Il processo di ridisegnazione delle presenze nelle istituzioni religiose

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Il processo di ridisegnazione delle presenze nelle istituzioni religiose
IL PROCESSO DI RIDISEGNAZIONE DELLE PRESENZE
NEGLI ISTITUTI RELIGIOSI
NELLO SCENARIO DELLA VITA CONSACRATA DI OGGI
Don Mario Aldegani
SCHEMA
PARTE PRIMA
1. Orizzonti di senso nell’impegno di “organizzare il bene”

Qual è il nostro problema?
- La significatività, ad intra (nella chiesa), ad extra (nel mondo)
- Una certa rigidità istituzionale
2. “Tutte noi conosciamo la realtà attuale, segnata da profondi e rapidi cambiamenti”

Qual è il nostro impegno?
- Cogliere i segni del futuro nel presente
3. “Noi abbiamo da dare una grande importanza alle organizzazioni…”

E‟ solo un problema organizzativo?
- “E‟ importante cogliere che il processo di ridisegnazione comporta il disporsi
da parte di tutte a scelte di rinnovamento a livello personale, comunitario e strutturale, che mirano a dare speranze, prospettive future, a rispondere alle diverse
sfide formative e apostoliche nelle diverse aree geografiche del pianeta”.
4. Lo spirito che ci anima: “Non temete. Io sono con voi”
5. Cosa fanno gli altri: un processo diffuso e comune
6. Perché ridisegnare le presenze? Che utilità ne abbiamo?

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
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La domanda si può fare anche al contrario: perché no? Quali sono le vere ragioni o
le resistenze che ci impediscono di attuare questo processo?
Esigenza di semplificazione delle strutture di governo, in rapporto alla riduzione
del numero delle persone o delle presenze
Speranza/Fiducia di valorizzazione migliore delle forze o delle risorse
Un‟attenzione alla qualità, non solo ai numeri
Conservare e valorizzare al meglio le possibilità/capacità progettuali
Un processo che inevitabilmente “sveglia”, perché mette in gioco valori “scontati”
- Appartenenza. A cosa? A chi? “Si appartiene a ciò che si ama”
- Itineranza: ha un confine?
- Reale consistenza del corpo apostolico
- Comunicazione/Relazione
1
PARTE SECONDA
1. I Segni del futuro nel presente
1. una spiritualità incarnata
2. una fraternità leggibile
3. una nuova missionarietà
2. Criteri per ridisegnare le presenze
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
Ecclesialità
Fedeltà creativa al carisma dell‟Istituto
Essenzializzazione del carisma
Governare con una visione: sostenere il “nuovo”
Esplicitare i fini
3. Metodologia
 Operazione strategico-culturale, non tattico-organizzativa: importanza della convinzione e della determinazione del gruppo dirigente
 Chiarezza degli obiettivi da raggiungere e dei passaggi intermedi; verifica in
itinere per modulare la flessibilità dei tempi di realizzazione
 Studiare e attuare al meglio i processi di informazione e comunicazione (che, per
chi non è d‟accordo, saranno sempre uno dei primi “alibi”!)
 Coinvolgere il più possibile le realtà interessate, in più fasi e in molteplici forme
 Formulare con chiarezza il progetto e rispettare persone e progetto insieme
4. Elementi aggiuntivi
 Trarre spunto dalla propria storia: si impara da tutti, ma non si copia da nessuno
 Avere molta cura del processo, che può avere un effetto vitalizzante sull‟Istituto
 La transizione delle forme di governo non deve esser troppo lenta, per non generare confusione di riferimenti e instabilità istituzionale.
5. Conclusione
“ Vi è una tensione da vivere concretamente. Bisogna pensare globalmente, ma il nostro
agire sarà in funzione del territorio, delle realtà locali. Noi non possiamo scegliere tra il
globale e il locale: si tratta di vivere la tensione tra il bene universale e il bene particolare, ma dipende da noi che questa tensione sia distruttiva o fruttuosa, un problema o un
evento pentecostale” (P.H. Kolvenbach).
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PARTE PRIMA
1. Orizzonti di senso nell’impegno di “organizzare il bene”
Non possiamo parlare di questo tema, senza inquadrarlo in un orizzonte di senso, senza
essere consapevoli che esso non determina una semplice procedura organizzativa, ma bensì si
inscrive in un processo di trasformazione generale dentro il quale la VC sta cambiando mentre
sta cambiando il mondo.
 Qual è il nostro problema?
- La significatività, ad intra (nella chiesa), ad extra (nel mondo)
Il problema che spesso rimbalza nelle riviste di settore, nei convegni, nelle revisioni o
nelle programmazioni dei capitoli è quello della “significatività” della vita consacrata oggi.
Cioè: significa ciò che è, si vede in essa ciò per cui è nata ed ha senso nella Chiesa e nel mondo?
E‟ un problema reale ed essenziale, che si manifesta sia all‟interno (nella Chiesa) che
all‟esterno (nel mondo).
Nella Chiesa, al di là delle dichiarazioni di principio, non di rado le comunità religiose
si sentono utili ed apprezzate in una chiesa locale tanto quanto sono “funzionali”
all‟organizzazione ecclesiale e, in tal senso, rendono i servizi richiesti (catechesi, educazione,
sanità…), quanto poi al valore del carisma della VC o di una carisma proprio che rende più
bella una Chiesa… questo pare tutt‟altro discorso.
V‟è inoltre oggi la “concorrenza” di movimenti e nuove forme di consacrazione che, di
fatto, sembrano poter assolvere, in pratica, ai compiti di cui sopra che prima svolgevano le
congregazioni religiose, e che sembrano… più facilmente governabili!
