suicidio - Dipartimento di Lingue, Letterature e Culture Moderne

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suicidio - Dipartimento di Lingue, Letterature e Culture Moderne
SUICIDIO
1.
Gli omicidi, spesso tentati, e che sono soltanto fantasticherie, perlopiù, serpeggiano per tutta
l’opera di Moravia e risultano sempre presenti nelle ariose narrazioni, nelle brevi storie e nei
racconti di varia tipologia. Negli Indifferenti è manifesto, da parte di Michele, con molta
veridicità artistica, il tentativo di omicidio di Leo. Si pensi, inoltre, all’assassinio di Sofia, da
parte di Andreina, in Le ambizioni sbagliate, al delitto tentato in L’architetto, ove il protagonista
fantasticava di uccidere se stesso ed Amelia (I 1189), alla “collera omicida” di Sangiorgio in
L’equivoco (II 156) e all’Urati ucciso dalla guardia notturna, all’immaginazione omicida in I
sogni del pigro, al Sonzogno assassino del ricettatore del portacipria d’oro in La romana,
all’impulso di ammazzare Tereso in La mascherata (II 168), all’uccidere e uccidersi in Beatrice
Cenci (T 298) e in La vita interiore (VI 76-77), dove, peraltro Desideria uccide con la pistola
prima il Tiberi (VI 404) poi Quinto (VI 409), al delitto – ossessione di cronaca nera – in La
disubbidienza (II 383), al narrante in Il cancello chiuso, il quale nel carcere mostra un’attenzione
significativa per il prigioniero che ha commesso delitti, al Kurt assassino e membro di una
società di assassini (T 509), al tentativo di omicidio di Riccardo Molteni della moglie Emilia
nel Disprezzo (III 925), al delitto non compiuto da Marcello Clerici (III 52) e all’omicidio
politico in Il conformista, al tentato e fantasticato delitto di Cecilia da parte di Dino in La noia
(IV 281), all’uccisione del marito da parte della moglie nella raccolta Un’altra vita, all’omicidio
in Al dio ignoto (C 42-43). In La moglie-giraffa, nella raccolta La villa del venerdì, infine, una
donna “rivede la giraffa e prova di nuovo l’impulso omicida” (VV 170). In Sarà vero, sarà
falso? tale Terenzio stringe al collo la moglie “con desiderio di uccidere” (VV 188).
L’omicidio1, però, piuttosto vagheggiato e messo in atto soltanto in alcuni casi, è sovrastato
dal suicidio, che è davvero ossessivo e con frequenza appare anch’esso quale tentativo
oppure fantasticheria2. In L’amore coniugale Silvio Baldeschi, che si autoritrae nelle prime
pagine della narrazione, per esemplificare il suo disagio vitale citava la “novella” di Poe Una
discesa nel maelstrom:
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In gioventù queste crisi erano frequenti e posso dire che non ci sia stato giorno, tra i venti e i
trent’anni, in cui io non abbia accarezzato l’idea del suicidio. Naturalmente io non volevo
nella realtà uccidermi (altrimenti mi sarei ucciso davvero), ma questa ossessione del suicidio
era purtuttavia il colore dominante del mio paesaggio interiore. (II 1207)
Il suicidio è dominante nei personaggi moraviani. In Le ambizioni sbagliate Andreina comunica
che la soluzione ai diversi problemi poteva essere suicidarsi3. Il motivo si ritrova anche in
Fine di una relazione, del 1933, che si conclude con un vaneggiamento del protagonista
Lorenzo, depresso e infelice:
Gli venne ad un tratto in mente di togliersi una vita ormai tanto vuota e incomprensibile, il
suicidio gli sembrò facile e maturo, quasi un frutto che gli sarebbe bastato di stendere la
mano per cogliere; ma oltre ad una specie di disprezzo per un’azione che aveva sempre
considerato come una debolezza, oltre ad un senso quasi di dovere, gli parve di esserne
trattenuto da una speranza strana e nella sua presente condizione, inaspettata: /…/. (I 470)
In Ritorno al mare, racconto del 1946, un personaggio che discute con la moglie, dalla quale è
separato, sente “l’appello del mare. Come un desiderio di riaffacciarsi a quell’eterno
movimento, a quell’eterno clamore prima di tornare in città” (II 1332). Egli voleva “togliersi
le scarpe, rimboccarsi i pantaloni e camminare lungo il mare, nell’acqua bassa e fluida del
flusso e riflusso delle onde” (II 1332). Viene travolto dalle onde, in un suicidio involontario,
ma oggettivamente desiderato:
L’acqua lo tirava di sotto per i capelli; in un movimento che fece il suo corpo, testa in giù e
piedi in alto, per il passaggio di un’onda, vide già lontano una larga chiazza rossa trascorrere
verso la riva insieme e con gli anelli di spume e i neri detriti. Poi un’altr’onda sopravvenne e
lo sommerse mentre chiudeva gli occhi. (II 1334)
In La casa nuova un “vecchio” si ammazza con la rivoltella “che aveva tolto dal cassetto”:
“una secca e violenta esplosione fece tremare i vetri della finestra” (I 1622). Una “tentazione
suicida” è anche nel Luca della Disubbidienza, il quale “per un momento provò l’impulso di
