Untitled - Barz and Hippo

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Untitled - Barz and Hippo
La coppia Spielberg-Hanks torna alla carica, ma questa volta è supportata da un duo di geniacci per la
sceneggiatura, firmata dai fratelli Coen insieme a Matt Charman. Ne esce un classico spielberghiano che mette
aspetti storici reali al centro di una struttura da grande thriller. Non manca, ovviamente, l'elogio
dell'americanità, ma da quello il regista e produttore – si sa – non può astenersi.
scheda tecnica
durata:
nazionalità:
anno:
regia:
sceneggiatura:
fotografia:
montaggio:
musiche:
scenografia:
distribuzione:
141 MINUTI
USA
2015
STEVEN SPIELBERG
MATT CHARMAN, JOEL ED ETHAN COEN
JANUSZ KAMINSKI
MICHAEL KAHNMICHAEL KAHN
THOMAS NEWMAN
ADAM STOCKHAUSEN
20 CENTURY FOX
interpreti:
TOM HANKS (James B. Donovan), MARK RYLANCE (Rudolf Abel), AMY RYAN
(Mary McKenna Donovan), ALAN ALDA (Thomas Watters), AUSTIN STOWELL (Francis Gary Powers), SCOTT
SHEPHERD (agente Hoffman), JESSE PLEMONS (Murphy), DOMENICK LOMBARDOZZI (agente Blasco), SEBASTIAN
KOCH (Wolfgang Vogel), EVE HEWSON (Carol Donovan).
Steven Spielberg
Nato a Cincinnati il 18 dicembre 1946, Steven Spielberg trascorre qualche anno nel New Jersey, per poi trasferirsi
con la famiglia in Arizona, a Scottsdale. I suoi genitori odiano la tv e pare gli proibiscano di andare al cinema, al
massimo qualche cartone animato di tanto in tanto. E allora Steven Spielberg bambino, con una piccola super8,
inizia a realizzare per conto proprio quei film che non può andare a guardare nelle sale cinematografiche.
Forse questa è solo leggenda, ma è un fatto che negli anni dell'adolescenza, Spielberg gira decine di filmetti,
esplorando ogni genere, dal western alla fantascienza. E fa sul serio. Infatti, una sua pellicola viene proiettata di
fronte a un pubblico pagante e il giovane Spielberg ci guadagna ben 500 dollari. Un altro breve film, che realizza a
tredici anni, vince un concorso per cineamatori. Dai piccoli film artigianali ai grandi successi, fino ai premi Oscar, il
suo destino pare davvero segnato.
Appena può si sposta a Los Angeles, con l'intenzione di frequentare i corsi di cinema della University of Southern
California. Anche se non supera i test per l'ammissione è proprio durante una retrospettiva organizzata
dall'università che conosce una persona della quale resterà amico e collaboratore fino ad oggi, George Lucas. In
quel periodo, Spielberg passa tutto il suo tempo libero a gironzolare intorno agli studi della Universal e i custodi,
che lo credono un impiegato, lo lasciano entrare regolarmente. Nonostante questi piccoli stratagemmi, il regista
deve aspettare che un suo cortometraggio, Amblin, vinca numerosi premi ai festival di Venice e Atlanta per
essere notato da qualcuno e per ottenere finalmente un contratto proprio con la Universal, nella sezione
televisiva. Spielberg nel 1971 dirige, sempre per la tv, Duel, che è comunque considerato il suo primo film a tutti
gli effetti e che indubbiamente rappresenta per il regista il vero trampolino di lancio. La storia dell'automobilista
in fuga dall'enorme autocisterna che lo tallona ha in sé molti degli elementi ricorrenti nella filmografia di
Spielberg. Ci sono già il senso dello spettacolo, la capacità di mantenere viva la tensione e soprattutto la
rappresentazione della quotidianità nella quale s'inserisce improvvisamente un elemento di disturbo, l'autotreno
in questo caso: ma più avanti compariranno squali, dinosauri e soprattutto alieni.
