Maddie Dawson

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Maddie Dawson
Maddie Dawson
Non c’è niente
che non va,
almeno credo
Traduzione di
Roberta Zuppet
Titolo originale:
The Opposite of Maybe
Copyright © 2014 by Maddie Dawson
All rights reserved
Edizione pubblicata in accordo con l’agenzia letteraria Silvia Donzelli
Questa è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a fatti e persone realmente esistiti
è puramente casuale.
Fotografia in copertina: elaborazione digitale da
© Pawel Wewiorski/Flickr RF/Getty Images
© Shutterstock / Flas100
http://narrativa.giunti.it
© 2014 Giunti Editore S.p.A.
Via Bolognese 165 – 50139 Firenze – Italia
Piazza Virgilio 4 – 20123 Milano – Italia
ISBN 9788809802100
Prima edizione digitale: settembre 2014
Presentazione
Il libro
Non c’è niente che non va,
almeno credo
È sabato mattina e Rosie e Jonathan sono a letto in un momento di intimità, quando
il telefono inizia a squillare senza tregua. Sul display compare un numero
sconosciuto. Ancora non sanno che quella telefonata di per sé insignificante
manderà all’aria tutta la loro vita. Più che quarantenni, Rosie e Jonathan sono gli
unici fra i loro amici a non aver messo su famiglia e a vivere da eterni fidanzati in
un quadrilocale che sembra arredato da due studenti. Impossibile immaginare che a
pochi giorni da quel sabato Jonathan si inginocchierà davanti a Rosie chiedendole
di sposarlo e seguirlo in California! La prima a storcere il naso di fronte
all’improvvisa proposta è l’energica nonna Soapie: sognatrice, anticonformista,
irriverente, Soapie ha sempre spronato Rosie a osare nella vita, a coltivare le sue
passioni e seguire i suoi desideri. Per questo non capisce cosa spinga la nipote
sull’altra sponda dell’ oceano, dietro a un ragazzotto con la passione per le tazzine
di porcellana. Ma il destino è sempre pronto a stuzzicarci e quando Rosie sarà
messa di fronte a un’altra scelta cruciale, dovrà per forza decidere quale partita
giocare. Perché la grande regola della vita è che non è mai troppo tardi per
correggere il tiro e la felicità è sempre più vicina di quanto immaginiamo. Basta
ricordarselo. Ironica e toccante, comica e commovente, Maddie Dawson ha scritto
un altro romanzo così intenso e vero da volerlo vivere.
L’autore
Maddie Dawson
Maddie Dawson vive in Connecticut con la sua famiglia. Il suo romanzo
d’esordio, Facciamo finta che non sia successo niente (Giunti 2011), è stato un
bestseller che ha scatenato un irrefrenabile passaparola, conquistando lettrici di
tutte le età. Il libro, ristampato più volte, ha riconfermato il suo successo anche
nelle numerose edizioni in formato tascabile.
Per altre notizie sull’autore:
http://www.giunti.it/autori/maddie-dawson/
Dicono del libro:
http://www.giunti.it/libri/narrativa/non-c-e-niente-che-non-va-almeno-credo/
Altri titoli in collana:
http://www.giunti.it/editori/giunti/a/
A Jim, per sempre.
Uno
Sabato mattina, mentre stanno facendo l’amore – in realtà hanno quasi finito, ma il
traguardo non è così vicino da ritenersi già arrivati – il telefono comincia a
emettere degli squilli assordanti proprio accanto alle loro teste.
Jonathan, steso sopra di lei con il volto contratto in una smorfia che preannuncia
l’estasi, la bocca che sussurra ancora il suo nome («Rosie, Rosie, Rosie…»), si
ferma di colpo. I suoi occhi incrociano il telefono sul pavimento accanto al
materasso; lei dice: «Oooh, no, non farlo». Scoppiano in una risata. Tutti e due
sanno benissimo che non può farne a meno.
«No, no, no!» Rosie lo stringe più forte, continuando a ridere. «Non ora. Non
alzarti per vedere chi è.»
«Ma devo» ammette Jonathan, mortificato.
«Ma perché? Tu odi il telefono. E sai già che comunque non risponderai.»
«Sì, ma devo sapere chi è.» Si morde il labbro e la guarda imbarazzato. «Dài,
fammi dare un’occhiata.»
«D’accordo. Va’ pure, zuccone. Ma torna, mi raccomando.»
Jonathan si sporge dal bordo del materasso, rischiando di cadere sul pavimento a
testa in giù, avviluppato nelle lenzuola. Ridendo, cerca di ritrovare l’equilibrio,
gattonando finché non riesce a uscire dal groviglio e ad alzarsi.
Il sesso come spettacolo comico, pensa Rosie. Ecco una cosa che non ti dicono
mai sulle relazioni a lungo termine: che moriresti di vergogna se ti mostrassero un
video di te mentre cerchi di avere un normalissimo rapporto sessuale in un giorno
qualsiasi, convinta che ne valga comunque la pena.
Jonathan recupera gli occhiali e controlla chi ha chiamato sul display, grattandosi
distrattamente i peli sulla pancia. La settimana scorsa ha compiuto quarantacinque
anni e, quando sono usciti a cena per festeggiare con gli amici, ha dichiarato –
durante uno dei tanti brindisi – che ormai era ufficialmente diventato vecchio.
(Rosie, che ha solo un anno in meno, si è stupita nel sentirglielo dire.) Alzando il
bicchiere, ha annunciato ridendo che stava perdendo la vista, i capelli, gran parte
del suo ottimismo e, ormai, anche l’ultimo briciolo di vanità.
Ora, osservandolo mentre si sfila con noncuranza il profilattico ciondolante,
lanciandolo verso il cestino della spazzatura dall’altra parte della stanza, Rosie ha
il sospetto che forse dicesse sul serio.
Il preservativo disegna un arco a mezz’aria e atterra sul paralume sopra il comò.
Se fosse stato un ginnasta, il giudice russo gli avrebbe dato un bel nove: atterraggio
impeccabile.
Rosie studia il volto di Jonathan. È ancora bello, checché ne dica. Ha i capelli
castani – okay, cominciano a diradarsi un po’ e sono striati di grigio – ma la sua
faccia liscia e abbronzata non ha neanche l’ombra di una grinza, solo qualche lieve
ruga intorno ai grandi occhi marroni, che in questo momento guardano torvi il
telefono. Ecco il problema, pensa Rosie: da due anni sembra sempre insoddisfatto.
Forse è questo che intendeva dire alla festa di compleanno: che la vita non gli piace
più come un tempo.
«Non era Soapie, vero?» Rosie, più tardi, deve andare a trovare sua nonna, e non
si stupirebbe se lei telefonasse all’ultimo minuto per cambiare programma. In
particolar modo perché oggi è il giorno in cui affronteranno il Grande discorso, la
conversazione, rimandata per troppo tempo, sull’opportunità di assumere una
badante. Di nascosto, Rosie ha persino convocato una potenziale candidata:
un’affabile signora britannica che al telefono ha affermato di saper trattare con le
«donne di una certa età», per citare le sue parole. Perciò è tutto organizzato e non
ci sono pretesti che tengano.
«No» dice Jonathan. «Il colpevole è un certo Andres Schultz, prefisso 619. Lo
conosci?»
«No. Non era per me.»
«Vediamo… 619… è… mmm… San Diego.»
«Oh mio Dio. Conosci veramente tutti i prefissi? Sul serio?»
Certo che li conosce. Ha sempre avuto un debole per i numeri. È anche un
collezionista di tazze da tè antiche – quelle provenienti dalle dinastie asiatiche ed
europee, non dai servizi giocattolo delle bambine – ed è in costante contatto con gli
appassionati di tutto il mondo. In effetti esiste un’intera subcultura di maniaci
fissati come lui, sempre su Internet a confrontare, a scrivere sui blog, a giudicare
quali collezioni siano le più complete e le più belle, e a spettegolare su chi ha
ottenuto una recensione sulle riviste di settore. Un mondo di cui Rosie non aveva
mai immaginato l’esistenza.
Ormai la chiamata è stata dirottata nel cosmo della segreteria telefonica, ma
Jonathan resta lì, aspettando di vedere se la spia si accende. Quando non succede,
dice: «Merda. Nessun messaggio. Chi può essere questo tizio?».
«Be’, potrebbe aver sbagliato numero.» Rosie sospira. «Ma perché non richiami
e lo scopri, così possiamo andare avanti con la nostra vita?»