aprire lo sportello e gettarsi fuori dal treno”: “era lo sbocco naturale del furioso senso di
impotenza che lo sconvolgeva” (II 1077). Una fantasticheria non di suicidio, ma di non
essere mai nato si rileva, invece, nel Mino della Romana. Il giovane poggia la testa nel grembo
di Adriana, “come se avesse voluto entrarci ed esserne inghiottito” (II 978). In una sequenza
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successiva, quando la donna almanacca che Sonzogno avrebbe potuto uccidere entrambi, e
la morte sarebbe avvenuta “mescolando” il loro sangue, si aggiunge un altro sogno ad occhi
aperti:
Darsi la morte insieme mi pareva la conclusione degna di un forte amore. /…/ Io avevo
spesso pensato a questa forma di suicidio che arresta il tempo prima che corrompa e
avvilisca l’amore ed è voluto ed eseguito piuttosto per eccesso di gioia che per insofferenza
del dolore. (II 1031)
Si badi che infine Mino si suicidò davvero con un colpo di pistola, come aveva comunicato
ad Adriana. La quale, a sua volta, immagina un suicidio in mare:
mi venne un gran desiderio di morire annegata. Pensai che avrei sofferto un momento solo,
e poi il mio corpo esanime avrebbe galleggiato a lungo, di onda in onda, sotto il cielo. Gli
uccelli marini mi avrebbero beccato gli occhi, il sole mi avrebbe arso il petto, e il ventre, i
pesci mi avrebbero rosicchiato il dorso. Finalmente sarei affondata, tirata giù per la testa
verso qualche corrente azzurra e fredda che mi avrebbe fatto viaggiare in fondo al mare per
mesi e per anni, tra le rocce sottomarine, i pesci e le alghe, e tanta, tanta acqua limpida e
salata sarebbe trascorsa sulla mia fronte, sul mio petto, sul mio ventre, sulle mie gambe,
portando via lentissimamente la mia carne, levigandomi e assottigliandomi sempre più. E alla
fine, una ondata qualsiasi, in un giorno qualsiasi mi avrebbe gettato con fragore sopra una
spiaggia qualsiasi, ridotta ormai a poche ossa bianche e fragili. Mi piaceva l’idea di essere
trascinata in fondo al mare per i capelli, mi piaceva l’idea di esser ridotta un giorno ad un po’
d’ossame senza più forma umana, tra i sassi puliti di un greto. E magari qualcuno senza
avvedersene avrebbe camminato sulle mie ossa riducendole in bianca polvere. In questi
pensieri voluttuosi e tristi alla fine mia addormentai. (II 1042-1043)
La citazione è lunghissima, ma si è resa necessaria perché qui si rileva perfettamente come
non sia Adriana a confessarsi ma lo stesso romanziere che evoca l’ossessione fantasmatizzata
del suicidio. I dettagli sono del Moravia narratore e, in questo caso, del suo rapporto con
l’acqua, e l’acqua del mare, segnatamente.
Un tentativo di suicidio è anche in Riccardo Molteni, il quale a Capri, passeggiando da solo
per un “viottolo”, dal quale “si staccava un sentiero minore che portava ad un belvedere
sospeso sull’abisso”, guarda “in giù” e viene attratto, come tanti altri personaggi moraviani,
dall’abisso e dall’acqua:
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Il mare, cento metri più sotto, palpitava e scintillava al sole, trascorrendo e cangiando di
colore secondo il vento, qui celeste, là di un blu quasi violetto, più lontano verde. Da questo
mare remoto e silenzioso, le rupi ritte dell’isola sembravano volarmi incontro, venendo su a
frotte, come frecce, con le loro punte nude e risplendenti di sole. Allora d’improvviso, non
sapevo perché mi venne una specie di esaltazione e pensai che non avevo più voglia di
vivere, e mi dissi che se in quel momento avessi spiccato il salto nell’immensità luminosa,
sarei forse morto in maniera non del tutto indegna della parte migliore di me stesso. Sì, mi
sarei ucciso per raggiungere con la morte la purezza che nella vita mi era mancata. (III 999)
In Luna di miele, sole di fiele, da una discussione di una coppia in viaggio di nozze, la moglie,
funzionaria comunista, riferisce che si sarebbe uccisa piuttosto che denunziare il marito. Il
quale “non ebbe il coraggio di ricordarle che, quella mattina, scendendo al faro, ella aveva
condannato il suicidio, come atto inammissibile e morboso” (III 385). In La mascherata si
riscontra la fantasticheria di suicidio di Fausta e Sebastiano (II 46). In Il dio Kurt si apprende
che Ulla è stata suicida “sul lungofiume, ha lasciato la borsa e i guanti su una panchina, si è
gettata nell’acqua” (T 473-474). Anche Cesira in La ciociara tenta di suicidarsi dopo lo stupro
subìto dalla figlia Rosetta. Ad occhi aperti fantastica. Alla disperazione che la prende di
vivere in un mondo ingiusto ne trae la conseguenza del suicidio. Ma la porta della baracca si
spalanca e appare Michele. Si tratta però di un’allucinazione, perché il giovane era morto. Il
sogno ad occhi aperti, comunque, un “sogno” come un “miracolo” costringe Cesira a non
suicidarsi, perché Michele le ha spiegato il senso della vita (III 1460).