Nel 1974, Spielberg realizza Sugarland Express, ispirato a un fatto di cronaca, che racconta la fuga di un evaso e di
sua moglie attraverso il Texas e l'anno successivo dirige Lo squalo, il suo primo film a largo budget e con una
vastissima campagna pubblicitaria. Nonostante i mille e più imprevisti che rendono difficile la lavorazione, dai
problemi climatici ai 'capricci' dello squalo meccanico (che affonda e addirittura esplode durante le riprese) il film
è un successo strepitoso, che permette al regista di sviluppare alcuni suoi progetti precedenti piuttosto ambiziosi,
come Incontri ravvicinati del terzo tipo. Con questo film, Spielberg rivoluziona le regole del genere
fantascientifico, dandoci una visione 'umanizzata' degli alieni.
Dopo 1941: allarme a Hollywood, che riceve un'accoglienza piuttosto tiepida, Spielberg torna campione d'incassi
nel 1980 con I predatori dell'arca perduta, interpretato da Harrison Ford nei panni dell'avventuroso archeologo
che tornerà sugli schermi anche nel 1984 in Indiana Jones e il tempio maledetto e poi nel 1989 con Indiana Jones
e l'ultima crociata. Sul set de I predatori dell'arca perduta, Spielberg conosce l'attrice Kate Capshaw, che nel 1991
diventa sua moglie. Dopo la realizzazione del primo capitolo della saga di Indiana Jones, Spielberg torna alla
fantascienza e soprattutto alla sua idea di cinema come rappresentazione del fantastico, del sogno, della fantasia.
Nasce la favola di E.T - L'extraterrestre e la storia del piccolo alieno abbandonato per caso sulla terra commuove il
pubblico di tutto il mondo e polverizza ogni record d'incassi della storia del cinema. Nel 1986, Spielberg porta
sullo schermo la versione cinematografica di un romanzo di Alice Walker, Il colore viola, con un cast interamente
composto da attori di colore, tra cui spicca Whoopi Goldberg. L'anno successivo, con L'impero del sole racconta
l'occupazione giapponese di Shangai e tutta la vicenda è narrata attraverso lo sguardo di un bambino, costretto in
campo di prigionia.
Dopo la parentesi romantica di Always - Per sempre, il regista dirige nel 1992 Hook - Capitan Uncino, con un Peter
Pan ormai adulto che non rinuncia a sognare. Un anno dopo, Jurassic park fa scoppiare quasi ovunque la 'moda'
dei dinosauri, ma Spielberg, prima ancora di terminare le fasi della post produzione, si lancia nell'avventura di
Schindler's list. Così, il regista più fantasioso di Hollywood, abbandona il cinema ludico e sognatore per
raccontarci la storia di Oskar Schindler e mostrarci, attraverso la sua vicenda, l'orrore dell'olocausto e dei campi
di concentramento. Il film salda il conto aperto di Spielberg con l'Academy Award (più volte nominato non aveva
mai vinto nulla) regalandogli le statuette per il miglior film e per il miglior regista. Un altro Oscar come miglior
regista arriva nel 1998 per Salvate il soldato Ryan, realizzato dopo i meno fortunati Jurassic park - Il mondo
perduto e Amistad.
Nel 2001, Spielberg ottiene un nuovo strepitoso successo con A.I.-Intelligenza artificiale, progetto del genio
Kubrick attraverso il quale il regista omaggia l'amico e maestro e ci regala ancora una volta una storia
commovente e piena di dolcezza, con un bambino (un automa per la precisione, ma che importa, anche lui ha un
sogno nel suo cuore meccanico) come protagonista. Dopo aver realizzato Minority report, poliziesco ambientato
nella Washington del futuro, Steven Spielberg ha girato Prova a prendermi, tratto dall'autobiografia del più
giovane ricercato dall'Fbi, con Leonardo Di Caprio nel ruolo principale, per tornare alla fantascienza con il remake
del classico anni '50 La guerra dei mondi e alle proprie radici affrontando con Munich uno degli episodi più
drammatici del popolo israeliano degli ultimi decenni, il sequestro e l'uccisione di alcuni atleti della Stella di
David durante le Olmipiadi tedesche del 1972.
Negli anni Dieci è impegnato negli adattamenti cinematografici del fumetto Le avventure di Tintin (vincitore del
Golden Globe 2012 al miglior film d'animazione) e del romanzo War Horse, da cui trae l'omonima pellicola, poi
candidata a 6 premi Oscar 2012. Dirige poi Lincoln con Daniel Day-Lewis e Sally Field. Il film è uscito nel
novembre 2012 negli Stati Uniti d'America con buoni riscontri da parte della critica. E non sono mancati i
riconoscimenti dei vari premi: ha ottenuto 7 nomination ai Golden Globe e ben 12 ai premi Oscar, inclusi film,
regia (la 7° in carriera per Spielberg) e attore a Daniel Day Lewis.