«No. Non voglio parlargli. Faccio solo fatica a credere che qualcuno di San
Diego chiami qui alle nove e mezzo di sabato. Lì sono le sei e mezzo del mattino.
Cosa gli è saltato in mente?»
«Non ne ho idea. Ma vuoi sapere cos’è saltato in mente a me?»
«Cosa?»
«Che vorrei che tu e il tuo dolce corpo peloso tornaste qui a fare sesso con me.»
Lui fa una smorfia. «Temo che il ragazzo adesso sia troppo concentrato sulle
tazze da tè, e sai che quando è così…»
«Oh, posso fargli cambiare idea.» Rosie sfila un piede da sotto il lenzuolo e
muove le dita, sorridendo.
«Be’, un tempo, forse, ma ultimamente è diventato più capriccioso. In più…
ecco, francamente deve fare pipì.» Aggrotta le sopracciglia, guarda prima il
telefono e poi lei. «Sai che ti dico? Faccio una bella chiacchierata con lui e poi
vediamo che intenzioni ha.»
«Ricordagli che di solito gli piace questo genere di cose.» Rosie osserva il
fondoschiena sodo di Jonathan che scompare dietro l’angolo della porta. Lui
canticchia Born to Run, che negli ultimi tempi è la sua canzone preferita per la pipì
mattutina.
«Ehi, sai una cosa?» urla dal bagno. «Scommetto che questo Andres Schultz ha
risposto alla mia richiesta di un’altra tazza della dinastia Ming. Potrebbe essere una
buona notizia.»
«Fantastico.»
Hanno trentotto tazze impilate in salotto, conservate in scatole bianche: tazze che
non rivedranno mai più la luce del giorno. A quanto pare vanno protette dal sole,
dalla polvere e dalle dannosissime correnti d’aria, se si vuole che durino per
l’eternità. Senza dubbio Jonathan e i tipi bizzarri con cui è in contatto via mail
stanno salvando il mondo dal problema dell’estinzione delle tazze da tè.
Come Rosie ha spiegato agli amici, ogni volta che Jonathan si dedica a un nuovo
hobby diventa un po’… qual è il termine clinico?… oh sì, matto da legare. Prima i
cimeli di Bruce Springsteen, poi i numeri del National Geographic e infine una
breve incursione nei bicchierini da liquore tedeschi.
Strano che non si notino le prime avvisaglie e che, dopo un po’, sembri una cosa
del tutto normale. Come sostiene la sua amica Greta, quando stai con una persona
da anni, tutte le sue piccole manie cominciano a fondersi con i pregi e, anche se ti
irritano, scopri di amare ancora il pacchetto completo.
Comunque, Rosie pensa che sarebbe stato meglio ricordarsi di staccare il
telefono.
Jonathan torna e si infila di nuovo a letto, nudo ma con il laptop in mano.
Evidentemente ha deciso “basta sesso”. Pazienza. Tanto è ora di alzarsi e di fare un
po’ di ginnastica, di prepararsi per la giornata e per Soapie.
«Fammi solo vedere se Andres Schultz compare sulla nostra mailing list. Perché
la domanda è: come mai non l’ho mai sentito nominare? Se ha il mio numero, è
logico concludere che…»
«Jonathan.»
«Sì?»
«Credi che la nonna mi mangerà viva quando le dirò che deve assumere una
badante? Perché io temo di sì.»
È l’ennesimo caso in cui sarebbe meraviglioso se sua madre fosse ancora viva.
Sarebbe lei a pianificare tutto e a sobbarcarsi parte delle preoccupazioni. Ma è
morta quando Rosie aveva tre anni, e fu allora che lei andò a vivere con Soapie.
Jonathan, impegnato a picchiettare sui tasti, non risponde subito. «No, è anziana»
dice alla fine. «Sa che ha bisogno di aiuto.»
«Sì, ma nega la realtà.»
È vero che Soapie ha ottantotto anni, ma fino a poco tempo fa era una vecchietta
molto arzilla, che andava dal parrucchiere due volte la settimana e frequentava le
terme. Non le era mai venuto in mente che sarebbe potuta invecchiare. È ancora
impegnata a scrivere il suo ultimo libro con lo pseudonimo “Diva degli strofinacci”
per insegnare all’America come mantenere i frigoriferi immacolati e i ventilatori a
soffitto senza polvere. E si ostina ancora a imprecare, a truccarsi e a indossare
négligé, a fumare e forse persino a bere, anche se l’hanno supplicata di smettere.
È solo negli ultimi mesi che ha cominciato a peggiorare e a dimenticare le
piccole cose: quando spegnere il fornello, dove ha messo le pillole per la pressione
e perché le chiavi sono nel frigorifero. Ci sono anche altri disturbi: osteoporosi,
calo della vista, bronchite, attacchi di tachicardia che di recente l’hanno fatta finire
più volte al pronto soccorso. E Soapie, com’era prevedibile, ha reagito con
indignazione quando ha scoperto di essere fatta della stessa materia degli altri
esseri umani: ossa, vasi sanguigni e capillari che si rompono e impazziscono.
«Vuoi sapere cosa penso?» continua Jonathan, sempre digitando. «Che sarà
sollevata. Probabilmente in cuor suo è spaventata dalle cadute degli ultimi tempi e
vuole che qualcuno le proponga di farsi aiutare. Andrà tutto bene, vedrai. Meglio
di quanto immagini.»
Si sbaglia, naturalmente, ma è un pensiero gentile. «Spero solo che non maltratti
troppo la badante. Mi è sembrata una gentile e istruita signora inglese. Si chiama
Cynthia Lamb.»
«Lamb, come agnello? Forse avresti dovuto scegliere la signora Lions and
Tigers.»
Rosie gli accarezza il braccio. «Hai trovato Andres Schultz nella mailing list?»
«No. Nessuna traccia di lui.»
«Allora che ne dici di…?»
«Cosa?»
«Lo sai. Fare sesso.»
Un silenzio, poi: «D’accordo. Penso di poter fare qualcosa». Chiude il laptop e lo
posa sul pavimento, quindi si toglie gli occhiali. «Sveglia, ragazzo! All’attacco!»
Rosie lo cinge con le braccia, e Jonathan comincia a baciarle pigramente la
guancia. Ma non è molto piacevole perché, non essendo ben allineati, il suo grosso
mento ruvido le graffia il viso, e inoltre lui comincia a strofinarle la schiena come
se stesse pulendo un pesce.
«Fermati un attimo. Fermati» dice Rosie.
«Sei tu il comandante, qui?» Alza la testa e la guarda.
«A cosa stai pensando?»
«Vuoi la verità?»
«Sì.»
«Be’, a essere sincero» risponde con una risatina imbarazzata «stavo pensando
che quando avremo finito cercherò Andres Schultz su Google.»
Rosie gli toglie le braccia dal collo.
«Hai detto che volevi la verità!» protesta Jonathan. «Non puoi dire che vuoi la
verità e poi arrabbiarti.»
«Sai, è magnifico stare così bene insieme da poter sopportare tutte queste
assurdità: cadi dal letto come un sacco di patate, cerchi le persone su Google e
lanci preservativi per la camera, ma ogni tanto, solo ogni tanto, non sarebbe carino
se tornassimo a essere… romantici?» Gli sfiora l’orecchio, il piccolo lobo morbido.
«Il romanticismo è sopravvalutato. A volte c’è, altre no. Abbiamo l’allegria e la
concretezza, che alla lunga sono molto meglio.»
«Lo so. Ma non possiamo avere anche quello? Una volta ci riuscivamo. Suonava
il telefono e non ci facevamo caso. Ricordi?»
«Non c’è niente che non va. La vita funziona così quando si raggiunge la mezza
età.»
«Lo so, e non voglio che tu mi fraintenda, ma non hai mai paura di fare la fine di
tutte le altre coppie che conosciamo? Joe e Greta controllano la posta elettronica
mentre fanno sesso, e probabilmente è per questo che lei vuole ucciderlo.»
Greta è la migliore amica di Rosie da quando erano bambine; in seconda
elementare si sono fatte una promessa: da grandi, se si fossero sposate, anche i loro
mariti sarebbero stati migliori amici. Chi avrebbe immaginato che sarebbe
successo davvero? E invece è successo. Nel loro gruppo ci sono altre due coppie:
Lynn e Greg, Suzanne e Hinton. Vanno in vacanza insieme e si invitano a cena
ormai da anni.