Nel mondo, ce ne rendiamo conto ogni giorno, l‟apprezzamento della VC è semmai solo
per quel frate o quella suora che stanno sulla frontiera del disagio, della povertà o della missionarietà, cioè viene colto come significativo solo il versante “sociale” del servizio che religiosi e religiose offrono; tutto il resto (consacrazione, voti, vita comunitaria) non sembra molto apprezzato, è poco capito e forse anche poco creduto.
- Una certa rigidità istituzionale
Le strutture durano di solito di più e più a lungo delle necessità e dei bisogni che le
hanno fatte nascere e le trasformazioni istituzionali sono spesso assai più lente delle trasformazioni dei bisogni a cui esse rispondono, cosicché noi ci sentiamo in ritardo nelle nostre risposte, affannati a rincorrere una situazione che quando l‟abbiamo raggiunta magari è già
cambiata! Sembra paradossale affermarlo, ma, anche oggi, a dispetto del tempo delle “vacche
magre” che tutti stiamo vivendo, sembra più facile aprire una nuova presenza o comunità che
chiuderne una “storica”che magari ha esaurito il suo senso.
Così succede che quando si annuncia una imminente chiusura di comunità ed opere che
stavano languendo hanno improvvisi ed inaspettati sussulti, raccolgono consensi, energie e
motivazioni mai riscontrate prima per non rassegnarsi alla fine. Il risultato: sempre più spesso
“celebriamo con il dovuto fasto „centenari‟ di presenza su cui sarebbe più conveniente riflettere molto!
2. “Tutte noi conosciamo la realtà attuale, segnata da profondi e rapidi cambiamenti”

Qual è il nostro impegno?
- Cogliere i segni del futuro nel presente
Ci sono certo tanti problemi nella VC di oggi (ma sarebbe da vedere, in un‟analisi storica di lungo periodo, se quelli di oggi sono davvero più gravi e diffusi di quelli del passato),
ma ci sono anche segni di vitalità e credo che il nostro impegno consista proprio nel cogliere e
far cogliere questi segni: i segni del futuro che sono già dentro il nostro presente.
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Avvertire ed accogliere la stagione dei cambiamenti non come un dramma che è toccato
alla nostra generazione, ma come una risorsa, una possibilità, forse un Dono dello Spirito per
l‟oggi e per il domani.
3. “Noi abbiamo da dare una grande importanza alle organizzazioni…”

E‟ solo un problema organizzativo?
Mi pare che la risposta da parte vostra sia già stata data in modo assai chiaro:
- “E‟ importante cogliere che il processo di ridisegnazione comporta il disporsi da
parte di tutte a scelte di rinnovamento a livello personale, comunitario e strutturale, che mirano a dare speranze, prospettive future, a rispondere alle diverse sfide
formative e apostoliche nelle diverse aree geografiche del pianeta”.
Se la questione fosse solo di tipo organizzativo, bisognerebbe essere consapevoli che
nessuna riforma organizzativa è in grado di risolvere i nostri problemi di fondo e di toccare il
cuore delle persone.
Bisogna però, come dice il vostro Fondatore “dare grande importanza alle organizzazioni. Eh. Sì. Organizzare il bene. Le organizzazioni hanno una grande forza e ognuno può
essere un santo, ma da solo è un fuscello. Ma se invece di un fuscello si legano tanti rami insieme, allora diviene una forza. Ognuno, ormai, ai nostri tempi, da solo si lascia mangiare.
Bisogna sempre tenere presente: rafforzarsi con l‟unione”.
4. Lo spirito che ci anima: “Non temete. Io sono con voi”
Quante volte nel Vangelo questo invito di Gesù: “Non temete, non abbiate paura…”.
Questa parola sigilla tutta la vicenda dell‟incontro di Dio con gli uomini: dall‟annuncio
della sua venuta a Maria (Lc 2,8-12) all‟invito degli angeli ai pastori (Lc 2,10),
dall‟incoraggiamento di Gesù agli apostoli nella tempesta sul lago (Mt 14,27), sino alla parola
rassicurante dell‟angelo alle donne che erano andate al sepolcro (Mt 28,5).
Non temete, Non abbiate paura.
L‟annuncio della salvezza portato dal Signore per essere accolto deve fare i conti con la
paura.
La Luce, la novità, la pienezza scatenano dentro di noi, al primo impatto, il timore.
Il quotidiano sembra non saperli accogliere.
Il visibile a cui siamo abituati sembra non comprendere e non poter contenere la gioia.
Il vero nemico dell‟amore è la paura.
Essa ci paralizza e ci ostacola nell‟incontrare la gioia.
Non temete.
L‟angelo del Signore che mette in cammino e incoraggia i pastori fa lo stesso anche con
noi: ci rassicura e ci fa muovere, vincendo la paura di Dio, della sua Grazia, della sua Luce.
E nel farci muovere, prepara il nostro cuore all‟incontro che trasforma e ci fa vedere le
cose in modo diverso e nuovo: stando ancora dentro i nostri problemi e i nostri guai, ma lasciando che siano illuminati dalla Sua Luce.
Desidero anche rilevare il sentimento con cui affrontare la questione di cui stiamo parlando, che è l‟atteggiamento che deve connotare le persone di fede di fronte alle novità e al
futuro, “con speranza”:
- con speranza vuol dire non mettere subito in campo le difficoltà possibili e gli aspetti
non del tutto chiari; vuol dire accettare con serenità qualche fallimento senza scoraggiarsi o
scoraggiare, bocciando l‟idea o chiudendosi a questa strada nuova;
- con speranza vuol dire dare, da parte dei consigli di circoscrizione e delle comunità,
un credito di fiducia a chi fra noi ha in sé più ispirazione e più convinzione per percorrere
questi nuovi cammini;
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- con speranza vuol dire credere che, al di là di incertezze, ritardi o anche errori nel
percorso, questa è la strada buona per noi.
