1 La logodicea di Leibniz e l`originario della libertà Il miglior antidoto

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1 La logodicea di Leibniz e l`originario della libertà Il miglior antidoto
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La logodicea di Leibniz e l’originario della libertà
Il miglior antidoto alla ragion pigra è una completa razionalizzazione1, che applichi
il metodo geometrico alle questioni metafisiche, avendo cura dell’esattezza delle
definizioni2 e sviluppando un ragionamento rigoroso.
La teodicea proposta da Leibniz è il cuore del disegno apologetico di una ragione al
servizio della fede. Concepiti principalmente come un dialogo ed una replica al
Dictionnaire di P. Bayle, i Saggi di Leibniz ne confutano la tesi centrale, secondo cui la
ragione sarebbe ingannevole e dovrebbe lasciare il posto alla fede. Per Leibniz, invece,
è sul piano stesso della ragione che la conciliazione con la fede deve e può risultare
evidente. Egli conta di poterlo mostrare mediante un argomentare analitico-deduttivo
che scioglie ogni contrapposizione e svolge un discorso di rilievo universale.
1. L’ordo metafisico di riferimento. Secondo Leibniz, la nozione di Dio gode di
evidenza. Dal momento che si assume la possibilità di tutto ciò che non è
contraddittorio e la possibilità di ciò che non implica alcun limite, conseguita l’idea di
un Essere perfettissimo, dobbiamo concludere che è esistente3. Tutte le altre essenze si
possono concepire anche senza Dio: basta la loro non contraddittorietà. Dipende da Dio,
però, che venga loro conferita l’esistenza e ne venga stabilito un ordo; soltanto l’Essere
perfettissimo, infatti, garantisce la realtà dei possibili nel loro conatus existendi4. Quindi
il vincolo originario tra Dio e tutto ciò che esiste non attiene al piano ideale, ma a quello
esistenziale5. Il conferimento dell’esistenza si iscrive in una prospettiva panlogistica.
Per illustrare come Dio realizzi la funzione esistenzializzante si deve tener conto delle
leggi di saturazione (ogni mondo possibile non deve poter contenere alcun possibile
oltre a quelli che contiene)6 e di coerenza (nessun possibile appartenente ad un mondo
deve poter appartenere al tempo stesso anche ad un altro), vigenti nell’ambito dei mondi
possibili. Il passaggio all’esistenza di un sistema ordinato (“mondo”) ancora nel regime
della possibilità non è necessario – come invece sostiene Spinoza (il cui necessitarismo
1
Cfr. Prefazione, in G.W. LEIBNIZ, Saggi di teodicea sulla bontà di Dio, sulla libertà dell’uomo,
sull’origine del male, a cura di S. Cariati, Bompiani, Milano 2005, n. 8, 30, p. 15; ed. a cura di V.
Mathieu, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 1994, p. 106. Il volume sarà d’ora in poi abbreviato con la
sigla “SagTeol”, seguita dall’indicazione in numero romano della parte e del capitolo in numeri arabi.
Salvo indicazioni contrarie, la traduzione si riferisce sempre all’edizione italiana a cura di S. Cariati.
2
Cfr. Nota aggiunta al manoscritto, in SagTeol III, 392, ed. Mathieu, p. 474 nota n. 183.
3
Cfr. l’argomentazione esposta nel § 45 della Monadologia (ed. Cariati, Rusconi, Milano 1997, 76s) e già
nel Discorso di Metafisica al § 23 (ed. Cariati, Rusconi, Milano 1998, 146s). Vien da chiedersi, però,
come si giustifichi l’inferenza da “perfettissimo” ad “esistente”: che l’esistenza si riferisca ad un “di più”
di essere non è un giudizio puramente logico. Piuttosto – come si dovrà esplicitare –, rinvia ad una
comprensione del reale nell’orizzonte del senso, per rapporto ad una mediazione antropologica il cui
statuto rimane da determinare.
4
Si dovrà tornare su questa tendenza. Come si giustifica? La sua menzione sul piano metafisico non
rinvia al presupposto che l’esistenza costituisce “un di più” ontologico rispetto al mero reale possibile?
5
Sul piano logico le essenze sono cooriginarie a Dio; in virtù di tale cooriginarietà si dà differenza solo di
grado e non di natura tra la funzione (matematica) di Dio e le funzioni accessibili ad ogni altra essenza
raziocinante.
6
Nessun mondo differisce da un altro per un particolare senza differire da esso completamente, in ragione
del legame universale di tutte le cose. Per Leibniz, il mondo è l’universitas creaturarum, è un tutt’uno
nel quale le parti sono legate. Si deve quindi supporre una condizione delle essenze possibili
originariamente non isolata ma aggregata.
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non distingue in Dio tra intelletto e volontà), non riconoscendo a Dio una differenza di
eccellenza, poiché coincide con la natura (Deus sive natura)7 –, ma subordinato alla
ponderazione da parte di Dio di quale sia l’insieme (il mondo) maggiormente ricco di
essenza. Tra i mondi possibili si stabilisce un conflitto (cfr. SagTeol II, 201), perché
secondo la logica combinatoria il loro esistere insieme è incompossibile. Spetta solo a
Dio far passare all’esistenza e, conformemente alla sua saggezza, farà esistere il mondo
più ricco di essenza. Vi deve essere un massimo della bontà possibile e non può che
essere unico, perché se non vi fosse un mondo migliore di tutti gli altri nessun mondo
sarebbe stato creato (cfr. SagTeol I, 8), non essendoci una ragione sufficiente di scelta.
Delle determinazioni di cui facciamo esperienza come esistenti dobbiamo dire che
fanno parte del migliore dei mondi possibili. In questo mondo (che è il migliore, ma la
stessa regola vale per ogni altro mondo possibile) non si può staccare un particolare
dall’altro8. Quando Dio fa passare all’esistenza opera secondo saggezza conformandosi
ad una legge universale; ma che lo faccia, dipende dalla sua volontà9: soltanto Dio può
stabilire che esista qualcosa piuttosto che nulla. Non è il meccanismo logico-formale a
stabilire che il mondo debba esistere; però determina quale, ovvero il mondo più ricco
di essenza tra i mondi possibili10. Quando Dio fa passare all’esistenza, opera secondo la
saggezza vincolata ad una legge universale. Che lo faccia dipende dalla sua volontà.
Così si avrà una necessità delle essenze ed una contingenza degli esistenti11. E Dio
7
«[…] Spinoza (così come vuole un antico peripatetico di nome Stratone) vuole pressappoco che tutto
derivi dalla causa prima o dalla natura originaria, in virtù di una necessità cieca e puramente geometrica,
senza che questo principio primo delle cose sia capace di scelta, di bontà e intelligenza.» (SagTeol,
Prefazione, ed. Cariati n. 32 [44], p. 51; ed. Mathieu p. 122). Dunque, secondo Spinoza il mondo sarebbe
l’attualizzazione di tutto il possibile.