Nel maggio 2013 è stato presidente della giuria della 66ª edizione del Festival di Cannes.
Nel 2014 produce a livello esecutivo il quarto capitolo della saga di Transformers, Transformers 4 - L'era
dell'estinzione, diretto ancora una volta da Michael Bay, che incassa oltre un miliardo di dollari nel mondo.
Nel 2014 dirige il film Il ponte delle spie scritto dai fratelli Joel Coen e Ethan Coen con protagonista Tom Hanks,
alla sua quarta collaborazione col regista. Il film esce nelle sale statunitensi a Ottobre 2015. Sempre nel 2015 è
produttore esecutivo del quarto capitolo della saga di Jurassic Park, Jurassic World diretto dal giovane cineasta
Colin Trevorrow.
La parola ai protagonisti
Intervista a Steven Spielberg
Cosa spinge te e Tom Hanks a collaborare così spesso?
Penso che Tom sia uno dei più grandi attori del mondo. Il ponte delle spie è il nostro quarto titolo insieme, senza
contare le miniserie che abbiamo prodotto (Band of Brothers – Fratelli al fronte, The Pacific), quindi c’era già
familiarità tra noi e non abbiamo avuto bisogno di un periodo di assestamento. Per me questo è un lusso.
Dopotutto eravamo amici stretti ancor prima della nostra prima pellicola insieme, lui è anche il padrino di uno
dei miei figli. La domanda era se potessimo passare da amici a colleghi, e poi restare amici. Temevamo di litigare
e di non essere d’accordo su alcune cose, ma non è mai successo. È come se condividessimo lo stesso cervello!.
Cosa ti affascinava di questa storia vera?
Adoro il genere spionistico, ma non volevo fare uno spy movie classico. Stavo sviluppando Il GGG – Il Grande
Gigante Gentile quando il drammaturgo Matt Charman è venuto da me parlandomi di questa vicenda. E l’ho
trovata così coinvolgente che ho rallentato il progetto su cui stavo lavorando per tuffarmi nel mezzo della Guerra
Fredda e raccontarla.
Com’è stato, da bambino, crescere in quel periodo storico?
Conoscevo già Gary Powers (il pilota protagonista dello scambio, ndr) perché mio padre si recò in Russia per
lavoro nel 1960, ed ebbe modo di vedere ciò che rimaneva dell’U2 e di scattare fotografie dei resti dell’aereo, nel
luogo in cui si era schiantato. Ma mentre si trovava in fila sul posto, assieme a tre colleghi, alcuni militari russi li
avvicinarono e gli chiesero i passaporti. Accortisi che erano americani, li fecero allontanare dalla fila, gli
indicarono l’U2 e gli gridarono: «Guardate cosa ci sta facendo il vostro paese!». Lo ripeterono più volte prima di
restituirgli i passaporti. Non ho mai dimenticato quella storia.
Gli elementi storici rendono Il ponte delle spie uno spy movie originale?
In verità io amo le commedie spionistiche, come Il nostro agente Flint, ma ci sono anche ottimi film classici come
La spia che venne dal freddo – il mio preferito –, Quiller Memorandum o Ipcress. Anche i film di Bond sono spy
movie. Ma Il ponte delle spie è diverso, segue la Storia e non un romanzo. C’era qualcosa nel modo in cui questo
avvocato americano viene portato via dalla sua comfort zone e gettato nel mezzo della Guerra Fredda, che mi ha
coinvolto e ha spinto me e Tom a dire sì.
Nel film Donovan, l’avvocato interpretato da Tom Hanks, è dipinto come un eroe americano, nonostante – anzi,
proprio perché – difenda una spia russa.
Negli Stati Uniti abbiamo metodi differenti da quelli dell’ex Unione Sovietica. Donovan parla di un regolamento,
la Costituzione, che dà a tutti gli stessi diritti di fronte alla legge, e quindi protegge i cittadini stranieri. Sappiamo
che come nazione non seguiamo sempre le regole, ma Donovan lo faceva, incarnando i nostri valori
fondamentali.