5. Cosa fanno gli altri: un processo diffuso e comune
Posso parlarvi con una certa precisione di informazioni solo degli Istituti maschili in Italia, ma recentemente ho avuto notizia che ciò sta avvenendo anche nelle congregazioni femminili e, comunque, ricordo che almeno 4 o 5 anni fa l‟USG e l‟UISG misero la questione al
centro del dibattito e della riflessione fra i superiori/e.
Alcuni rapidi esempi.
Da ormai 20 anni i Gesuiti hanno ridotto da 3 a 1 le province in Italia, con dei passaggi
intermedi (i “regionali”).
Qualche anno fa i Fratelli delle Scuole Cristiane ridussero da 2 a 1 le province italiane,
attraverso una fase prolungata di studio e di discernimento.
Intorno al 2002/2003 gli Agostiniani fecero un‟operazione drastica: le 7 province italiane furono ridotte a 1; la cosa determinò molte resistenze e anche ricorsi alla Congregazione
Vaticana. Il fatto è che ora gli Agostiniani sono in Italia una sola provincia.
I salesiani sono anch‟essi in un processo di accorpamento delle province.
La mia congregazione ha unificato le tre province italiane attraverso un processo di
transizione che è durato un sessennio, dal 2000 al 2006, e chi vi parla ha organizzato e gestito
questa transizione.
Della nostra esperienza quello che potrei condividere con voi è il fatto che da noi il
processo, avviato con un po‟ di incertezza e qualche resistenza, ha poi subito un processo di
accelerazione quasi imprevisto e ha convinto - sarebbe da vedere se per reale accordo al progetto o per rassegnazione - anche quelli che erano all‟inizio contrari.
Dunque:
 è un percorso comune e diffuso
 riguarda istituti piccoli e grandi
 coinvolge ordini antichi e congregazioni moderne.
6. Perché ridisegnare le presenze? Che utilità ne abbiamo?

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

La domanda si può fare anche al contrario: perché no? Quali sono le vere ragioni o le
resistenze che ci impediscono di attuare questo processo?
Esigenza di semplificazione delle strutture di governo, in rapporto alla riduzione del
numero delle persone o delle presenze.
Speranza/Fiducia di valorizzazione migliore delle forze o delle risorse.
Un‟attenzione alla qualità, non solo ai numeri.
Conservare e valorizzare al meglio le possibilità/capacità progettuali.
Un processo che inevitabilmente “sveglia”, perché mette in gioco valori “scontati”.
- Appartenenza. A cosa? A chi? “Si appartiene a ciò che si ama”.
- Itineranza: ha un confine?
- Reale consistenza del corpo apostolico.
- Comunicazione/Relazione.
INTERVALLO
INTERVENTI
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PARTE SECONDA
1. I Segni del futuro nel presente
Nella mia attuale lettura della situazione della VC, particolarmente per le Congregazioni
e gli Istituti con attività apostoliche, sono essenzialmente tre i cammini intrapresi che chiedono di essere sviluppati e sono il “nuovo” che germina dal nostro presente, il nuovo “possibile”, se lo vogliamo: sono tre “bisogni” della nostra vita e della nostra testimonianza; tre appelli che ci vengono dal mondo in cui viviamo e dalla gente che incontriamo ogni giorno. Ci è
chiesta:
4. una spiritualità incarnata
5. una fraternità leggibile
6. una nuova missionarietà.
UNA SPIRITUALITÀ INCARNATA
Il dato di partenza è che noi ereditiamo una spiritualità debole, perché sostanzialmente funzionale, ovvero una spiritualità come mezzo per l'apostolato più che come
struttura portante per la vita individuale e comunitaria.
E' una spiritualità devozionistica: alla base non c'è un vero patrimonio scritturistico
o liturgico; non ci sono testi significativi, classici che davvero sopportino l'usura del
tempo. C'è piuttosto l'enfasi su aspetti marginali del mistero cristiano, su dettagli che, alla lunga, distraggono dal nucleo forte della rivelazione.
E' individualistica. Rahner definiva la comunità gesuitica, in cui si era formato ed
era vissuto, una comunità di mistici individualisti. Anche da noi si diceva con una battuta: "Preghiamo insieme, ciascuno per conto proprio".
La logica di fondo suggeriva l'assunto che la comunità è l'effetto spontaneo dell'impegno individuale a perfezionare se stessi, quasi fosse la semplice somma delle persone
che la compongono e non anche una realtà organicamente e autonomamente strutturata.
La conseguenza di questo modo di intendere è il fatto che, se qualcosa non va, il
problema non sarà mai strutturale, ma sempre individuale. E' sempre il singolo che deve
interrogarsi, mai l'istituzione. E' il singolo ad essere portatore di disagio e di patologia,
l'istituzione non è mai patogena.
E' centrata sull'osservanza. Anche in questo caso si parte dal presupposto che
ciò che giova alla vita spirituale sia già tutto dato: non si tratta che di adeguarvisi. Il
contributo individuale è irrilevante, quando non irritante. Ottiene dunque l'approv azione
il comportamento conformista, dal momento che esso si dimostra il più funzionale all'esistente.
Occorre capire che non può esistere spiritualità seria se non come frutto di un incontro
tra competenza sul vangelo e competenza sul presente: solo così si riconosce il "tempo
opportuno", l'oggi di Dio.
Non c‟è dunque possibilità di elaborare spiritualità per l‟uomo senza immersione nella
situazione culturale che è quella della postmodernità, e questo diversamente da un tempo in
cui forse la spiritualità poteva prescindere dalla situazione storica.
Essere uomo significa esistere in una data cultura.
In ogni caso, per non essere “spaesati”, bisogna saper abitare il proprio tempo.
