Elia ed Eliseo

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Elia ed Eliseo
Capitolo 20
Elia ed Eliseo
(1Re 17-19-21; 2Re 2-9.13)
1. Il profeta Elia
Elia, il tisbita, uno degli abitanti di Galaad, è il più grande dei profeti del nord e il più tipico rappresentante della profezia biblica: «Un uomo peloso; una cintura di cuoio gli cingeva i
fianchi» (2Re 1,8). Come tale, egli apparirà con Mosè a fianco di Gesù, sulla montagna della
Trasfigurazione1, e sarà annunciato da Malachia come il messaggero che ritornerà (dal cielo,
dove è stato assunto) e precorrerà l’avvento purificatore del Signore nel suo tempio (Ml
3,1.23-24). Di lui il Siracide ha fatto un ritratto indimenticabile che riassume il ciclo degli
eventi della vita del profeta, come sono ricordati nella Bibbia:
«Allora sorse Elia profeta, simile al fuoco; la sua parola bruciava come fiaccola.
Egli fece venire su di loro la carestia e con zelo li ridusse a pochi.
Per comando del Signore chiuse il cielo, fece scendere così tre volte il fuoco.
Come ti rendesti famoso, Elia, con i prodigi! E chi può vantarsi di esserti uguale?
Risvegliasti un defunto dalla morte e dagli inferi, per comando dell’Altissimo;
tu che spingesti re alla rovina, uomini gloriosi dal loro letto.
Sentisti sul Sinai rimproveri, sull’Oreb sentenze di vendetta.
Ungesti re come vindici e profeti come tuoi successori.
Fosti assunto in un turbine di fuoco su un carro di cavalli di fuoco,
designato a rimproverare i tempi futuri per placare l’ira prima che divampi,
per ricondurre il cuore dei padri verso i figli e ristabilire le tribù di Giacobbe» (Sir 48,1-10).
Ripercorriamo gli episodi salienti, ricordati dal Siracide, del profeta. Essi vanno inquadrati
nel regno di Acab e del figlio Acazia (2Re 1,3-17).
1.1. Nasconditi presso il torrente Cherit (1Re 17,1-6)
La presentazione di Elia è fatta senza alcun preambolo. Non sappiamo quale fosse la sua
formazione, neppure si dice che fosse un profeta: era un uomo di Gàlaad che ad un certo punto irrompe nel corso della storia dei re con una profezia minacciosa, una parola di castigo:
«Per la vita del Signore, Dio di Israele, alla cui presenza io sto, in questi anni non ci sarà né
rugiada né pioggia, se non quando lo dirò io» (v. 1). Elia è il profeta per eccellenza che minaccia i re2, perché non ha paura dell’autorità umana.
«… in questi anni non ci sarà né rugiada né pioggia, se non quando lo comanderò io». La
chiusura del cielo serve a rivelare che il peccato del popolo ha raggiunto il suo culmine, che
si è giunti ad una situazione intollerabile e distruttiva; così, attraverso la siccità, si fa visibile
la realtà di morte provocata dal male. E’ insieme denuncia e castigo; ma ambedue sono per la
conversione e la salvezza. Per questo, ora, per la parola profetica di Elia, la terra, con la siccità, ridiventa deserto. Perché Israele deve capire il proprio errore, deve convincersi che non è
Baal a dare la pioggia, ma il Signore, quel Signore che ha fatto uscire Israele dall’Egitto, che
lo ha condotto nel deserto e poi gli ha donato la terra, dove la pioggia scende gratuitamente
dal cielo (cf. Dt 11,10ss). Ma adesso, a motivo del peccato del popolo, la terra si è dissecata, i
campi si sono isteriliti e non danno più frutti. Israele è di nuovo nel deserto, senza però la terra verso cui camminare: è la promessa negata, una sorta di Esodo al contrario, in un cammino
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Cf. Mt 17,1-8; Mc 9,2-8; Lc 9,28-36.
Cf. 1Re 17,1; 18,17-19; 21.17-24; 2Re 1,16-17.
che sembra divenuto senza speranza. Così si manifesta la realtà e il senso della scelta idolatrica del popolo, e Israele può sperimentare e capire a cosa lo sta portando la sua infedeltà.
E’ da notare che questa parola di castigo è preceduta dalla precisazione del rapporto che
Elia ha con JHWH: egli sta «alla sua presenza»3 come il suo unico Signore (cf. anche 1Re
18,15). Il suo stare davanti a JHWH come unico Re, è il segreto della sua forza che lo rende
suo umile servitore (cf. 1Re 18,36)4, che lo farà uno zelante difensore della sua causa contro
l’idolatria.
Fin dall’inizio la Scrittura ci presenta questa figura come colui che concretizza questo ministero profetico nell’obbedienza alla parola del Signore: «Vattene da qui…» (vv. 2-3). Ci
ricordiamo subito l’inizio della storia di salvezza, l’ordine di Dio ad Abramo: «Vattene dal
tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre» (Gen 12,1). Con il «vattene» incomincia
anche la storia del profeta di Tisbe. Lascia il luogo dove ti trovi, «dirigiti verso oriente»
(l’oriente è il luogo donde viene la salvezza, il simbolo di Cristo, sole che sorge e che salva) e
«nasconditi presso il torrente Cherit». Qui «berrai al torrente e i corvi, per mio comando, ti
porteranno il tuo cibo». Il richiamo biblico è ancora il racconto del popolo di Israele affidato,
nel deserto, al nutrimento di JHWH (cf. Es 16,8.12). Il profeta di Tisbe è descritto come
l’uomo che deve riprendere nel deserto il cammino di fiducia di Israele, accettando da Dio
solo il nutrimento e l’acqua; egli riprende l’antica esperienza di abbandono totale al Signore.
Vive quello che il popolo si sta rifiutando di vivere.
Ed è un torrente che fa bere il profeta (ma c’era la siccità), e i corvi lo fanno mangiare (ma
sono animali impuri: cf. Lv 11,15): è la vita che viene dall’impensabile, lì dove nessuno se
l’aspetterebbe, per rivelarsi come dono assolutamente gratuito, solo da accogliere. La parola
del profeta sentenzia la morte o dà la vita, ma sempre nell’obbedienza alla Parola divina, e
ricevendo la vita da Dio.
1.2. Il miracolo della farina e dell’olio (1Re 17,7-16)
Nel racconto della storia di Elia, siamo ora davanti a una svolta: il torrente che lo faceva
bere si secca, e nel deserto, senza acqua, la vita è impossibile e si muore. La sciagura della
siccità che aveva colpito il popolo ora sembra coinvolgere anche il profeta che con la sua parola l’aveva provocata. Dio ha fatto vivere Elia con l’acqua del torrente e il cibo dei corvi; ora
l’acqua non c’è più, anche per il profeta la siccità vuol dire la morte. La vita dovrà venire da
altrove. E ancora una volta, in modo imprevedibile.
