Tra la febbre dell`oro ed il filo della spada : il Messico di
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Tra la febbre dell`oro ed il filo della spada : il Messico di
L'incanto ritrovato? di Enzo Segre Malagoli* Al rientro negli Stati Uniti dopo il suo viaggio in Messico, Emilio Cecchi fu disturbato da un incidente che lo fece riflettere: “Jamás he visto más ciego desprecio por la persona concreta y mayor respeto por el individuo en abstracto (Cecchi, 1989, p.190)”. Le guardie di frontiera avevano visto dal passaporto che Cecchi era stato, poco prima, negli Stati Uniti per qualche mese in qualitá di visiting professor in Berkeley nel 1930 ricevendo onorari dall’Universitá mentre il suo permesso non lo autorizzava a lavorare e, meno, a percepire denaro. Sorse cosí un problema senza maggiori conseguenze, ma tuttavia fastidioso: Cecchi dovette sottomettersi ad un interrogatorio di fronte a tre ufficiali di polizia. Questo episodio lo fece riflettere: “Pensaba en nuestros viejos emigrantes, enfrentados a la más antojadiza de las legislaciones. Y pensaba en México, áspero y frenético, donde había pasado días tan libres y tan serenos. Donde puede tocarle a uno, de rebote, una bala en el trasero, pero nunca llegan reclamaciones ni molestias; uno puede desaparecer como un pez en el mar, y jamás se sabrá nada de él, bienaventurado. Pensaba en las miseras vendedoras, sentadas como diosas sobre los tronos subterráneos de las minas de oro y de plata. Y cuando, en el tren para San Francisco, el mozo negro de chaqueta nívea, haciendo sonar su cajita dorada, me advirtió que era la hora del almuerzo, comparé con los fieros lobos mexicanos al perro de lustroso collar y cuello pelado. Pero entendámonos: fue una comparación puramente académica. No se es un hombre respectable para nada (Cecchi, 1989, p.191)”. Dunque questo Messico di Emilio Cecchi pubblicato dall’editore Vallecchi nel 1932 é il diario di bordo di un viaggio attraverso California, Arizona, Nuovo Messico, Texas, infine Messico e del succesivo ritorno negli Sati Uniti. Viene presentato dall’autore come fossero osservazioni etnografiche, la fenomenologia di un lungo soggiorno con note impressionistiche. Certamente é stato cosí peró sono necessarie alcune considerazioni. L’etnografia richiede di una precedente preparazione ed informazione, per non dire anche di un pizzico di malizia per selezionare fatti e cose, senza le quali non emerge la visione complessiva (che é giá una prima interpretazione) dell’oggetto di studio. Senza questi requisiti una descrizione etnografica rischia di essere solo una lista a caso di luoghi e persone, poco piú di una lista della spesa. Cecchi vuole farci credere che ignora la storia dei luoghi visitati. Ma non é cosí: ha letto molto di piú attorno ad essi di quel che dice. A fin di bene letterario, ci inganna. Il suo viaggio non lascia quasi nulla al caso, all’hazard: ha dietro di sé scelte, ipotesi e verifiche, é insomma una ricerca o, se si vuole, la ricerca di una esperienza desiderata. Con trasparenza di luce fiorentina di maggio appare chiaro che questo viaggio é stato studiato in tutti i dettagli guardando i poggi toscani dove poi ha redattato la versione definitiva del giornale di bordo per mandarlo alle stampe. Per queste attenzioni, condizione della qualitá del libro, dobbiamo essere grati a Cecchi e perdonare l’inganno. Per i lettori messicani é forse necessario ricordare alcuni tratti storici dell’epoca. Sono gli anni in cui Mussolini e la sua Italia fascista godono di maggior stabilitá política e prestigio internazionale: nel 1932 si pubblica la lunga intervista al Duce dello storico liberale tedesco Emil Ludwig. Un intervista esemplare che fa il punto della situazione política italiana. Ludwig era stato il biografo di grandi personaggi del passato ed ora realizzava interviste a politici spettacolari del suo tempo. Era uscita da poco quella