8
«Il contenuto di un universo è determinato fin nel minimo dettaglio, di modo che forma una serie di cose
del tutto singolare e unica» (P. RATEAU, Ce qui fait un monde. Compossibilité, perfection et harmonie, in
ID. (ed.), Lectures et interprétations des Essais de théodicée de G.W. Leibniz, [= Studia Leibnitiana –
Sonderhefte, 40], Steiner, Stuttgart 2011, 51). Nell’universitas creaturarum tutte le costituenti sono
connesse; nessun ente può essere modificato o soppresso, ché, altrimenti, il mondo diventerebbe un altro.
«Le monde est un certain ordre intelligible et rationnel, où tout est parfaitement lié, où chaque chose (être,
accident, événement) a une place déterminée, assignée, où rien n’est indifférent ni interchangeable.
L’espace et le temps sont cet ordre, tel qu’il apparaît et se déroule sur le plan phénoménal. Ils n’ont
pourtant aucune réalité en eux-mêmes. Leur vérité est celle des rapports qu’ils expriment, en tant que
ceux-ci sont fondés métaphysiquement, c’est-à-dire reflètent l’activité des monades. L’univers n’est fait
que de substances et d’assemblages de substances, avec tous leurs états (perceptions), tendances et efforts
(appétitions). En dernière instance, le rapport de coexistence (espace) et de succession (temps) renvoie à
un rapport logique (donc non spatial et intemporel) de compossibilité et de causalité.» (P. RATEAU, Ce qui
fait un monde. Compossibilité, perfection et harmonie, cit. 56).
9
«[…] Quanto più […] una volontà è perfetta, tanto meno si determina in vista di qualcosa di diverso
dall’optimum. Se non ci fosse un mondo migliore di ogni altro, Dio non ne creerebbe nessuno: egli non
avrebbe una ragione sufficiente per crearne uno piuttosto che un altro; e Dio non fa mai nulla senza
ragion sufficiente.» (V. MATHIEU, La conciliazione di ragione e fede punto culminante della riflessione
leibniziana, in G.W. LEIBNIZ, Saggi di teodicea sulla bontà di Dio, sulla libertà dell’uomo, sull’origine
del male, San Paolo, Cinisello Balsamo [Mi] 1994, 27). L’argomentazione è stringente solo supponendo
che l’esistere vada nella direzione dell’optimum. Ma va da sé che l’esistenza sia un positivo, un bene? Lo
si può stabilire a priori? Se sì, allora la qualità di ogni vissuto rimane subordinata a questa evidenza?
Certamente non è di questo avviso la meditazione che LEOPARDI sviluppa ne Il giardino sofferente, del
suo Zibaldone, 19-22 aprile 1826, Sansoni, Firenze 1969, 104-107.
10
Dio può volere o non volere che i possibili esistano; ma non può volere o non volere che siano
possibili. Dio, infatti, non è autore del proprio intelletto. Cfr. SagTeol III, 380.
11
In Leibniz, il passaggio all’esistenza non rappresenta un incremento sul piano ontologico, perché
l’effettività dell’esistenza non costituisce un novum per la verità delle cose. La prospettiva essenziale
3
conosce a priori anche il contingente, perché: «[…] nella nozione perfetta della sostanza
individuale, considerata da Dio allo stato puro di possibilità, prima di ogni attuale
decreto di esistenza, è contenuto già tutto quanto a quella sostanza accadrà»12.
Nella taxis metafisica illustrata come viene a soluzione la problematica di teodicea?
La tesi da sottoporre ad esplicazione analitica può essere così enunciata: dato che Dio ha
fatto tutto ciò che poteva, e ciò che ha fatto è il meglio possibile, il male viene a
dissolversi nell’illusione di un punto di vista limitato13.
2. L’optimum, il contingente e l’esistente. “Il gran principio dei nostri ragionamenti è
che nulla accade senza qualche causa o ragione sufficiente”14. Siccome tutto ciò che
esiste è contingente e non ha nulla in sé che renda la sua esistenza necessaria, la ragione
dell’esistenza del mondo va cercata nella sostanza che ha in sé la ragione della propria
esistenza e quindi è necessaria ed eterna, oltre che intelligente, perché ha ponderato tutti
i mondi possibili per sceglierne uno, il migliore15. La qualità di optimum pertiene ad un
mondo come insieme strutturato di tutte le cose esistenti16. Rispetto ad esso si dà una
tende ad assorbire quella esistenziale, razionalizzandola completamente. Salvo però ammettere un
conatus existendi che va nella direzione dell’optimum.
12
G.W. LEIBNIZ, Specimen inventorum de admirandis naturae Generalis arcanis, citato da V. MATHIEU,
La conciliazione di ragione e fede punto culminante della riflessione leibniziana, cit., 45. «[…] Il
concetto di una sostanza individuale implica, una volta per tutte, tutto ciò che le può accadere, per cui
basta considerare tale concetto per scorgervi tutto ciò che è possibile enunciare con verità di essa – allo
stesso modo in cui possiamo vedere nella natura del cerchio tutte le proprietà che se ne possono dedurre.»
(G.W. LEIBNIZ, Discorso di Metafisica, § 13, ed. Cariati, Rusconi, Milano 1998, 94s). In un modello
geometrico della verità il piano dell’accadere è contenuto analiticamente nella natura/essenza di ogni
cosa.
13
«[…] Noi non abbiamo bisogno della fede rivelata per sapere che esiste un siffatto principio unico di
tutte le cose, perfettamente buono e saggio. La ragione ce lo insegna con dimostrazioni infallibili, e, di
conseguenza, tutte le obiezioni tratte dall’andamento delle cose, in cui riscontriamo imperfezioni, non
sono fondate che su false apparenze. Infatti, se fossimo capaci d’intendere l’Armonia universale,
vedremmo che quanto siamo tentati di biasimare è connesso con il piano più degno di essere scelto. In
una parola, vedremmo, e non crederemmo soltanto, che quanto Dio fa è il meglio. Chiamo vedere, qui, ciò
che si conosce a priori mediante le cause […].» (SagTeol, Discorso preliminare § 44, ed. Cariati p. 135;
ed. Mathieu pp. 160s).
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Cfr. SagTeol, Appendice III (Osservazioni sul libro intorno all’origine del male, recentemente
pubblicato in Inghilterra), § 3. «Per meglio comprendere questo punto, bisogna considerare che ci sono
due grandi princìpi su cui si fondano i nostri ragionamenti: uno è il principio di contraddizione, secondo
il quale di due proposizioni contraddittorie l’una è vera e l’altra è falsa; l’altro è il principio di ragione
determinante, secondo il quale non accade mai niente senza che ci sia una causa o almeno una ragione
determinante, ossia qualcosa che possa servire a rendere ragione a priori del perché una data cosa è
esistente piuttosto che non esistente e del perché è così e non in tutt’altro modo. Questo grande principio
si applica a tutti gli eventi e non se ne darà mai un esempio contrario: e sebbene il più delle volte queste
ragioni determinanti non ci siano note a sufficienza, intravediamo pur sempre che ce ne sono.» (SagTeol
I, 44).