E‟ necessario, inoltre, dare maggior rilievo alla funzione umanizzante della spiritualità,
consapevoli che spiritualità e umanità vera non possono non convergere, infatti il Vangelo si
rivolge propriamente ai desideri più veri che ciascuno porta dentro di sé.
Questa spiritualità deve avere anche una dimensione sociale, cioè attenta ai problemi del
mondo, in grado di far assumere responsabilità.
La comunità dei credenti non è una realtà a-storica mirante solo al cielo, ma viene pienamente coinvolta nelle vicende di questo mondo. Ne consegue che la spiritualità si presenta
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primariamente non tanto come un sistema di norme ascetiche o in funzione della salvezza eterna, ma come elemento vitale nella realtà quotidiana.
Alla radice delle prospettive odierne della spiritualità si pone non la didattica ma
l‟esperienza. E‟ una via in funzione dell‟esperienza di Dio. La forza di un impegno nasce da
qualcosa di attraente che è “capitato a me”; non nasce da un “dovere”, ma da una “simpatia”.
La fame di Dio non può venire saziata dalla sola teoria.
Ci è richiesta una spiritualità che sappia dare risposte che si calino nelle situazioni correnti. Per essere rilevanti bisogna avere qualcosa di importante da dire su questioni che toccano la nostra competenza più profonda: la vita, la morte, le cose e Dio, la preghiera ed il senso
della vita, il ricevere ed il dare, il sentirsi amati e l‟amare, la realizzazione di sé e la fede.
Una spiritualità comprensibile per il nostro tempo è quella espressa con categorie appropriate alla mentalità secolarizzata e con parole nuove: vale a dire che a un laico desacralizzato non posso dare le risposte tipiche del mondo sacrale.
Una spiritualità necessaria è quella che dona e testimonia al mondo ragioni di speranza, impegnata a “cogliere l‟originalità e la ricchezza teologica e pedagogica della speranza,
in un contesto culturale, come quello attuale, che ne è molto povero; individuare atteggiamenti e scelte che rendano la Chiesa una comunità a servizio della speranza per ogni uomo”
(Comunicare il Vangelo…, appendice, “ragioni della speranza”).
Una spiritualità fruibile per il nostro tempo è quella resa visibile da modelli di santità
che interpellino l‟uomo del postmoderno.
Ci sono dei modelli con dei tratti caratteristici avulsi dalle attuali, ordinarie aspirazioni;
che suscitano ammirazione più che imitazione e che non mobilitano se non in chiave di devozioni.
Infine una caratteristica della spiritualità del futuro, forse quella più importante e significativa è che sia non un‟esperienza personale ma un‟esperienza comunitaria, dunque vissuta
non soltanto come ascesi individuale, ma come impegno comunitario nel realizzare la storia
della salvezza.
Tutto questo induce a “ripensare coraggiosamente il volto spirituale che è dato di incontrare, in questi anni, a chi osserva le nostre comunità: c‟è forse una mediocrità da combattere e l‟urgenza di pensare la vocazione universale alla santità, arrivando a tradurla quotidianamente in pedagogia e pastorale della santità” (CEI, Comunicare il Vangelo…, appendice, “qualità della formazione”).
Cosa può o deve dire la nostra vita al mondo d‟oggi?
1. Anzitutto che Dio è l‟Assoluto, è al primo posto nella vita di ogni uomo e di ogni
donna, perché Cristo, che siamo chiamati a seguire, è l‟Assoluto che si è fatto “carne” (Gv
1,4). In questo noi stessi siamo “sentinelle dell‟aurora”, impedendo al mondo di dormire e di
dimenticare da dove viene e dove va.
2. E poi che scegliendo Cristo s‟incontra la felicità e la piena autorealizzazione. E‟ la vita gioiosa, serena e libera che evangelizza e che può convincere della bontà del Vangelo.
“L‟annuncio profetico di cui la Chiesa e il mondo, con prospettive diverse, hanno bisogno è quello di guardare la santità con occhi nuovi, vedendola come la più alta e significativa
realizzazione della persona e, nello stesso tempo, di parlare dell‟autorealizzazione – questa
spinta innata a raggiungere la propria pienezza – come esigenza e categoria comunicativa
dell‟uomo d‟oggi. Lo scollamento di questi due termini (“santità” e “autorealizzazione”) è
alla base di molti fraintendimenti: una santità che non venga percepita come autorealizzazione diventa distante e poco attraente; un‟autorealizzazione che non si apra all‟Altro si ripiega
in sé stessa e non è che un‟illusione: la persona, infatti, si autorealizza pienamente nella misura in cui si fa dono per amore fino a dare la vita per l‟altro, come Cristo uomo perfetto”
(cfr. Instrumentum Laboris del Convegno dell‟Area Formazione a Collevalenza).
3. Scegliendo Cristo ci si ritrova fratelli e sorelle in comunione fra persone. Nel mondo
diviso e frantumato, cadute le grandi appartenenze gli uomini si domandano se e come è possibile vivere insieme, nella famiglia come nella polis.
A noi è consegnato dalla Chiesa l‟impegno di riproporre la bellezza e la grazia del Mistero Trinitario, che è mistero di diversità e di comunione.
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“La Chiesa affida alle comunità di vita consacrata il particolare compito di far crescere la spiritualità della comunione, prima di tutto al proprio interno e poi nella stessa comunità ecclesiale ed oltre i suoi confini, aprendo o riaprendo costantemente il dialogo della carità, soprattutto dove il mondo d‟oggi è lacerato dall‟odio etnico o da follie omicide. Collocate
nelle diverse società del nostro pianeta – società percorse spesso da passioni e da interessi
contrastanti, desiderose di unità ma incerte sulle vie da prendere – le comunità di vita consacrata, nelle quali si incontrano come fratelli e sorelle persone di differenti età, lingue e culture, si pongono come segno di dialogo sempre possibile e di una comunione capace di armonizzare le diversità” (VC 51).
