveva un marito demente e andava in ospedale a curare i malati di mente. Fu poi il padre Hans, da cui prende il nome, a coltivare la fantasia del bambino leggendogli novelle e commedie. Scrive del padre: “Mio padre amava leggere non solo commedie e romanzi, ma anche la storia e la Bibbia: nella sua mente tranquilla egli ponderava accuratamente ciò che aveva letto, ma mia madre non lo capiva quando cercava di esporlo, e così lui divenne sempre più silenzioso”. Il padre ebbe nel figlio un attento interlocutore: per Christian intagliò giochi, per esempio figurine snodate di legno che tirando un filo cambiavano forma, o un piccolo mulino con una ruota mobile; insieme presero l’abitudine di andare ogni domenica a fare lunghe passeggiate nei boschi che allora circondavano Odense, ove il bambino raccoglieva frutti ed intrecciava barchette di giunchi, che poi faceva navigare nel canale che scorreva dietro la casa; all’età di sette anni, il 1
G. BIFFI, Contro Mastro Ciliegia, Jaca Book, Milano 2002. R. FILIPPETTI, Educare con le fiabe: Andersen, Collodi, Saint-­‐Exupéry, Lewis, Itaca, Castel Bolognese 2008. 2
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padre lo portò per la prima volta a teatro. La salute di Andersen era cagionevole e non fu adeguatamente curato: era vittima di svenimenti e di attacchi epilettici. Nel 1812 il padre si arruolò nell’esercito, ma ben presto si ammalò e morì, a soli 34 anni. Quando Christian aveva tredici anni, la madre si risposò, ma il patrigno fece subito capire che non intendeva farsi carico dell’educazione del ragazzino. Questi, già noto a Odense per l’indole canterina e per essere un buon affabulatore, cominciò a cercarsi un protettore (dal 1822 lo troverà in Jonas Collin, che lavorava alla direzione del Teatro Reale ed era anche consigliere personale del sovrano). Da adolescente, nel 1819, andò a studiare a Copenaghen: era uno spilungone di origine campagnola. Nel suo volto tutto – naso, bocca, occhi – era sproporzionato. Bersaglio perfetto per i crudeli scherzi dei coetanei: è lui il brutto anatroccolo. AN[D]ERSEN in danese significa “figlio (SEN) di anitra (ANER)”. La “D” in quella posizione non si pronuncia. Il brutto anatroccolo è – come si è detto – una fiaba autobiografica: un dato corroborato dal sovrasenso etimologico. Si scoprono sempre cose nuove, e ci troviamo ad essere stupiti come i ragazzi cui insegniamo. Se continuo ad insegnare, e se voi siete qui di sabato mattina, è perché il nostro è il lavoro più bello, più entusiasmante che c’è. Andersen si cimentò poi in diversi campi (canto, recitazione, danza), dapprima con poco successo. Diventò famoso solo a partire dal 1835, proprio grazie alle fiabe. Dalle stalle alle stelle: l'anatroccolo cominciava a scoprirsi cigno fra i cigni. Il trionfo lo accompagnerà non solo in patria, ma ovunque, in particolare in Germania e negli Stati Uniti. E col trionfo vennero il benessere economico e i tanti viaggi in tutta Europa. Non venne invece l'amore. Corteggiò Louise Collin, figlia del suo benefattore; corteggiò Riborg sorella del suo amico Christian Voigt, ma non venne ricambiato. Morì serenamente il 4 agosto1875. Lui si chiama “Hans” come il padre che ha tanto amato, e “Christian”: la sua produzione artistica è permeata dell’ottimismo cristiano. Non l’ottimismo naturalista e progressista di tanti suoi contemporanei e neppure quello inebetito di certa edulcorata mentalità religiosa. La sua è una letizia ultima, che ha saputo attraversare con sguardo realistico il proprio limite persino fisico, ha accolto la Grazia, ha energicamente fatto fruttare tutti i propri talenti. Era grande, grosso, e grato. Nell’autobiografia intitolata La fiaba della mia