15
Cfr. SagTeol I, 7; II, 116. Si intravede la replica di Leibniz al dilemma di Epicuro («La divinità o vuole
abolire il male e non può; o può e non vuole; o non vuole né può; o vuole e può. Se vuole e non può,
bisogna ammettere che sia impotente, il che è in contrasto con la nozione di divinità; se può e non vuole,
che sia malvagia, il che è ugualmente estraneo all’essenza divina; se non vuole e non può, che sia insieme
impotente e malvagia; se poi vuole e può, sola cosa conveniente alla sua essenza, donde provengono i
mali e perché non li abolisce?», frammento 374 dell’edizione a cura di H. Usener – che riprende
Lattanzio, De ira Dei, 13, p. 19 – citato nella traduzione di M. Isnardi Parente, in EPICURO, Opere, UTET,
Torino 1974, 389): la congiunzione in Dio di potenza e bontà è regolata dall’intelligenza che ottempera
alla suprema ragione.
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«Bisogna infatti sapere che tutto è legato in ciascuno dei mondi possibili: l’universo, quale che possa
essere, è tutto continuo, come un oceano: il minimo movimento vi estende il proprio effetto a qualunque
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libertà di contingenza (si possono pensare infiniti altri mondi senza cadere in
contraddizione17); però, rispetto al migliore non si dà indifferenza di equilibrio18, perché
la libertà non può essere confusa con il modo di agire irragionevole (cfr. SagTeol III,
339). Essendo che la verità di un insieme organizzato non si decide sul piano storico,
ma su quello ideale, dal momento in cui un mondo esiste non può che essere il migliore.
Tutto è regolato fin dal principio, ma gli eventi rimangono in se stessi contingenti.
Tutto è dunque certo e determinato in anticipo nell’uomo, come del resto in ogni altra
realtà, e l’anima umana è una sorta di automa spirituale, benché le azioni contingenti in
generale, e le azioni libere in particolare, non siano per questo necessarie di una necessità
assoluta, la quale sarebbe davvero incompatibile con la contingenza. Pertanto, né la
futurizione in se stessa, per certa che sia, né la previsione infallibile di Dio, né la
predeterminazione delle cause, né quella dei decreti divini distruggono tale contingenza e
tale libertà. (SagTeol I, 52)19
L’istanza di razionalizzazione istruita secondo un modello analitico-deduttivo
conduce Leibniz a considerare il singolare concreto come l’esistenzializzazione di un
ideale particolare, di modo che l’esistere è mera modalizzazione di una verità
essenziale. Già nell’illustrazione dell’assetto metafisico di Leibniz si era rilevata una
incongruenza: da una parte, egli sostiene che, per il principio dell’armonia, è bene che
esista quanta più essenza possibile (ma ciò può essere affermato solo a condizione che si
reputi l’esistenza un reale incremento veritativo; come dare conto della preminenza del
concreto?); dall’altra, però, il passaggio all’esistenza ha per Leibniz il valore di una
semplice trasposizione dell’essenza. Come a dire che l’effettività non concorre alla
definizione della verità delle componenti di un mondo (l’effettivo ha soltanto un rilievo
manifestativo), perché la loro verità è presupposta in quanto determinata a priori. Ci si
chiede se sul piano ideale della determinazione si possa ancora parlare di un dramma,
distanza – sebbene tale effetto diventi meno sensibile in proporzione alla distanza.» (SagTeol I, 9). In
ciascuna serie tutto è legato (cfr. SagTeol I, 84) ed ogni individualità è funzionale all’optimum ch’è la
dote del tutto. E la regola del meglio non conosce eccezione né dispensa. Cfr. SagTeol I, 25.
17
Il canone della necessità, infatti, è quello “logico, geometrico o metafisico”, il cui opposto implica
contraddizione. Cfr. SagTeol III, 282.
18
Cfr. SagTeol I, 46; si vedano anche SagTeol II, 199 e III, 320 sull’indifferenza vaga.
19
«Si dirà pure che, se tutto è regolato, allora Dio non potrebbe fare miracoli. Ma bisogna sapere che i
miracoli che accadono nel mondo erano già inclusi e rappresentati come possibili in questo stesso mondo,
considerato nello stato di pura possibilità; e Dio, che li ha fatti in seguito, ha decretato di farli fin d’allora,
quando ha scelto questo mondo. Si obietterà ancora che i voti e le preghiere, i meriti e i demeriti, le buone
e le cattive azioni non servono a niente, poiché niente può esser cambiato. Questa obiezione è quella che
più imbarazza le persone comuni, e tuttavia non è che un mero sofisma. Le preghiere, i voti, le buone e le
cattive azioni che si fanno oggi, erano già davanti a Dio, quando prese la risoluzione di regolare le cose.
Quelle che avvengono nel mondo attuale, erano rappresentate nell’idea di questo stesso mondo ancora
possibile, insieme con i loro effetti e le loro conseguenze; esse vi erano rappresentate già in modo da
attirare la grazia di Dio, sia naturale sia soprannaturale, da esigere i castighi, da richiedere le ricompense,
così come effettivamente avviene in questo mondo, dopo che Dio l’ha scelto. La preghiera e la buona
azione erano fin da allora una causa o condizione ideale, cioè una ragione inclinante che poteva
contribuire alla grazia di Dio, o alla ricompensa, come fa adesso in un modo attuale. E poiché tutto è
legato saggiamente nel mondo, è evidente che Dio, prevedendo ciò che sarebbe accaduto liberamente, ha
regolato su di ciò in anticipo anche il resto delle cose, ovvero, il che è lo stesso, ha scelto questo mondo
possibile, nel quale tutto era regolato in tal modo.» (SagTeol I, 54; corsivi miei). «Tutto l’avvenire è
determinato, non c’è dubbio: ma poiché non sappiamo in che modo lo sia, né cosa sia previsto o deciso,
dobbiamo fare il nostro dovere, seguendo la ragione che Dio ci ha dato e le regole che ci ha prescritto;
dopo di che, dobbiamo avere l’animo tranquillo e lasciare a Dio stesso la cura del successo.» (SagTeol I,
58).
5
ovvero di una responsabilità e del realismo della sua attuazione20. Alla verifica cruciale
della consequenzialità dell’argomentazione leibniziana si accede nella trattazione della
problematica del male, ben sapendo che la spiegazione dovrà essere cercata nella natura
ideale della creatura.
3. Il logos del male. La radice metafisica del male risale all’imperfezione originaria
nella creatura, prima ancora del peccato, poiché ogni creatura è per essenza limitata21:
«Dio infatti non poteva darle tutto senza farne un Dio; e dunque era necessario che vi
fossero gradi differenti nella perfezione delle cose, e che vi fossero anche limitazioni di
ogni sorta»22. Anche la distinzione tra male fisico (sofferenza) e morale (peccato)
subisce attrazione verso la condizione metafisica della loro possibilità (la necessaria
condizione di limitazione stabilita a priori23).
Secondo Leibniz, in Dio si deve distinguere tra volontà antecedente e volontà
conseguente. In rapporto alla prima Dio tende ad ogni bene in quanto bene.