Ma il punto è questo: anche se sono tutti coetanei, gli altri si sono riempiti la vita
con quelli che Jonathan chiama gli «sgradevoli orpelli dell’età adulta»: case
lussuose, SUV, portafogli azionari, trattorini tagliaerba, nidiate di bambini e bisticci
familiari in quantità.
Jonathan e Rosie sono l’eccezione, i ragazzini folli che non si sono mai presi il
disturbo di crescere e di sposarsi. Gli altri li prendono in giro dicendo che
sembrano artisti hippy e che passano il tempo dormendo fino a tardi, facendo sesso
come conigli e consumando pasti classificabili come merende o spuntini di
mezzanotte. Il loro quadrilocale ha ancora un arredamento che Rosie definisce «da
matricole universitarie»: librerie di mattoni e assi, un divano e un tavolo Ikea,
grossi pouf, tappetini e poster alle pareti. È accogliente e confortevole, ha un
giardino sul tetto e una splendida vista sul fiume e, sì, sono felici lì dentro, ma più
di una volta Rosie ha dovuto difendersi dagli altri, come se lei e il suo compagno
non si fossero impegnati abbastanza per andare avanti. No, no, ha spiegato: questo
stile di vita è una scelta voluta. Non è stato per pigrizia o per caso se non si sono
sposati e non hanno cominciato a collezionare soprammobili d’argento, fondi
d’investimento e bambini.
Ogni tanto non può fare a meno di precisare che lei e Jonathan lavorano sodo, e
non solo nel campo artistico. Anche se all’inizio Rosie ha avuto un successo
straordinario e si è vista pubblicare alcune poesie sulle riviste, insegna da anni
composizione al college e tiene corsi d’inglese per adulti.
Quanto a Jonathan, una volta è stato un vasaio promettente – con tanto di premi,
riconoscimenti e recensioni sul New York Times. Viaggiavano nei week-end e in
estate per andare alle mostre d’arte e alle fiere dell’artigianato ed esporre le sue
opere in tutto il Paese. Ma da cinque anni almeno non è stato più ammesso ad
alcuna delle mostre prestigiose a cui aveva sempre partecipato, e lo shock di quei
rifiuti ha lasciato un segno indelebile. Rosie l’ha visto cadere in depressione. Lui
non la chiamava così, ovviamente; usava l’espressione «scontro con la realtà». Ha
detto che avrebbe preferito avere l’assicurazione sanitaria e la previdenza sociale
piuttosto che il genio creativo, perché in fondo era solo una sciocchezza. Ha
accettato un posto in una fabbrica di ceramiche che vende per corrispondenza,
dove produce statuette disegnate da altri.
Qualche mese dopo ha scoperto il mondo delle tazze da tè e ha cominciato a
collezionarle. Un surrugato mediocre, secondo Rosie: file e file di belle scatole
ordinate in salotto, invece del caos geniale di argilla bagnata e della luce negli
occhi di Jonathan. Hanno smesso anche di viaggiare; niente più vagabondaggi in
Messico, niente più campeggi.
Non avrebbe mai creduto che le cose sarebbero andate in questo modo, che
l’amore di Jonathan per gli oggetti ricavati dall’argilla, che puoi modellare,
trasformare con le mani, avrebbe ceduto il passo alla semplice ricerca di vecchi
manufatti non modificabili. Rosie gli ripete che, quando lui non è a casa, le tazze le
chiedono di farle uscire, la supplicano di poter sentire ancora l’aroma corroborante
del tè o il calore delle labbra umane sul bordo. Una volta gli ha detto di averne
sentita una che implorava anche solo una bustina di Lipton.
«Sei gelosa di loro, vero?» ha affermato Jonathan in un’occasione, e non stava
scherzando. «Credo che tu le veda come rivali.»
«Sì, sono piccole Lolite. Trentotto piccole Lolite. Uno di questi giorni tornerai a
casa e le troverai tutte sul tavolo, in attesa di essere ammirate e accarezzate.»
«Per favore, non dirlo nemmeno per scherzo.»
Rosie lo guarda, ora, soffermandosi sul profondo solco tra le sue sopracciglia,
sulle pieghe sotto gli occhi e sulle labbra arricciate in una leggera smorfia di
disapprovazione. La vita di Jonathan è un gigantesco NO. E cosa succederà se a
unirli non ci sarà più neanche il sesso?
«Vuoi alzarti e andare a fare colazione?» propone Rosie.
Forse lui percepisce qualcosa nella sua voce, perché risponde: «Non ancora.
Voglio fingere di essere nel passato e di non avere idea di cosa siano i telefoni con
display o Google». Striscia sopra di lei e la guarda negli occhi, prendendole la testa
tra le mani delicate.
«Impossibile…» fa Rosie, ma lui le copre la bocca con le labbra e le dà un bacio
lungo, lento, inaspettato e, dopo tanti anni di esperienza e di abitudine, il pilota
automatico entra in funzione e in qualche modo, nonostante tutto, i ritmi familiari
riprendono il loro corso.
Jonathan va a prendere l’olio profumato, e l’aria si riempie della fragranza di
rose e limoni mentre le massaggia la schiena. Le sposta i lunghi capelli castani, si
china e le bacia le guance, il collo e il suo punto preferito vicino alla clavicola ed
entrambi si lasciano trasportare da una passione sonnacchiosa.
Alla fine rimangono sdraiati in silenzio, toccandosi, guardando il sole che filtra
dalla finestra e che in questa stagione comincia a catturare gli scintillii del fiume
proiettando motivi ondulati sul soffitto. Nei prossimi mesi, prevede Rosie, la luce
diventerà più intensa e si sposterà sul lato opposto, muovendosi e rimbalzando
sulla scia delle barche che arriveranno. Sarà passato un altro anno.
«Oh mio Dio.» Jonathan si alza a sedere. «Oh-oh. Sai cos’è successo? Ho
dimenticato di mettermi un altro preservativo.»
Sul soffitto, i motivi ondulati tremolano. «L’hai dimenticato? Come hai potuto?»
Ma Rosie conosce già la risposta. Non è abituato. Lei usa quasi sempre il
diaframma, ma un paio di settimane fa, mentre lo lavava, ha notato che era bucato.
E non essendo riuscita a farsi dare subito un appuntamento dalla ginecologa,
Jonathan ha detto che nel frattempo avrebbe ripiegato sui profilattici.
Lo fissa sgomenta.
«Be’, l’abbiamo dimenticato» precisa lui. «Avresti potuto ricordarmelo.»
C’è una cosa che lei dovrebbe fare in un momento come questo: uscire a
procurarsi la pillola del giorno dopo o roba del genere. Ma davvero deve alzarsi e
correre dal medico? Ha cose più importanti da fare. Jonathan la guarda,
mordendosi il labbro e aspettando il verdetto.
«Penso sia tutto a posto» dice Rosie un attimo dopo. «Uno dei vantaggi di essere
così vecchia è che il rischio di restare incinta è molto basso.»
«Perché? Quando arriva la menopausa?»
«Oh, quando vuole. Le mestruazioni stanno cominciando a fare le bizze. Credo
di essere già sulla buona strada.»
«Ma non sei sicura?»
«Non si è mai sicure. Le mestruazioni sono imprevedibili. Fanno quello che
vogliono.»
«Non so come facciate voi donne.»
«Noi? Io invece non capisco come voi uomini sopportiate quel coso che vi
penzola davanti. È molto peggio.» Lo guarda e sorride. «Oh, al diavolo. Alziamoci
e andiamo a fare colazione. Okay?»
«Okay. Prima posso cercare Andres Schultz su Google?»
«Devi proprio?»
Jonathan sorride e lei capisce quanto sia importante per lui la possibilità che la
tazza numero trentanove lo stia aspettando a San Diego, che in questo preciso
istante sia in una scatola bianca destinata a unirsi alle altre in salotto.
Sta per dirgli di sì, di cercare Andres Schultz, ma non è necessario. «Hai ragione.
Posso aspettare» ammette Jonathan. «Andiamo a mangiare.»
Due
Arrivati ai piedi della collina si sono accomodati al Ruby’s Café nel solito
confortevole séparé, con le tazze e le pagine del New York Times sparse
tutt’intorno, Rosie non riesce a trattenersi: «Saresti disposto a venire con me da
Soapie oggi pomeriggio? Potresti conoscere la signora Lamb e assistere al suo
provino. Potrebbe essere divertente».
«Rosieeeee» risponde con una smorfia. «Ho da fare. Sono un uomo impegnato.»
«Dài. Ogni tanto dobbiamo pur fare fronte comune. È una questione di famiglia.»