Recensioni
Simona Cantoni. Panorama
Thriller di spionaggio dall'impianto classico ambientato durante la Guerra fredda, plumbeo e solido, Il ponte delle
spie vibra della profondità magnetica di Tom Hanks, che viene fuori imponente sulla lunga distanza. Steven
Spielberg tiene sospesi e avvinti, sul filo di un gioco di interessi, ideali e macchinazioni. I fratelli Coen fanno il
resto, popolando la sottile tensione di un umorismo sottile e misurato.
Dopo aver chiuso il Courmayeur Noir in Festival, il film arriva al cinema (…) e si candida a essere fra i protagonisti
degli Oscars 2016. (...)
Dopo il biopic su Abraham Lincoln del 2012, Spielberg rispolvera un altro frangente di Storia americana e va alla
riscoperta di un meraviglioso eroe normale, James Donovan, interpretato da Tom Hanks. Avvocato idealista, nel
1962 Donovan negoziò per la Cia il primo scambio di prigionieri sul ponte di Glienicke in Germania, fra Usa e
Urss.
Nell'America spaventata dal "pericolo rosso" di fine anni '50, dove si insegnava ai bambini come prima
protezione dalla bomba atomica la tecnica del "Duck and cover" (buttarsi a terra e coprirsi la testa con le mani),
l'Fbi cattura la spia russa Rudolf Abel (Mark Rylance). Si genera un'escalation di paura e paranoia. L'agente
sovietico, nella sua calma stoica, rifiuta di collaborare e viene rinchiuso in un carcere federale in attesa si
processo. Nella necessità di trovare un avvocato indipendente che assuma la difesa di Abel, il governo si rivolge a
James Donovan (Hanks), legale assicurativo di Brooklyn con poca esperienza in casi così importanti ma abilissimo
come negoziatore. (…)
Nella Berlino fredda e austera, in cui si erge il Muro e un clima di sgomento, Donovan, chiuso nel suo cappotto e
nella sua solidità morale, cercherà di ottenere il massimo. Non per la Cia, ma per il suo senso di giustizia.
Andando al di là e contro le direttive della Cia stessa.
Nato nel 1916 e morto nel 1970, Donovan incarna gli ideali americani di giustizia e liberalità, quei valori
democratici che sono diventati cardine degli Stati Uniti, come anche dell'Europa di oggi, e che diventano ancor
più significativi nel complicato momento contemporaneo, con l'Isis alle porte e la paura a portata di mano.
"James Donovan era una persona che faceva valere i propri valori, che intendeva garantire la giustizia a tutti, a
prescindere da quale fosse il lato della Cortina di Ferro a cui appartenevano", dice Spielberg. "Il suo unico
interesse era rispettare la legge".
Il ponte delle spie ci ricorda che se vogliamo continuare a sentirci fieri di quello che siamo, dobbiamo non farci
annebbiare la vista dal terrore e continuare a tenere saldi i nostri valori più profondi.
Tom Hanks fa brillare Donovan in fermezza, integrità morale e scaltrezza. Lo fa però con tutta la naturalezza
dell'uomo comune, senza machismo da supereroe, con le striscianti preoccupazioni del padre di famiglia e del
privato cittadino senza scorte al seguito. Dopo l'acuta interpretazione dell'intelligente uomo di mare di Captain
Phillips - Attacco in mare aperto, da lui un'altra perla, screziata anche di sottile umorismo.
Per l'attore americano si tratta di un'ennesima collaborazione con l'amico Spielberg dopo Salvate il soldato Ryan,
Prova a prendermi e The Terminal.
Il suo Donovan, qualche mese dopo i fatti di Berlino, fu protagonista di un'altra impresa: mandato da Kennedy a
negoziare la liberazione di oltre 1100 prigionieri a Cuba, catturati dopo la fallita invasione della Baia dei Porci,
riuscì a far tornare a casa più di 9000 persone.
(…) "Mi odieranno tutti però almeno perderò", osserva con autoironia giocosa il Donovan di Hanks quando
accetta la difesa di Abel. Nella Berlino ancora segnata dalla guerra, si trova a trattare con l'enigmatico avvocato
Sebastian Koch (Wolfgang Vogel) della Repubblica Democratica Tedesca e con l'ufficiale Ivan Schischkin (Mikhail
Gorevoy) dell'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. La sua osservazione è: "Vi dirò qual è il problema. I
nomi dei vostri Paesi sono troppo lunghi".