Egli ha una seria inclinazione a santificare e a salvare tutti gli uomini, a escludere il peccato
e a impedire la dannazione. Si può anzi dire che questa volontà è efficace di per sé (per se),
cioè tale che l’effetto seguirebbe, se non ci fosse qualche ragione più forte che lo
impedisce. Questa volontà, infatti, non si spinge fino a realizzare il massimo sforzo (ad
summum conatum), altrimenti non mancherebbe mai di produrre il proprio effetto pieno,
giacché Dio è il signore di tutte le cose. Il successo completo e infallibile appartiene solo a
quella che viene chiamata volontà conseguente. Soltanto questa è piena, e riguardo a essa
vale la regola secondo cui non si manca mai di realizzare ciò che si vuole, quando lo si può.
Ora, questa volontà conseguente, finale e decisiva, risulta dal conflitto di tutte le volontà
antecedenti, tanto di quelle che tendono verso il bene, quanto di quelle che respingono il
male: ed è dal concorso di tutte queste volontà particolari che scaturisce la volontà totale,
allo stesso modo in cui, in meccanica, il movimento composto risulta da tutte le tendenze
che concorrono in uno stesso mobile, e soddisfa ugualmente a ciascuna, per quanto lo
consenta la loro simultanea presenza […]. (SagTeol I, 22)24
20
Delle difficoltà interne al sistema leibniziano (la libertà non diventa forse un’illusione?) è teste
emblematico il mito finale di Sesto che Pallade spiega a Teodoro. Cfr. SagTeol III, 413-417. «[…] Non è
difficile vedere il paralogismo che vi si cela: dapprima, situando tutte le possibilità sul piano delle
essenze, Leibniz otteneva che non vi si possa più variare nulla, perché tutto ciò che costì si trova è quello
che è, per definizione. Poi, ponendo un sottoinsieme di quelle essenze (mondo) sul piano dell’esistenza,
Leibniz osservava che a esso se ne potrebbe sostituire un altro, tanto o poco diverso. Però non c’è nessun
piano in cui le due assunzioni possano valere a un tempo. Lo scambio viene in luce non appena si chieda:
in che sede non ha senso variare un mondo, perché un mondo diverso è sempre un altro mondo? Ché
allora bisogna rispondere: sul piano delle essenze e su esso soltanto (dato il modo in cui quella
invariabilità è stata ottenuta). E se si domanda ancora: in che sede ha senso parlare di sostituire una cosa
al posto di un’altra? Ecco che bisogna rispondere: sul piano dell’esistenza, e su esso soltanto, poiché sul
piano delle essenze non c’è un “posto” che non coincida con l’essenza medesima. Non c’è, dunque,
nessun piano su cui il mondo possa essere sostituito, ma non variato. L’espediente a cui Leibniz si
affidava per dichiarare contingente (leggi: sostituibile) il mondo, benché neppure Dio possa variarlo senza
sostituirlo, consiste in un’illecita mistione tra ciò che vale per le essenze e ciò che vale per le esistenze»
(V. MATHIEU, La conciliazione di ragione e fede punto culminante della riflessione leibniziana, cit., 48s).
21
Cfr. SagTeol I, 20; ma anche: II, 263; II, 156; III, 288.
22
SagTeol I, 31. Sul male come conseguenza di una privazione cfr. anche SagTeol III, 378.
23
Si veda la famosa metafora del battello, in SagTeol I, 30. Cfr. anche la nota 183 alle pp. 473s
dell’edizione a cura di V. Mathieu e l’Obiezione V alle pp. 500 della stessa edizione.
24
«La volontà antecedente originaria ha per oggetto ciascun bene e ciascun male in sé, separati da
qualsiasi combinazione, e tende a favorire il bene e a impedire il male. La volontà media concerne le
combinazioni, come quando si unisce un bene a un male: così, per esempio, quando il bene supera il
male, la volontà avrà allora una qualche tendenza verso tale combinazione. La volontà finale e decretoria
risulta invece dalla considerazione di tutti i beni e di tutti i mali che entrano nella deliberazione: risulta
6
La bontà dell’agire di Dio si deve valutare in riferimento all’insieme e ad una
deliberazione che si produce sul piano ideale. Ma come può il modello meccanicofunzionale leibniziano dell’interazione delle volontà antecedenti dare conto delle
determinazioni al male sul piano ideale? Se Dio vuole antecedentemente il bene e
conseguentemente il meglio, in mezzo c’è solo l’imperfezione della condizione finita o
anche altro? La determinazione al male già posta sul piano ideale a quale atto fa
riferimento e a chi deve essere imputato?
Il male dipende da Dio; ma soltanto nel senso che Dio permette che passi
all’esistenza un mondo nel quale vi è anche il male, in quanto quel mondo è il migliore
possibile. Leibniz non si sofferma a considerare la libertà – nel suo esercizio sul piano
ideale – come un positivo che non può mancare all’optimum25. Egli ha sempre di mira
l’insieme (l’optimum è relativo all’armonia dei beni), la cui fisionomia è ricavata dalla
nostra esperienza (quindi a posteriori) di un mondo nel quale si fa appello al merito e
alla colpa; ma l’obiettivo è di fornirne una spiegazione a priori.
Ed è appunto in questo senso che Dio permette il peccato: egli infatti verrebbe meno a ciò
che deve a se stesso, alla propria saggezza, alla propria bontà, alla propria perfezione, se
non seguisse il grande risultato di tutte le sue tendenze al bene e se non scegliesse ciò che è
assolutamente il meglio, nonostante il male di colpa che vi si trova incluso in virtù della
suprema necessità delle verità eterne. Da tutto ciò bisogna concludere che Dio vuole tutto il
bene in sé antecedentemente, che vuole il meglio conseguentemente come fine, che talvolta
vuole l’indifferente e il male fisico come mezzo, ma che non vuole permettere il male
morale se non a titolo di sine quo non, o di necessità ipotetica, che lo lega al meglio. Per
questo la volontà conseguente di Dio che ha per oggetto il peccato non è che permissiva.
(SagTeol I, 25)
Il mistero del male e l’enigma della libertà sono risolti rinviando alla “suprema
necessità delle verità eterne”. La catena delle discolpe si applica all’interno di un piano
generale, nel quale si rileva una concomitanza tra l’obliterazione della drammaticità
dell’esistenza umana e la subordinazione della libertà di Dio ad un logos universale. Il
Dio di Leibniz, infatti, è un grande architetto, il quale, considerando tutte le azioni delle
creature ancora allo stato di pura possibilità, disegna saggiamente come un bel palazzo
(cfr. SagTeol I, 78; III, 247), confrontando le varie serie di cose possibili e decretando
l’esistenza della serie migliore26. Nel sistema dell’armonia generale (cfr. SagTeol III,
cioè da una combinazione totale.[…] Così il male, o la mescolanza di beni e di mali in cui il male prevale,
non avviene che per concomitanza, poiché è legato a beni più grandi che si trovano fuori di tale
mescolanza. La mescolanza dunque, o composto, non deve esser considerata come una grazia o come un
dono che Dio ci faccia: però il bene che vi si trova mescolato non cesserà per questo di essere un bene.