realizzata con Stalin. Malgrado le distanze ideologiche, si intuisce che a misura che si svolgono gli incontri si vanno stabilendo comprensione e considerazione tra Mussolini e Ludwig nel decennale della marcia su Roma che aveva sconfitto il movimento socialista e portato al potere il futuro dittatore, fondatore di una pretesa pax romana fascista. Emilio Cecchi ha dedicato due opere all’America: questo Messico del 1932 ed America amara del 1938. Tra di esse vi sono forti differenze di simpatia ed interpretazione: gli Stati Uniti, come appaiono in Messico, sono caratterizzati dalla loro anima sempre alla ricerca di denaro in differenti realtá, realtá che vanno dagli ambienti cinematografici di Hollywood ai gangsters del Proibizionismo, fino ai minatori della febbre dell’oro. Questi Stati Uniti sono visti perfino con ammirazione malgrado il sorrisetto un poco arrogante di Cecchi per la loro gioventú: la ricerca dell’oro infine era alimentata dall’etica del lavoro e del coraggio: dietro l’oro c’era il sudore redentore. America amara vede un cambio di prospettiva e di giudizio dove balza in prima linea la critica ad una societá materialista basata su valori da lui considerati alienanti. É il 1938. La pax romana fascista non c’é piú (né c’era mai stata): ci sono in cambio i fallimenti delle avventure coloniali in Africa, la guerra civile in Spagna, la campagna antisemita, l’allontanamento da Francia ed Inghilterra e l’abbraccio sempre piú stretto e mortale con la Germania nazista. Intendiamoci bene. Cecchi non é mai stato propriamente fascista, anche se collaboró col regime e perfino fu il primo direttore dell’istituto cinematografico di stato Lux, fondato da Mussolini nel 1934. Era di gusti e sentimenti troppo aristocratici per essere fascista, ma certamente era, per la sua profonda formazione culturale, un conservatore anche se aperto all’innovazione, cominciando dal cinema. Emilio Cecchi soffriva di un complesso di superioritá toscano anche se temperato da una certa autoironia. Non era un maledetto toscano, perché non apprezzava per niente il maledettismo a causa del suo piú o meno evidente populismo rivoltoso implicito in esso. Del resto, sul piano della sua vita personale, e non letteraria, non piaceva neppure a Curzio Malaparte. Era un borghese coltissimo, raffinato fin quasi al dandismo, ma sempre col senso della misura e della realtá. Infine si era alimentato del meglio della cultura fiorentina e toscana e ne era íntimamente orgoglioso. Da questa posizione aveva appreso ed interpretato molte altre culture, cominciando da quella anglosassone. Certamente non era un provinciale. Proprio questo etnocentrismo fiorentino, che a volte infastidisce, é la strategia di osservazione di Cecchi in viaggio: nessun relativismo culturale, questa é la sua forza. Le diverse societá che incontra, le culture altre, sono viste e valutate da Cecchi con occhi aperti come quelli di Guicciardini o di Machiavelli. Non a caso era un contemporáneo di Prezzolini e veniva dalla esperienza della Ronda. Alberto Cecchi soffriva o meglio gioiva di due disincanti. Il secondo é quello weberiano, il disincanto della modernitá, ma il primo disincanto é di natura rinascimentale, rimette all’antico disprezzo fiorentino per l’illusione ed ancor piú per gli illusi. Quest’ultimo disincanto, nutrito di 2 un etnocentrismo inossidabile, quasi arrogante di fronte all’“Altro”, lo utilizza tanto per analizzare e descrivere i luoghi che visita degli Stati Uniti come quelli di Messico. Si sa che Cecchi era uno specialista di letteratura angloamericana. Credo che l’empirismo e il senso della concretezza inglese li sentisse vicini allo spirito toscano, e, ne percepisse affinitá. Ma in queste pagine di México si sentono anche echi novecenteschi: Stevenson, Conrad, Kipling, Hemingway e Lawrence. É un anglista della stoffa di Merchiorri, di Praz. Questa sua sensibilitá lo fa