Siamo davanti a un momento di difficoltà del profeta: ha proclamato la morte per il popolo
peccatore, ma ora potrebbe morire anche lui. Per uscire dalla crisi serve la fede; e ancora una
volta serve l’obbedienza.
Ecco infatti il nuovo comando di Dio: «Và a Zarepta di Sidone e rimani là». E la promessa: «Ecco io ho dato ordine a una vedova di là per il tuo cibo» (v. 9). Come è avvenuto presso
il torrente Chèrit, così ora il sostentamento del profeta verrà dall’impensabile: una vedova,
dunque una persona povera, indifesa, lei stessa drammaticamente bisognosa di aiuto.
Ed Elia si fida di Dio, obbedisce al comando e va a Zarepta. Il problema però ora è di vedere se Dio manterrà anche la promessa di farlo vivere attraverso quella vedova.
All’inizio sembra che sia così. La donna infatti sta raccogliendo della legna per fare il fuoco, dunque c’è cibo; e quando Elia le chiede di dargli da bere, ella obbedisce e va a prendergli
l’acqua. Il torrente Cherit si era seccato, ma il pozzo della vedova sembra invece avere ancora
acqua da dare. Si apre la speranza, il profeta sembra aver trovato l’aiuto che cercava; il lettore
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L’espressione va interpretata nel quadro della fraseologia di corte dell’antico Oriente. Era assai difficile essere
ammessi davanti al volto del re; occorreva un complicato cerimoniale. Tuttavia alcune persone, coloro di cui il
re si fidava completamente, vivevano costantemente alla sua presenza.
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Cf. le parole di JHWH a Geremia: «Se tu ritornerai a me, io ti riprenderò e starai alla mia presenza; se saprai
distinguere ciò che è prezioso da ciò che è vile, sarai come la mia bocca» (Ger 15,19).
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tira un sospiro di sollievo, e probabilmente anche Elia. Ma invece è un’illusione; le conseguenze della siccità sono arrivate anche lì: quando il profeta chiede alla donna di portargli
insieme all’acqua anche un pezzo di pane5, si rivela la realtà: non c’è più cibo, la strada è
chiusa. E la legna che la vedova sta raccogliendo è per l’ultimo pasto, prima di morire.
C’è una grande pateticità nelle parole della donna (cf. v. 12); le è rimasto solo un pugno di
farina, qualche goccia di olio, poi basta. Cuocerà una focaccia, ne darà al figlio, e poi ci sarà
solo l’attesa della morte: «la mangeremo e poi moriremo». E’ la gestualità quotidiana che
continua anche davanti alla morte, quel rispetto e quell’obbedienza alla vita di cui si nutrono i
piccoli e i poveri. Per due volte nel testo è ripetuto che la donna stava raccogliendo la legna
(vv. 10.12), ed è una ripetizione significativa. Perché nella disperazione, quando tutto sembra
finito, la tentazione sarebbe di buttare anche quel poco che resta, e così morire subito; a che
serve fare la fatica di raccogliere la legna se dopo quella focaccia non c’è altro e si deve comunque morire? Tanto vale aspettare la morte e basta. Ma i poveri conoscono il valore della
vita e le obbediscono fino alla fine.
Nelle parole della vedova c’è poi anche tutto l’amore di una madre, che dà vita fino
all’ultimo, che non si rassegna mai, che nutre la vita del figlio fino all’ultimo respiro. E’
l’amore che difende la vita e la sua dignità, anche quando sembra che ormai sia tutto perduto.
Proprio a lei, che è allo stremo delle forze e delle provviste, Elia chiede vita. Lui, che poi
ridarà la vita al fanciullo morto, la esorta ad avere coraggio, a essere ardita nella gratuità, a
preparare prima una piccola focaccia per lui e poi per lei e per il figlio, poiché «la farina della
giara non si esaurirà e l’orcio dell’olio non si svuoterà finché il Signore non farà piovere sulla
terra» (v. 14). La donna crede alla promessa del profeta, e si compie il miracolo povero, non
appariscente: «La farina della giara non venne meno e l’orcio dell’olio non diminuì…» (v.
16). La farina e l’olio, che non diminuiscono, dipendono dalla parola di Dio pronunciata per
mezzo del profeta. Anche questa donna, come già Elia al torrente Cherit, fa l’esperienza di
Israele nel deserto (cf. Dt 8,3).
Da notare che quello che Dio opera con la vedova è un miracolo misurato, goccia a goccia;
non sono fiumi d’olio e montagne di farina, ma una brocca con il suo poco olio, e un po’ di
farina nella giara. Poca cosa, quella che serve per vivere, che però non si esaurisce mai. La
brocca e la giara non si svuotano, ma restano sempre con un piccolo contenuto, chiedendo
così di continuare a credere, di continuare a fidarsi, giorno dopo giorno (come per la manna
nel deserto, continuamente da attendere, continuamente da sperare e da ricevere, come il “pane quotidiano” chiesto nel Padre nostro).
1.3. La resurrezione del figlio della vedova (1Re 17,17-24)
Il racconto dell’incontro tra Elia e la vedova di Zarepta prosegue ora con un avvenimento
imprevisto e drammatico, che porta avanti il tema della vita e della morte: il figlio della vedova si ammala e muore. Si tratta di un evento tragico, perché si tratta della morte incomprensibile di un bambino, e perché questa morte sembra smentire la promessa di vita che Dio
aveva rivolto alla donna. A che servono infatti la farina e l’olio, se poi il ragazzo si ammala e
cessa di vivere? E’ quanto esplicita la donna nel suo dolore: «Che c’è tra me e te, o uomo di
Dio? Sei venuto da me per rinnovare il ricordo della mia iniquità e per uccidermi il figlio?»
(v. 18). La donna è esasperata e mentre da una parte accusa se stessa – la mia iniquità -,
dall’altra accusa il profeta. La malattia e l’epilogo della morte può portare all’esasperazione,
al turbamento della mente. Si è afferrati da improvvisi sensi di colpa oppure si colpevolizzano gli altri: che cosa ho fatto di male nella mia vita perché venga punito in questo modo? Un
episodio simile, quasi parallelo, si trova il 2Re 4,18-37: la donna Sunammita che ha dato o5
Acqua e focaccia di pane sono il nutrimento necessario, indispensabile all’uomo per sopravvivere e nel deserto
il profeta lo avrà di nuovo, ma direttamene dall’angelo del Signore.
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spitalità a Eliseo è angosciata per la morte di quel ragazzo che aveva avuto proprio grazie alla
preghiera del profeta.