[…] […] Dire che Dio non debba dare un bene di cui sa che una cattiva volontà ne farà un cattivo uso,
quando invece il piano generale delle cose richiede che lo dia; o dire che debba dare mezzi sicuri per
impedirlo, anche se contrari a questo stesso ordine generale, significa (come ho già osservato) volere che
Dio stesso divenga degno di biasimo, per impedire che lo sia l’uomo. Obiettare, come si fa qui, che la
bontà di Dio sarebbe minore di quella di un altro benefattore che facesse un dono più utile, significa non
considerare che la bontà di un benefattore non si misura in base a un solo beneficio. Accade facilmente
che il dono di un privato sia più grande di quello di un principe, ma tutti i doni di quel privato saranno
assai inferiore a tutti i doni del principe. Così, non si possono stimare abbastanza i beni che Dio fa, se non
considerandone tutta l’estensione e rapportandoli all’intero universo» (SagTeol II, 119).
25
È quanto farà Kreiner…
26
Quindi non è una questione di duplice effetto, ma di meccanismo migliore. «Tutto è legato nella natura;
e se un abile artigiano, un ingegnere, un architetto, un accorto politico fanno spesso servire una medesima
cosa a più fini, se prendono due piccioni con una fava, quando ciò sia facilmente ottenibile, si può dire
che Dio, la cui saggezza e potenza sono perfette, lo fa sempre. […] Dio ha più di una mira nei suoi
progetti. La felicità di tutte le creature razionali è una degli scopi verso cui tende, ma non è affatto l’unico
né l’ultimo suo scopo. È per questo che l’infelicità di alcune di tali creature può prodursi per
7
360) ogni singola realtà è funzionale alla connessione del tutto27. «Dio vuole l’ordine e
il bene, ma talvolta accade che quello che è disordine nella parte sia ordine nel tutto»28.
Ogni decreto particolare, in rapporto ad una creatura o ad un evento preso a parte, non
lo è che in senso relativo: non è altro che il decreto universale considerato “da un certo
punto di vista”29. Nell’ordine combinatorio di Leibniz ogni singolare viene considerato
un particolare subordinato alle esigenze dell’insieme generale30.
Ne segue che il male che si trova nelle creature razionali non sopravviene che per
concomitanza: non in base a volontà antecedenti, ma in virtù di una volontà conseguente, in
quanto incluso nel miglior piano possibile. E il bene metafisico, che comprende tutto, è
causa del fatto che bisogna talvolta dare spazio al male fisico e al male morale […].
(SagTeol II, 209)
La sofferenza e il peccato trovano spiegazione adeguata nella condizione metafisica
della loro possibilità (la finitezza apprezzata sotto il profilo della limitazione) e la
responsabilità di Dio viene qualificata nei termini di una permissione, regolata da
ragioni superiori invincibili31. Quindi, permettere il male nel modo in cui Dio lo
permette è la più grande bontà (cfr. SagTeol II, 121). Dio non dà la felicità a tutti (Dio
non vuole la salvezza di tutti; cfr. SagTeol III, 282) – benché dobbiamo pensare che lo
voglia –, perché non si dedica interamente “all’affare corrente” (ovvero al singolo ed
alla sua unicità concreta; immaginarselo così, significherebbe per Leibniz peccare di
antropomorfismo), quanto piuttosto all’insieme dei beni maggiori (cfr. SagTeol II, 122),
nel quale il male entra solo per concomitanza32.
concomitanza, e come conseguenza di altri beni più grandi […].» (SagTeol II, 119). Cfr. anche II,194:
«[…] Ricordiamoci che l’universo non è fatto soltanto per noi».
27
Cfr. SagTeol I, 105; II, 202. «[…] Secondo i miei principi, tutti gli eventi individuali, senza eccezione,
sono conseguenze di volontà generali.» (SagTeol III, 241). Analoga risoluzione generalista del mistero
del male si rileva nello scientismo naturalista. Il parallelo non tradisce un comune difetto razionalistico?
28
SagTeol II, 128. Del resto, anche noi facciamo esperienza che una dissonanza inserita al punto giusto
dà risalto all’armonia. Cfr. anche SagTeol II, 145 («Niente impedisce che un certo male particolare sia
legato con ciò che, in generale, è il meglio»); II, 146; II, 161; Obiezione VII (che uno si trovi in
circostanze più favorevoli di un altro dipende dall’armonia universale).
29
Anche le sofferenze e i mostri fanno parte dell’ordine; cfr. SagTeol III, 241.
30
«On peut donc légitimement admettre des lois individuelles, régissant chaque monade, mais reflétant
toutes, d’un point de vue particulier, un système de lois d’ensemble constitutives du dessein divin incarné
dans l’univers créé. Ces lois sont évidemment celles de l’harmonie générale, celles d’une volonté
conséquente traduisant la combinaison optimale des volontés antécédentes relatives aux possibles,
aboutissant aux unités formelles de la nature. […] Les lois particulières potentielles se trouvent rattachées
dans chaque monde à un ordre combinatoire, sans doute exprimable en lois générales subsumant les lois
particulières de façon à constituer un «système général» possible, lequel est en quelque sorte le «plan» du
monde correspondant.» (F. DUCHESNEAU, Autonomie des âmes et devenir des corps dans les Essais de
Théodicée, in P. RATEAU [ed.], Lectures et interprétations des Essais de théodicée de G.W. Leibniz, [=
Studia Leibnitiana – Sonderhefte, 40], Steiner, Stuttgart 2011,107)
31
Cfr. SagTeol II, 114. «[…] Dio concorre moralmente al male morale – vale a dire al peccato – senza
essere l’autore del peccato e senza neppure esserne complice.» (SagTeol II, 107). «Egli fa ciò
permettendolo con ragione, e dirigendolo saggiamente al bene […]» (SagTeol II, 108). Cfr. anche
SagTeol I, 22.
32
Cfr. SagTeol II, 119; III, 335. «[…] La decisione migliore non sempre è quella che tende a evitare il
male, poiché è possibile che il male sia accompagnato da un bene più grande […]. Ciò è stato mostrato
più diffusamente nella presente opera, facendo anche vedere, mediante esempi tratti dalle matematiche,
che l’imperfezione in una parte può essere richiesta da una maggiore perfezione nel tutto. In questo ho
seguito l’opinione di sant’Agostino, il quale ha detto un’infinità di volte che Dio ha permesso il male per
trarne un bene, ossia un bene più grande; e quella di Tommaso d’Aquino (Scriptum super Sententiis, lib.
2, disto 32, q. 1, a. 1), il quale sostiene che la permissione del male tende al bene dell’universo. Ho
8
Ma allora dove nasce il male?
L’uomo è egli stesso la fonte dei propri mali: qual egli è, lo era già nelle idee. Dio, mosso
da ragioni inderogabili di saggezza, decretò che passasse all’esistenza tal quale era.