precedere quella generazione di scrittori che dell’americanismo hanno fatto una bandiera estetica ed etica, come Vittorini e Pavese, anche se políticamente erano vicini al movimento operaio, e questo mi sembra specialmente significativo. Una delle critiche che molti intellettuali italiani fecero al fascismo fu la sua chiusura provinciale alle grandi correnti di pensiero della sua epoca: la letteratura americana divenne uno strumento di modernizzazione, di sprovincializzazione; una ideologia aperta, letterariamente ed esistenzialmente, alla societá, alla vita. É questo un altro motivo che fa di Cecchi una personalitá sostanzialmente estranea al nazionalismo fascista. Sullo sfondo di questo viaggio vi sono le passioni politiche ed i miti della prima metá del xx secolo: le politiche di potenza dei diversi stati-nazione ed i nuovi strumenti tecnologici, l’industrializzazione, le acciaierie, il cinema, le democrazie occidentali, il fascismo ed il comunismo e, per dirla con De Martino, l’irruzione delle masse subalterne e dei popoli colonizzati nella storia. Dopo il suo soggiorno in Berkeley, Cecchi si dirige ad Hollywood proprio nel momento cruciale in cui il cinema si stava trasformando da muto in sonoro. Lo attraggono, tra l’altro, specialmente due grandi divi: Gloria Swanson e Búster Keaton. Ma prima di realizzare questo incontro magico, decide di visitare qualche villaggio abbandonato del tempo della febbre dell’oro. Questa divagazione non segue solo la curiositá del momento, ma fa parte di una strategia che permette a Cecchi di tessere il filo rosso che unisce e spiega manifestazioni americane apparentemente lontane tra loro. Il filo rosso é l’oro, la ricerca della ricchezza per realizzare quel diritto alla felicitá di cui tratta il primo articolo della Costituzione degli Stati Uniti, forse il fondamento giuridico dell’american dream. In questa prospettiva i villaggi rossi dei cercatori d’oro ed i sogni di Hollywood hanno maggiori somiglianze di quanto possa apparire a prima vista e sono anche imparentati da una etica del lavoro trascendente. Il duro lavoro necessario per estrarre oro e per relizzare una pellicola. “La epopeya del oro – scrive Cecchi – en general es conocida y valorada en forma muy superficial. Y en cambio constituye un episodio típico de la psicología norteamericana. Se encuentran características suyas en el cine; en algunas manifestaciones industriales y bancarias; en la publicidad, de las nuevas religiones a la del jugo de naranja; en la propia actividad de los gángsters (Cecchi, 1989, p. 14)”. Ecco alcune descrizioni delle cittá abbandónate della febbre dell’oro. Con tutta chiarezza appare l’oro come lo strumento per realizzare l’american dream, senza perdere, direi, risonanze quasi religiose, come nella caccia alla balena Moby Dick. Cominciamo da Bear Valley, una cittá abbandonata che cade a pezzi. Fu disabitata all’improvviso, interrompendo istantaneamente le attivitá quotidiane: “Frente al hotel hay otro barracón. Tiene un letrero: Salón Bon Ton, que anuncia su servicio de café, sala de juego y de baile. Bon Ton. ¡Adónde venían a parar las magnéticas sugestiones de París! Las puertas y ventanas están atrancadas, pero igual se ve para adentro: en el recubrimiento de las paredes hay aberuras de medio palmo; y por el techo, que es como un paraguas con las varillas solamente, se 3 ilumina un escenario de carnavalesca devastación. El papel tapiz francés se cae a pedezos, y de mobiliario no queda más que alguna mesa fuera de lugar, como chocada y empujada en la agitación de una gran pelea final. Desde sus marcos dorados, dos bustos de mujer en grabados velan sobre aquel destrozo: son dos mujeronas semidesnudas, con músculos de luchadoras y cuidadoras de caballos, quizás alegorías de la Voluptuosidad y la Fortuna (Cecchi, 1989, p. 18)”. Ecco la febbre dell’oro e l’american dream: Parigi in California. Ma si puó aggiungere