Anche Rico, in Io e lui, tenta il suicidio. A sua volta il pittore Balestrieri, in La noia, prima
tenta il suicidio con i barbiturici e poi con gli eccessi sessuali (IV 78 e 85). Per Dino, invece,
gli esseri umani si dividono “in due grandi categorie: coloro che di fronte ad una difficoltà
insormontabile provano l’impulso di uccidere e coloro che invece provano l’impulso di
uccidersi” (IV 289). Egli stesso ritiene che tornare a vivere dalla madre rappresenti un
suicidio metaforico (IV 250), infine tenta il suicidio guidando l’automobile; devia dal
percorso e si schianta contro il primo ostacolo. Confessa: “non pensavo di uccidermi, l’idea
del suicidio non era mai nella mia mente” (IV 288). Esisteva, invece, nel suo “corpo” la
“voglia della morte”.
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Molti altri personaggi minacciano di uccidersi: Beatrice Cenci, se il padre non l’avesse fatta
evadere dalla “prigione” del castello in montagna (T 227), Empedocle in Il sandalo di bronzo,
Lucano in Morte di Lucano e Lucrezio in Antico furore. In La vita interiore Desideria intende
gettarsi dalla finestra e confessa di aver avuto la “tentazione” di suicidarsi “almeno una volta
al giorno” senza un motivo, sintomaticamente rispondendo al narrante-intervistatore: “era
come il flusso e il riflusso del mare: ora mi piaceva vivere e ora desideravo morire”. A
quindici anni descrive cosa sarebbe accaduto e fantastica come sarebbe avvenuto il suicidio.
Nel racconto Invischiato, della raccolta Una cosa è una cosa, è trasparente il progetto di suicidio
di un individuo che ha litigato con la moglie e prova “un sentimento di disperazione totale;
io correvo in quel modo perché volevo morire, assolutamente. Abito vicino al Tevere;
logicamente pensavo di andare a buttarmi al fiume” (IV 1270), ma sente fortemente il
contrasto tra la vita che lo attira e ancora lo risucchia (“la vita mi aspettava con una delle sue
più infallibili risorse: l’abitudine”; IV 1271). Nel racconto L’automa, nell’eponima raccolta,
Guido, un padre di famiglia, organizza di domenica una gita in macchina per il lago di
Albano con la moglie e i due figli. Durante il viaggio, senza alcun segno premonitore,
apparentemente, alla guida dell’automobile “gli venne un pensiero preciso: spingere la
macchina a tutta velocità in quel vuoto che si scorgeva in cima alla salita e gettarsi nel lago,
insieme con la moglie e i figli”:
Ma era poi davvero un pensiero oppure una tentazione? Era una tentazione, quasi
irresistibile, di una dolcezza funebre, tenace e struggente; simile a quella che ispiri una pietà
che non voglia restare impotente. (IV 602)
La “tentazione” del suicidio, ma soltanto la tentazione, si badi, come nettamente è stato
detto dal Dino della Noia (“tentazione di una singolare irresistibilità, allettante e al tempo
stesso rassicurante”; IV 288), attraversa quale irrefrenabile istinto di morte i personaggi
moraviani e rivela la loro insoddisfazione della vita. Al termine del racconto L’automa si
apprende che in quella giornata cadeva l’anniversario del matrimonio di Guido (IV 603).
Nella raccolta di racconti Il Paradiso gli episodi di suicidio sono molto frequenti e toccano
prevalentemente le protagoniste e narranti. In Un gioco una donna confessa:
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Piangendo dirottamente in quell’ombra ormai fitta, mi sono detta che il suicidio era la sola
azione che convenisse alle circostanze in cui mi trovavo. Sì, soltanto uccidendomi potevo
dimostrare a Vittorio, ma soprattutto a me stessa che il mio amore, anche se si esprimeva per
luoghi comuni, era ciononostante sincero e autentico. O meglio, poiché il mio scopo non era
di morire ma di convincere, io dovevo limitarmi a tentare il suicidio. Ma dovevo tentarlo con
sincerità, senza riserve. Una sincerità da lavanda gastrica, da gamba spezzata, da ferita di
arma da fuoco guaribile in quaranta giorni. (PAVB 30)
In Le parole e il corpo il suicidio dovrebbe eliminare le contraddizioni tra corporeità e
linguaggio. In Gli ordini sono ordini una “voce” “eccessivamente bizzarra” dà ordini alla
narrante: “C’era da aspettarsi di tutto; persino che mi ordinasse di gettarmi dalla finestra. Ma
senza andare fino al suicidio, sono convinta, non so perché, di ricevere quanto prima l’ordine
già minacciato” (PAVB 127). In Viva Verdi, nella stessa raccolta, la protagonista guida la
macchina di sera da Roma ad Ostia, accende la radio e ascolta il Rigoletto, raggiunge la
spiaggia, entra in acqua. C’è l’alta marea:
Adesso pensavo di annegarmi camminando nel mare fino a quando non avrei più toccato il
fondo. Non potevo più non essere quella che ero, ormai. La sola maniera di sfuggire al mio
personaggio, era di uccidermi. (PAVB 155)
Esiste un nesso con l’opera lirica. La donna, dominata dall’impulso irrefrenabile di molti
personaggi moraviani, tenta soltanto, ma poi delibera di non suicidarsi:
Ero già con l’acqua sotto il mento. Tutto ad un tratto ho avuto la sensazione di stare sopra
una ribalta io stessa, di fronte ad una nereggiante platea. Ho capito che quei battimani che
parevano venire dal mare non erano per Rigoletto ma per me. Suicida, ero più che mai la
madre simile a Rigoletto; la madre da opera; la madre che si uccide perché suo figlio non c’è
più. Bruscamente la mia mente ha cessato di delirare. Mi sono voltata dentro l’acqua e sono
tornata indietro. Non c’era nessuno tuttora sulla rotonda. Nessuno ha visto una donna
matura salire, tutta inzuppata, nella macchina, mettersi al volante, scomparire nella notte.