(SagTeol II, 151)
Abbiamo stabilito che il libero arbitrio è la causa prossima del male di colpa e, di
conseguenza, del male di pena, anche se è vero che l’imperfezione originaria delle creature,
che si trova rappresentata nelle idee eterne, ne è la causa prima e più lontana. (SagTeol III,
288)
E quanto alla causa del male, è vero che il diavolo è l’autore del peccato: ma l’origine del
peccato è più remota, la sua fonte risiede nell’imperfezione originaria delle creature: è ciò a
renderle capaci di peccare; e ci sono circostanze, nella serie delle cose, che fanno sì che
questa potenza sia messa in atto. (SagTeol II, 156)
Se la ratio del male è l’imperfezione originaria – e necessaria – delle creature, la
spiegazione viene raggiunta sul piano metafisico di un ordo e non di un atto. Salvo
ammettere (cfr. il brano citato da SagTeol II, 156) che si danno circostanze che fanno sì
che questa potenza iscritta nel limite creaturale venga attivata. Tali “circostanze” sono
storiche o si determinano previamente alla storia stessa? Sono riconducibili ad un
esercizio della libertà e imputabili ad una soggettività? Si tratta di interrogativi che
investigano lo statuto (solo apparentemente?) drammatico del male in rapporto alla
libertà come un originario33.
Non c’è bisogno di scienza infinita per vedere che la prescienza e la provvidenza divine
lasciano la libertà alle nostre azioni, dato che Dio le ha previste, nelle sue idee, così come
esse sono, vale a dire libere. […] Il decreto di far esistere una determinata azione non ne
muta la natura, non più di quanto lo faccia la semplice conoscenza che se ne ha. (SagTeol
III, 365).
Quando Dio produce la cosa, la produce come un individuo, e non come un universale della
logica (lo riconosco); ma ne produce l’essenza prima degli accidenti, la natura prima delle
operazioni, secondo la priorità della loro natura, e in signo anteriore rationis. Si vede di qui
in che senso la creatura possa essere la vera causa del peccato, senza che la conservazione
da parte di Dio lo impedisca: egli infatti si regola sullo stato precedente della medesima
creatura, per seguire le leggi della propria saggezza, nonostante il peccato che verrà
immediatamente prodotto dalla creatura. È vero però che Dio, all’inizio, non avrebbe creato
l’anima in uno stato nel quale avrebbe peccato fin dal primo momento, come hanno
osservato assai bene gli scolastici: infatti non c’è nulla nelle leggi della sua saggezza che
avrebbe potuto portarlo a ciò. (SagTeol III, 390)
È sul piano ideale dello stato precedente di ogni creatura (prima che Dio decreti di
crearla; cfr. SagTeol II, 181) e in rapporto alle limitazioni che essa racchiude (cfr.
SagTeol III, 377) che Leibniz situa l’origine del male. Si tratta di una determinazione
valida da tutta l’eternità (cfr. SagTeol III, 323), nella regione dei possibili (cfr. SagTeol
III, 350) o delle essenze, di cui Dio non è affatto l’autore (cfr. SagTeol III, 335).
L’unico vero fatum che fornisce le regole è l’intelletto divino, di cui Dio non è creatore
(cfr. SagTeol II, 191)34. Leibniz ammette che nel mondo che Dio ha fatto passare
mostrato che gli antichi chiamavano la caduta di Adamo felix culpa, un peccato fortunato, essendo stato
riparato con immenso vantaggio dall’incarnazione del Figlio di Dio, il quale ha donato all’universo
qualcosa di più nobile di tutto ciò che, altrimenti, avrebbero potuto contenere le creature.» (Obiezione I,
pp. 873-875). Cfr. anche SagTeol I, 10.
33
È ciò che rivendicherà Kreiner, ma semantizzandola a priori…
34
«Non ci si deve stupire che io cerchi di chiarire queste cose mediante paragoni tratti dalle matematiche
pure, nelle quali tutto procede con ordine e dove c’è modo di risolvere le questioni attraverso una
riflessione esatta, che ci fa godere, per così dire, della vista delle idee di Dio.» (SagTeol III, 242).
9
all’esistenza c’è del male e che sarebbe stato possibile fare un mondo privo di male o
addirittura non creare alcun mondo (cfr Obiezione I), però non siamo autorizzati a
concludere che Dio non abbia preso la decisione migliore. Il determinismo ideale di
Leibniz sviluppa una formidabile strategia di immunizzazione, ma a prezzo di una
riduzione intellettualistica e destoricizzante della libertà, di Dio e dell’uomo.
Abbiamo fatto vedere che la libertà, quale la si esige nelle scuole teologiche, consiste:
nell’intelligenza, che implica una conoscenza distinta dell’oggetto della deliberazione; nella
spontaneità, con la quale noi ci determiniamo; e nella contingenza, cioè nell’esclusione
della necessità logica o metafisica. L’intelligenza è come l’anima della libertà, e il resto ne
è come il corpo e la base. La sostanza libera si determina da se stessa, seguendo in ciò il
motivo del bene appercepito dall’intelletto, che la inclina senza necessitarla – e tutte le
condizioni della libertà sono comprese in queste poche parole. È bene tuttavia mostrare che
l’imperfezione che si trova nelle nostre conoscenze e nella nostra spontaneità, e la
determinazione infallibile racchiusa nella nostra contingenza, non distruggono né la libertà
né la contingenza. (SagTeol III, 288; cfr. anche III, 302)
Ora, poiché Dio non è autore del suo intelletto, e la regola del bene e del meglio gli è
essenziale perché proviene dalla sua natura con una forza paragonabile alla necessità
metafisica delle verità matematiche, l’agire di Dio appare sottomesso ad una
legislazione generale universale, ad una taxis nella quale la differenza tra Dio e gli
uomini è solo quantitativa e non qualitativa, dato che non si dà eccezione al principio di
ragion sufficiente. Dio non è altro che la Ragione, il grande calcolatore35, subordinato
ad un ordo che lo include36. L’originalità della libertà sembra ridursi all’ambito della
contingenza37, ovvero di ciò che in sé non è contraddittorio, dal momento che il rilievo
ontologico dell’attuazione libera è derivato da una necessità di tipo logico-matematico
(quindi rimane esterno – in quanto predeterminato – alla sua effettività). Al limite, il
35
«La saggezza di Dio, non contenta di abbracciare tutti i possibili, li penetra, li confronta, li pesa gli uni
con gli altri, per valutarne i gradi di perfezione o di imperfezione, la forza e la debolezza, il bene e il
male: essa si spinge anche al di là delle combinazioni finite, ne fa un’infinità di infinite, ossia un’infinità
di serie possibili dell’universo, ciascuna delle quali contiene un’infinità di creature; e, con questo mezzo,
la saggezza divina distribuisce tutti i possibili che aveva già esaminato a parte, in altrettanti sistemi
universali che confronta ancora tra loro. Il risultato di tutte queste comparazioni e riflessioni è la scelta
del migliore fra tutti quei sistemi possibili, scelta che la saggezza compie per soddisfare pienamente alla
bontà: e questo è esattamente il piano dell’universo attuale. Tutte queste operazioni dell’intelletto divino,
sebbene abbiano tra loro un ordine e una priorità di natura, avvengono sempre simultaneamente, senza
cioè che ci sia tra di esse alcuna priorità di tempo.» (SagTeol II,225). Cfr. J.A. NICOLAS, Le mal comme
limite du Principe de raison, in P. RATEAU (ed.), Lectures et interprétations des Essais de théodicée de
G.W. Leibniz, [= Studia Leibnitiana – Sonderhefte, 40], Steiner, Stuttgart 2011, 223.