anche questo: il viaggio alle cittá abbandónate della febbre dell’oro precede Hollywood come in una sequenza di ragioni lógico-storiche affini, ma le pellicole di cow boy che ha prodotto Hollywood condizionano la visione che Cecchi ha delle cittá abbandónate. É un andare e venire tra presente e passato, seguendo il filo rosso della febbre dell’oro. Un’altra descrizione: Merced Gold Mining Company. Cecchi ha una forte sensibilitá per il tema della immigrazione italiana in America. Cerca le traccie del lavoro e della presenza italiana. Non solo, come afferma, é un uomo rispettabile, ma questo sentimento d’identitá piú culturale che di classe, non gli impedisce di essere un patriota solidale ed orgoglioso del lavoro italiano all’estero. Anche questo é un modo di vedere l’America dalla finestra di Firenze. Come una sirena la febbre dell’oro attira gli Italiani: “Hojeé un libro de pagos. Primero de noviembre de 1897. Los nombres de los mineros estaban en columnas, teniendo al lado unas marcas que, día por día, indicaban su presencia en el trabajo. Y había, mezclados entre los demás, también nombres italianos... El encargado se equivocaba con frecuencia al escribirlos. Tachaba y volvía a escribir arriba. Me parece oírlo llamar: Luigi Ferretti, Giovanni Triscornia, Giuseppe Solari, Luigi Podestá: Me parecían nombres de compañeros muertos (Cecchi, 1989, p.20). American dream ed immigrazione italiana. Una storia amara. Come non ricordare quanto diceva Campanile che per ogni zio ricco d’ America c’era dietro una montagna di teschi di poveri? L’arrivo a Hollywood. Scrive Italo Calvino nella sua introduzione all’edizione messicana del libro:”Los apasionados del cine norteamericano de los treinta (quien como yo fue capturado por su encanto en la adolescencia y nunca más pudo arrancárselo de la memoria y del corazón, y quien lo recuperó más tarde en una óptica retrospectiva y de coleccionista) no podrán menos que reconocer el mérito del ojo de Cecchi por lo que ha sabido captar y registrar. Dos encuentros sobre todo: con Gloria Swanson y con Búster Keaton. Su admiración por la diva (y por la mujer”mejor en verdad que en la pantalla”) es tanta que el retrato regio que hace de ella se tiñe de una insólita conmoción – o quizá sólo a nosotros nos resulta conmovedor, a la luz que reverbera del otro extremo del Sunset Boulevard (Cecchi, 1989, p.8)”. O quanto Cecchi osserva di Búster Keaton: “una especie de hombre de la Luna, que camina distraído, tropezando con los detritos de un mundo patas arriba (Cecchi, 1989, p.8)”. Ed ecco come ci riassume Calvino la baraonda della filmazione sul set come appare a Cecchi: “... George Arliss que, con su perfecto inglés, se presenta como un modelo inigualable, Marlene Dietrich recién llegada de Berlín para cantar en Marruecos “las canciones más roncas” a Adolphe Menjou, “enamorado noble y frito (Cecchi, 1989, p.8)”. Poi, sempre seguendo il filo rosso, l’arrivo dell’epopea cinematografica di Al Capone ad Hollywood proprio quando il pubblico cominciava ad essere stanco di ingenue pellicole di avventure, con pirati, puritani e pionieri. Al Capone ed il Proibizionismo fanno guadagnare montagne d’oro ad Hollywood e di lui si parla piú che di Hoover, di Lindbergh o di Ford. Il viaggio prosegue. Dopo mesi, a Santa Fe, in Nuovo Messico, Cecchi riascolta le campane di una chiesa che risvegliano la nostalgia della campagna toscana ed anticipano Messico in un gioco tra il ritorno a casa e l’arrivo al paese barbaro: “Desperté en el cuartito de una posada como la que un viajero modesto puede encontrar en Siena o en Subiaco. No más las comodidades 4 excéntricas de los habituales hoteles norteamaricanos: no faltaba nada, pero todo era pequeñisimo y estaba muy usado. Me había despertado un sonido lejano y sin embargo íntimo: el sonido de nuestrs campanas que hacía muchos meses que no oía. Llamaban a misa. Y en mi duermevela