Il necessario e stuzzicante tocco di leggerezza in mezzo al rigore storico è firmato da Ethan e Joel Coen, che
hanno realizzato la sceneggiatura insieme a Matt Charman. Per i fratelli Coen si tratta della prima collaborazione
con Spielberg. Tra le loro fonti per la scrittura il libro di Donovan del 1964, Strangers on a Bridge.
Mark Rylance che dà al suo Abel un costante stato di diffidenza, tranquillità serafica, imperscrutabile intelligenza.
"Lei non si preoccupa mai?", gli chiede Donovan/Hanks. "Servirebbe?", è la sua risposta costante.
L'attore britannico si è conquistato una nomination ai Golden Globe come migliore attore non protagonista:
meritatissima. Lo vedremo presto di nuovo alla corte di Spielberg ne Il gigante gentile.
Giovanni Romani. Cultframe.it
(…) La parola, la potenza della parola. Dopo il suo film più “parlato” di sempre, l’eccellente Lincoln, Spielberg
torna a celebrare il potere dialettico in uno scenario che richiama le atmosfere di Le Carré ed i complotti di
Funerale a Berlino, ma non si tratta di un’operazione nostalgia poiché il regista, cui l’età sembra donare
profondità morale e sobrietà stilistica, parla dell’oggi con lo stile di ieri, riesce a trattare temi attuali con classica
eleganza d’altri tempi.
Il Ponte delle Spie è un grande film, scritto con asciutta efficacia da Matt Charman e dai fratelli Coen che
abbandonano i loro tipici vezzi e guizzi per mettersi al servizio della storia (vera), interpretato da attori perfetti su
cui svettano Hanks, incarnazione di quell’America “home of the braves” che negli anni ’50 aveva trovato i suoi
eroi in James Stewart e Jack Lemmon, ed un grandissimo Mark Rylance, attore teatrale il cui attonito aplomb
offre della spia russa un inedito ritratto, umano e quasi “tenero”.
Spielberg realizza una spy-story in cui la parola vince sull’azione, non a caso il protagonista è un avvocato,
negazione anche fisica dell’uomo d’azione, un uomo di mezza età che si ritrova catapultato in un mondo
pericoloso ed incomprensibile, epperò riesce a interpretarlo per mezzo del dialogo e di una notevole dose di
perizia tattico/politica. E che meraviglia riscoprire lo spionaggio analogico, fatto di microbiglietti (come a scuola)
e telefoni a disco, pedinamenti a piedi (non coi satelliti) e dialoghi ambigui.
Spielberg è ormai entrato nel novero dei registi “classici” (qualunque cosa voglia dire), il cui stile è al contempo
personalissimo, e dunque sempre riconoscibile, ed universale, e dunque sempre comprensibile, con una
chiarezza di intenti ed una pulizia narrativa che esaltano la forza morale dell’opera, la riflessione sulla fragilità
della democrazia minacciata da tentazioni forcaiole (ricorda niente?), la forza della ragione contrapposta
all’isteria paranoide.
Ma Il Ponte delle Spie non è soltanto una grande opera civile: è pure un efficace thriller spionistico, che tiene
incollati alla poltrona per due ore e venti emozionando e divertendo, senza mai ammiccare ai cliché di genere,
senza cercare l’effetto o la facile sorpresa, ma con la sola forza del racconto, qui ai suoi massimi livelli, dalla nitida
fotografia del grande Kaminski alle sottolineature sinfoniche del sempiterno Williams.
Marianna Cappi. Mymovies.it
(…) L'intro hitchcockiano cede man mano il passo ad uno svolgimento sempre più letterario, dove il racconto è
già leggenda e ancora incertissimo presente, come esemplifica l'immagine tombale del muro di Berlino; e dove il
Donovan di Tom Hanks sembra rispondere al paradigma dell'everyman, cappotto cappello ombrello, se non fosse
che, nel cinema di Spielberg più che mai, l'apparenza in qualche modo inganna.