Elia che aveva annunciato la siccità per rivelare il peccato del popolo idolatra, si trova ora
di fronte la morte di un innocente. Ed Elia non sa darsene una spiegazione, patisce lo scandalo, come la madre del ragazzo. Sono significative le parole che il profeta rivolge a Dio: «Signore, mio Dio, vuoi forse fare del male anche a questa vedova che mi ospita, facendole morire il figlio?» (v. 20).
Elia però ha un’intuizione. Capisce che non è il momento di ragionare, di discolparsi, e dice alla vedova: «dammi tuo figlio». Elia glielo prende: il suo è un azzardo, c’è il rischio di
illuderla, di farle credere che qualcosa ancora si può fare. E se il ragazzo non torna in vita? Se
Dio non ascolta la preghiera del profeta? Vorrebbe dire aggiungere dolore a dolore, far precipitare la donna nella disperazione dopo averla aperta alla speranza.
Poi Elia sale al piano di sopra, dove abitava, lo stende sul letto e invoca il Signore. Quindi
si distende per tre volte sul bambino, assumendo simbolicamente la morte del ragazzo su di
sé, ma restando vivo, portatore di vita (cf. poi la gestualità di Eliseo in 2Re 4,34-35). Poi
supplica Dio che lo ascolta: «L’anima del bambino tornò nel suo corpo e quegli riprese a vivere» (v. 22). Paolo reagirà allo stesso modo di Elia di fronte a un ragazzo che, caduto dal
terzo piano muore: «Paolo allora scese giù, si gettò su di lui, lo abbracciò e disse: “Non vi
turbate; è ancora in vita!” …Intanto avevano ricondotto il ragazzo vivo, e si sentirono molto
consolati» (cf. At 20,10-12). E’ il salto di qualità in cui si passa dalla malattia e dalla morte –
intese come inevitabili e contro le quali si impreca e ci si ribella – alla certezza della vita. E’
la continuità ristabilita dalla Pasqua di Cristo. Ma ad essa si prende parte per fede. Il figlio
della vedova di Zarepta ha ripreso vita per la fede del profeta.
1.4. La sfida al Carmelo (1Re 18)
Tutto inizia con un nuovo comando di Dio, ma, dice il testo, «dopo molto tempo» (v. 1).
Nel frattempo nulla è cambiato all’interno del popolo; Israele continua con pervicacia a peccare, ma Dio mostra la sua infinita pazienza, il Signore è capace di aspettare, anche a lungo.
E anche il profeta sa pazientare: accetta di rimanere nascosto, di non essere ascoltato dal popolo; poi finalmente, «dopo molto tempo», qualcosa sembra muoversi: «la parola del Signore
fu rivolta ad Elia, nel terzo anno, in questi termini: “Va’ e presentati ad Acab, perché invierò
la pioggia sulla terra”» (v. 1).
La prospettiva è bella (tornerà a piovere, dunque si va verso una conclusione positiva) ma
anche inquietante: incontrare il re può essere pericoloso, espone il profeta a grossi rischi. Ancora una volta Elia deve decidere se fidarsi di Dio e obbedire; e ancora una volta il Signore
non dà grandi spiegazioni: farà piovere (è il signore del cielo), ma perché? Sarà un atto di
grazia, una specie di condono generale, o la conseguenza del fatto che Acab e il popolo si
convertiranno? Elia deve solo affidarsi ed eseguire il comando divino.
Lungo il cammino Elia incontra Abia, primo ministro del re, che ha agito assumendosi il
rischio di mettere in salvo i profeti del Signore: li ha nascosti, se ne è preso cura, ha dato loro
pane e acqua, nonostante la carestia. Il giorno stesso Elia incontra il re Acab. Questi lo accusa
di «portare alla rovina» il popolo (v. 17). Ma Elia rimanda al mittente l’accusa e chiarisce: è
il re e il suo peccato che stanno rovinando il popolo, coinvolgendolo nella follia
dell’idolatria. Questa è la vera rovina; la carestia, al contrario, è per la salvezza.
E’ in gioco, quindi, la fede monoteista. Si tratta di decidere se Dio è JHWH oppure i Baal,
gli dèi dei fenici, gli dèi di Tiro. Ecco perciò la sfida che Elia lancia al re Acab, chiedendogli
di convocare tutti sul monte Carmelo, perché infine le cose si facciano chiare. Ora il popolo
deve prendere posizione. La parola centrale è il v. 21: «Fino a quando zoppicherete con i due
piedi?». Probabilmente Elia allude alle danze sacre che venivano fatte un po’ in onore di
JHWH e un po’ di Baal. E’ l’ambiguità in cui il popolo continua a permanere. «Se il Signore
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è Dio, seguitelo». Elia invita quindi il popolo a fare una scelta, come aveva fatto Giosuè a
Sichem.
E’ doloroso notare che mentre nel libro di Giosuè nell’assemblea di Sichem il popolo risponde «Lungi da noi l’abbandonare il Signore per servire altri dei» (Gs 24,16) e, in positivo,
«noi serviremo il Signore» (Gs 24,21), a Elia il popolo non risponde nulla, resta incerto, pauroso, indeciso. Tuttavia Elia lo aiuterà a fare verità e a scegliere YHWH dando il segno del
fuoco. La scelta del segno non è casuale: Baal era dio dei fulmini, e di il Signore del Sinai si
era rivelato nel fuoco. Sarà esso a segnalare la sua presenza.
Notiamo la profonda differenza tra l’atteggiamento dei profeti di Baal nel tentativo di portare a termine il sacrificio del fuoco e quello del profeta Elia. I primi gridano, danzano, si inebriano dal mattino a mezzogiorno per attirare su di sé l’attenzione della divinità, fino ad
arrivare – in questo clima di eccitazione - ad uno stato di trance; Elia, invece, non confidando
nelle sue forze ma unicamente in YHWH contrappone la tranquilla compostezza: erige un
altare, depone la legna, addirittura la bagna insieme all’olocausto affinché il segno sia assolutamente inequivocabile (cioè perché non si pensi ad una forma di autocombustione). Notevole soprattutto la sua invocazione al momento del sacrificio pomeridiano, che quindi ci ricorda
la suprema offerta compiuta da Gesù alle tre sul monte Calvario: «Signore, Dio di Abramo, di
Isacco, di Giacobbe, oggi si sappia che tu sei Dio in Israele e che io sono tuo servo e che ho
fatto tutte queste cose per tuo comando. Rispondimi, Signore, rispondimi e questo popolo
sappia che tu sei il Signore Dio e che converti il loro cuore!» (vv. 36-37). E alla manifestazione divina, il popolo riconosce il vero Dio: «Il Signore è Dio, il Signore è Dio». Ora, finalmente, può piovere. Perché ora è chiaro che è il Signore a donare pioggia e vita.
La vittoria del Signore è anche “visualizzata” nell’uccisione dei profeti di Baal: è la fine
prevista dai falsi profeti (cf. Dt 13,1-6), che vanno eliminati perché con le loro parole fanno
deviare un popolo intero pervertendolo e portandolo alla rovina.