vita egli parla di «gioia per tutto quanto il Signore mi ha dato: a me, “the boy of fortune”». II suo ottimismo – scrive Luigi Santucci – è radicato in «una fiducia finale: la certezza di un paradiso». Antonio Lugli lo chiama «un ottimismo che ha le sue profonde radici nella conoscenza del dolore umano, ma che d’altra parte è vivificato da una costante fiducia nella bontà della natura e dell’uomo e da un sentimento profondamente cristiano della vita». Gianni Rodari, nella sua presentazione dell’edizione Einaudi delle Fiabe3, è perentorio: quelle «di Andersen sono le sole “fiabe cristiane” della letteratura. Cristiano, in Andersen, è il senso di una Provvidenza che tutto dirige al bene; cristiano il senso della morte, che fa parte della vita, è un passaggio nero tra due mondi diversamente, ma ugualmente, luminosi; cristiana la sua capacità di tenerezza e di consolazione». Una visione del mondo quasi inscritta nel suo nome di battesimo: Christian. Stamattina vorrei dunque mostrarvi come si può leggere un testo ai vostri alunni, lavorando con voi sulle fiabe di Andersen. Questo “come” ho pensato di non teorizzarlo ma documentarlo. Vorrei leggere una fiaba a tre voci, come farei in classe: “L’uomo di neve”. In questa prima parte della mattinata non abbiate fretta di correre alla didattica: dobbiamo innanzitutto leggere noi. Ho scoperto questa fiaba perché me l’ha fatta leggere mia moglie. È un godimento insegnare, è un godimento ridere con gli alunni. Per questo favorite la loro espressione, favorite i momenti in cui godete con loro della bellezza che spiegate. Un giorno ho letto questa fiaba al biennio del liceo di Chioggia, quando sono stato invitato a un’assemblea studentesca. Il tema della mattinata era “il gusto dello studio”, non è stato facile parlarne, ma la parola “scuola” – skolè in greco -­‐ significa “tempo libero” (dopo qualche mese potete verificare se questo è vero). Ho chiesto, alla fine: “Qual è la cosa che vi ha colpito di più?” “Professore, il rumore dei fogli quando siamo passati dalla prima alla seconda facciata”. Abbiamo tutti timore di quattordicenni e quindicenni in assemblea d’istituto, a meno che succeda qualcosa: che si lascino attrarre dalla bellezza che accade. La fiaba è un dialogo tra l’uomo di neve (Andersen non lo chiama “il pupazzo di neve”), che è l’uomo vero, stupito di fronte alla realtà, e il cane, che è il “Cinismo”, parola che in greco vuol dire “da cani”. Spesso 3
H. C. ANDERSEN, Fiabe, Einaudi, Torino 2005. 2 Federazione Regionale Toscana
qualche insegnante, a scuola, è così: abbaia. Ma come pretendi che gli alunni ci siano se tu non ci sei, se non metti tu il cuore in quello che fai? Come agisce il cane? “Quelli non li mordo”, è un do-­‐ut-­‐des. E li prende in giro: “innamorrrati”, come se fossero illusi. L’apice del suo cinismo è quando scopre perché all’uomo di neve manca la stufa: per l’intelaiatura del suo corpo. Legge allora la nostalgia come dato ovvio. Invece Andersen ci mostra che quel raschiatoio di stufa è un cuore forte, destinato a durare, un’impalcatura, com’è l’impalcatura di ferro per il cemento armato nella costruzione dei grattacieli. L’uomo di neve è il bambino che si stupisce di tutto, è l’adulto che ha custodito un cuore bambino, pieno di stupore: “solo lo stupore conosce”! L’uomo di neve non è un narciso: fosse un narciso si specchierebbe nei vetri della finestra, quando i fiori di ghiaccio li ricoprono. Ha dentro qualcosa che rimanda più in là, verso quella stufa per la quale è fatto. Notiamo insieme il ripetersi delle lettere “br”: “brina” (un suono… da brivido), “brilla”, “brillanti”, “le brillarono gli occhi”. Tutta questa bellezza ci sarebbe se non ci fossimo noi