È ingiusto. Jonathan viene da una famiglia molto numerosa, con un esercito di
persone con cui condividere i fardelli della vita: una madre, zie, zii, cugini, fratelli
e sorelle, che lo chiamano ogni volta che ne hanno voglia. Lei ha solo questa
vecchia signora. Lui schiva continuamente le telefonate dei fratelli, che non fanno
che vantarsi dei loro macchinoni, e schiva quelle della madre, che ama snocciolare
teorie sulla vita e sulla morte e blaterare all’infinito sui divorzi delle celebrità.
Jonathan sostiene che la famiglia è il vero motivo per cui è stato inventato il
telefono con display.
A un tratto una bambina dai capelli ricci, con un tutù rosa, si materializza
accanto a Rosie e le porge una bambola e un mirtillo mezzo schiacciato.
«Voglio sedermi vicino alla vetrina» annuncia.
Sorpresa, Rosie la solleva e la posa sul cuscino accanto al vetro. Dall’altra parte
della sala, la madre si alza e chiede muovendo solo la bocca: «È un problema?».
Rosie sorride e le fa segno di no, accorgendosi all’improvviso che il locale è
affollato di giovani famiglie. I neonati nelle carrozzine sono infilati in ogni spazio
libero, i bambini spuntano fuori da zaini e seggioloni, le giovani coppie, che fanno
del loro meglio per avere tutto sotto controllo, si passano i bebè avanti e indietro
sopra i tavoli.
«Gesù, è come se servissero bambini a colazione» commenta Jonathan. «Sta’
attenta a cosa ordini. Credo che interpretino la parola “uovo” nel senso di “cellula
riproduttiva”.»
La bambina alza gli occhi e batte le mani. Sul naso ha una macchia che potrebbe
essere di sciroppo.
«Sei molto carina, sai?» dice Rosie.
Jonathan scuote la testa e sussurra: «È lei quella che vogliono rifilare a noi? Non
possiamo nemmeno scegliere?».
«Shhh, è adorabile.»
«Ma potrebbe avere qualche difetto. Guarda la macchia sul naso.»
«Vuoi smetterla una buona volta? È sciroppo.» Rosie ride e pulisce la macchia
con l’angolo del tovagliolo.
Lui corruga la fronte e guarda la piccola come se fosse un animaletto selvatico.
«Che ne dici di fare solo una breve apparizione, Jonathan? Entri ed esci. Dici
buongiorno, sorridi alla signora Lamb, le auguri di essere assunta e te ne vai»
continua Rosie.
«Ho un milione di cose da fare, oggi. Lavoro tutta la settimana e il sabato…»
«Cosa? Continua.»
Lui tace per un istante, fissando con desiderio le pagine del giornale sparpagliate
sul tavolo. Hanno un sistema ingegnoso per dividersi il Times ogni settimana, un
metodo perfezionato nel corso degli anni; Rosie intuisce che Jonathan sta cercando
furtivamente la rubrica di moda per mettergliele davanti e tapparle la bocca, in
modo da continuare a leggere indisturbato i suoi preziosi articoli d’arte. Appoggia
la mano sul giornale e lo guarda negli occhi. Alla fine Jonathan si schiarisce la
voce e dice: «No, no, no. Non intendo farmi coinvolgere in una negoziazione in cui
io espongo i miei programmi e tu decidi che non sono importanti».
«So già cosa farai oggi. Cercherai Andres Schultz su Google e poi scriverai sul
tuo blog. E no, non è importante quanto gli esseri umani, Jonathan. Dobbiamo
essere uniti ogni tanto. Abbiamo delle famiglie, sai.»
«Io mi chiamo Lima» interviene la bambina alzandosi sulle ginocchia e tirandole
la manica. «E tu?»
«Lima?» ripete Jonathan a bassa voce. «Lima? Davvero? Come l’attrezzo da
falegname?» Straluna gli occhi e bisbiglia: «Hai sentito? Da quando in qua le
persone chiamano i figli come gli utensili?».
«Shhh. I suoi genitori sono laggiù.»
«Appunto. Abbiamo forse l’aria di baby-sitter disoccupati o roba del genere?
Forse dovremmo andare a comunicargli la nostra tariffa oraria.» Si rivolge alla
bambina. «Per caso hai un fratello che si chiama Martello?»
Lei si mette le dita in bocca e scrolla il capo.
«Prima o poi arriverà, aspetta e vedrai.» Il cellulare squilla nella tasca e Jonathan
lo estrae ma, prima di aprirlo, lo allontana leggermente per controllare il display. Si
illumina in volto. «Pronto? Sì, sono Jonathan Morrow.» Si china e sussurra a
Rosie: «Andres Schultz». Poi prende la tazza di caffè ed esce. Lei lo osserva dalla
vetrina mentre cammina avanti e indietro, aggrottando le sopracciglia e
gesticolando.
Ruby compare con due piatti di uova al tegamino e la madre di Lima va a
recuperare la figlia.
«Spero che suo marito non si sia scocciato.» È così giovane e carina che potrebbe
essere Sandrine, la figlia di Greta. Rosie rimane sbalordita per un istante
rendendosi conto che le sue amiche hanno figli quasi in età per essere genitori a
loro volta.
Quando Jonathan torna, qualche minuto dopo, è così rosso in volto che sembra
aver preso troppo sole. Si siede al tavolo sollevando meticolosamente la forchetta,
come se si stesse sforzando di non tremare.
«Allora?» domanda Rosie. «Andres Schultz ha la tazza della dinastia Ming che
renderà la nostra vita su questa terra degna di essere vissuta?»
«No.» Beve un sorso di caffè e si piega in avanti. «In realtà, Rosie, sta per aprire
un museo a San Diego. Partendo da zero.»
«Oh.» È ancora più noioso.
«No, no. Fammi finire. Vuole che le mie tazze da tè siano esposte in via
permanente.» Appoggia la forchetta e la riprende in mano.
«Davvero? Le Lolite verranno esposte da qualche parte? Hai intenzione di
spedirgliele, allora?»
Lui scuote la testa. «No, non hai capito. Schultz vuole me.» Ha gli occhi così
luminosi che sembrano sprizzare scintille. «Ha partecipato a quella conferenza a
Toledo dove sono stato un anno fa o giù di lì, e ha detto che da allora pensa di
aprire questo museo. Dice che ora ha il terreno, l’edificio e alcuni finanziatori e che
è pronto per me.»
«Ha anche le tazze?» Rosie raddrizza il tovagliolo di stoffa a fiori accanto al
piatto, lisciando le pieghe, domandandosi come mai, quando la vita comincia a
cambiare, tutte le superfici che ti circondano assumano un significato così
importante.
«No. Colleziona qualcos’altro. Ceramiche dipinte, credo. Piatti.»
Lei prova a infilzare le uova, ma le scivolano via dalla forchetta e non riesce più
a riprenderle. Alla fine ci rinuncia e poggia le mani in grembo.
«Ascolta, mi dispiace. Devo essere sincera. Non riesco a capire. Stai prendendo
questa idea in seria considerazione? Vuoi trasferirti in California dopo una
telefonata di cinque minuti? Per lavorare nel museo di uno sconosciuto?»
«Per avviare un museo. È questo il bello. Per partecipare alla creazione di un
museo e poi per esserne il curatore.»
«È davvero questo che vuoi? Facevi il vasaio, non il curatore di musei.»
Jonathan si lancia in una tiritera: non hanno ancora definito i dettagli, ne
discuteranno più avanti eccetera eccetera. Museo, manutenzione, spese. I piedistalli
per le tazze. Non è ancora cosa fatta. Altri colloqui, necessità di sondare il terreno,
blablablà.
«Mi sembri veramente interessato. Hai addirittura cambiato colore. Sei tutto
rosso.»
«Ah sì?» ribatte compiaciuto. Svuota la tazza e guarda Rosie, unendo le mani
all’altezza dei polpastrelli. «Può darsi. Mi sento accaldato.»
«Be’, signor Peperone, allora pianteresti baracca e burattini e ti trasferiresti?
Come se niente fosse?»
«Plurale. Noi ci trasferiremmo. Tu puoi trovarti un posto da insegnante e io mi
occuperò del museo.»
«Sei impazzito? Ho una vita qui…»
«Sì, ma siamo a un punto morto. L’hai detto anche tu che abbiamo bisogno di
qualcosa di nuovo.» Le prende le mani e si china sul tavolo. «Non ce la faccio più
ad andare avanti così, Rosie. Sto invecchiando e ho la sensazione di essere
precipitato in un buco nero. Sento il bisogno che accada qualcosa di grosso e di
importante.»