Donovan è infatti qualcuno che incarna il mestiere che fa, lo onora come una "professione". Non si occupa di
giustizia, è un giusto. Se a lui appare incredibile che il suo assistito non si preoccupi visibilmente del suo destino,
all'altro appare inizialmente inverosimile che l'avvocato non voglia sapere la verità sulla sua colpevolezza o
innocenza. "Servirebbe?" No. Per lui, che ha già fatto il proprio dovere in Normandia (salvando il soldato Ryan),
ogni uomo è importante, ogni vita. Donovan non vede Abel innanzitutto come una spia, un russo, un nemico:
sceglie di guardarlo come una persona. Man mano che lo conosce, gli darà un colore e una profondità, fors'anche
quella dell'amicizia o dell'ammirazione, ma la scelta riguardo allo sguardo da adottare l'ha fatta in partenza.
Come il regista.
Lo dice bene la prima inquadratura, nella quale Abel sta dipingendo il suo autoritratto, con l'ausilio di uno
specchio. L'immagine nello specchio e quella sulla tela sono immagini della stessa persona, ma non sono
identiche. La prima riflette una superficiale obiettività, la seconda reca traccia del tempo e dei pensieri intercorsi
nelle ore del fare, e soprattutto reca traccia del suo autore. Non conta quello che di te penseranno gli altri, dirà
Donovan al soldato Powers, ma "quello che sai tu". Consegnando all'avvocato il dono del finale, Abel gli sta
dunque dicendo: "ti conosco, so chi sei", ed è questo il riconoscimento che più può soddisfare uno come
Donovan; di quello pubblico, teletrasmesso, può fare anche a meno, può dormirci su.
In un'epoca come la nostra, di sospetti quotidiani, intercettazioni isteriche, identificazioni affrettate di un uomo
col suo credo, il suo abito o la sua provenienza, Il ponte delle spie è un film di bruciante attualità, profondamente
consapevole della dignità della professione artistica e della sua funzione sociale.
Pino Farinotti. Mymovies.it
ll ponte delle spie, di Steven Spielberg. Il contesto: 1957, storia vera; è il momento in cui gli americani si
accreditano ancora come garanti e protettori del mondo libero, minacciato dal comunismo. Fedele al suo destino
di nazione che non riesce a stare senza guerre, l'America, uscita da non molto dal secondo conflitto mondiale
dove aveva combattuto, e debellato, tre totalitarismi, due in Europa e uno in Giappone, ha identificato la Russia
come nemico assoluto e combatte la cosiddetta guerra fredda. Che non è fatta si eserciti in divisa, di portaerei e
di sbarchi, ma è soprattutto una guerra di spie, sotterranea.
A New York viene arrestato Rudolf Abel, russo, accusato, a ragione, di spionaggio. Abel non collabora, accetta il
suo destino che lo porterà, verosimilmente, alla pena capitale. Gli viene assegnato un avvocato, Donovan,
civilista, senza esperienze del penale. Ma Donovan, americano onesto, "tutto d'un pezzo" - le virgolette perché è
un concetto portante del film - decide di apprestare una difesa accorata, perfetta, nonostante il cliente sia un
nemico pericoloso. (...) L'avvocato si trova dunque in quella posizione delicata e pericolosa. È l'uomo più
impopolare d'America, per strada lo insultano e lo minacciano. Qualcuno arriva a sparare alle sue finestre. Ma
l'americano non cede di un millimetro.
Abel viene condannato a trent'anni. Succede che un aereo spia americano venga abbattuto e il pilota catturato
dai russi, e che uno studente, anche lui americano, venga sospettato di spionaggio dai tedeschi dell'est e venga
messo in prigione. Nel primo canto, quello della giustizia a oltranza, alla stregua di "nessuno tocchi Caino"
Spielberg dichiara la propria americanità, difende la sua repubblica, e un verso del canto sta proprio nella
procedura della prigione: gli agenti della Cia rispettano il prigioniero, lo trattano con umanità, i comunisti invece
torturano. Primo canto e primo promemoria. La diversità delle azioni sottendono un richiamo esplicito. Gli Usa
sono i buoni, gli altri sono i cattivi. La guerra è sacrosanta e va combattuta. Il secondo canto è quello
dell'efficienza e del carattere.
Donovan viene convocato dal segretario di Stato che lo incarica di trattare la liberazione del pilota. Il teatro
diventa Berlino, quella divisa in due dal muro. La parte orientale è grigia e povera, persino la neve sembra essere
pericolosa, così come le strade e gli abitanti. Donovan cerca i contatti, coi russi, coi tedeschi, deve vedersela con
la burocrazia politica, con gli antagonismi fra i due regimi. Ma ormai ha deciso che non mollerà, andrà fino in
fondo e salverà pilota e studente.