ad accorgercene? L’uomo è il punto dell’universo in cui tutto quello che c’è prende coscienza di sé. La bellezza c’è quando brilla in uno sguardo umano. Quando l’uomo di neve s’innamora della stufa si sente “strano”: ha dentro un cuore che non appartiene alla sua natura nevosa, ha dentro un cuore fatto per altro. Gli riempie il cuore una nostalgia che non conosceva, ma che tutti gli uomini conoscono se non si sono autoridotti, o se non si sono lasciati ridurre, alla loro natura “nevosa”, epidermica, condannata alla putrefazione. Se siamo fatti per un destino eterno, e tutto di Andersen dice questo, allora siamo pieni di una nostalgia che accarezza il cuore e lo punge. L’etimologia della parola nostalgia chiarisce questo concetto. “Algia” è da algos, il dolore, “nostos” è il ritorno a casa. La nostalgia è il desiderio doloroso di tornare a quell’origine che è anche il proprio destino personale: alfa e omega. Dopo poche righe ritorna la parola strano: “che strana sensazione provo dentro di me”, nel cuore. E poi c’è quattro volte la parola desiderio. Per questo da un capo all’altro del medioevo ci sono sempre i cieli azzurri (dai mosaici di Galla Placidia, alla volta della basilica di Assisi e della Cappella degli Scrovegni): per ricordare agli uomini che questa nostalgia ha un’origine. Immaginate un bicchiere girato verso il basso: se si tenta di versare l’acqua tutto scivola via. Il cielo azzurro è il girare il bicchiere nel verso giusto, e il bicchiere sei tu: ti ricorda che il tuo cuore de-­‐sidera, che è un complemento di privazione: ti mancano le stelle, ed alle stelle vuoi ritornare. Morire assiderati significa gelare sotto le stelle, non avendo un tetto per coprirsi. Con-­‐siderare significa guardare tutto il gran cielo stellato, riconoscere la polare a Nord, quindi calcolare l’Est e così orientare il viaggio della vita. Sulla parola stelle abbiamo dialogato ai Colloqui Fiorentini: se il mondo spegnesse il desiderio sarebbe propriamente un dis-­‐astro. Cosa deve essere custodito allora, nel percorso scolastico dei ragazzi? Il loro cuore desiderante, che sarebbe quasi ingiusto non fosse appagato, perché il cuore dell’uomo è tutto tramato di desiderio. La scuola è un triangolo fatto da tre lati: insegnante, autore e studente. Insegnante e studente sono due participi presenti. Studente è il participio presente del verbo studère, appassionarsi: lo studente è colui che si appassiona; mentre insegnante è colui che lascia un segno dentro, che ti appassiona perché egli stesso è appassionato, e pian piano ti aiuta a guardare tutta la realtà come segno di Chi la fa. L’autore invece, da augeo, è colui che ti aumenta, ti fa crescere: auctoritas. Quando queste tre parole s’incontrano nasce la scuola. Dobbiamo imparare a sorprendere e comunicare il segreto celato nelle parole, a coinvolgere in questo i ragazzi, a proporre che “il giorno più bello della settimana è il lunedì”, perché si ricomincia. Cambia tutto quando si entra in classe non come “domatori” ma come padri. Andersen ci propone di accorgerci che la nostalgia è la nostra nostalgia, e costruisce tutta la fiaba su questo concetto: mette a tema questa domanda di senso ultimo. Ultima parola è allodola, che San Francesco usa spesso: ad-­‐laudula, diminutivo di ad-­‐lauda: colei che sale in cielo e canta le lodi di Dio in perfetta letizia. C’è bisogno di noi. C’è bisogno di un nuovo San Francesco, di un nuovo San Benedetto, di una nuova rifondazione dell’umano per i ragazzi che incontriamo. Mi pare che la partita di questo corso vada giocata per tre quarti sull’essere, e solo come conseguenza sul fare, perché per fare bisogna essere. La pedagogia è dentro a questo: siamo in un momento -­‐ direbbe Kafka -­‐ pieno di istruzioni per l’uso, ma povero di miracoli. Invece occorre ripartire dal miracolo, ovvero dalla meraviglia, dallo stupore. Adesso vorrei leggervi “Il rospo”. Il testo sembra una summa di forme e temi riscontrati ne L’uomo di neve e nelle altre due fiabe di cui parleremo più avanti. Come il brutto anatroccolo così il rospo è brutto, ma lo è inguaribilmente. Quindi, per 3 Federazione Regionale Toscana