«Ma questo… Non posso…»
Non la ascolta neanche. «Sai una cosa? Ci sposeremo. Sì, sposiamoci!»
Sposarsi! Lei ridacchia. L’ultima volta che hanno toccato l’argomento è stato alle
nozze di Lynn e Greg tredici anni fa, in Messico, ed erano brilli sulla pista da ballo,
storditi dallo champagne, dall’orchestra di mariachis e dalla luna che faceva
capolino tra le nuvole. Il giorno dopo sarebbero andati a Tijuana, aveva sussurrato
Jonathan, per continuare i festeggiamenti. L’indomani però avevano tutti un
doposbornia colossale e si erano messi a tavola per il brunch, lamentandosi,
bevendo cocktail mimosa e strizzando gli occhi alla luce accecante. Con il passare
delle ore era svanita anche l’idea di matrimonio improvvisato e spontaneo che
Rosie aveva immaginato. Non avrebbe mai avuto luogo, non tra lei e Jonathan. Ma
che importanza aveva? Non erano i tipi da sposarsi, quindi perché fingere?
Da allora, quando qualcuno li prende in giro chiedendo perché non facciano il
grande passo, uno dei due scoppia a ridere e dice: «Oh mio Dio! Ci siamo
dimenticati di sposarci? Mi sembrava ci fosse qualcosa che dovevamo fare…».
Ormai hanno la risposta pronta.
E ora Jonathan la guarda come se non ricordasse chi sono. Sta delirando, ecco
cosa.
«Ascolta» replica Rosie. «Forse abbiamo bisogno di un cambiamento, ma
trasferirsi in California è una follia. Ci allontaneremmo dai nostri amici, e poi ho le
lezioni e non posso lasciare Soapie da sola, Jonathan. È acciaccata e…»
«Oh, ora non tirare fuori il pretesto di tua nonna. Se pensasse che stai anche solo
meditando di rinunciare a un’opportunità per rimanere con lei, ti investirebbe con
la sua decappottabile. Quanto agli amici, esistono posta elettronica, Facebook e
cellulari.»
«Ma il mio lavoro mi piace.»
«Due mesi al massimo, e ti piaceranno anche i tuoi nuovi studenti californiani.
Coraggio. È quello che ci serve. Ne sono sicuro.»
Si alza e la tira a sé, nel corridoio tra i tavoli. Preme la guancia contro la sua e
parla con voce bassa e insistente. «Possiamo farcela. Soapie non vuole vederti
sprecare la tua vita.»
Ma è stato tutto uno spreco? È questa la lezione di oggi? Che hanno perso tempo
vivendo questa vita in attesa che arrivasse un tizio dalla California a proporre una
soluzione?
«Per favore… no» protesta Rosie. «Devo pensarci su.»
Jonathan le sposta i capelli dalla faccia e le sorride, lasciandola senza fiato. Non
è da lui; odia le effusioni in pubblico. Nel locale scende un silenzio assoluto.
«Sposami, Rosie Kelley» dice Jonathan con un filo di voce.
I clienti aspettano la risposta. Lui la guarda negli occhi e la tiene stretta.
«Non così» bisbiglia lei. Preferirebbe che fossero soli.
Jonathan avvicina il viso al suo. «Di’ di sì. Perché non dici di sì e basta?»
«Perché non lo so. E non lo sai nemmeno tu. Potrebbe non funzionare.»
«Ha funzionato per quindici anni. Ha funzionato molto bene anche questa
mattina, giusto?»
La gente ride.
Gli occhi di Jonathan la fissano intensamente, i polpastrelli premono sulle
braccia. A quel punto Rosie ha una folgorazione. È da un sacco di tempo che
Jonathan dice no a ogni proposta possibile e immaginabile: al sesso, alle feste, alle
fette di torta dopo cena, alla creatività, persino alla bambina con il tutù. Vive la
vita con un grande, gelido NO stampato sulle labbra e ora, mio Dio, ha detto sì a
qualcosa e ha bisogno che lei faccia lo stesso.
Lui, l’introverso che all’improvviso è diventato oggetto dell’adorazione
pubblica. Oggi è un uomo raggiante e tutto il bar ha gli occhi puntati addosso a lui.
«D’accordo. Sì.» Rosie vuole che questo momento finisca. Lui la bacia e tutti
applaudono, poi compare Ruby, che la afferra per un braccio, sorride e si tampona
gli occhi con l’angolo del grembiule; infine arrivano anche la piccola Lima, sua
madre e un altro fantastiliardo di persone. Ci sono neonati e bambini aggrappati ai
fianchi dei genitori, tazze che tintinnano come per un brindisi, gente che batte le
mani e fischia.
«Wow. Si sposa davvero?» domanda la madre di Lima.
Rosie vorrebbe rispondere che non è sicura. Jonathan è il genere di uomo che
può cambiare idea o dimenticare. Poi però lo vede sorridente, intento a ricevere
congratulazioni e a stringere mani, e dice: «Sì. Sì, mi sposo».
E si sorprende di essere felice, probabilmente al 99 per cento.
Tre
Quando arriva a casa di Soapie un’ora dopo, Rosie ha ormai deciso che
probabilmente è felice al 99,8 per cento e non esiterebbe ad arrotondare al 100 per
cento se non fosse preoccupata per sua nonna. Ma Jonathan ha ragione: Soapie non
è una di quelle vecchie signore tenere e bisognose, pronte ad accettare che la nipote
non viva la propria vita. E se acconsente ad assumere una badante, come le ha
consigliato il medico, dov’è il problema?
Un nuovo inizio. Le Lolite che escono dalle scatole. La California.
Imbocca il vialetto di ghiaia bianca che conduce alla porta di servizio della casa
in stile coloniale, trascinandosi dietro i sacchetti di cibo che ha cucinato questa
settimana, insieme a dolcetti e offerte di pace: tavolette di cioccolata con le
mandorle, arachidi tostate al miele e pasticcini.
Poi le si ferma il cuore. Attraverso la vetrata della porta vede Soapie distesa sul
pavimento della cucina, spaventosamente immobile. Indossa una tuta da ginnastica
color lavanda, ha i capelli bianco dorato tutti arruffati e – è questa la parte orribile
– gli occhi azzurro ghiaccio fissi sul soffitto.
Rosie viene assalita dalla paura. Le mani le tremano così forte che a malapena
riesce a tenere i sacchetti in equilibrio sul ginocchio mentre gira la chiave nella
toppa. Allora è così che finisce, pensa. Merda.
Spinge l’uscio con la spalla ma, prima che riesca a entrare, Soapie si muove. Il
braccio si solleva e fluttua a mezz’aria, con le dita allargate. Sembra intenta ad
ammirarsi la manicure.
«Oh mio Dio!» esclama Rosie.
«Oh, ciao» la saluta Soapie con una voce stranamente piatta e impastata, come se
si fosse appena svegliata. «Sei qui.»
«Gesù, stai bene? Credevo fossi morta. Tutto a posto?» Posa i sacchetti sul
ripiano e corre da lei. A quanto può vedere, Soapie non sanguina e ha una bella
cera. Con molta probabilità, migliore della sua in questo momento. «Hai sbattuto la
testa quando sei caduta? Da quanto tempo sei qui? Sai che giorno è?» La prende
per il polso, ma naturalmente Soapie si libera.
«Smettila. Sto bene, anzi benissimo.» In effetti, è questa l’impressione che dà,
anche se sembra un po’ assonnata.
«Per poco non mi è venuto un colpo. Da quanto tempo sei qui distesa?»
«Sono scivolata, ecco tutto. E ora non farne una questione di stato.»
«E se non fossi passata in questo momento? Perché non porti il braccialetto
salvavita?»
«Semplice. Perché lo odio.»
«Ma perché? Che fastidio ti dà? Qualcuno potrebbe venire ad aiutarti. Coraggio,
vuoi alzarti? Lascia che ti dia una mano.»
«Rosie, smettila. Vieni a sederti. Piantala di cianciare. Mi rendi nervosa.»
«Sei tu che rendi nervosa me.» Fiutando il profumo di Jean Nate, il preferito di
sua nonna, Rosie si siede sul pavimento di splendide piastrelle italiane che Soapie
ha fatto posare un anno fa, quando ha ristrutturato la casa. Lavori che non hanno
apportato modifiche utili per una donna di quasi novant’anni, tipo sedie da
doccia, WC più alti o ringhiere lungo le scale. No, Soapie ha voluto luci a binario,
ripiani di marmo e piastrelle italiane dure come il cemento.