36
«Fondamentalement, le principe de raison est à la fois un principe logique au sens large, comme une
règle universelle de recherche des vérités selon leur enchaînement, et un principe ontologique: Dieu,
raison de toutes les vérités, est lui-même une raison.» (M. FICHANT, Vérité, foi et raison dans la
Théodicée, in P. RATEAU (ed.), Lectures et interprétations des Essais de théodicée de G.W. Leibniz, [=
Studia Leibnitiana – Sonderhefte, 40], Steiner, Stuttgart 2011, 249). Nell’argomentazione leibniziana,
secondo cui la presenza effettiva del male si deve ad una regola di calcolabilità (si tratta di ottenere il più
grande bene possibile con il minimo di male inevitabile) non vi sono i prodromi del pragmatismo
contemporaneo? Cfr. J.A. NICOLAS, Le mal comme limite du Principe de raison, cit. 226.
37
«La contingence ne peut être connotée que négativement, en un double sens ontologique et moral: Dieu
ne choisit pas les vérités mathématiques, qui ont en elles-mêmes la raison entière de leur existence idéale,
mais il choisit ou non les vérités contingentes, qui deviennent réelles seulement grâce à son décret et qui
peuvent être autrement, parce qu’elles n’ont pas de raison absolue d’exister.» (G. MORMINO, La
contingence dans les Essais de théodicée de G.W. Leibniz: un réquisit de la liberté, in P. RATEAU (ed.),
Lectures et interprétations des Essais de théodicée de G.W. Leibniz, [= Studia Leibnitiana – Sonderhefte,
40], Steiner, Stuttgart 2011, 184).
10
contingente può essere assimilato all’accidentale38 e gli accidenti sono solamente
modificazioni della sostanza, momenti particolari dello sviluppo di una “legge di
serie”39.
4. Il razionalismo alla prova del male. L’argomentazione leibniziana si regge
sull’identificazione tra verità e ragione logico-formale. Ma è proprio questa
identificazione che la tematica del male mette in questione. Riallacciandoci agli
interrogativi già posti: se l’origine del male risiede nella condizione ideale della
creatura, su quel piano si consuma un dramma oppure la determinazione malvagia è
adeguatamente inferita dalla condizione metafisica della sua possibilità (ogni creatura,
infatti, anche quando è solo possibile, è comunque finita)? Se il rinvio alla condizione
metafisica della finitezza spiegasse esaustivamente l’esperienza del male, si dovrebbe
concludere che tutti i mali sono riconducibili ad un’unica condizione universale: non
essere come Dio. Allora, però, non si darebbe scampo a questa alternativa: o il male non
deve essere censurato come un’ingiustizia (quindi verrebbe dissimulato, perché il male
fisico sarebbe da ascrivere ad un difetto di comprensione ed il male morale da
considerare un perturbamento passeggero apparente40) oppure protestare contro chi non
ci ha fatti come lui, sfidando inutilmente un’impossibilità logica: la moltiplicabilità di
Dio.
Nella razionalizzazione leibniziana vediamo intrecciate la concezione della
soggettività di Dio nei termini di una funzione calcolante (l’imputazione del male a Dio
viene superata nel rinvio ad un piano generale, innervato su di una legge di necessità) e
la spiegazione ideale (an-istorica) della responsabilità umana. La soluzione della
problematicità del male avviene a priori. La forza analitica della conclusione è
direttamente proporzionale ad una concezione dell’effettività dell’esperienza come
modalizzazione accidentale dell’essenza. A questa soluzione oppone resistenza
l’esperienza del male compresa non a monte della sua datità fenomenologica. Ogni
prospettiva razionalistica è reificante, poiché non coglie che nell’evidenza del male il
punto di vista della soggettività è determinante41. Il fenomeno del male pone in
questione una relazione, dato che attiene ad un rapporto: quello tra il singolo soggetto
attestato nella sua unicità ed un ordine di giustizia percepito come violato (quindi un
ordine di relazioni percepito non come ciò che custodisce ma minaccia la mia unicità).
Il vissuto del male mette allo scoperto – rivelandola ferita – la relazionalità originaria
della quale il sé sempre vive, ma che qui patisce come lacerazione dell’alleanza
necessaria per vivere. Proprio perché l’esperienza del male riguarda il conflitto tra il
telos della mia autodeterminazione e le condizioni relazionali effettive della sua
38
Cfr. G. MORMINO, La contingence dans les Essais de théodicée de G.W. Leibniz: un réquisit de la
liberté, cit., 187. Anche secondo A. ECHAVARRIA, Leibniz’s concept of God’s Permissive Will, in P.
RATEAU (ed.), Lectures et interprétations des Essais de théodicée de G.W. Leibniz, [= Studia Leibnitiana
– Sonderhefte, 40], Steiner, Stuttgart 2011, 191-209, in Leibniz alla libertà spetta soltanto una causalità
per accidens.
39
L’accidente è un momento della serie, ma la sostanza è il principio della serie nella sua integralità e la
legge di questa serie è contenuta nella forma sostanziale o entelechia della sostanza individuale o monade,
che riflette l’armonia del miglior mondo possibile. Cfr. F. PIRO, L’action des créature set le concours de
Dieu chez Leibniz: entre transcréationistes et durandiens, in P. RATEAU (ed.), Lectures et interprétations
des Essais de théodicée de G.W. Leibniz, [= Studia Leibnitiana – Sonderhefte, 40], Steiner, Stuttgart 2011,
79-93.
40
Una ripresa ed un rafforzamento di queste tesi sono ravvisabili nel razionalismo di C. Wolff.
41
Riprendo qui alcune considerazioni già esposte in M. EPIS, Sulla “circolarità” di teologia e filosofia,
«Teologia» 37, 1 (2012) 62-66.
11
realizzazione pensare di venirne a capo su di un piano formale-essenziale
significherebbe sospendere la verità della libertà personale. La questione del male
troverebbe soluzione a prezzo dell’epoché dell’alveo relazionale della soggettività libera
e della storicità della sua realizzazione. Nel paradigma razionalistico della teodicea
viene fallito il piano del senso, perché all’interrogativo sulla bontà dell’essere nato (la
verità di me trova definizione a monte della mia determinazione?) e sulla speranza del
compimento possibile (è la questione della salvezza come questione del senso radicale
del dramma nel quale mi scopro posto come responsabile) verrebbe prospettata una
soluzione che rimane esterna all’effettività dell’attuazione storica della libertà42.