4. Da consacrati, come testimoni di speranza, diciamo al mondo che Dio ci viene incontro dal futuro; che il tempo che passa non è il consumo o la perdita di tutto, ma l‟attesa paziente e laboriosa del Regno che viene.
La nostra spiritualità dovrebbe poter testimoniare che il tempo è un compimento non
una consumazione, non che il tempo passa ma che il tempo viene: questo è il senso profondo
del tempo consacrato al Signore e ritmato nelle Ore della preghiera liturgica.
“La vita religiosa è chiamata a far vedere che la fine del mondo non è da intendersi
come scacco di questa creazione, ma come trasfigurazione voluta da Dio per l‟universo e per
la nostra vita” Così scrive Enzo Bianchi, e poi continua:
“Vivere la dimensione escatologica significa vivere un rapporto diverso con le stesse
costruzioni che si abitano, con le stesse strutture della vita religiosa; significa ripensare autorità e ministeri in modo diverso”.
Mettere l‟escatologia al cuore della propria fede e della propria testimonianza significa
vivere nella certezza che Gesù Cristo è il compimento (Gv 19,30) e noi siamo protesi verso la
sua finale manifestazione; significa riguadagnare positivamente la consapevolezza della grandezza e insieme della provvisorietà, del valore e insieme dell‟incompletezza di ogni comunità
e di ogni testimonianza.
5. Infine la testimonianza della vita consacrata può far vedere al mondo il volto positivo
della “globalizzazione”: “Soprattutto gli Istituti internazionali, in quest‟epoca caratterizzata
dalla mondializzazione dei problemi e insieme dal ritorno degli idoli del nazionalismo, hanno
il compito di tener vivo e di testimoniare il senso della comunione tra i popoli, le razze, le culture. In un clima di fraternità, l‟apertura alla dimensione mondiale dei problemi non soffocherà le ricchezze particolari, né l‟affermazione di una particolarità creerà contrasto con le
altre, né con l‟unità” (VC 51).
UNA FRATERNITA’ LEGGIBILE
Credo si debba condividere il giudizio di chi afferma che in questi anni abbiamo speso
molte energie sul versante della formazione dei singoli, del ridimensionamento e della rinnovata gestione delle strutture, ma non è stato portato avanti con pari impegno il rinnovamento
della vita comunitaria, che resta per noi elemento fondamentale della nostra vita anche in ordine alla missione.
Su questo punto sembra che viviamo una stagione di grandi desideri irrealizzati e forse,
di qualche rimpianto.
Abbiamo il desiderio di relazioni più fraterne, di climi comunitari più umanizzanti, di
fraternità più gioiose, più libere e liberanti, ma assistiamo anche con preoccupazione a un certo sfilacciamento degli assi portanti della vita comune - la preghiera, la mensa, il dialogo, la
progettazione comune - con qualche rimpianto per quando tutto questo sembrava, almeno apparentemente, più garantito.
Infatti, nella vita consacrata, la vita comune è costitutiva, ma non è sempre facile trovare comunità dove si realizza una comunione di vita come parte di un cammino, di un progetto
che si percorre insieme. Si garantisce la vita comune, seguendo il disegno delle proprie regole
di vita o della programmazione, ma spesso è difficile mettere la vita in comune.
Tuttavia la testimonianza di una vita veramente fraterna è particolarmente importante
oggi, è vero annuncio vivente del Vangelo, è davvero missione.
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Nel contesto di un mondo ricco di comunicazioni e povero di relazioni, un mondo diviso ed ingiusto, la testimonianza di una fraternità che è la convivialità delle differenze, è particolarmente necessaria e, se cerca di essere così, ogni nostra comunità diventa luogo di speranza. Così la vita consacrata, come scrive Fabio Ciardi, è “profezia di comunione”1. Anzitutto in
quanto memoria della comunità dei Dodici intorno a Gesù e della prima comunità cristiana di
Gerusalemme.
La comunità religiosa non nasce da carne e da sangue, né da affinità elettive, ma è fondata esclusivamente sulla chiamata di Dio, animata dalla sua Grazia e da un amore soprannaturale. Inoltre la vita consacrata è profezia di comunione perché ha saputo adattare lungo i secoli, nelle forme storiche concrete, rispondenti ai tempi, l‟unica koinonia cristiana, mostrando
così che la comunione chiede di essere sempre inculturata.
Il discorso sulla vita comunitaria si fa ogni giorno più difficile ma non eludibile perché
una situazione, un luogo, influisce sempre e molto su quello che una persona è o diventa.
Tutti d‟accordo nel dire che bisogna aggiornarla ma qui le strade si dividono: c‟è chi ritiene urgente un‟operazione di restauro dei “pozzi” e chi le energie residue vuole spenderle
nello “scavarne di nuovi”.
La prima potrebbe sembrare la più possibile se si ritiene che bastino degli aggiustamenti
ai fini della sopravvivenza, ma a questo punto, la seconda, più ardua, ha maggiori prospettive
di futuro.
Il primo passo da fare è forse quello di passare “dall‟essere confratelli/consorelle a fratelli/sorelle”. Un conto è vivere vicino agli altri ed un altro è vivere per gli altri.
Certamente le nostre fraternità devono essere in qualche modo volute e non nascere da
stanchezze, essendo che le risposte rinforzate da qualcosa di cui uno ha bisogno e che desidera, hanno maggiori possibilità di altre di verificarsi.