1.5. In cammino verso l’Oreb (1Re 19,1-18)
Nella lotta contro Baal, con il sacrificio del mone Carmelo, la credibilità dell’idolo era stata distrutta. Ma rimane ancora il re, che sembra mantenere la sua supremazia, che si contrappone violentemente al profeta. Ora il problema non è più chi controlla le forze del cielo, ma
chi controlla la storia degli uomini. E ricomincia per Elia – che viene a sapere della minaccia
di morte da parte della regina Gezabele (v. 2) – l’incertezza e la crisi: dove è Dio mentre vogliono far morire il suo servo?
Impaurito dalla minaccia Elia fugge verso sud, oltre Bersabea di Giuda, per cercare di salvarsi la vita. Elia è solo. Fugge a Bersabea, lascia il suo servo e si inoltra nel deserto, scoraggiato e desideroso di morire: «Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri» (v. 4). In queste parole c’è tutta la disillusione (ha visto l’apparente futilità del suo operare6) e l’insopportabilità della situazione. Sembra quasi dire: «Non ne posso
più, Signore». E’ un momento di cedimento nervoso, di crollo psichico, di sconforto. Poi Elia
si lascia andare al sonno, che è un modo di significare la morte, di esprimere la volontà di lasciarsi morire. Sta dicendo il suo rifiuto della realtà, percepita come inaccettabile. Si può ricordare qui il sonno invincibile a cui si abbandonano i discepoli al Getsemani7, sopraffati
dall’angoscia (cf. in particolare l’annotazione di Luca: «rialzatosi dalla preghiera, andò dai
discepoli e li trovò che dormivano per la tristezza»: 22,45).
Ma Dio conforta il suo servo amareggiato tramite un angelo che «lo toccò e gli disse: “Alzati e mangia!”». E’ l’imperativo di Dio che fa uscire l’uomo dalla vertigine del lasciarsi mo6
Il testo al v. 3 letteralmente dice: «e vide e si alzò e se ne andò…». In ebraico le consonanti della forma verbale «e vide» sono le stesse di «ed ebbe paura» (cambiano solo le vocali). Dunque Elia ha paura e perciò fugge,
ma perché «ha visto» l’inutilità (così egli lo giudica) di tanto combattere.
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Cf. Mt 26,36-46; Mc 14,32-42; Lc 22,39-46.
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rire; non siamo noi il principio del nostro vivere. E il comando rivolto ad Elia è ripetuto due
volte; è necessaria la ripetizione, perché l’uomo comprenda bene che mai deve abbandonarsi
alla morte, ma deve obbedire al Dio della vita fino in fondo.
Allora Elia guarda, vede una focaccia e un orcio d’acqua. Mangia, beve e poi torna a coricarsi ma di nuovo si presenta l’angelo, lo tocca, e lo esorta a mangiare perché deve affrontare
un lungo viaggio. Elia allora prende coscienza che il suo fuggire impazzito aveva una mèta
nella mente di Dio. Che il cammino è positivo, anche se il traguardo è lontano. Forse avrà
anche intuito che andrà dove è nato il primo patto, dove JHWH ha dato forza a Mosé: l’Oreb,
o Sinai8. Allora la fuga diventa pellegrinaggio, il cammino diventa itinerario di ritorno radicale alla fede. Il vero profeta di JHWH non è rimasto fermo all’antico, in un conservatorismo
tradizionalistico e fondamentalistico (cf. Ger 35). Non è nemmeno proteso verso il nuovo in
un progressismo superficiale e cieco. Egli critica e discerne il presente, ritornando al principio (il Sinai), là dove il Signore stesso (non le generazioni passate) ha cominciato la storia
dell’alleanza, e di là prepara il futuro in una fedeltà sempre nuova all’unica alleanza con il
Dio uno. Rifarsi all’origine di una vocazione è rifarsi a Dio e a ciò che è di Dio. Il profeta è
essenzialmente l’uomo dell’alleanza, mediante il quale il Signore costantemente ripropone e
riattualizza in circostanze sempre nuove lo statuto fondamentale che, al Sinai, ha fatto di Israele il popolo di Dio.
Con quel cibo egli camminerà per «per quaranta giorni e quaranta notti» fino al monte di
Dio, l’Oreb. Ed è qui che YHWH domanda ad Elia: «Che fai qui, Elia?» (v. 9). C’è una sfumatura di rimprovero nella domanda che ricorda quella fatta ad Adamo: «Dove sei?» (Gen
3,9). Mentre il profeta era debole, esaurito, fiaccato dalla delusione, JHWH non l’aveva rimproverato. Ora che è divenuto forte, che non ha più bisogno di essere incoraggiato perché sta
riprendendo il gusto della preghiera, della solitudine, del silenzio, del rapporto con il suo Signore, Dio comincia a scuoterlo. Elia risponde manifestando i motivi che hanno causato il
suo sconforto: «gli israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari,
hanno ucciso di spada i tuoi profeti» (sembra quasi una sconfitta di JHWH stesso) e «sono
rimasto solo io ed essi tentano di togliermi la vita» (v. 10).Cosa fa il Signore, dove è mentre il
suo inviato è in pericolo? Ed il Signore si rivela in modo nuovo. La stessa distanza spaziotemporale tra i due monti (Carmelo-Oreb) simboleggia molto bene la novità; ora Elia deve
confrontarsi con il Nome di JHWH, non più come egli lo ha percepito, pronunciato e difeso
sul Carmelo, di fronte ai profeti di Baal e a tutto Israele, bensì in una modalità inaspettata.
Infatti si verificano i fenomeni che richiamano la teofania al Sinai, al tempo dell’esodo, e anche le raffigurazioni di Baal, con il suo rapporto con i grandi fenomeni atmosferici. Ma lì Dio
non c’è. Invece ecco il «mormorio di una brezza leggera», o meglio, più letteralmente «una
voce di silenzio sottile, impalpabile» (v. 12)9. E’ il nuovo modo di rivelarsi di Dio. E’ il Dio
della libertà: i segni della sua presenza non sono più terrificanti, lasciano l’uomo libero; sono
appello alla fede, e il profeta deve essere capace di discernerli, riconoscendo, nell’inatteso, il
passaggio di YHWH, in ascolto della voce del silenzio. Elia allora si copre il volto con il
mantello (cioè riconosce la presenza di JHWH). Allora viene posta al profeta la domanda iniziale: «Che fai qui Elia?» (v. 13). Il profeta ripete la sua risposta (cf. vv. 13b-14). La ripetizione del dialogo sottolinea la difficoltà della situazione. Questa volta però – ora che YHWH
è stato riconosciuto dal profeta – si ha un nuovo invio, una nuova missione che apre alla speranza, un nuovo progetto che cambia anche il corso delle vicende umane. L’ordine è di ungere tre persone: due re (Hazaèl come re di Aram e Ieu come re di Israele) ed Eliseo «come profeta al tuo posto». Ora il profeta riconosce che Dio, oltre alla natura, governa anche la storia;
perché Lui ne è il Signore, non il re e neppure Gezabele. E non governa solo la storia di Israe8
Cf. Es 3,1, e 24,18; 34,28.