contrasto, appare ancor più vivida la sua sete di bellezza. Strutturalmente la fiaba si presenta in forma di climax, di gradatio, come già Il lino, ma senza alti e bassi, anzi in una linearità progressiva, che passa di scoperta in scoperta e pare non conoscere strettoie dolorose. Tematicamente è una straordinaria ripresa del "cuore" come nostalgia e struggente desiderio dell'infinito, in cui già ci siamo imbattuti leggendo L'uomo di neve. Ancora una volta questa tensione inesausta, in cui consiste la statura dell'uomo vero, si scontra con un'umanità dimezzata e rattrappita: l'insopportabile saccente moralismo della gallina e del gatto per Il brutto anatroccolo; il cinismo del cane alla catena per L'uomo di neve; la rassegnazione delle assi dello steccato per Il lino. E per Il rospo la morale filistea, dalla idee conformiste e -­‐ letteralmente -­‐ ristrette: è quella della vecchia mamma Rospo che invita a rimanere dove si è, in un “buco” di pozzo -­‐ tanto simile al mare nostrum di Ulisse -­‐ dove tutti si conoscono almeno in apparenza e ciascuno può aggiungere la propria opinione all’assordante gracidare; è quella del bruco, davvero patetico nella propria presunzione superomistica (è colui che “da solo” si è liberato dall’incombenza del male), nonché – come dice l’illuminista Voltaire – inteso a coltivare il proprio orto, perché “non c'è nulla di bello come il proprio podere”. Non è vero: è più bello varcare le colonne d’Ercole, “per seguir virtute e canoscenza”; è più umano salire lassù, sempre più su, anà-­‐ (perché tutto il reale è segno e ana-­‐logia di quel misterioso “oltre” di cui il cuore ha struggente desiderio), avanti, sempre avanti, oltre i confini di una scienza naturalista che sa solo squarciare, sviscerare e sminuzzare. Umanissima è questa tensione metafisica, perché è evidente che “la sola natura non basta!”. Quando Rospina si ferma a contemplare le stelle scintillanti, la luna e il sole, capisce che il suo cuore è fatto per quell’altezza: anche la terra è un pozzo, solo un po’ più grande. Non basta. Se soltanto la luna o meglio ancora il sole d’oro venisse giù come un grande secchio, potrebbe “raccoglierci tutti”. Cosa posso fare io? Vigilare: “Bisogna che stia attenta, per non perdere la buona occasione di saltarci dentro”. Traspare qui un bramato rovesciamento di metodo: dalla dinamica “tragica” di Ulisse e di Icaro a quella “comica” di Dante che va aldilà perché è il cielo che lo viene a cercare nell’al di qua. L’attrito tra l’urgere del cuore e la lontananza inarrivabile della meta genera un attimo di sospensione drammatica: «debbo andare più su, nello splendore e nella gioia! Mi sento così piena di fiducia, e pure una strana paura mi coglie, una specie di angoscia... È una risoluzione difficile da prendere, e pure bisogna decidersi. Avanti, dunque, avanti diritta, per la strada maestra!». È il rischio della libertà che energicamente decide di procedere lungo quella strada. E siamo al gran finale. Alla scoperta della verità celata sotto la credenza popolare. Chi è l’uomo vero? È uno che “fa arrabbiare gli altri” (ne Il brutto anatroccolo il gatto e la gallina; ne Il lino le assi dello steccato; ne L’uomo di neve il cane alla catena; ne Il rospo il bruco e l’uomo che eleva a idolo il