(PAVB 156)
Il tentativo di suicidio, soprattutto negli ultimi racconti, è sempre tragicomico, represso e
frustrato, frutto di disperazione oggettiva, come in Amore di madre, nella raccolta Un’altra vita,
ove è rappresentato un conflitto di una donna con i due figli. Lei vorrebbe suicidarsi con un
colpo di pistola:
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Me la punto per gioco contro la tempia. Penso che i miei figli, in fondo, desiderano che mi
uccida. Ma si illudono: non mi ucciderò. Io sono la madre che vuol bene ai figli qualsiasi
cosa facciano; la madre che sa trovare nel suo grande amore una incrollabile superiorità.
(PAVB 274-275)
Oppure, come nel racconto Profondo sud, nella stessa raccolta, ove il personaggio femminile
assume dei sonniferi per suicidarsi insieme con il compagno. Si tratta di un trucco, invece.
Alla fine, “nonostante il suicidio, del resto effettuato per amore e per esuberanza di vitalità”,
la donna confessa di trovarsi in un suo “periodo” favorevole (PAVB 304).
Nel racconto La follia, della raccolta Boh:
a due per volta, ho inghiottito tutte le pasticche di un tubetto di sonnifero. In me non c’era,
però, tanto l’idea della morte quanto quella di non esserci più coi miei sensi e con la mia
mente, per non vedere né pensare più nulla e soprattutto non avere più davanti agli occhi
l’immagine della macchina che si allontanava /…/ Sono caduta in un buco nero; ne sono
emersa dodici ore dopo, nella stanza di una clinica. (PAVB 340)
Anche in La mente e il corpo è tentato il suicidio coi “barbiturici” perché una donna,
innamorata di un ragazzo, è stata rifiutata, ma “Tutto si è risolto con una lavanda gastrica”
(PAVB 413). In La coetanea è riferito di un altro tentativo di suicidio:
nessuno vuole saperne di lei e allora lei, come è avvenuto un anno fa, per richiamare
l’attenzione sulla sua persona, un bel giorno si chiude in cucina e apre la chiavetta del gas. La
trovano a tempo, la portano in clinica, le fanno fare la cura del sonno. Poi lei torna a casa e
tutto ricomincia come prima. (PAVB 438-439)
I tentativi di suicidio si succedono ininterrottamente. In Il corpo di bronzo: “una volta a letto,
avrò preso chissà quante pasticche di sonnifero, divisa tra l’idea del sonno e quella del
suicidio e poi mi sarò addormentata profondamente e avrò dormito senza interruzioni dodici
ore. Adesso, eccomi qui, sveglia, e senza marito” (PAVB 448).