L’aggettivo utilizzato viene da una radice verbale che vuol dire anche «polverizzare», da cui il senso di «impalpabile, sottile»
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le, ma quella del mondo intero.
Adesso la paura di Elia è finita, ed è finita anche la sua solitudine: c’è un futuro in cui sperare, e ci sono i settemila, che sono rimasti fedeli al Signore e da cui la storia della salvezza
può ripartire. Un “piccolo resto”, ma quanto basta alla potenza di Dio per salvare il mondo.
Un’ultima annotazione. È ben vero che le parole terribili che il profeta percepisce
(«Chiunque sfuggirà alla spada di Cazael, sarà ucciso da Ieu, e chiunque sfuggirà alla spada
di Ieu, sarà ucciso da Elise»: v. 17) non autorizzano a interpretare una simile teofania come la
manifestazione di una presunta «dolcezza» del Signore, che contrasterebbe con la «violenza»
che viene richiesta dai suoi profeti. Quella voce di silenzio, tuttavia, sembra voler misurare e
significare tutta la distanza esistente tra il modo in cui la coscienza umana, sia pure la più alta, sa giungere a concepire e a «raccontare» la «violenta assolutezza dell’essere e della verità
di Dio e della sua economia salvifica», e quell’essere tre volte santo di JHWH in se stesso,
percepito dall’uomo come sempre al di là della propria coscienza, come «Deus semper
maior» (cf. Is 6,1-4).
Gli uomini di Dio, anche i più vicini a lui, sono quasi fatalmente indotti a interpretare e
concepire la radicale trascendenza del servizio del Signore e delle missioni da condurre nel
suo nome, alle quali sono inviati, come delle imprese battagliere, delle «crociate» e delle
«guerre sante» («Dio lo vuole!») (cf. Is 6,5-13).
Solamente Gesù, il Figlio, con i discepoli che custodiscono la testimonianza del suo martirio (cf. Ap 12,11.17; 19,10), sapranno finalmente coniugare la suprema «violenza» della confessione del nome del Padre (Gv 17,6.26) con la sapienza e la potenza della consegna del
proprio corpo e del proprio sangue alla violenza della croce (1Cor 1,22-25), su cui l’impero
delle tenebre crocefigge i servi di JHWH, unico Dio vero (cf. Lc 22,37.53)10.
1.6. La chiamata di Eliseo (1Re 19,19-21)
Sceso dall’Oreb ad Elia si presenta l’occasione di adempiere uno dei tre incarichi che gli
sono stati affidati, mentre sappiamo che sarà Eliseo a ungere i re Hazaèl e Ieu. L’occasione è
l’incontro con il «figlio di Safàt». Eliseo «arava con dodici paia di buoni davanti a sé». Era
quindi una persona facoltosa, un signore di campagna, uno di quei ricchi che anche Gesù incontra nella sua vita. Eliseo, ispido e malvestito, chiama questo ricco. Senza alcuna parola,
senza alcun tentativo di convinzione, ma solo un gesto violento dal significato chiarissimo. Il
mantello è simbolo della persona e, in qualche modo, anche dei suoi diritti.
Eliseo comprende molto bene e si congeda dai suoi alla maniera di un gran signore che ha
deciso di rompere totalmente con le sue ricchezze. Il gesto che compie con gli attrezzi per
arare è un segno straordinario di distacco, di abbandono dei propri averi. Fattosi dunque povero, si pone al servizio di Elia, per vivere con lui. E’ il senso della sequela, come quella che
il Signore Gesù chiede ai suoi, con un’esigenza ancora più radicale, senza ripensamenti, lasciando tutto per camminare con Lui sulla via della salvezza, lungo i cammini impervi della
totale obbedienza al Padre11.
Si ha anche l’impressione, anche se il testo non lo dice, che Eliseo abbia ridato il mantello
al grande maestro, per indicare che deve prima imparare, deve prima assimilare i suoi insegnamenti di vita. Di fatto, questo mantello sarà consegnato definitivamente a Eliseo nel momento del rapimento in cielo di Elia.
1.7. Il rapimento in cielo di Elia (2Re 2,1-18)
Elia parte da Gàlgala insieme al fedelissimo discepolo Eliseo, ma sapendo che è ormai
10
Per la «violenza» di Gesù e del suo messianismo, cf. Mt 5,29-30; 10,28-39; 11,12; 18,8-9; Lc 9,51-62; 12,412; 49-53; 14,25-27; 22,35-38; e anche Ap 1,2.9; 6,9; 19,10; 20,4; ecc.
11
Cf. Mt 4,18-22; 8,19-22; 19,21.27-29; Mc 1,16-20; 10,21.28-30; Lc 5,4-11.27-28; 9,57-62; 18,28-30.
7
imminente il grande passaggio nella comunione trascendente, oltre la morte con Dio, non
vuole testimoni, desidera essere solo. «Rimani qui…» è la formula ripetuta tre volte, e per tre
volte Eliseo replicherà: «Per la vita del Signore e per la tua stessa vita, non ti lascerò».
Non riuscendo a congedarlo, da Gàlgala Elia si dirige a Betel, quindi a Gerico e da Gerico
al Giordano e al di là di esso12. Da notare tutti sanno il segreto di Elia, ma fingono di non sapere (e anche Eliseo sta a questo gioco): è molto dolorosa la partenza del maestro, ed è quindi
meglio allontanarla dal pensiero!
Di fronte al Giordano «Elia, preso il mantello, l’avvolse e percosse con esso le acque, che
si divisero di qua e di là; i due passarono all’asciutto» (v. 8). Si ripete il prodigio dell’Esodo
(cf. Es 14,21) e del passaggio del Giordano con Giosuè (cf. Gs 3,15-16). Elia percorre a ritroso l’itinerario che aveva fatto Israele; ma mentre Israele era entrato nella terra promessa passeggera, ora Elia ne esce per andare nella terra promessa definitiva, che non è su questa terra.
Eliseo allora, incoraggiato dalle parole gentili che il rude Elia usa nel suo commiato, chiede due terzi del suo spirito. Nella Bibbia al figlio maggiore spettava la doppia parte di eredità
paterna (cf. Dt 21,17). Eliseo, dunque, chiede di essere scelto come primogenito, di essere
riconosciuto come il primo erede spirituale di Elia. Il profeta stesso è imbarazzato («Sei stato
esigente nel domandare»: v. 10) perché solo Dio è Signore dello spirito e da lui dipende la
realizzazione della richiesta del discepolo. Lo spirito non si eredita come un bene terreno. Dio
però può far conoscere a Eliseo se egli è davvero il successore di Elia, o se non lo è: «Se mi
vedrai quando sarò rapito lontano da te, ciò ti sarà concesso; in caso contrario non ti sarà concesso». Elia lascia la decisione al Signore, ma offre un segno al suo discepolo.