«Ascoltami» e Rosie è quasi sollevata all’udire che la voce della nonna è tornata
grintosa e rauca come sempre. «Devi finirla di preoccuparti per me. Se è destino
che mi succeda qualcosa, non possiamo farci niente.»
I suoi occhi sono di un azzurro trasparente, forse appena più velati di quanto
fossero una volta, ma ancora orlati di ciglia nere cariche di mascara, con una
pennellata di ombretto turchese che si raggruma nelle pieghe grinzose delle
palpebre. Rosie osserva la ragnatela di rughe, il mento cascante, le chiazze vistose
di fard applicato male, e prova una fitta al cuore.
«So che che quello che dici può sembrare perfettamente sensato, ma come faccio
a non preoccuparmi quando entro e ti trovo stesa sul pavimento? E se non fossi
stata qui? Saresti potuta morire oggi.»
«Innanzitutto non sarei morta perché il mio gruppo di yoga sarà qui tra un’ora e
qualcuno mi avrebbe tirata su…»
«Il tuo gruppo di yoga? Come avrebbero potuto salvarti? La porta d’ingresso è
chiusa a chiave.»
«Gli avrei urlato dov’è nascosta la chiave. E» aggiunge Soapie in tono fermo
«secondo… non me ne frega niente.»
«Di cosa?»
«Di come morirò. Quando si arriva alla mia età, un modo vale l’altro. Se
dev’essere una caduta sul pavimento, nessun problema.»
«A mio avviso alcuni modi sono peggiori di altri. Ed essere qui lunga distesa,
senza poter chiedere aiuto…»
«Piantala. Ascoltami. Non ho paura della morte. So che ogni tanto mi vengono
dei piccoli ictus. Mi rendo conto di cosa sta succedendo e sono serena.»
Rosie storce la faccia. «Per favore, possiamo alzarci da questo pavimento freddo
e sederci al tavolo? Ti preparo una tazza di tè e poi continuiamo a discutere
seriamente.»
«Tanto devo preparare i Bloody Mary. Tirami su, ti dispiace?»
Rosie la solleva delicatamente a sedere. «Beviamo Bloody Mary?»
«Per il gruppo di yoga. Te l’ho detto.»
«Aspetta. Hai un gruppo di yoga che beve?»
«Sì. È uno dei vantaggi di essere vecchi bacucchi.» Soapie raccoglie i ciuffi di
capelli che le sono sfuggiti dallo chignon e li fissa con il solito fermaglio di strass,
come Rosie l’ha vista fare un milione di volte. «Si può bere durante le lezioni
perché lo yoga non ha niente a che vedere con l’illuminazione o con qualunque
cosa spinga certe persone a farlo.»
«Penso che la maggior parte voglia semplicemente tonificare i muscoli e magari
conoscere qualcuno con cui uscire.»
«Be’, a noi piace ubriacarci mentre lo facciamo.» Soapie allunga le braccia e
Rosie la mette cautamente in piedi. Sua nonna è così magra che pare fatta di ossa
di pollo e filo di ferro tenuti insieme con lo scotch, ma è anche scattante come un
animale selvatico che fugge.
«Ecco» dice Rosie. «Appoggiati a me per un minuto. Stai bene?»
«Smettila di trattarmi come un’invalida.» Ma Soapie continua ad aggrapparsi a
lei, e dopo un istante Rosie la cinge con le braccia. Allora la nonna la allontana con
uno schiaffetto. «Evidentemente non sono destinata a morire oggi. Perciò dacci un
taglio.»
«Ma ti capita di cadere più spesso. Ascolta, il dottor Vance mi ha raccomandato
una donna che può aiutarti, e verrà a conoscerti oggi pomeriggio. Può assicurarsi
che tu stia bene, andare a comprarti le medicine e farti compagnia…»
«No.» Soapie si dirige verso il lavello.
Rosie la segue. «Il dottor Vance dice che è molto qualificata, molto…» Cos’ha
detto il medico? Quale aggettivo avrebbe convinto Soapie? Simpatica? Colta?
Tollerante nei confronti delle assurde opinioni degli anziani?
«No! Assolutamente no.»
Rosie prova una nuova tattica. «Ma non sarebbe bello avere qualcuno che ti
aiutasse nelle cose che non hai voglia di fare?»
Soapie prende il sedano dal frigorifero. «No. Scordatelo. È tutto sistemato. Ora
ho un ragazzo che vive qui» dichiara con tono secco.
«Aspetta, come sarebbe a dire? Quale ragazzo?»
«Oh, un conoscente del mio maestro di yoga.» Posa il sedano sul ripiano e si gira
verso Rosie. Il suo volto, ancora bello, è arrossato. «Ho dimenticato come si
chiama. Non ha importanza. Ad ogni modo alloggia qui.»
«Da quando?»
«Da… oh, non lo so. Più o meno una settimana, credo.»
«Ma almeno lo conosci?»
«So che prepara un gin tonic fantastico e che riesce a raccogliermi dal
pavimento. E poi è simpatico. Mi fa ridere.»
«No, no, no. Soapie, dobbiamo trovare qualcuno in un’agenzia, qualcuno di
competente. Una badante che vada a comprarti le medicine e che controlli se la
pressione va bene…»
«Non mi stai ascoltando, cara. Ho intenzione di vivere il resto della mia vita
facendo esattamente quello che mi va, e non voglio essere accudita da una stupida
badante retribuita convinta che il suo scopo sulla terra sia impedire agli altri di fare
quello che vogliono. No.»
«Ma io voglio che tu sia felice…»
«Non è vero. Tu vuoi che sia al sicuro, ed è una cosa completamente diversa.
Ora che ho mille anni, intendo cominciare davvero a divertirmi e non voglio
assumere un’infermiera che mi segua come un cagnolino. Se ho voglia di bere, di
fumare e di fare sesso, sono solo affari…»
«Sesso? Tu fai sesso?»
Soapie la guarda divertita, stringendo gli occhi. «Be’, ora sì che ho attirato la tua
attenzione, vero?» Prende il pacchetto di sigarette dal ripiano e ne accende una con
mani tremanti. «Sei troppo concentrata sulla mia vita, Rosie. Mi sono svegliata nel
cuore della notte e ho capito cosa non va in te.»
«Non c’è niente che non vada in me.»
«Sì, invece. Altroché. Tanto per cominciare hai una vita perfetta – libera come
l’aria, niente marito, niente figli, niente lavori impegnativi –, la vita per cui sarei
stata disposta a uccidere, eppure sei bloccata. Ma credo di aver finalmente capito il
motivo. Non ti schiodi da qui perché sei convinta di doverti sacrificare perme.» Dà
una lunga boccata alla sigaretta.
«Non è assolutamente così.»
«Ti dico di sì, invece. E ho capito quanto sia ingiusto per te che io abbia vissuto
così a lungo e che ti abbia tenuta legata qui, trasformandoti in una persona
apprensiva. Sei sempre così preoccupata, Rosie. Perciò vattene. Per favore! Va’ a
Parigi e scrivi un libro o roba del genere. Oppure fa’ un viaggio in Africa e guarda
i leoni. Prendi i soldi della mia eredità e sparisci.» Agita le braccia come se potesse
spingerla oltreoceano.
«Non voglio guardare i leoni.»
«Allora vai da qualche parte! Ci deve pur essere qualcosa che vorresti fare. Non
capisco perché non ti godi la libertà. Sii gentile, versami la vodka. Otto bicchieri.»
Soapie posa la sigaretta sul bordo del lavello e inizia a sminuzzare i gambi di
sedano in bastoncini di dimensioni casuali. Rosie non sopporta di vederla
maneggiare il coltello. «La vita è troppo breve. E se è Jonathan a trattenerti,
sbarazzati di lui.» Soapie si ferma e agita la lama nella sua direzione. «No,
seriamente. Sei una bella donna, specie se ti dai un’aggiustatina, e potresti ancora
avere una vita divertente.»
«Okay, smettila. Basta così. Non volevo dirtelo ora, ma questa mattina Jonathan
mi ha chiesto di sposarlo.»
«Vuoi scherzare?» commenta ridendo Soapie.
«No. È vero. Me l’ha chiesto mentre eravamo fuori a colazione. In pubblico,
addirittura.»