L’annegamento è desiderio comune a quasi tutti i personaggi. In Amata dalla massa, la
protagonista va al mare in macchina per suicidarsi:
Non era un suicidio, era un ritorno alla vita dalla quale mi ero, chissà come, distaccata. Ma in
un mare così, il ritorno alla vita in forma di morte per acqua, non era possibile. Sono rimasta
a lungo a guardare questo mare giallo e nero e poi me ne sono tornata in città. (PAVB 196)
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Una donna tenta due volte il suicidio in Il vassoio davanti alla porta (VV 60). In Il giocatore di
scacchi Sante “si sveglia con un sentimento preciso: non ha voglia di vivere” (VV 180), ma si
accorge del tentativo di suicidio della moglie con il gas (VV 182) e vorrebbe aiutarla a
morire con un omicidio-uxoricidio. Il protagonista del racconto La villa del venerdì, nel guidare
la vettura è tentato dal “disastro”:
Soprattutto lo affascina il momento prima dell’urto, quando per un attimo capirà che sta per
succedere l’irreparabile. Sì, l’irreparabile, non il suicidio, lo affascina. (VV 18)
Il narratore registra tutte le fenomenologie del suicidio. Particolarmente nelle scritture degli
ultimi decenni. Il suicidio è sempre causato dalla disperazione del vivere, dal disadattamento
alla realtà, dai gesti meccanici e automatici, dal sentirsi marionette ed automi, dall’alienazione
che particolarmente i personaggi femminili, in genere, soffrono. Moravia è ossessionato da
questo motivo, ho già rilevato, e lo rappresenta in tutte le pagine, nei racconti e nei romanzi,
nei testi teatrali e nei resoconti di viaggi, come in Iran, a Meched, la città sacra, ove va perché
lì era Omar Khayyam. Molta parte dell’articolo, edito originariamente sul “Corriere della
sera” il 31 luglio 1977, è dedicato ad un giovane suicida. Il viaggiatore sottolinea, in contrasto
con l’invocazione divina del muezzin, che il suicida “non ha invocato nessun Dio pur
trovandosi, sicuramente, nel più terribile dei deserti” (V 1495). Le considerazioni, dunque,
sono inevitabili:
Un suicidio è pur sempre qualche cosa che colpisce l’immaginazione; /…/. Chi era, intanto,
il suicida? Senza dubbio, data la condizione del padre, uno studente, forse un intellettuale. E
perché si è ucciso? (V 1495-1496)
Moravia continua le riflessioni e riconduce il ragionamento a considerazioni fatte anche
altrove:
Ad ogni modo, tutto ad un tratto, mi sembra di saper tutto del suicida; come se avessi
vissuto io stesso quell’inizio di una vita così diversa e al tempo stesso così simile alla mia. La
famiglia; la provincia; un Paese lontano dai centri della civiltà, sottoposto alla prova della
rivoluzione industriale; l’Oriente che non è più Oriente e non è ancora Occidente; l’antico
pessimismo persiano… Non so perché, mi viene fatto di pensare ad un suicida molto
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diverso dal ragazzo di Meched, anche lui iraniano: allo scrittore Hedayat, autore del
bellissimo romanzo La civetta cieca. Hedayat non era un ragazzo, quando si è ucciso aveva già
scritto una dozzina di libri. Ma il suo suicidio riceve una luce significativa del libro già citato,
nel quale si descrive un caso di sdoppiamento originato dalla solitudine e dall’isolamento.
Dunque Hedayat aveva conosciuto la solitudine che è propria dell’intellettuale in Asia, e
l’aveva decritta nel suo libro. Il ragazzo di Meched non aveva aspettato di scrivere il libro;
aveva, invece, come si dice, affrettato i tempi. (V 1496)
Il tentativo di suicidio diventa sistema organizzativo del romanzo 1934. Lucio, il narrante,
ricorda che nei Demoni un personaggio “si uccide per motivi filosofici” (1934 194). Egli, che
ha letto anche Nietzsche, ritiene, ricordando che in una poesia il filosofo tedesco avesse
scritto che “ogni piacere vuole eternità”, “alludeva alla contemplazione del mare. È un
grande piacere guardare al mare; al tempo stesso il mare ispira un sentimento di eternità”
(1934 42). Si ripresenta anche in Lucio la tentazione di essere inghiottito dall’acqua, quindi
dall’abisso:
volevo invece discendere sempre più giù, fino ad adagiarmi sulla sabbia del fondo, come un
qualsiasi relitto marino. Era forse questa l’eternità di cui parlava Nietzsche, questa discesa
interminabile verso la notte? (1934 64)
Ma l’abisso silenzioso in cui erano sprofondate /le aeroliti/ mi è sembrato ad un tratto
sinistramente funebre appunto perché tentatore. /…/. Una tentazione simile pareva adesso
alitare verso di me, su su, dall’abisso dei Faraglioni, tanto che mi sono tirato indietro dal
parapetto, quasi con paura. Ma non era la tentazione suicida di chi ama troppo e invano,
come la ragazza della Migliara; bensì quella di chi, al contrario, teme di non essere capace di
amare. (1934 85)
Capri non è più serenità. L’armonia, già in crisi nel Disprezzo, è ormai irrimediabilmente
infranta. Dal modello dell’Odissea siamo passati, trent’anni dopo la pubblicazione del
romanzo ridotto a film da Jean-Luc Godard, a Kleist e a Così parlò Zarathustra.
2.
Moravia ha sempre insistito sul suicidio per l’intera attività intellettuale. L’angoscia, la noia e
l’alienazione attraversano tutti i personaggi e si manifestano nelle delusioni, negli orrori,
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nell’annullamento e nella disintegrazione dell’individualità. La inesorabile realtà esterna e il
tempo storico sempre più orrorosi dilatano il suicidio da individuale a collettivo. L’occasione
esterna fu offerta dal primo viaggio in Giappone4 e dalla scoperta dell’Africa. Un precedente
l’intellettuale romano lo segnalò nello scoppio della prima guerra mondiale (DE 116),
allorché emerse la volontà inconsciamente suicida dell’Europa e della civiltà occidentale5.
Nella conversazione con Carl Gustav Jung prese atto della “chiara tendenza demoniaca e
suicida della civiltà europea alla vigilia della prima guerra mondiale” e ribadì in diverse
occasioni che una “società raffinata” come quella europea nella prima guerra mondiale “si
suicidò senza rendersene conto, spensieratamente e a suo modo eroicamente” (CI 1369).