me había parecido que venían, en una mañana de verano, de una colina toscana, y que yo era un muchacho en vacaciones. Las calles, en cambio, estaban cubiertas de hielo. En el río el hielo era tan grueso...Y la gente, al cruzarse, se daba patriarcalmente los buenos días como nosotros en el campo. Como contraste con los Estados Unidos fulmíneos y blindados, no se podía pedir más... Y ahora aparecían los indios: las caras cortadas por arrugas, como las de las máscaras; el paso suave, de ladrones de pollos; los flecos revoloteando... me encontraba también a unas viejecitas todas arrebujadas, con cuidado de no resbalar, que no tenían nada de indias: como las que sólo se ven en Florencia en la novena del Ceppo (Cecchi, 1989, pp.53-4)”. Voglio terminare questo primo incontro di Cecchi col Mediterráneo americano con queste righe illuminanti, in linea con, ora viene il bello: “Algunas horas después, en el hotel, todavía no se había ocurrido arreglar mi habitación. Entra Doris, la sirvienta mexicana, cargada de plata y turquesas, como un ídolo. Y viéndome sentado ante la mesita, una mesita del tamaño de un pañuelo, me dice que no me incomode, que a ella le da igual. Y acaba en menos tiempo del que empleo para escribirlo. Da la vuelta a la cama y el sol de la ventana la alcanza de lleno. Aun con los ojos fijos en el papel es imposible no darse cuenta de que, debajo de la blusa blanca, está como su mamá la echó al mundo. ¡Santa Virgen de Guadalupe, de veras! Aparte de las tentacíones, esta gente debe tener chile en la sangre para andar así, semidesnuda, en un hielo de tres palmos (Cecchi, 1989, p. 55)”. Ed infine Messico, entrando attraverso El Paso: “Norteamericanos que parten y mexicanos que llegan echan sobre los bancos de los revendedores cuchillos de caza, revólveres, cámaras fotográficas, lámparas de bolsillo, relojes y corales, Se entra en México atraversando una subasta colosal, una liquidación interminable. No sé por qué, pero eso da un gran entusiasmo. Parece que uno también arroja al montón algo inservible, y cruza la frotera mexicana sintiendo que ahora viene lo bueno (Cecchi, 1989, p. 86)”. Cecchi getta nel mucchio delle cose inutili anche una parte del suo disincanto, la parte weberiana e conserva quella fiorentina. Forse qui sta il motivo segreto del viaggio: l’avvicinamento ad una societá camaleontica, barocca e barbara, che nasce dalla Spagna e da America, che é per tre secoli La Nuova Spagna che é e non é la vecchia Spagna. Una societá che con l’Indipendenza adotta il nome preispánico di Messico per guardare al futuro. Ho usato l’espressione America mediterránea (in certo modo una parafrasi di America latina) perché mette in risalto i legami tra le due aree culturali, meglio che l’espressione America latina, ed anche perché il Mediterráneo non é solo il mondo latino, ma un crogiolo di mondi simili e diversi. Il Mediterráneo si puó definire geográficamente in forma ristretta, ma qui si definisce culturalmente e per ció in modo ampio. Una definizione di culture del Mediterráneo che vanno dagli Appennini alle Ande. Non sono le stesse del Mediterráneo, perché hanno partecipato alla loro formazione culture indigene americane e di altre immigrazioni, ma al Mediterraneo rimettono. Infine la coiné del Mediterráneo é stata sostituita da quella dell’Atlantico perché la civiltá del Mediterráneo, nel xvi secolo, scelse o fu costretta a scegliere il mar Atlántico in competizione tra le potenze dello stesso mare e dei mari del Nord. Il passaggio di Cecchi dagli Stati Uniti a Messico non solamente lo porta dallo sviluppo al sottosviluppo, ma implica un cambio di civiltá. E qui si apre il gioco di specchi tra vecchio e 5 nuovo Mediterráneo. Come dice, comincia il bello: comincia l’incanto o, meglio, il riincanto sulla pista di Stevenson, di Conrad. Ed ecco la prima frase su Messico che suona come un aforisma: “No es alegre México. Pero es