Soapie spegne la sigaretta in uno dei tanti posacenere decorativi sparsi quasi
ovunque per casa. «Non ha mai capito che non è quello che vuoi. Dobbiamo
trovare il modo di farglielo entrare in testa.»
«Ma… credo di volerlo. Sicuramente molto più di quanto voglia i leoni.»
«Oh, per l’amor del cielo, Rosie, vivi con quest’uomo da quindici anni. Vuoi
farmi credere che stavi aspettando che si inginocchiasse ai tuoi piedi?»
«No, non è questo. Non avevamo mai neppure pensato al matrimonio prima
d’ora. Poi oggi ne abbiamo parlato. Perciò ci sposiamo. Ho detto sì, discorso
chiuso.» Allinea i bicchieri sul ripiano e versa una piccola quantità di vodka in
ciascuno.
«Ammettilo, non è quello che vuoi. E per cosa? La stabilità? Pensi che un pezzo
di carta possa assicurartela?»
«Soapie, perché non riesci a essere felice per me?»
«Perché non ti ho cresciuta sperando che corressi dietro a un uomo. E poi, perché
proprio ora?»
Rosie sospira. «Perché gli hanno proposto di fondare un museo a San Diego con
le sue tazze da tè e vuole che vada con lui.»
«Un museo!» sbuffa Soapie. «Allora è questo il tuo sogno diventato realtà?
Vivere in un museo con le tazze di Jonathan? Mi stupisci, Rosie. Davvero.»
«Perché? Perché ti sorprende? Io amo lui e lui ama me. È quello che fanno tutti.»
Suona il campanello – di sicuro il gruppo di yoga – ma nonna e nipote
continuano a fissarsi, quindi Soapie scrolla il capo mentre si incammina lungo il
corridoio verso la porta.
Fa accomodare le signore in salotto e le ospiti ridono e parlano tutte insieme,
abbandonando pullover e bastoni qua e là. L’uscio si chiude con un tonfo.
Rosie sospira e mette su il bollitore per il tè. Mentre aspetta, dispone i Bloody
Mary su un vassoio e li posa sul tavolo. Sente il cicaleccio delle donne.
Si prepara una tazza di tè e la porta nello studio di Soapie sul retro della casa – il
quartier generale della premiata ditta Stroficacci & Co., una stanza così caotica e
polverosa che scandalizzerebbe i lettori e gli uffici d’igiene di tutto il mondo. Si
siede alla scrivania per pagare le bollette, come fa ogni mese.
Ci sono documenti sparsi e impilati ovunque, libri che traboccano dagli scaffali e
torri precarie sul pavimento, pericolosamente inclinate. La scrivania è invasa da
lettere e conti, nonché dalle pagine di quello che sembrava un nuovo manoscritto.
C’è una pila vacillante di copie del primo libro di Soapie, La Diva degli strofinacci
sconfigge lo sporco e la polvere e ha anche il tempo per godersi la vita; Rosie la
raddrizza. Quel volume ha venduto più di cinque milioni di copie. Sulla copertina
sorride una giovane Soapie con indosso una camicetta fucsia, un filo di perle e
pantaloni bianchi, con un Martini in una mano e un piumino nell’altra. Era famosa
per il suo slogan, pronunciato con la voce profonda e secca di una fumatrice:
«Dacci dentro con l’olio di gomito, cara, e poi prenditi il resto della giornata
libero!».
D’impulso estrae il cellulare dalla borsetta e compone il numero di Jonathan, che
risponde al secondo squillo.
«Ce l’ho fatta» annuncia Rosie. «Le ho detto che partiamo.»
«Magnifico. Allora ha accettato di assumere la signora Lamb?»
«Be’, non proprio. È molto più complicato di così.»
«Non cedere. Deve avere qualcuno che la assista. Lo sai.»
Rosie non riesce a spiegargli che il cuore le si è quasi fermato quando è arrivata
davanti alla porta di servizio e ha trovato Soapie sul pavimento, apparentemente
morta. Sua nonna è vulcanica, esasperante e terribile, e certe volte Rosie ha
l’impressione di essere lei la donna anziana, sul punto di trasformarsi in un
fantasma, mentre Soapie è quella piena di vita, di progetti e di idee. Bloody Mary
durante le lezioni di yoga! Sesso a novant’anni! Jonathan non capirà né vorrà sentir
parlare del «ragazzo» che vive qui, versando gin tonic e raccogliendo Soapie dal
pavimento se per caso è nei paraggi; non si capaciterà del fatto che per Rosie
potrebbe essere sufficiente.
Mentre parla, vede alcuni fogli accartocciati nel cestino della spazzatura e li tira
fuori. Sono le ricette per i medicinali che Soapie deve prendere ogni giorno e lì
accanto c’è una multa per eccesso di velocità, strappata in due. Ha un sussulto così
violento da iniziare a tossire. La recupera e la esamina. Soapie è uscita due
settimane fa e ha raggiunto gli ottantotto chilometri orari nelle vicinanze di una
scuola.
«Oh mio Dio» mormora. Poi, pur sapendo cosa dirà Jonathan, non può fare a
meno di riferirglielo.
Come previsto, lui torna alla carica. Deve fare qualcosa, sostiene. La situazione
può solo peggiorare. Soapie non è più in sé, bisogna proteggerla da se stessa.
E… cosa? Un ragazzo alloggia a casa sua? Un tizio che spera di prosciugarle il
conto corrente, ecco chi è! Non ha mai sentito parlare di imbroglioni del genere,
uomini che spuntano fuori dal nulla, lusingano una vecchia signora e poi si
appropriano dei suoi soldi? Soapie potrebbe essere in pericolo.
Forse, osserva Jonathan, sarebbe opportuno chiamare la polizia. Lui lo farebbe.
Lo farà, se Rosie glielo chiede. Nel giro di venti minuti può mandare lì un
poliziotto che sbatta fuori quel tipo. Be’, proprio la settimana scorsa il telegiornale
ha parlato di una vecchietta che…
No, Rosie non vuole la polizia. Risolverà ogni cosa, promette. Quando
finalmente riesce a concludere la telefonata, guarda fuori dalla finestra verso la
terrazza e gli alberi, la piscina, il prato.
Quindi digita il numero della signora Lamb. Si attiva la segreteria. Sperava di
poterle chiedere un consiglio, ma dopo il bip dice: «Salve, sono Rosie Kelley. Ho
parlato con mia nonna e temo che dopotutto sia meglio non vederci oggi». Esita un
istante, poi abbassa la voce di un’ottava, usando un tono autoritario e imperioso.
«Comunque vorrei iniziare lunedì. Penso che mia nonna si rassegnerà all’idea
quando vi sarete conosciute. Io dovrò lavorare, ma posso passare più tardi. Venga
qui alle nove e le dica che la manda il dottor Vance. Rimarrà stupita, ma tanto
meglio.»
La telefonata l’ha sfinita al punto che, dopo aver chiuso il cellulare, apre l’ultimo
cassetto della scrivania e prende la foto nascosta sul fondo, nella cartellina più
logora nascosta dietro le altre, la sola immagine che Soapie ha conservato della sua
unica figlia. L’unica fotografia di Serena che non ha strappato nella sua furia
distruttrice.
Il volto giovane di sua madre, leggermente imbronciato, ricambia il suo sguardo.
Serena sembra avere circa vent’anni, con i lunghi capelli biondi e sottili, infilati
dietro le orecchie, e giganteschi orecchini a cerchio. A giudicare dall’espressione
torva degli occhi azzurri, dal mento sollevato e dalle braccia incrociate, si direbbe
che sia arrabbiata. A scattare le foto dev’essere stata Soapie, che non le ha mai
raccontato una storia su Serena senza accennare a un qualche litigio tra loro. Per lei
è fuori questione celebrare i morti o chiudere un occhio sugli errori adolescenziali.
Oh, mamma. Perché mai non sei qui ora a darmi una mano con lei, come
sarebbe giusto?
Quattro
Serena non se n’era andata in nessuno dei modi consueti in cui i giovani
solitamente muoiono: un cancro raro e incurabile, un’overdose o un incidente
stradale. Lei camminava lungo una strada a New York City, per incontrare
un’amica con cui bere una Coca-Cola, quando un pezzo di cemento si era staccato
da un palazzo dodici piani più su e le era caduto in testa, uccidendola all’istante.
Causa del decesso: un edificio. Scherzi a parte, quante probabilità esistevano che
accadesse una cosa simile?