Sull’argomento mantenne la riflessione fino alla morte e ne scrisse in tutti gli ultimi testi, di
varia tipologia. Al termine della vita, naturalmente, e in connessione con la piega che aveva
preso la società saldò tutte le ossessioni che lo avevano colpito nel tempo in un’unica
struttura. In Come si guarda un film, un’intervista del 6 aprile 1975, osservò che “la vera
apocalisse di oggi è termonucleare, non naturale” (CI 1523), diminuendo i rischi dei
terremoti e delle catastrofi naturali e ingigantendo i pericoli del “disastro nucleare”.
All’interno di una serie di articoli e del progetto di una critica al nucleare e alla bomba
atomica gli elementi apocalittici in Moravia ritornarono e segmentarono altre immaginazioni.
Il suicidio diventò, per gli individui, un atto preventivo, una fuga, quindi, una necessità
allorché la bomba atomica avrebbe distrutto il mondo6.
In L’uomo che guarda, romanzo del 1985, ad esempio, il suicidio non è più legato a cause
individuali e a situazioni particolari e specifiche dei personaggi, ma risale ad una dimensione
più vasta. Il protagonista, figlio di un professore di fisica, legge un libro “sugli effetti della
guerra atomica” e deduce che “il discorso sulla minaccia nucleare” era per lui “quasi
altrettanto importante di quello sui motivi della fuga di Silvia” (UG 83). Il personaggio
romanzesco pensa con angoscia alla catastrofe e alla “fine del mondo” (UG 192) e non può
“fare a meno di pensare” di non essere “il solo a vedere la bomba atomica spuntare dietro la
cupola di San Pietro; anche Pascasie ne ha preso coscienza al punto da programmare in
anticipo il suicidio” (UG 203).
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La riflessione politica, scaricata anche nei testi creativi, come Perché Isidoro? (T 828), accerta
che la società mondiale ha trasformato in sistema pubblicitario e consumistico anche il fungo
atomico. Fu soprattutto preoccupazione massima da deputato europeo, a far scrivere, in
Diario europeo, il 27 agosto 1987, della “guerra come suicidio collettivo”, di “suicidio
nucleare”, a rilevare il nesso tra bomba atomica e campo di sterminio (DE 116), ed a
discorrere, il 22 dicembre 1987 della bomba come arma non di omicidio ma di suicidio (DE
148). Negli esiti ultimi della riflessione è prolungato il ragionamento con l’insistenza sul
disastro ecologico: “L’Africa occidentale in qualche modo dimostra che la fine del mondo di
cui si parla tanto a proposito della bomba atomica è già cominciata a livello ecologico”. Il
motivo fu ripreso il 25 aprile 1990 (DE 317) pochi mesi prima di morire, con l’elaborazione
di un nesso non astratto tra disastro ecologico e catastrofe atomica 7, anche se va ribadito che
la fine del mondo fantasticata e temuta dallo scrittore non è annullamento totale ma un
ricominciare dopo la catastrofe: “restituire il mondo alla natura e ricominciare tutto
daccapo” (IC 268).
3.
Risulta trasparente, insieme con il suicidio, che alcuni personaggi desiderino annullarsi nel
ventre materno. Il desiderio di morte, apparentemente, ma di fatto, della vita prenatale, è un
elemento rilevato da Michel David anche per Gemma, la quale “ricorda la Gertrude
manzoniana” e vive il “desiderio di regressione prenatale” (desiderio isterico)8. Era presente
nell’Andreina delle Ambizioni sbagliate, in Mino della Romana e in La disubbidienza. Al termine
della scena del sesso con l’infermiera, infatti, Luca “ebbe il senso preciso che lei lo prendesse
per mano e l’introducesse, riverente, in una misteriosa caverna dedicata a un rito” (II 1187);
inoltre “Ricordò che al momento dell’amplesso, egli aveva provato ad un tratto il desiderio
forte di entrare tutto intero nel ventre della donna e rannicchiarsi in quelle tenebre calde e
ricche con tutto il corpo, come vi si era rannicchiato prima di nascere” (II 1191). Altrettanto
in Io e lui il protagonista, invece di dare alla madre “il solito bacio in fronte” si butta a terra ai
suoi piedi, spinto dalla “nostalgia di annullamento” nel ventre materno:
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Spingo il capo in direzione del grembo materno perché vorrei regredirvi dentro, scomparirvi,
cessare di soffrire, di esistere, tornare donde sono venuto cioè nel nulla. (IL 269-270)
Il motivo si rintraccia anche in Il dio Kurt, ove Saul, del quale Kurt rileva l’erotismo
“mortuario”, si difende dicendo che il suo non era erotismo, ma “Forse un bisogno di
nascondermi nel luogo stesso dal quale ero stato cacciato, nascendo: di rannicchiarmi di
nuovo nel ventre della donna e non uscirne mai più” (T 488). Al che, sintomaticamente, lo
stesso Kurt risponde ammettendo un identico bisogno, in quanto – egli diceva – “le donne
sono al tempo stesso sorelle, figlie, madri. Il ventre della donna non conosce parentele. Esso
è come la terra che accoglie tutti, non rifiuta nessuno” (T 489)
L’osservazione era stata sottolineata il 26 ottobre 1969, nella recensione al film di Visconti
La caduta degli dei: “Appare chiaro qui che il rapporto sessuale tra Martin e sua madre non è
dovuto a perversione ma a un inconscio desiderio di morte. L’inquadratura in cui si vede
Martin posare la testa sul ventre nudo della madre, con il mento sul pube e la fronte
sull’ombelico, sta ad indicare la smania di essere riammesso e inghiottito nel ventre materno,
ossia la nostalgia di non esser mai nato” (CI 783). Anche nel film Miranda Moravia coglie il
nesso ventre materno, nulla e vitalismo: “Questa maniera di far l’amore pare indicare uno
straziante desiderio di rientrare nel ventre materno e lì, secondo la teoria freudiana della
pulsione di morte, tornare allo stadio inorganico, cioè al nulla” (CI 1345).