La fase dello scambio sul "ponte" del titolo è stata definita da molti hitchcockiana, la tensione sta nell'incertezza
della liberazione dello studente. Per la Cia, col pilota che sta per essere scambiato, la missione è compiuta. Ma
Donovan vuol vincere due volte, alla fine ci riesce, nella tachicardia alla Hitchcock, appunto. Ma che Spielberg
sappia applicarsi ai generi e risolverli al meglio è notorio. Ma questa volta va oltre. Credo proprio che abbia
ragionato sul momento americano. Su quella leadership che sembra declinare. Sulla potenza che non serve a
presidiare tante zone del mondo come accadeva una volta. Sulla fiducia degli alleati che è andata calando. Sulla
confusione generata dalla mancanza di un nemico preciso da inquadrare e combattere. Sulla paura della nazione
di non essere più al sicuro. Sulle scelte complesse, spesso non condivise, interne ed esterne di un presidente che,
come Robin Williams in Jack, sembra invecchiare di quattro anni ogni anno.
Spielberg ti dice: eravamo un paese forte e garante, ce lo riconoscevano tutti, e civile perché capace di difendere
un nemico pericoloso. Donovan è un eroe americano ed è un eroe "tutto d'un pezzo" senza macchia. Fuori moda,
adesso. Ma col mio film, il passato prossimo lo racconto presente. Siamo sempre gli Stati Uniti d'America. Non
dimenticatelo.
Peter Travers. Rollingstone.it
A chi non piace farsi cullare da un bel thriller di spie vecchia maniera con la tensione ben costruita e mantenuta
fino alla fine? Il ponte delle spie (Bridge of Spies) annoierà l’audience con sindrome da deficit di attenzione e
allergica ai film storici, ma è una prelibatezza per gli esperti. Stiamo parlando di Steven Spielberg alla regia e Tom
Hanks protagonista, al lavoro su una sceneggiatura di Matt Charman rifinita niente di meno che dai Fratelli Coen.
(…) Anche il trailer strilla: “All’ombra della guerra / Un uomo ha fatto vedere al mondo / Quello in cui crediamo”.
Dato che quell’uomo è interpretato da Hanks, un attore con l’inestimabile dono dell’understatement (vedi
Salvate il soldato Ryan, sempre di Spielberg), le trombe si potevano evitare. Donovan è un avvocato assicurativo,
con moglie (Amy Ryan) e figli a casa. Quando il suo capo (Alan Alda) gli offre di rappresentare Abel, Donovan
diventa il tizio che sta cercando di liberare un traditore. Hanks mostra il quieto eroismo di Donovan con un
ammirabile contegno. È la sceneggiatura a sottolinearlo, con Abel che lo chiama “l’uomo che non cede”, pronto a
rialzarsi ogni volta che viene buttato a terra.
Il ponte delle spie riesce meglio nelle zone grigie, quando Donovan vede Abel e Powers come patrioti che
scommettono sui loro Paesi. Risplende quando Spielberg mostra il carattere del protagonista con l’azione, come
quando Donovan va a Berlino dove i cospiratori quasi lo ammazzano. Durante il crescendo che porta allo scambio
dei prigionieri sul ponte Glienicke, ci sono poi dei momenti dove si fatica a capire chi sia il buono e chi il cattivo, e
la solita roba da spie diventa una potente provocazione.
Alessandra Levantesi Kezich. La Stampa
È un magnifico classico Il ponte delle spie, e pazienza se alcuni considerano riduttivo il termine, ce ne faremo una
ragione. Classico nel senso che si iscrive nel filone hollywoodiano del dramma di guerra; classico nell’impianto
della storia basata su fatti veri; classico nello stile ispirato al cinema Anni ‘40/50: e però, lungi dall’essere di
maniera, il classicismo di Steven Spielberg è sempre una magistrale forma di re-invenzione a forte impatto
emotivo.