mejor que alegre: está lleno de una furia profunda (Cecchi, 1989, p.91)”. Cecchi era meravigliato da quella che lui definisce la monumentaliá degli atteggiamenti della gente di Messico, dal fuoco delle fisionomie che lo stimolavano a cercare un paragone in Italia e solo lo trovava nei pastori dell’Agro Romano, che, a suo avviso, erano gli unici ad avere altrettanta maestá. Nella riflessione di Cecchi non vi é Messico senza Firenze e senza Stati Uniti. Ció che caratterizzava Messico era la carenza di frenesia del lavoro (chissá forse a quel tempo, certamente non oggi). Anche i conquistatori erano cercatori d’oro, non col sudore della fronte, ma col sangue della spada. Ormai, le cittá della febbre dell’oro sono state abbandónate, ma qui in Messico vi é un’altra desolazione quella di “Pueblos sustancialmente inmóviles. Gloriosamente petrificados (Cecchi, 1989, p.144)”. Frase che ricorda quanto diceva Paz della storia di Messico, del suo procedere a zigzag, tra lunghi sogni e tormentosi risvegli. Questo procedere della storia lo stimola ad una riflessione che sarebbe piaciuta ad un frate cronista del xvi secolo, Cecchi pensa che é come se ci trovassimo di fronte ad una realtá inumana e sovvertita: che fossimo, piú o meno direttamente, a contatto col demonio. Nella sua visione vi sono due Messico: alla superficie, sembra quasi che anticipi qualche idea di Bonfill Batalla, il Messico spagnolo nel profondo quello indio e sonnolento dai movimenti lenti proprii dei rettili. Le piramidi sono come colline di serpenti arrotolati che improvvisamente ed impredicibilmente si muovono con scossoni. La rivoluzione é stato uno di questi scossoni irresistibili. É interessante notare come in Cecchi la questione delle differenti civiltá prevalga sulla questione della lotta di classe, mentre, proprio in quel tempo il regista sovietico Ejsenstein cercava una sintesi tra questione di civiltá e questione di classe nella rivoluzione messicana. Cecchi crede che la forza storica profonda del paese risieda negli indios e non nei creoli e nei meticci. In questa direzione, facendo calcoli demografici, arriva a scrivere che la incredidibile varietá étnica del paese costituisca il maggior ostacolo per l’equilibrio sociale e político. Infine la sfida del futuro di Messico stava nella alternativa tra l’assimilazione al mondo occidentale e un cammino incerto indigeno. Ma come le pellicole Hollywood avevano condizionato la sua visione delle cittá abandónate della California, Posadas, piú che Diego Rivera (“... junto a su mole elefantesca, su esposa, con los cabellos partidos...era mas graciosa y disminuta”, p.153), influenza la sua riflessione e lo spinge a considerare la specificitá ed il peso della morte in Messico. Ricordando il cimitero del Tepeyac, Cecchi scrive: “... y en una tierra tan feroz y ajena... sentí en mi rostro el aliento cariado de la muerte” ma immediatamente mitiga questa presenza della morte come caratteristica mexicana nella memoria che aveva provato una sensazione uguale di fronte ad una fossa aperta nel cimitero di San Miniato, a Firenze. Voglio terminare queste note su Cecchi con le sue pagine magiche su Xochimilco ed alcune osservazioni felici che gli suggeriscono i corridos. Xochimilco. “A un lado, en el claustro, se pasean mendigos y peones decrépitos; o se están sentados en alguna piedra, noblemente envueltos en sus cobijas. Discurren en voz baja, con escasas palabras. En parejas se pasean lentamente, con pasos sin sonido. Con esa dignidad asiática, y un rostro que las privaciones han hecho transparente, parecen vivir fuera del siglo, en una especie de limbo. 