treno del progresso), proprio perché fa camminare per le vie del mondo il gioiello prezioso. Alla fine scopriamo che la gemma nella testa e la struggente sete del cuore coincidono: “Ed invece la gemma l'aveva proprio lei. La gemma era quello struggente desiderio, quell'eterna aspirazione a salire, a salire sempre più in alto. Brillava nel suo capo, splendeva nella sua gioia, raggiava vivida dalla sua nostalgia”. C’è poi un secondo aspetto della verità sull’uomo. Dove finisce la sua vita? Il lino e Il rospo offrono la stessa risposta. Quando l’animaletto muore, la gemma preziosa – l’anima immortale – brilla scintillante, raccolta da un raggio di sole che la incorpora nel proprio splendore di gloria. E questo “è vero”: lo scienziato potrà coglierne gli indizi se oserà riflettere fino in fondo sugli esempi offerti in natura, e il poeta “te lo dirà in forma di fiaba”, o meglio – traducendo alla lettera – “te lo dirà sotto il velo della fiaba”: c’è qualcosa da svelare. Appare pertanto patente l’intenzione profonda di Andersen: non offrire un sentimentale divertissement per anime belle, bensì celare sotto il velo della forma fiabesca la verità sull’uomo e sul suo destino eterno. La gemma è lo struggente desiderio, ma è anche l’anima immortale, che brilla quando muore. Andersen mostra l’umano dell’uomo, l’inquietudine senza fine del suo cuore: è utile per chiunque, per l’ateo come per l’uomo religioso, paragonarsi con lo sguardo profondamente umano che è evocato dalle fiabe. Il poeta parla sotto forma di fiaba, non di favola: le favole sono costruite a posteriori al fine di far passare una “morale; invece le fiabe sono belle e vere, e rendono gli uomini migliori, perché il bene è facile se poggiato sulla bellezza, che è splendore del vero. Allora: quale destino ci aspetta, in fondo in fondo? L’esperienza del compimento, nella forma dell’escatologia cristiana con cui Andersen sigilla questa grande parabola della vita: “Ma la gemma nel capo del rospo? Cercala nel sole, e fa' di vederla se ti riesce. Lo splendore là è troppo abbagliante. I occhi nostri non sono ancora capaci di penetrare in quella gloria creata da Dio, ma un giorno li avremo, e sarà la fiaba 4 Federazione Regionale Toscana
più bella di tutte, perché ci saremo dentro anche noi”. Noi non siamo capaci di reggere questa vista, (come gli angeli della cuspide del Polittico Baroncelli di Giotto, oggi in California: sono protesi a guardare il Padre Eterno, ma si proteggono gli occhi con vetri affumicati come noi quando osserviamo l’eclissi, per non rimanere abbagliati dal Suo splendore). Noi avremo, un giorno, occhi in grado di vedere, e sarà la fiaba più bella di tutte, perché ci saremo dentro anche noi. Saremo a casa. Le fiabe ci sono care perché ci permettono di entrare in rapporto, di guardare con simpatia la nostra vita. Quando invece di leggerle le racconti e guardi negli occhi i ragazzini è un’altra cosa, ma bisogna saperle a memoria per far questo! Allora vi racconto “Il brutto anatroccolo”, di cui mi son sorpreso a sapere vari brani a memoria… Il brutto anatroccolo è Andersen, abbiamo detto. Che cosa accade? Una sera d’autunno, in un tramonto infuocato, il brutto anatroccolo vede i cigni che s’alzano in volo per emigrare e grida: “non riusciva a dimenticare quegli uccelli… li amava come non aveva mai amato nessuno”. Quando irrompe la bellezza, gridi! I cigni spariscono e tu gridi: è una domanda tutta tesa, piena di memoria della verità intravista (in greco c’è una parola che significa sia memoria che verità). Le cose belle e vere non si scordano più: i semi di bellezza che si piantano in un bimbo di sei anni li terrà in sé per sempre. Andersen racconta l’inverno in due