Il profeta Elia, che aveva guidato le armate di Dio nella guerra contro l’ingiustizia e contro
l’idolatria, sparisce nel «carro di fuoco e cavalli di fuoco». Nel giudaismo era convinzione
diffusa che Elia con il trasferimento anche fisico in cielo non fosse morto. Diverso è invece il
pensiero del Martini: «Penso che si tratti di una visione di Eliseo -. Con gli occhi della fede,
egli vede nel disfacimento del corpo del suo grande maestro, la gloria di Dio che viene a
prenderlo. Nulla quindi attesta che non sia morto. La descrizione riporta una profonda certezza di fede di Eliseo; mentre Elia si allontana per morire solitario nel deserto, come Mosé, egli
contempla non la fine ma l’incontro con il Signore»13.
In ogni caso questo sparire nel fuoco di Elia manifesta il senso della vita stessa: c’è una
dimensione di gloria, si esprime il servizio di Dio e l’appartenenza a Lui. Elia, che ha portato
a compimento il suo incarico, sale al cielo come l’olocausto; e anche per lui, come per la vittima, c’è il fuoco che brucia.
«Quindi raccolse il mantello che era caduto a Elia». Al discepolo rimasto, Eliseo, è chiesto di portare avanti la missione del maestro. Ora gli appartiene il mantello di Elia: il discepolo entra nella sfera del maestro e porta a compimento la missione del maestro. Con quel mantello, ripetendo al Giordano ciò che aveva fatto Elia, viene riconosciuto profeta dai «figli dei
profeti» e depositario dello spirito di Elia, anche lui farà segni e prodigi come quelli di Elia14.
Il senso della sequela si rivela in questa assunzione di criteri di colui che è stato maestro, del12
Il percorso che i due fanno insieme tocca luoghi significativi della Terra promessa. Gàlgala deve trattarsi della
località situata vicino a Gerico, in cui Israele si accampò entrando nella Terra promessa subito dopo aver passato
il Giordano sotto la guida di Giosuè. E’ il luogo del passaggio, del cambiamento, e soprattutto dell’inizio; è lì
che gli Israeliti vennero circoncisi e celebrarono la prima Pasqua in Terra promessa; ed è lì, dopo la Pasqua, che
la manna finisce, segnando la fine del cammino nel deserto e l’inizio della quotidianità della vita nella terra (cf.
Gs 4-5). Betel, poi, oltre a ricordare la visione di Giacobbe della scala con gli angeli, è una località che ricordava anche i tempi della conquista della terra (cf. Gs 8,9-12; 12,16), ed era stato il santuario di riferimento al tempo dei Giudici (cf. in particolare Gdc 20,18-28), poi scelto da Geroboamo per farne uno dei santuari principali
del Regno del nord (cf. 1Re 12,28-29). Gerico, infine, è la prima città conquistata da Giosuè (cf. Gs 6).
13
C. M. MARTINI, Il Dio vivente. Riflessioni sul profeta Elia, Piemme, Casale Monferrato (AL) 1990, 170.
14
Si pensi alla risurrezione del figlio della Sunammita narrata in 2Re 4,18-37, e al miracolo dell’olio descritto in
2Re 4,1-7.
8
la sua missione, e dei suoi modi di compierla. Ma serve per questo una comprensione nuova e
profonda della realtà e della vita del maestro. Ed è ciò che Eliseo fa.
2. Il ciclo di Eliseo
Eliseo è, per certi aspetti, simile a Elia, mentre si differenzia per altri e lo stesso vale per lo
stile dei testi che ne parlano.
2.1. Eliseo, artefice di eventi politici e militari
2.1.1. La campagna contro Moab: il ruolo della Parola (2Re 3)
E’ un racconto per molti aspetti inquietante. Alleato con Giosafat, re di Giuda, e con il re
di Edom, Ioram, re d’Israele vuole attaccare da sud Mesa, re di Moab, ma le truppe rimangono senz’acqua. Per consiglio di Giosafat i re si rivolgono a Eliseo che, solo per riguardo a lui,
accetta di intervenire: se fosse per Ioram lo manderebbe dai falsi profeti di Baal già ripudiati
da Elia. E’ quindi la parola che coordina e conduce gli avvenimenti. Per poter dare un responso ai re Eliseo chiede che gli suonino la lira e solo così «la mano del Signore fu sopra di
lui» ed egli parlò, ordinando di scavare fosse che riempiranno il terreno d’acqua. Ciò avviene,
ma l’acqua è rossa. Al mattino i moabiti dall’alto la scambiano per sangue, credono che gli
eserciti nemici si siano trucidati fra loro e corrono al saccheggio, ma vengono sconfitti dalle
truppe di Israele, Giuda e Edom, che erano intatte, abbeverate e pronte all’attacco. La vittoria
sarebbe totale se, alla fine, Mesa non sacrificasse il suo primogenito, provocando, non si capisce bene dal testo per quale vera ragione, la fuga degli israeliti. La profezia di vittoria di
Eliseo (cf. vv. 18-19) non viene così pienamente adempiuta.
2.1.2. Una vittoria non violenta (2Re 6,8-23)
La strategia militare aramea prevede una concentrazione militare per invadere una determinata località di Israele. L’uomo di Dio giunge a conoscenza di questo piano del re di Aram
e lo comunica al re d’Israele. Questa conoscenza profetica è ammirata e temuta dai nemici,
sicché gli Aramei decidono di catturarlo in Dotan. Eliseo interviene: con la sua preghiera causa la cecità all’esercito arameo e ironicamente li conduce ignari fin dentro le mura di Samaria. Qui ordina al re di rimpinzarli in un grande banchetto, per cui i soldati, sconcertati per la
grandiosità del prodigio, tornano contenti dal loro re, che si guarda bene dal ritentare attacchi
contro Israele (cf 2Re 6,8-23).
Da notare in tale episodio il simbolismo della luce. La medesima luce che illumina il profeta e gli dona la conoscenza profetica acceca gli avversari. Luce e tenebre indicano rispettivamente il punto di vista di Dio, cioè la visione della fede, e il punto di vista umano.