In ogni caso il futuro vedrà, specie in Europa, una Vita Religiosa vissuta in piccole fraternità, in diaspora, come le chiese dell‟Apocalisse, all‟interno di una Chiesa che sarà sempre
più minoranza, e che avrà bisogno di riconoscere e valorizzare la Vita Religiosa nei compiti
specifici che discendono dai propri carismi, impastati nel territorio per rispondere ai bisogni
di questo.
A tal fine la sfida è quella di rendere missionarie le comunità.
Stile missionario significa portarsi dove le povertà si trovano anche fuori dalle strade
abitualmente battute, per continuare nel mondo il “proprio storico” della vita religiosa, cioè
quello di anticipare, con funzione di segno, le risposte religiose e sociali.
Il modo d'esservi del Religioso è quello di “fratello” che fa passare da una spiritualità
intesa prevalentemente come rapporto individuale con Dio a un rapporto che passa attraverso
le persone; una spiritualità del quotidiano connotata da semplicità, solidarietà, preghiera e un
lavoro vissuto come modalità di interpretare il Vangelo.
Questa attitudine missionaria richiede flessibilità nel formulare le scelte a seconda delle
situazioni mutevoli e capacità di elaborare nuovi codici interpretativi dei bisogni per poter trasmettere in contesto di secolarizzazione la propria ricchezza spirituale in dimensione laicale.
UNA NUOVA MISSIONARIETÀ
Uno dei punti cardine della riflessione che molti istituti hanno portato avanti in questi
anni è quello della relazione, cioè l‟impegno a lasciarci interrogare e anche in qualche modo
definire da ciò che è al di fuori di noi, e non consumare il meglio delle nostre energie triturandoci mente e cuore nella considerazione e nel tentativo di soluzione dei nostri problemi interni, ma guardare fuori di noi, oltre noi. In questo senso uno dei temi che “apre” a incontri e sinergie nuove il nostro essere e il nostro operare è quello del “territorio”.
Il territorio oggi è un riferimento complesso ed anche problematico per noi, perché impegna ad attenzioni e valutazione di criteri che possono anche contrastare con le logiche cui
siamo abituati, in relazione con le nostre presenze e le nostre opere.
1
F. Ciardi, in Religiosi in Italia, 337, p. 166
9
Nel mondo d‟oggi, la vita delle persone è diventata molto più mobile, molto flessibile
anche a causa delle condizioni lavorative, del modo di dare forma al tempo libero e della molteplicità delle interconnessioni rese possibili dai mezzi di comunicazione.
All‟interno di questo contesto, si deve cogliere come la relazione delle persone fra di loro e la loro vicinanza reciproca siano diventate fattori più importanti del rapporto con un determinato territorio.
La dimensione personale, la comprensione della dimensione personale del vissuto, il
rapporto interumano, sono elementi cardine per gli uomini e le donne di oggi: snodi che devono essere riconosciuti e cui la pastorale deve sapersi far carico.
A partire da queste osservazioni si potrebbe dire che l‟essenziale significato delle nostre
presenze sul territorio non è quello di erogare servizi, ma di produrre relazione, di offrirsi come spazi di comunicazione e di umanizzazione.
Si è parlato della necessità per noi di “passare dall‟opera al territorio”, oggi si dice della necessità di “convertirsi al territorio”.
La comprensione della complessità del territorio consente di cogliere ed accogliere gli
aspetti peculiari che caratterizzano a travagliano il modo di essere di relazionarsi, di agire degli uomini e delle donne di un ambiente, e di conseguenza, di aprire un dialogo costruttivo e
profondo sulle domande di senso.
Oggi il territorio non è solo né prima di tutto – lo sappiamo - un fatto geografico, ma
culturale, religioso e sociale: è la gente concreta, con tutti i suoi valori, problemi ed attese.
Oggi è oggettivamente più difficile conoscerlo e comprenderne la fisionomia culturale,
l‟identità spirituale, i bisogni che esprime: vi sono tratti che rendono ogni luogo uguale
all‟altro e contemporaneamente ogni luogo è plurale, presenta una realtà con molti volti, è
palcoscenico dove ogni attore (o gruppo di attori) recita la sua parte senza curarsi del vicino.
Entrare in relazione con un territorio significa allora avere primariamente consapevolezza che la società contemporanea è, ad un tempo, omogenea, uguale a sé stessa al punto da poter parlare di “villaggio globale”, e simultaneamente è caratterizzata da dimensioni che fra loro risultano spesso giustapposte, frammentata in gruppi talvolta anche spazialmente disgiunti,
aggregato di minoranze portatrici di interessi divergenti.
E‟ quanto mai necessario acquisire una conoscenza capace di descrivere la realtà, ma
anche in grado di spiegare i meccanismi che la determinano, di focalizzare la natura dei fenomeni che la caratterizzano, di scoprire le patologie che la tormentano.
E‟ in questa realtà che la vita consacrata oggi è chiamata a proporre la propria testimonianza, dando continuità e innovando una tradizione secolare di presenza fatta non solo di opere e di attività pastorali, ma anche di testimonianza di santità, di amore evangelico, di compassione e di condivisione del dolore. Sono questi i fili invisibili ma resistenti che hanno saldamente ancorato le comunità al territorio.
Convertirsi al territorio significa superare le logiche elitarie fatte di autosufficienza spirituale e organizzativa, di illusione di superiorità o di specialità, di pretesa di una specie di
immunità dalle umili fatiche della collaborazione e del confronto.
Convertirsi al territorio, per i consacrati, significa prendere coscienza delle potenzialità
e dei limiti del territorio in cui si è inseriti, sentirsi radicati profondamente in esso, coinvolti
nelle sue vicende, pronti a collaborare con le strutture che offre.
In questo quadro è forse possibile trovare un senso nuovo per le nostre presenze: se
prima eravamo utili soprattutto per i nostri servizi, adesso possiamo essere utili come „segni‟
di una fraternità possibile, di una relazionalità feconda.