In La vita interiore Erostrato intende entrare in Desideria: “acciambellarsi là dentro nella
posizione del feto e restarvi per sempre. Cioè voleva fuggire dal mondo nel quale si trovava a
vivere dal giorno che vi era stato proiettato e abbandonato proprio dalla persona che
avrebbe dovuto invece proteggerlo e conservarlo nel conforto del proprio seno” (IV 226227).
Moravia era giunto da decenni, però, già all’altezza dei decenni del primo dopoguerra, alle
definizioni irreversibili di Mino in La romana, secondo il quale la sfiducia totale negli esseri
umani, ritenuti “inutili” e “superflui”, e – con grande stupore di Adriana – e dei quali “si
potrebbe benissimo fare a meno”. Il giovane dice che “il mondo sarebbe molto più bello
senza gli uomini, senza le loro città, le loro strade, i loro porti, le loro piccole sistemazioni…
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pensa come sarebbe bello il mondo se non ci fossero che il cielo, il mare, gli alberi, la terra,
gli animali” (II 974), un motivo già anticipato in un personaggio poco considerato dagli
studiosi, come il Sebastiano della Mascherata, il quale già nel 1941, anno di redazione del
testo, “sempre indifferente alle cose politiche”, “ora a causa della delusione patita, si era fatto
anche insensibile a quelle umane”, era pervenuto alla constatazione “che gli uomini fossero
nient’altro che corruzione e imbecillità; che solo il caso determinasse le fortune umane; che
tra la malvagità e sciocchezza degli uomini e l’assurdità frenetica del caso, non ci fosse da
augurarsi che una cosa sola: lo spiantamento prossimo dell’intero genere umano” (II 127).
Note
1
Cfr. anche, nel racconto I sogni del pigro, questa fantasticheria di Talamone, simbolo della
pigrizia: “pensa ad un tratto d’afferrare una rivoltella, cacciarsela in tasca, correre per le
strade, entrare in una casa, sparare, ammazzare. Ma ammazzare chi? Non importa,
ammazzare” (I 1362). Anche il racconto Il delitto perfetto (III 491-496) presenta un caso di
omicidio. Ma si legga del sogno di omicidio fatto dallo stesso Moravia: “La violenza non mi
ha mai spaventato. Per certi aspetti, posso considerarmi io stesso un violento, almeno nelle
intenzioni: più di una volta ho sognato, magari solo per un momento, di aggredire, di
uccidere qualcuno”. Cfr. Alberto Moravia, Intervista sullo scrittore scomodo, cit., p. 12. Non si
trascuri, inoltre l’osservazione in Ricordo de “Gli indifferenti”, del 1945, ove Moravia scriveva:
“Basti dire che io, prima ancora che scriverne, desideravo vivere la tragedia. Tutto ciò che
era delitto, contrasto sanguinoso e insanabile, passione spinta al grado estremo, violenza, mi
attraeva infinitamente. Ciò che si chiama vita normale non mi piaceva, mi annoiava e mi
pareva privo di sapore. Con ogni probabilità in quel tempo scrivere per me fu un surrogato
delle esperienze che non avevo fatto e non riuscivo a fare” (UF 11). Si aggiunga, infine, la
seguente osservazione dello stesso romanziere: “l’omicida, in quanto riconosce in maniera
insormontabile l’esistenza dell’”altro”, è l’uomo sociale per eccellenza. Al contrario, il
suicida, salvo nel caso del suicidio stoico, è antisociale in quanto si sottrae alla società alla
quale appartiene” (DE 154). Alla quale si aggiunga quest’altra, nella quale Moravia confessò
di saper “tenere a freno da solo i suoi istinti omicidi” (IC 111). Sull’argomento si veda anche
Alberto Moravia - Alain Elkann, Vita di Moravia, cit., pp. 29 e 266. È stato osservato da René
De Ceccatty, infine, utilizzando alcune confessioni dello scrittore, che “Scrivere era per lui
cercare di portare a termine un delitto senza riuscirvi, come testimonieranno tutti gli
assassini mancati dei suoi libri, da Gli indifferenti a 1934, passando per Il conformista e Il
disprezzo” (ibid., p. 130). Né si dimentichi, come è stato sottolineato da diversi studiosi, che
l’idea originaria del Disprezzo era Il delitto di Emilia.