2.1.3. Assedio e fame in Samaria (2Re 6,24-7,20)
Questo episodio comincia in tono tragico: la città è assediata dagli aramei e in essa si soffre la carestia. Il re sconvolto - una donna gli ha appena riferito che hanno fatto cuocere il figlio di un’amica, l’hanno mangiato e ora tocca al suo – e infuriato corre a prendersela con
Eliseo: «Tu vedi quanto male ci viene dal Signore; che aspetterò più io dal Signore?» (2Re
6,33). L’atteggiamento e le parole ribadiscono l’assunto della teologia deuteronomistica: il re
non può far nulla, solo YHWH può salvare. Dunque unicamente la fede e la confidenza in
Lui possono salvare il popolo dalle sventure. Eliseo profetizza che il giorno dopo ci sarà farina per tutti a prezzi stracciati (cf. 2Re 7,1-2) e la morte dello scudiero del re che aveva ironizzato sulla parola profetica. La profezia si avvera: grazie all’insperata e precipitata ritirata degli Aramei gli abitanti della città possono saziarsi delle provviste abbondanti del campo arameo. La cosa si avvera con il simpatico apporto di quattro lebbrosi (cf. 2Re 7,3-8). Si capisce
9
allora che la precedente calma di Eliseo poggia sulla fede nell’assoluta potenza di YHWH,
capace di liberare e di saziare, ma anche di colpire chi lo irride (cf. v. 20).
2.1.4. Oracolo su Cazaèl (2Re 8,7-15)
In 2Re 8,7-15 Eliseo adempie al compito dato a Elia di mutare la dinastia regnante a Damasco. E’ il re Ben-Adàd, che manda un suo funzionario di nome Cazaèl a chiamarlo, perché
è malato e vuol sapere se guarirà, senza sospettare che affretterà così la sua fine. Eliseo sembra sfruttare la forza ingannatrice della parola profetica: mentre scorge in visione che il re
morirà, autorizza Cazael ad annunciargli la guarigione. Poi si ferma impietrito e scoppia in
lacrime perché, di nuovo in visione, scorge il male che Cazaèl farà a Israele. Alla fine Eliseo
svela ogni cosa a Cazaèl: il vecchio re morirà e lui prenderà il trono. Cazaèl sfrutta
l’informazione e appena torna a casa annuncia al re che guarirà certamente e poi lo soffoca
con una coperta bagnata.
In Eliseo appare una parola profetica che dà adito alla negatività che permea gli intrighi
politici. Cazaèl diventa re grazie a un perfido tradimento, a cui non pensava prima di incontrare Eliseo: è lui, con la rivelazione delle sue visioni, che ha messo in moto tutto per adempiere un misterioso disegno di Dio, padrone del destino dei popoli, che farà di Cazaèl vendicatore di tutte le empietà perpetrate nel regno d’Israele dalla dinastia di Omri, Acab, Acazia e
Ioram. Il successivo passo di 2Re 13,22-25 preciserà che il castigo non sarà l’ultima parola di
Dio: nella sua fedeltà e misericordia tornerà a concedere benevolenza al suo popolo.
2.1.5. Unzione di Ieu (2Re 9,1-13)
L’adempimento dell’altro impegno affidato a Elia, di mutare la dinastia anche in Israele, si
ha in 2Re 9,1-13. Eliseo non si muove di persona, ed è un segno di somma autorità, ma manda un servitore a ungere di nascosto Ieu, futuro re d’Israele, con modalità che richiamano
l’unzione di Davide da parte di Samuele. Anche questa volta è il gesto del profeta che scatena
quanto seguirà. Ieu uccide Ioram e Acazia, re di Giuda, che erano insieme reduci da una
campagna contro Damasco; fa buttare Gezabele dalla finestra, induce i nobili di Samaria a
sgozzare i settanta figli di Acab e altrettanto fa dei parenti del re di Giuda, fa radunare nel
loro santuario i sacerdoti e i profeti di Baal e li fa ammazzare tutti e il redattore conclude:
«Così Ieu sradicò Baal da Israele» (2Re 10,28). Il redattore del libro osa dire che il Signore si
compiacque con Ieu per aver agito bene e aver fatto della casa di Acab tutto quello che il Signore aveva in cuore (cf. 2Re 10,30).
2.2. Profeta attento ai poveri e ai più piccoli
Eliseo, però, come Elia, non è solo un profeta per i re e per i grandi (cf. 2Re 4,13). Egli,
che sta alla presenza del Signore (2Re 5,16), è attentissimo ai poveri e ai più piccoli. Ciò ci
viene mostrato in un secondo gruppo di testi, che hanno il carattere dei «fioretti». Con una
pentola di sale bonifica le acque di Gerico (cf. 2Re 2,19-22). Contro la possibilità di interpretare in senso magico l’utilizzo del sale da parte del profeta il redattore evidenzia il ruolo della
parola di Dio: essa sola ha il potere di risanare! A Galgala mentre nella regione imperversava
la carestia, con un poco di farina risana una minestra avvelenata (cf. 2Re 4,38-41); ma il miracolo è anche collegato con l’obbedienza alla parola: «Danne da mangiare alla gente!». In
altri miracoli, invece, appare più chiaramente il potere taumaturgico di Eliseo: gettando un
legno nell’acqua del Giordano fa venire a galla un’ascia di ferro caduta a un figlio dei profeti
(cf. 2Re 6,1-7). Moltiplica l’olio nella casa di una vedova incalzata dai creditori (cf. 2Re 4,17), e con una primizia di venti pani d’orzo e di farro, che gli sono stati offerti, sfama cento
persone, e ne avanza pure (cf. 2Re 4,42-44). Come Mosé sfamò il popolo nel deserto, così
Eliseo realizza la medesima azione.
Qual è il senso di questi miracoli? Che YHWH, tramite il suo profeta, procura al suo po-
10
polo gli elementi essenziali per la vita. La moltiplicazione dell’olio riflette la meditazione del
narratore deuteronomista. L’esperienza nel deserto aveva fatto comprendere a Israele che la
sua vita dipende anche e soprattutto dall’ascolto della parola di Dio (cf. Dt 8,2-6); così
YHWH dispensa il suo favore alla donna che crede nella parola testimoniata dal profeta, e
l’olio è uno dei doni (cf. Dt 8,8) che mostra la vicinanza di Dio. La scena della pentola avvelenata si ispira a Es 15,22-27: là le acque amare ridiventano dolci, qui il cibo ridiventa sano.
YHWH è fonte della vita e dispensatore di guarigione; la sua presenza si manifesta tramite il
ministero profetico. I pani che vengono moltiplicati sono quelli offerti come primizia; sono
quindi pani di Dio. Tale miracolo, quindi, è da attribuirsi a YHWH (come anche sottolineato
dalle parole: «secondo la parola del Signore»: v. 44b) che offre i suoi doni con abbondanza e
continua a elargire questo dono al suo popolo nella terra dove l’ha chiamato gratuitamente.
Commovente è la risurrezione del figlio dell’anziana, ospitale, signora di Sunem (cf. 2Re
4,8-37; 8,1-6). Soltanto YHWH può restituire vita, cosa che egli fa tramite il suo profeta.