Condizione irrinunciabile per mettere a tema l’originarietà della libertà (pena una
dissimulazione del male come problema43) è di ripensare la forma propria del primato
della verità, precisando che solo se il nesso tra l’attuazione della mia libertà e la verità
incondizionata è originario trova legittimazione una indignazione e/o un pentimento nei
confronti del male. Riconoscere l’inclusione come originaria per un verso aggrava la
questione del male, perché impone di riconoscerlo nel suo rilievo ontologico proprio in
quanto chiama in causa un plesso di attuazioni libere (cfr. la radicale alternativa
buddhista).
Sotto il profilo teorico veniamo orientati ad un modello ontologico di tipo
drammatico (nel quale il primato dell’essere viene pensato istitutivo della libertà come
determinante il senso della verità) e non semplicemente essenziale. In una ontologia
della storicità, del senso dell’intreccio tra la libertà finita e l’origine che la abita – è su
questo intreccio che fa leva la problematica di teodicea – non è praticabile alcuna
semantizzazione a priori, poiché non può essere anticipato al dramma effettivo della
loro interazione. La deduzione all’altezza di una teodicea informata
fenomenologicamente è un’antropodicea, la quale nella non-esteriorità dell’ipseità
rispetto alla verità raggiunge la res teologica senza poterla predeterminare. Il tema del
male svela che la nominazione di Dio è inseparabile dalle condizioni di attestazione
dell’unicità personale, perché mette allo scoperto una originaria relazione non
simmetrica: la verità, che è istitutiva della libertà, la istituisce come capace di
determinare la verità.
Nello sviluppo dei Saggi di teodicea non manca il riconoscimento della scandalosità
del male e dell’importanza delle virtù (cfr., tra gli altri, SagTeol I, 9; I, 54); però
vengono subito dimensionati all’interno di una legalità preordinata come necessaria. Il
rilievo veritativo dello storico si riduce all’effettività di un virtuale44. Nella
razionalizzazione operata da Leibniz, la teologia naturale – ma meglio sarebbe dire: la
logodicea – elaborata dalla ragione calcolante45 ha il sopravvento sulla teologia
dell’evento di Dio46.
42
Il tema del male è generativo del discorso ontologico, proprio perché il regime del senso non si riduce a
determinazione regionale della metafisica, giacché costituisce la matrice della filosofia prima. Detto
altrimenti, nell’istruzione della metafisica dell’essere la questione antropologica è originaria e non trova
soluzione in via analitica.
43
«Le scandal de l’univers n’est pas la souffrance, c’est la liberté» (G. BERNANOS, Nos amis les saints, in
La liberté pourquoi faire? Recueil des conferences, Gallimard, Paris 1995 [ed. orig. 1953], 224).
44
«[…] Secondo il sistema dell’armonia prestabilita, l’anima trova in se stessa e nella propria natura
ideale, anteriore all’esistenza, le ragioni delle proprie determinazioni, regolate su tutto ciò che la
circonderà. Perciò essa era determinata da tutta l’eternità, nel suo stato di pura possibilità, ad agire
liberamente, come farà nel tempo, quando perverrà all’esistenza.» (SagTeol III, 323).
45
«[…] Je trouve que les hommes bien souvent n’emploient pas assez la raison pour bien connaître et
pour bien honorer l’auteur de la Raison. On envoie des missionnaires jusqu’à la Chine pour prêcher la
religion chrétienne, et l’on fait bien, mais […] il nous faudrait des Missionnaires de la Raison en Europe,
12
pour prêcher la Religion naturelle, sur laquelle la Révélation même est fondée, et sans laquelle la
Révélation sera toujours mal prise. La Religion de la raison est éternelle, et Dieu l’a gravée dans nos
cœurs […].» (G.W. LEIBNIZ, lettera All’elettrice Sofia, dicembre 1709; cit. in M. FICHANT, Vérité, foi et
raison dans la Théodicée, in P. RATEAU [ed.], Lectures et interprétations des Essais de théodicée de G.W.
Leibniz, [= Studia Leibnitiana – Sonderhefte, 40], Steiner, Stuttgart 2011, 262).
46
Ne dà conferma la comprensione di Gesù Cristo come maxima ratio della serie delle cose create. Cfr.
G.W. LEIBNIZ, Causa Dei (1710), § 49 (GP VI, 446/SF III, 410); tr. it. in G.W. LEIBNIZ, Scritti filosofici,
Utet, Torino 2000, vol. III, 410. Cfr. anche SagTeol I, 84. «Certamente mai una filosofia cristiana è
apparsa sulla scena con una pretesa così trionfale di totalità quanto il sistema che tutto sa e tutto pondera e
concilia di Leibniz, l’homo davvero universalis del barocco; egli è l’avvocato legale difensore di Dio e
del suo mondo che sostiene come in un tribunale la causa Dei. Lo splendore della sua forza di
penetrazione e della sua eloquenza speculativa irradia nella certezza della vittoria la gloria Dei, per la
quale egli combatte, in tutti i campi della filosofia e della teologia, della metafisica tramandata degli
antichi, dei padri della chiesa e degli scolastici, fino alla neoscolastica barocca, ed egualmente, anzi più
incisivamente in tutti i settori della moderna ricerca scientifico-naturale, matematica, fisica, biologica,
della tecnica, della scienza giuridica e storica, della politica europea, e naturalmente anche, e del tutto in
corrispondenza al suo pensiero universalistico, dell’ecumenismo ecclesiastico. Solo Hegel innalzerà
ancora per una volta una simile pretesa di universalità, ma Leibniz ha su di lui il vantaggio della
competenza anche nei campi della ricerca e della scoperta scientifica esatta. L’ethos di tutto questo suo
attivismo speculativo è l’illimitata affermazione di ogni (parziale) verità, il coraggio e la volontà per una
sua illacunosa integrazione.» (H.U. VON BALTHASAR, Gloria V. Nello spazio della metafisica. L’epoca
moderna [1965], Jaca Book, Milano 1991, 419s). «Questo trionfalismo nella difesa di Dio contro ogni
possibile obiezione da parte delle sue creature corrisponde pienamente all’apriorismo filosofico il quale –
presumibilmente senza rischio per la libertà divina e umana – ricostruisce il mondo nello spirito divino
(tra l’intelletto di Dio e la sua volontà) in base a eterne necessità.» (Ivi, 426). «Questo “protezionismo”
autarchico, questa situazione di “non-esponibilità” dell’esistenza conferisce alla “coscienza della gloria”
di Leibniz un carattere di intangibilità da parte di qualsiasi elemento tragico.» (Ivi, 427). «Come nella
concezione sacralistica del primo medioevo Leibniz costruisce un ostensorio grandioso, ma ciò che
dovrebbe mostrare nel suo centro, la notte della Passione, vi manca.» (Ivi, 429). Per riprendere una
classificazione ancora balthasariana, Leibniz rimane nella prospettiva di una “riduzione cosmologica”.
Cfr. H.U. VON BALTHASAR, Glaubhaft ist nur Liebe, Johannes Verlag, Einsiedeln 1963, 16.