Non è tanto significativo se abbiamo scuole, ospedali, parrocchie… ma se da noi si sperimenta condivisione e qualità.
Ritorna per noi il ruolo di “esperti in comunione”.
In questo senso l‟opera si misura davvero con il territorio se, oltre che essere segno di
una fraternità possibile, si spende per la crescita di tutta la realtà territoriale.
Un‟opera dalle porte aperte; un servizio che si integra con gli altri, non preoccupato del
proprio successo, ma della crescita del contesto, fino al paradosso che potrebbe non esserci
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più bisogno di questa presenza, perché il territorio è cresciuto abbastanza da poterne fare a
meno: meglio dunque celebrare con allegrezza i centenari delle presenze o i giorni delle partenze?
La prospettiva del territorio, messo al centro dei pensieri e dei criteri per le scelte e le
strategie, tocca e coniuga in modo nuovo almeno altre due questioni.
La prima riguarda il rapporto religiosi/laici.
Territorio significa propriamente laici.
Loro rimangono, noi siamo di passaggio. Non sarebbe giusto, dopo aver speso tante parole con loro e per loro e averli coinvolti in responsabilità nelle nostre attività ed opere, scegliere e decidere noi, in modo autonomo. La fatica per noi è capire cosa conta veramente della
nostra missione, ciò che le è essenziale e ciò che invece è inevitabilmente strumentale, persino
accessorio. Ma sarebbe già abbastanza pensare che l‟opera, in quanto opera, non è nostra, ma
del territorio: con questa attenzione sapremmo poi che scelte fare.
L‟altra questione riguarda il linguaggio, che è l‟istituzione fondamentale che caratterizza una cultura.
L‟opera “nostra” ci consente un linguaggio “autoreferenziale”: sono gli altri che devono imparare la nostra lingua, le nostre formule, perché sono loro che devono venire da noi.
Credo e temo che oggi questa prospettiva non regga più e sia perdente. Se vogliamo
comunicare sperando di essere capiti, dobbiamo proprio fare lo sforzo di essere più laici nel
nostro linguaggio. Lo era Gesù quando per annunciare il Regno parlava di sementi e di frumento, di viti e di vigne, di pastori e di pecore, di reti e di pesca a gente che faceva il contadino o il pastore o il pescatore.
Un mio confratello che lavora come insegnante ed animatore in una nostra scuola mi
scriveva: “Credo che dovremmo ascoltarci qualche volta. Perché dovrebbero essere significative delle nozioni catechistiche e delle riflessioni morali con giovani totalmente digiuni di
cose religiose? Ti assicuro che le liriche di Baudelaire sono uno spunto molto più interessante di tante prediche già fin troppo prevedibili, o di tanti spunti tratti dai libretti religiosi. Non
dico che bisogna rinunciare ad un discorso più strettamente religioso, ma credo che sia qualcosa che si deve guadagnare, come „grazia a caro prezzo‟: non siamo spesso imbonitori (tra
l‟altro poco convinti) di saldi di fine stagione?”.
L‟attenzione al linguaggio è così una forma importante di attenzione, di conoscenza e di
comprensione del “territorio” morale, mentale, culturale e sociale che forma la vita delle persone che incontriamo.
Mettere in una relazione nuova “opera” e “territorio” significa dunque impegnarsi in
un‟operazione culturale, prima ancora che organizzativa.
Un rinnovato rapporto fra opera e territorio ha bisogno, per essere vivo e creativo, di essere messo in relazione con altre realtà, per superare un‟interpretazione solo passivo-ricettiva
per quanto riguarda il territorio e solo attiva e di proposta per quanto riguarda l‟opera. Come
se il territorio fosse una sorta di contenitore che non ha un suo contenuto fecondo
nell‟incontrarsi con l‟opera, e come se l‟opera non avesse anche una dimensione di ascolto e
di preformazione che nasce dal contesto in cui è inserita.
E‟ necessario quindi, coniugare “opera” con carisma, servizio, testimonianza perché
l‟opera nel trasformarsi non perda il suo senso.
Allo stesso modo è necessario coniugare “territorio” con missione, politica (l‟ethos della polis), comunità, Paese (gli enti che hanno funzione di tutela dell‟interesse generale) per fare una lettura responsabile del contesto in cui si vive e con cui ci si relaziona.
Si può così ricreare un circuito virtuoso perché circuito di senso, cioè di valore (di ciò
che informa l‟agire) e di direzione (di orientamento dell‟agire).
Dentro questo insieme di relazioni avremo non solo un‟opera per il territorio, ma
un‟opera con il territorio, e un territorio che non è solo il “contenitore” dell‟opera ma è con
essa in relazione viva e vivificante. Perché un‟opera vive in uno spazio e in un tempo e si confronta non solo con la storia e la geografia, ma anche con un‟antropologia, un‟etica,
un‟economia, una sociologia specifiche.
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D‟altro canto un territorio esprime reti di relazioni fra persone, enti, natura, oggetti che
inevitabilmente influiscono (ed è bene che influiscano) con l‟opera.
Vi sono insomma un dialogo che va mantenuto veritiero e costante nel tempo e delle
forme di servizio e di istituzione che permettono il mantenimento di questo dialogo.
Se un servizio e un‟istituzione che nascono dall‟intuizione dell‟opera hanno un costante
riferimento alla comunità e al Paese e sottintendono una vocazione alla promozione umana e
la centralità della persona, sono costantemente chiamati al cambiamento.
Non un semplice cambiamento adattivo, ma un cambiamento creativo e in questo senso
capace di mantenere fede alla tradizione.