Eliseo, però, punisce la petulante arroganza dei monelli di Betel, i quali si burlano della
sua calvizie (cf. 2Re 2,23-25); o, forse, meglio si burlano di colui che porta la Parola. E la
Parola non ammette irrisione alcuna!
Il Siracide (Sir 48,14) ha anche custodito la memoria dell’ultimo segno operato dalle ossa
di Eliseo, già nella tomba: la risurrezione di un morto (cf. 2Re 13,20-21).
2.3. Naaman il siro
La guarigione di Naaman, capo dell’esercito di Damasco, è specialmente un miracolo altamente simbolico del fatto che in Israele e presso il Giordano c’è un profeta, come non se ne
trovano, presso l’Abana e il Parpar, fiumi di Damasco, e che «non c’è Dio su tutta la terra se
non in Israele» (2Re 5). Il generale dell’esercito del re di Siria Naaman affetto dalla lebbra
che nel suo paese nessuno era in grado di curare la lebbra (nell’Antico Testamento andavano
sotto questo nome varie forme di fastidiose malattie della pelle), viene a sapere da una ragazzetta ebrea, fatta schiava in una scorreria di bande aramee e finita al servizio di sua moglie,
che in Samaria c’era un profeta capace di guarirlo. Quando il generale arriva con carro e cavalli, il profeta non si degna nemmeno di riceverlo, limitandosi a fargli dire da un messaggero
di bagnarsi sette volte nelle acque del Giordano. La reazione di Naaman mostra quanto diverse fossero state le sue aspettative. Il contrasto tra la sobrietà ed essenzialità del profeta e le
aspettative di qualcosa di clamoroso del pagano Naaman viene messo opportunamente in risalto. Nàaman sarebbe tornato in patria sconfitto dal proprio orgoglio se i suoi servi non fossero intervenuti. Quest’ultimi, persone senza nome e senza gloria, si fanno strumento di Dio.
Sono essi che, come “piccoli” sanno accettare le cose semplici e ragionano in modo umile e
semplice, trasmettono al grande condottiero la capacità di piegarsi, di umiliarsi, di scendere
nell’acqua sette volte. Un’obbedienza da “bambino”. Alla fine l’altero militare si piega: scende al Giordano (cioè scende dalla sua attitudine di superiorità) e si lava nelle acque sette volte15. La guarigione avviene, subito ed è totale.
Il risultato è duplice: da una parte, Naaman è guarito fisicamente; d’altra parte, egli arriva
a credere che «non c’è Dio su tutta la terra se non in Israele»: è la fede nel Dio rivelatosi a
Israele che egli ora professa. C’è qui tutta la questione della partecipazione di un pagano alla
comunità di fede ebraica, visione che – anche grazie ai profeti – sarà comune nel postesilio e
che sarà pienamente acquisita dalla Chiesa nascente inviata ad annunciare il Vangelo in tutto
15
In realtà Naaman più che lavarsi in esse, come ogni lebbroso doveva fare, si immerge in esse. Viene qui evocato il battesimo d’integrazione dei proseliti alla comunità israelitica (la tebilah). Si noti anche l’insistenza sul
fatto che la carne di Naaman «ridivenne come la carne di un giovinetto». Si trattava di uno dei temi del giudaismo concernete il proselito, il quale, al mattino del suo battesimo, prima di essere obbligato alla Legge, è «come
un bambino appena nato». La scena al Giordano descrive, quindi, la guarigione fisica di Naaman, ma allude
anche alla sua trasformazione interiore.
11
il mondo.
Il dono che Naaman per riconoscenza vuole offrire ad Eliseo è rifiutato dal profeta per dimostrare la “gratuità” dell’amore di Dio: quello che egli vuole è il “riconoscimento” della sua
potenza e della sua benevolenza mediante la fede. In tal modo l’uomo è sottratto alla tentazione di manipolare il “sacro” e di farne un’immagine di se stesso, dei suoi bisogni, dei suoi
desideri e delle sue frustrazioni. La “gratitudine” più vera verso Dio la esprimiamo con la nostra vita e con il nostro amore.
Anche il seguito del racconto è interessante: «Allora Naaman disse: “Se è no, almeno sia
permesso al tuo servo di caricare qui tanta terra quanta ne portano due muli, perché il tuo servo non intende compiere più un olocausto o un sacrificio ad altri dèi, ma solo al Signore”»
(vv. 15-17). Sono parole che dimostrano la fede ormai piena di Naaman nel Dio “unico”
d’Israele. E siccome, secondo gli antichi, la divinità aveva un rapporto tutto particolare con il
popolo e con il paese che l’adorava, il generale straniero chiede di portare con sé una certa
quantità della “terra” d’Israele per poter adorare in quello “spazio sacro” JHWH anche in terra pagana.
2.4. La morte di Eliseo (1Re 13,14-21)
Due episodi indipendenti concludono il ciclo di Eliseo: una visita e consultazione del re
Ioas al vecchio e malato profeta (vv. 14-19) e la morte e sepoltura dell’uomo di Dio.
L’oracolo ha lo scopo di sottolineare che l’assenza o la scomparsa del profeta non significano
la fine dell’aiuto divino a Israele; questo continuerà, a condizione che la fiducia nella parola
profetica sia piena e non limitata, come nel caso di Ioas che colpisce solo tre volte (cf. vv. 1819). A scanso di errate interpretazioni il v. 23 preciserà che la salvezza di Israele non dipende
direttamente dalla parola e dall’azione del profeta, bensì da ciò a cui la parola rimanda: la misericordia e la fedeltà all’alleanza!
3. L’intelligenza evangelica del ministero galilaico di Gesù
Si vede bene come molti aspetti del ministero di Gesù, specialmente in Galilea, richiamino
la figura taumaturgica di Elia e di Eliseo: la moltiplicazione dei pani16; la risurrezione del figlio della vedova di Nain, che si trova a poca distanza da Sunem (ove Eliseo aveva risuscitato
il figlio), al di là del Monte More (cf. Lc 7,11-17); il Messia regale e profetico di Israele che è
pure profeta e Messia salvatore delle nazioni17. Le storie di Elia e di Eliseo ci rendono consapevoli di molti contenuti della coscienza di Gesù, ai quali egli allude nel suo discorso nella
sinagoga di Nazaret per introdurre nella gente una qualche intelligenza del proprio «oggi»
messianico, profetico e regale (Lc 4,16-27).
16
17
Cf. Mt 14,13-21; 15,32-38; Mc 6,31-44; 8,1-10; Lc 9,10-17; Gv 6,1-13.
Cf. Mt 8,5-13; 15,21-39; Mc 7,24-8,10; Lc 2,25-32; 7,1-10; Gv 4,42; ecc.
12

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