capoversi: nel primo c’è la lotta del brutto anatroccolo con il ghiaccio che lo sta assorbendo. Il ghiaccio lo imprigiona, ma poi arriva il contadino che rompe il ghiaccio con lo zoccolo e si porta l’anatroccolo a casa. I bambini vorrebbero giocare con lui, ma lui non sa cosa significhi giocare. Spaventato scappa, allora cade nel burro, cade nella farina, esce fuori in mezzo alla neve. “Le allodole cantavano: era tornata la bella primavera”. Rivede i cigni, con un frullio di piume va verso di loro, e anche loro gli corrono incontro. Sta teso, aspettando la morte, e vede sotto di sé la sua immagine: “non era più l’uccello di una volta, brutto e sgradevole”, è un cigno! Che importa essere nato in un pollaio, se siamo usciti da un uovo di cigno! I grandi cigni, allora, lo attorniano e lo accarezzano col becco. Qualche settimana fa ho riassunto ai miei alunni in otto parole ciò che è accaduto tra autunno e primavera, ovvero nel primo e nel secondo irrompere della bellezza: grido, amore, memoria (verità), allodola (canto di lode), libertà (due libertà che si cercano: i cigni e l’anatroccolo), identità (che viene donata all’io nell’incontro col tu), dignità (io valgo: che importa essere nati in un pollaio, se proveniamo da un uovo di cigno? Tu vali, vali ontologicamente, non per le circostanze quali la ricchezza), e infine compagnia (per dimorare nella bellezza occorre avere amici veri). Il nostro lavoro vale per il singolo uomo. Un bambino, un giovane uomo che oggi rischia di essere un uomo senza volto, (titolo del film di Mel Gibson, uno dei più belli sul rapporto educativo) incontra un altro uomo, pieno di carità: uno che gli fa dono di sé, commosso. Leggiamo “Il lino”. La fiaba ha una struttura narrativa che è una linea spezzata ascendente, ad alti e bassi per sette volte. All’inizio il lino è solo un vegetale, una pianta tutta contenta. Poi questa allegria si spezza: si paragona con le assi dello steccato così cupe, rigide e nodose (in esse riecheggia il cinismo del cane alla catena, incontrato all’inizio). Si trasforma poi in una pezza di lino, e quindi in dodici pezzi di biancheria. La biancheria si usura, e il lino viene trasformato in un pezzo di carta bianca, finissima. “su questa carta di lino scrissero le storie più belle del mondo, e la gente stava a sentire perché erano tutte vere e belle”: la bellezza è -­‐ ancora -­‐ splendore del vero. Quando incontri una cosa così la bellezza viene facile fare il bene: queste storie vere e belle rendevano gli uomini più saggi e migliori, più buoni. “Quelle parole erano scese come una benedizione sulla carta, ed è più di quanto sognavo quando ero un piccolo fiore del campo. Come avrei potuto immaginare di godere tutto questo?”. Il conoscere abita qui, in questo gusto. “Il Signore sa bene che non ho fatto nulla, se non quello che ero costretto a fare, con le mie umili capacità, per esistere”. “E’ molto utile sostare a contemplare il proprio operato, ed è molto giusto che ci si raccolga a meditare su ciò che sta racchiuso nella propria anima. Solo ora vedo chiaramente dentro di me: il vero progresso consiste nel conoscere se stessi”. Tutta la carta un giorno viene messa nel camino a bruciare, la fiamma guizza altissima, sembra tutto finito, ma lui no, il lino vede che non è finito: “ora vado dritto nel sole, disse una voce nella fiamma, ed era come se mille voci lo dicessero insieme”. Attraverso il camino la fiamma esce all’aria aperta, e lì, invisibile agli occhi degli uomini, vola alta nell’aria. Andersen conclude così: “la storia non finisce mai, per questo sono l’essere più felice del mondo”. È una storia infinita: è la verità che la storia non finisce, quest’ultima sua riga è decisiva. 5