6 Y quizá no sea una ilusión pictórica la que nos los muestra tan augustos y llenos de conceptos. Como que se han sublimado, a fuerza de años, de ayunos, de no lavarse y de estar pegados a esos muros. Poco importa que hablen solamente sobre el precio del apio o de caña de azúcar si, entre los arcos y las columnas, su asemblea tiene la majestad de un Senado (Cecchi, 1989, p. 119)”. Come sanno gli antropologi nessuno puó andare oltre la sua cultura. Il Senato non é un Senato qualsiasi, assomiglia trasparentemente a quello antico romano, ma dentro l’orizzonte chiuso della propria cultura che ha in maniera inevitabile frontiere insuperabili, si da un processo di metamorfosi, dove i mendicanti si trasformano in senatori. Messico provoca l’incanto, che era quello che Cecchi cercava. Infine i corridos, l’allegria dissacrante del Messico che incanta: “Así en La muerte de Emiliano Zapata, general que comparte con Villa los favores de la musa popular. Grandes hechos y grandes elogios, después desilusión y lamento: Mil promesas traía escritas en su bandera de guerra: la de humillar a los ricos y de repartir la tierra. Pero al fin nada se hizo De tanta hermosa doctrina, Y una provincia soberbia Convirtió en montón de ruinas. El se dedicaba al juego, A los toros y mujeres, Y los negocios de Estado Los dejaba a los ujeres” (Cecchi, 1989, pp.103-4). Ma quello che lo colpisce é il fatto che il corrido non é destinato soltanto a grandi fatti e grandi personaggi, ma che faccia parte della umile vita quotidiana: “Y en rigor, para que le canten a uno su corrido no hace falta morirse, ni haber disparado con el 30-30 entre los magueyes, ni haberse jugado la vida a capa y espada en la arena. Hasta un escritor, un escritorcillo o un simple periodista puede alcanzarlo; como Vargas Vila, que no era Cervantes ni tampoco Lasalle, y sin embargo, para festejarlo al regreso de no sé cuál viaje, oigan qué derroche: El pueblo lo ama y lo admira Y ha llegado hasta su hotel, Para abrazarlo bien fuerte Y desearle todo bien. Vuela, vuela, palomita, Párate en aquellos higos, Pero dile a Vargas Vila Que no olvide a sus amigos” (Cecchi, 1989, p.107). Questo anima Cecchi e lo fa sperare: “¡Con todas las desgracias que tienen, oh gente bienaventurada! Y ojalá nos hicieran nuestros lectores un corrido así: qué satisfacción, qué lindo sería. Oír una noche bajo la ventana un rumor de cuerdas, gargantas que se raspan y se aclaran, y una voz que ataca. ¿Qué es lo que cantan? Silencio un momento: Vuela, vuela palomita, Por sobre los terraplenes, Y al pobre (Emilio Cecchi) Dale nuestros parabienes” (Cecchi, 1989, p.108). 7 * Quando uscí l’edizione in spagnolo di Messico feci una recensione per il supplemento cuturale Semanal de La Jornada. Solo dopo molto tempo ebbi tra le mie mani la versione originale in italiano. Il mio Cecchi, per lo meno di questo libro, é in spagnolo. Non sono un critico letterario, sono un antropólogo che si é occupato di contatti tra culture diverse, ed in alcuni miei lavori ho interpretato questi contatti come amplissimi giochi di traduzioni di una cultura nell’altra, recíprocamente. Ogni traduzione, si sa, é un tradimento, perché alle ragioni di Roland Barth circa codici linguistici e codici translinguistici, si aggiungono quelle antropologiche: nessuno puó andare oltre la propria cultura ed ad essa riporta quanto gli accade e, ció, naturalmente provoca una distorsione nell’interpretazione di ció con cui veniamo a contatto. É il caso di questo México. Si tratta di un viaggiatore che col suo bagaglio culturale italiano, marcatamente fiorentino, con un certa sistematicitá interpreta le esperienze americane con cui si imbatte col suo universo culturale giá vissuto, il vecchio condiziona la novitá. Questo processo dipende dalla cultura di origine: si potrebbe dire che il ri-conoscimento precede il conoscimento vero, e, involucra emozioni. México é una traduzione (ben fatta da Stella Mastrangelo) tradimento di Messico, un tipo particolare di contatto di culture. E chi scrive é il prodotto di processi di acculturazione e sincretismo culturale e con questi si trova a casa. Cecchi, Emilio: México, prologo de Italo Calvino, México, FCE, 1989. 8