Nel Supplemento al Dizionario Teologico della Vita Consacrata, alla voce “OpereAttività”, S. Abruzzese presenta alcune osservazioni che situano e spiegano in modo originale
la nostra presenza nel contesto attuale:
“Il mondo moderno, - scrive Abruzzese - più che abbattere gli Ordini religiosi, sembra
favorirne alcuni e penalizzarne altri… In una parola, la modernità ha funzionato come elemento di selezione più che di semplice crisi”2.
“Sembra possibile ritenere come ogni forma specifica del„fare‟ così come ogni realizzazione razionale dell‟„essere‟ non si siano sviluppate al di fuori di una domanda sociale,
seppur implicita, presente in ogni singolo contesto storico. Pertanto, al di là delle opere concrete intese come costruzione ed avvio di reti di servizio spirituale e sociale, la costituzione
stessa di ogni singola famiglia religiosa finisce con il rispondere a delle domande sociali
concretamente situate e quindi si inserisce, di fatto, in uno «spazio di plausibilità» che la società ha aperto”3.
“Plausibilità” non indica un flettersi acritico della vita consacrata agli umori sociali, tanto meno un correre dietro alle mode del momento, ma la capacità di porsi nella società in rapporto con le questioni fondamentali del proprio tempo, incontrando l‟uomo reale.
“Lo spazio di plausibilità per la vita consacrata sembra essere tanto più deciso quanto
più questa si converte da una spiritualità dell‟attesa a una della condivisione, da un‟etica
della perfezione interiore a una della compagnia all‟uomo. In un‟epoca «senza Dio e senza
profeti», prendono rilievo i testimoni attivi, i compagni di strada solleciti e presenti, gli educatori capaci di risollevare una società senza lasciti ereditari […].
La vita consacrata, qualunque ne siano le forme specifiche, deve rendersi plausibile sul
piano della vita presente più che su quello della glorificazione futura. In altri termini essa arriva per arricchire il soggetto più che per depauperarlo; per restituirgli subito ciò a cui questi rinuncia”4.
Il rapporto all‟Unesco della Commissione Internazionale dell‟Educazione per il Ventunesimo Secolo (“Nell‟Educazione un tesoro”), indica come sfida prioritaria per l‟educazione
del terzo millennio “la tensione fra globale e locale” e riconosce in essa una questione interna
al tema dell‟identità tesa fra l‟appartenenza alla propria comunità e il sentirsi cittadini del
mondo.
Nella società odierna complessa e frantumata, alla propensione di tracciare i perimetri
della propria umanità dentro lo spazio ridotto delle personali sensibilità e all‟emergere di
spinte disgreganti, si contrappone la tendenza sociale, economica e culturale della “globalizzazione” con il valore ed i limiti che essa comporta.
In un contesto così contraddittorio mi pare compito formativo far maturare atteggiamenti di pieno inserimento nel locale e di piena apertura al globale (“pensare globalmente ed agire localmente” – secondo una formula nota).
Mentre segnare i confini è operazione necessaria per costruire un‟identità genuina, fatta
di memoria e di appartenenza, rinchiudersi dentro i propri confini significa rendere sterile la
2
S. Abbruzzese, Supplemento al Dizionario Teologico della Vita Consacrata, a cura di G.F. Poli, Milano, 2003,
p. 259
3
ibidem p. 261
4
ibidem p. 270
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propria identità. Per affrontare questa sfida è necessario formarsi al pensare contestuale, al
pensare insieme, al lavorare insieme.
L‟“ottica di rete” è la nuova epistemologia di ogni serio ed efficace prendersi cura
dell‟altro, anche nel compito di far maturare la sua consapevolezza vocazionale: la rete è una
concretezza di fili - il territorio, la sua specificità, le sue caratteristiche, ma inutili ed insensati
se non in connessione con gli altri.
Formarci a questa capacità di camminare con gli altri, di programmare insieme, sia a livello di istituti e di comunità ecclesiale che di uomini di buona volontà, è il compito aperto
dei nostri giorni.
Vivendo dentro la chiesa locale aperti alla chiesa universale, dentro la chiesa locale e
aperti al territorio, dentro il territorio e aperti alla casa-mondo possiamo sperimentare ognuno
in pienezza ciò che siamo e ciò che portiamo, avendolo ricevuto in dono, cioè la pienezza del
nostro carisma.
2. Criteri per ridisegnare le presenze
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Ecclesialità
Fedeltà creativa al carisma dell‟Istituto
Essenzializzazione del carisma
Governare con una visione: sostenere il “nuovo”
Esplicitare i fini
3. Metodologia
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Operazione strategico-culturale, non tattico-organizzativa: importanza della
convinzione e della determinazione del gruppo dirigente.
Chiarezza degli obiettivi da raggiungere e dei passaggi intermedi; verifica in
itinere per modulare la flessibilità dei tempi di realizzazione.
Studiare ed attuare al meglio i processi di informazione e comunicazione (che,
per chi non è d‟accordo, saranno sempre uno dei primi “alibi”!).
Coinvolgere il più possibile le realtà interessate, in più fasi e in molteplici forme.
Formulare con chiarezza il progetto e rispettare persone e progetto insieme.
4. Elementi aggiuntivi
 Trarre spunto dalla propria storia: si impara da tutti, ma non si copia da nessuno.
 Avere molta cura del processo, che può avere un effetto vitalizzante
sull‟Istituto.
 La transizione delle forme di governo non deve esser troppo lenta, per non generare confusione di riferimenti e instabilità istituzionale.
5. Conclusione
“Vi è una tensione da vivere concretamente. Bisogna pensare globalmente, ma il nostro
agire sarà in funzione del territorio, delle realtà locali. Noi non possiamo scegliere tra il
globale e il locale: si tratta di vivere la tensione tra il bene universale e il bene particolare, ma dipende da noi che questa tensione sia distruttiva o fruttuosa, un problema o un
evento pentecostale” (P.H. Kolvenbach).
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