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2
Nel racconto La voce del mare un personaggio femminile dice: “il mio compagno si è ucciso:
si è sparato nella cabina telefonica ed è cascato morto, giù, sotto il telefono” (PAVB 454).
René De Ceccatty (Alberto Moravia, cit., p. 96) ha ripreso e discusso un articolo di Moravia sul
suicidio di un giornalista e ha osservato alcune cose pregevoli, come un alternativa dalla
quale non è possibile sfuggire, uccidere o uccidersi, omicidio o suicidio, che era “un’idea
fissa del Moravia” (ibid., p. 35). Diverse e interessanti furono le osservazioni e le riflessioni,
in Diario europeo, del 23 marzo 1990, sulla morte di Bruno Bettelheim (DE 312-315),
interpretando il suicidio quale omicidio mascherato.
Un pensiero di suicidio si rintraccia in Alberto Moravia - Alain Elkann, Vita di Moravia, cit.,
pp. 270 e 271. In tutte le recensioni cinematografiche Moravia registrava sempre il motivo.
Nella recensione di Professione reporter di Antonioni, del 9 marzo 1975, ne discorreva
diffusamente (CI 1009), lo riprendeva nella recensione del 16 settembre 1979 a Il prato dei
fratelli Taviani (CI 1195) e il 25 novembre 1979 nella recensione a Chiedo asilo di Marco
Ferreri (CI 1207).
Va sottolineato che, pur inserendo questo motivo con frequenza nelle narrazioni, Moravia
non amava i suicidi, come scrisse, ad esempio, in Pavese decadente (ora in UF 89-93,
originariamente in “Corriere della sera” del 1954). Cfr. S. Ieva, Moravia contro Pavese. Un
esempio di critica “parodica”?, in “Italies”, 4, 1, 2000, pp. 425-446. Su Hemingway rinvio
all’articolo Niente e così sia (ora in UF 211-217; ma già su “L’Espresso” del 1961), e poi in Il
mito di Hemingway, il 13 febbraio 1966 (V 1134-1139).
3
Dal romanzo Moravia espunse l’episodio del suicidio di Andreina e pubblicò un racconto
autonomo dal titolo Andreina (I 1563-1566). Per il motivo del suicidio si legga anche, nei
Nuovi racconti romani, Mi ammazzo (III 1840-1846).
4
Sul viaggio in Giappone rinvio ad Alberto Moravia - Alain Elkann, Vita di Moravia, cit., pp.
182 e 234.
5
La posizione di Moravia sulla prima guerra mondiale si avvicina alla tesi di molti studiosi e
a quella di Freud. Alberto Moravia, Sull’umanità un’incombente fine del mondo, intervista a “la
Repubblica”, 6 agosto 1985; citato da René De Ceccatty, Alberto Moravia, cit., p. 43.
Cfr. Ernesto De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, a cura di
Clara Gallini, Torino, Einaudi, 1977. Neil Novello (a cura di), Apocalisse. Modernità e fine
del mondo, Napoli, Liguori, 2008.
6
bomba atomica la prima volta
Antinucleare a Bruxelles cfr. Alberto Moravia - Alain Elkann, Vita di Moravia, cit., 278-79.
Alberto Moravia, Intervista sullo scrittore scomodo, cit., p. 81.
Nel racconto La cintura, e nella relativa riduzione teatrale (T 91, 93, 122) Moravia confessò
che il testo “ha per tema addirittura la fine del mondo vista attraverso una vicenda
“sadomasochistica” (Alberto Moravia - Alain Elkann, Vita di Moravia, cit., p. 259).
7
Le osservazioni di Moravia furono insistenti: il 1° settembre 1984 scriveva che “la bomba
atomica non è un incidente di percorso della nostra civiltà ma ne fa parte integrante” (DE
26), il 16 dicembre 1984 scriveva di “guerra nucleare” e “fine del mondo” DE 35), l’11 luglio
1987 presentava Elsa Morante, Pro o contro la bomba atomica e altri scritti, a cura di Cesare
14
Garboli, Milano, Adelphi, 1987; “L’Europa letteraria”, VI, n. 84, marzo-aprile e anche in
“Linea d’ombra”, dicembre 1984; ora Elsa Morante, Opere, a cura di Carlo Cecchi e Cesare
Garboli, vol. II, Milano, Mondadori, 1990, pp. 1537-1554 (DE 97-99), alla data 22 dicembre
1987 annotava che “la bomba non sarebbe un’arma da omicidio ma da suicidio” (DE 148).
Sull’argomento rinvio anche a René De Ceccatty, Alberto Moravia, cit., p. 263.
Ibid. p. 217.
Ibid., p. 283
8
Michel David, La psicoanalisi nella cultura italiana, cit., p. 491.
Si tratta della visione splengleriana e heideggeriana, ma in lui non vi è millenarismo né
chiliastico, vi è apocalisse ma non millenarismo.
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