Rosie aveva tre anni, perciò le rimane solo un vago ricordo dei capelli biondi e
del profumo floreale di sua madre, del tocco di una mano che aveva indugiato sulla
sua fronte quando aveva avuto la febbre e di un paio di ninnenanne che si
insinuavano nel suo dormiveglia; canzoni che – ne è quasi sicura – Soapie non le
aveva mai cantato. C’erano state forse anche una piscina di plastica in cui
sguazzare e una volta in cui Serena le aveva letto una storia sugli anatroccoli? Quei
fatti erano successi davvero, oppure erano frammenti di vecchi programmi
televisivi?
Quanto a suo padre, non aveva mai avuto il piacere di conoscerlo. Secondo
Soapie aveva sposato Serena e l’aveva messa incinta a bella posta, pensando che
l’arrivo di un figlio l’avrebbe aiutato a evitare il servizio di leva. Ma poi era partito
lo stesso per il Canada, lasciando la moglie ad aspettarlo. Soapie serrava sempre le
labbra quando raccontava quella storia; il suo volto cambiava e si intuiva che
l’accanimento contro le fotografie aveva origine da una rabbia oscura e profonda.
Subito dopo, però, Soapie riprendeva il filo del discorso; senza incolpare altre
persone. Serena all’epoca era una donna adulta, capace e istruita, e nessuno
l’aveva obbligata a stare con David. Era dipeso tutto dalla sua stupida propensione
al romanticismo e al melodramma, dalla sua sciocca infantilità. E quella, signorina,
ha le sue conseguenze: figli indesiderati, matrimonio e maternità in età troppo
giovane…
E forse addirittura la morte prematura, se ti capita di camminare nei pressi di un
edificio pericolante.
La scomparsa di Serena costrinse Soapie a crescere un’altra bambina. Invece di
trascorrere la sua mezza età dedicandosi all’arte e al relax, come aveva
programmato, lasciò New York City e acquistò quella casa in stile coloniale a
North Haven, nel Connecticut, dove nessuno conosceva loro, né la tragedia che si
portavano appresso. Aveva fatto del suo meglio con Serena, ma era inutile fingere
che le cose andassero bene. Soapie ammetteva che c’erano state bugie, litigi,
ribellioni ed errori, droga, ragazzi sbagliati e qualche arresto: quello che gli anni
sessanta avevano da offrire, insomma. E poi Serena era morta e c’era una nipote da
allevare.
Fortunatamente per Soapie, pensa Rosie, era una bambina educata, consapevole
in cuor suo di essere stata affidata a qualcuno che forse non sarebbe stato del tutto
in grado di affrontare la forza inarrestabile di una normale infanzia americana. Per i
primi anni, quando si accoccolava vicino alla nonna sul divano marrone dello
studio, taciturna e attenta, mentre le sigarette si consumavano nel posacenere e i
cubetti di ghiaccio si scioglievano nel bicchiere di vodka, Rosie aveva avuto la
certezza che quella casa – il sogno di ogni famiglia del New England – non era
adatta a loro due. Era come se l’edificio, con le sue persiane nere e il suo vialetto
lastricato, le finestre alte un metro e ottanta, il roseto, la terrazza e gli aceri
centenari curvi sul prato, pretendesse di trasformarle in una famiglia e se la
prendesse con loro quando non ci riusciva. Tuttavia aveva imparato a riscaldare i
piatti pronti senza scottarsi, a rispondere al telefono dicendo educatamente:
«Residenza Baldwin-Kelley, sono Rosie» e a consolare la nonna con un abbraccio.
Ma c’erano stati momenti difficili, durante i quali Soapie era parsa quasi
irriconoscibile per il dolore. Una volta aveva preso la nipote per le spalle e aveva
schiacciato la faccia contro la sua urlando: «Non diventerai tua madre! Non lo
permetterò!». In un’altra occasione, quando Rosie non aveva caricato bene la
lavastoviglie, aveva tirato fuori i piatti e li aveva fracassati a uno a uno sul
pavimento.
Rosie ricorda di essere stata più dispiaciuta che spaventata. Certe volte aveva
l’impressione di essere lei al comando, di dover scegliere le cose giuste da dire e
da fare per allentare la tensione. Anni dopo, un terapista aveva trovato ironico che
Soapie fosse stata divorata da una tristezza così profonda da non lasciare spazio per
il dolore della nipote, una bambina orfana di entrambi i genitori.
Ma Rosie continua a pensare che c’erano state molte cose belle a compensare
quelle brutte: le volte che Soapie le leggeva i libri della Casa nella prateria, ogni
sera, uno dopo l’altro, per poi ricominciare da capo, oppure le serate estive in cui
andavano a mangiare il gelato sfrecciando lungo la costa sulla Mustang
decappottabile di Soapie. In quei momenti la nonna le parlava come a una
confidente, dimenticando che era una bambina. «Ora facciamo un discorso a
quattr’occhi» diceva, e poi cominciava a spiegare la sua filosofia di vita nel
minimo dettaglio. Rosie aveva assorbito ogni cosa: politica (Soapie era una liberale
femminista convinta che il mondo fosse condannato), religione (perlopiù agnostica,
con una strizzatina d’occhio alla «Chiesa dell’onestà incrollabile e della capacità di
affrontarne le conseguenze») e sesso (più croce che delizia).
Sosteneva che Rosie sarebbe diventata forte e coriacea come lei ed era convinta
che le persone potessero superare qualsiasi cosa se si mettevano d’impegno,
fronteggiando le situazioni con onestà e smettendo di illudersi. La vita era difficile
e quel che serviva – anzi, l’unica cosa che serviva – era sviluppare la fiducia in se
stessi, in modo da non dover mai chiedere aiuto agli altri.
E, per l’amor di Dio, la razza umana doveva piantarla di piangersi addosso.
«Non parlare di tua madre con nessuno» raccomandava. «Penseranno sempre che
sei una povera orfanella.»
Ma forse tutto questo era accaduto dopo che, abbandonato il divano, era
diventata la Diva degli strofinacci, con una nuova macchina da scrivere IBM nello
studio accanto alla cucina, facendo sembrare le faccende domestiche un’attività
piacevole. Al punto che tutti i programmi televisivi mattutini le davano spazio, e
lei agitava il piumino, facendo l’occhiolino alle telecamere. Dava feste favolose
sulla terrazza e indossava vestiti firmati.
Niente più autocommiserazione, diceva, niente più discorsi tristi, niente più
discorsi su Serena.
D’accordo, ma c’erano anche altre cose.
A scuola, in qualche modo – ma Rosie non aveva mai provato a spiegarlo alla
nonna –, essere orfana era tutt’altro che sgradevole. Anzi, essendo l’unica alunna
senza madre, godeva di molti privilegi. Gli insegnanti le concedevano di dare una
mano in segreteria, le portavano dolcetti e le permettevano di essere la prima della
fila. Non solo presiedeva diversi club al parco giochi, ma aveva un drappello di
amiche che la invitavano a dormire da loro e le cui madri consideravano Soapie
una donna affascinante ed eccentrica che, poverina, non aveva idea di come
crescere una bambina felice. A casa delle amiche mangiava torte di compleanno
con la glassa rosa e poi la portavano a vedere i film di Disney che sua nonna
giudicava inadatti ai bambini.
Rosie e Greta avevano passato ore a inventare una storia sulla sua defunta madre.
Erano certe che Serena, bellissima e angelica, non era stata come le madri che le
circondavano, dotate di senso pratico e coi piedi ben piantati per terra: le Barb, le
Patty e le Carol, donne energiche che costringevano le figlie a fare i compiti e poi,
alle otto e mezzo, le mandavano a letto.
Singhiozzavano immaginando scene fantasiose sulla vita di Serena. La cosa
migliore era la Scatola di Serena, la collezione segreta di oggetti che, secondo
Rosie, sua madre aveva toccato. C’era una tazza di porcellana dipinta che, a detta
di Soapie, era l’ultima da cui Serena aveva bevuto prima di uscire quel mattino per
andare in città; una sciarpa di seta turchese; una fotografia sfocata di Serena da
piccola con il sole che le splendeva così intensamente dietro la testa da dare
l’impressione che le si fossero incendiati i capelli. Rosie ha anche un fermaglio con
dei capelli che sostiene fossero della madre; e poi, la cosa più preziosa in assoluto:
una vecchia audiocassetta con incisa la sua voce, stridula e allegra, che canta Piece
of My Heart. Anni dopo sarebbe rimasta di stucco ascoltando Janis Joplin eseguire
una versione quasi identica.
Fine dell'estratto Kindle.
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