(…) Pur nella differenza di epoca, Il ponte delle spie riecheggia le tematiche profondamente spielberghiane di
Lincoln: sullo sfondo un irrequieto spaccato di storia - lì la guerra civile, qui la Guerra fredda; in primo piano un
individuo - da una parte il Presidente, dall’altra un Everyman - capace di battersi con pragmatico idealismo per
fondanti i valori democratici. Il tutto costruito su un fluido ritmo narrativo con straordinaria sapienza visiva; e
avvalendosi di due emozionanti interpreti: un superbo, umanissimo Tom Hanks nei panni di Donovan; e il
teatrante britannico Mark Rylance, che per il suo Abel giocato fra il dimesso, l’ironico e l’enigmatico, è già in corsa
al Golden Globe, e lo sarà per l’Oscar.
Andrea D'Addio. Wired.it
Tra Berlino e Potsdam, piccolo capoluogo del Brandeburgo dove il Kaiser amava trascorrere le estati, c’è un ponte
in acciaio lungo 128 metri sopra il fiume Havel, il Glienicker Brücke, che ai tempi del muro fu soprannominato Il
ponte delle spie. La ragione? Durante gli anni della guerra fredda era qui che i paesi della Nato e quelli del Patto
di Varsavia erano soliti scambiarsi i rispettivi prigionieri. Il 10 febbraio del 1962 protagonisti dello scambio
dovevano essere l’agente segreto russo Rudolf Iwanowitsch Abel e l’aviatore statunitense Francis Gary Powers.
Che sia andato a buon fine o meno non ve lo sveliamo per evitare di dissolvere buona parte della tensione
accumulata nei 140 minuti precedenti di Il ponte delle spie, il nuovo film di Steven Spielberg in uscita il 16
dicembre in Italia. E allora sì che potrebbe perdere di senso andare al cinema per vederlo.
(...) tutto, come prevedibile, è al posto giusto: il thrilling è emozionante, la storia ben spiegata e perfetta nei
riferimenti e nella ricostruzione storica, i personaggi ben delineati. Spielberg realizza una pellicola senza
sbavature, solida, capace di magnificare l’eroismo americano senza sminuire la dignità degli antagonisti, i
sovietici. Tutti hanno, o meglio, avevano, le proprie ragioni, a prescindere dal sistema economico e politico per
cui si patteggiava.
C’è un passaggio del film che ne racchiude più di ogni altro il significato e, probabilmente, la ragione stessa per
cui Spielberg abbia deciso di girarlo. È quello in cui l’avvocato James Donovan interpretato da Hanks si trova a
parlare con un agente della CIA che lo esorta a condividere con lui informazioni riguardo alla spia sovietica che
rappresenta in tribunale. Donovan rifiuta. Ciò che lega i cittadini degli Stati Uniti non è la comune etnia, vi sono
originari dell’Irlanda così come della Germania, ma i valori su cui si fonda. E quello più importante è il rispetto
per la Costituzione. Non si può tradirla in nome della sua salvaguardia.
La considerazione è nobile ed epica come in altri film di Spielberg, un cineasta che già in passato ha indagato le
possibili contraddizioni del rapporto tra origini, casa e nazione. L’alieno di ET catapultato su un altro pianeta
sognando il ritorno, l’orfano Jamie che si ritrova solo nell’Impero del sole del 1941, il Peter Pan di Hook – Capitan
Uncino, il prigioniero africano Cinqué di Amistad, l’apolide Viktor Navorski di The Terminal e l’agente del Mossad
Avner Kaufmann di Munich sono tutti personaggi costretti a subire, loro malgrado, un’estradizione e un
“ricollocamento” (morale o geografico) analogo probabilmente a quello su cui Spielberg si è spesso interrogato in
quanto ebreo-americano. In tal senso Il ponte delle spie è un lavoro perfettamente in linea con la sua grandiosa
filmografia. Eppure…
Eppure tutto ciò non è abbastanza, almeno non dopo più di 40 anni di cinema (Duel è del 1971). Invece di andare
verso la vecchiaia (artistica) cercando di sintetizzare il proprio punto di vista, Spielberg sottolinea metafore, quasi
che abbia il timore che il pubblico non lo capisca. Spielberg sottolinea tutto in maniera didascalica. E così ecco il
cambio di opinione del cittadino americano medio su un presunto traditore, poi incoronato eroe, avviene sempre
e solo attraverso lo sguardo dei passeggeri dei mezzi pubblici mentre la grata dei cortili che i ragazzini americani
scavalcano per gioco viene sovrapposta in maniera didascalica ad una sparatoria davanti al muro di Berlino.
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