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Università degli Studi della Tuscia - Viterbo
Facoltà di Lingue e Letterature straniere moderne
Istituto di Studi Anglo-Germanici
Studi Anglo-Germanici
3
(Collana diretta da Mirella Billi)
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QUESTO VOLUME È STATO STAMPATO CON IL
UNIVERSITÀ DELLA TUSCIA - VITERBO
CONTRIBUTO
DELL’
Edizioni sette città
di Margarita Fernandez
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Edito: Bruno Cenciarini
Cover design: Bruno Cenciarini / Emanuele Paris
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SANDRO MELANI
LONTANI ALTROVE
CONFIGURAZIONI DEL MONDO IN RUTH
PRAWER JHABVALA, KAZUO ISHIGURO E
BRUCE CHATWIN
sette città
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INDICE
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p. 179
p. 193
p. 203
Premessa
Scoprire il mondo: l’India di Ruth
Prawer Jhabvala
Ricordare il Mondo:
Il Giappone di Kazuo Ishiguro
Cantare il mondo: l’Australia abo
rigena di Bruce Chatwin
Coda; occultare il mondo: il set
televisivo di Peter Weir
Bibliografia
Indice dei Nomi
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PREMESSA
Now I am free, enfranchised and at large,
May fix my habitation where I will.
What dwelling shall receive me? in what vale
Shall be my harbour? underneath what grove
Shall I take up my home? and what sweet stream
Shall with its murmurs lull me to my rest?
The earth is all before me.
William Wordsworth, The Prelude, I, 9-15
Nel ripercorrere la vasta e complessa storia
della mobilità umana dall’antichità ai giorni
nostri e nel ricostruirne le molteplici forme –
dalle epiche imprese dei nostri eroici progenitori, da sempre avvolte dal velo della leggenda e
del mito, fino al ben più prosaico turismo di
massa, ormai irreparabilmente immalinconito
dalla scoperta che, per citare Claude LéviStrauss1, anche i tropici si stanno facendo sempre più tristi – Eric J. Leed2 ne individua, sotto
la composita e variegata superficie, i tratti
significativi ed emblematici. Tale individuazione
gli permette da una parte di effettuare una
1
Cfr. Claude Lévi-Strauss, Tristes tropiques, Paris, Plon,
1955 [tr. it., Tristi tropici, Milano, Il Saggiatore, 1960].
2
Cfr. Eric J. Leed, The Mind of the Traveler: From
Gilgamesh to Global Tourism, New York, Basic Books, 1991
[tr. it., La mente del viaggiatore. Dall’Odissea al turismo globale, Bologna, Il Mulino, 1991].
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necessaria anche se forse schematica tipologizzazione della fenomenologia del viaggio e dall’altra
di mettere in luce quanto sia mutato, nel lento
passaggio dall’epoca antica a quella moderna, il
modo di concepirlo, di affrontarlo e di viverne i
momenti costitutivi, partenza iniziale e arrivo
finale congiunti dalla fase intermedia del transito.
Per gli antichi il viaggio era in genere un’imposizione, voluta da dei esigenti o da un fato
imperioso, era un’ingiunzione a cui solo in teoria
era possibile ribellarsi. L’allontanamento era
per loro un’amara costrizione che per il fatto
stesso di comportare, come tutte le partenze di
qualsiasi epoca e di qualsiasi terra, un distacco
dal rassicurante tessuto sociale e familiare a cui
era legata a doppio filo la percezione dell’identità personale si faceva all’istante portatrice di
una sofferenza e di un disagio profondi. L’unica
consolazione poteva essere costituita dalla consapevolezza che, a meno che non si trattasse di
un esilio inflitto a scopo punitivo, tale sofferenza e tale disagio avevano però un carattere
transitorio e sarebbero cessati automaticamente al momento del ritorno e del conseguente
rientro del viaggiatore all’interno del suo nucleo
originario, sia politico che domestico. Come
Leed rileva mettendo in evidenza la comune
radice etimologica dei sostantivi travel e travail
o dei verbi to fare e to fear, il viaggio veniva
insomma avvertito come un “travaglio”, come
una prova difficile e paurosa, come un cimento
faticoso e irto di pericoli il cui sbocco, se l’esito
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era felice, era la riconferma di una certa strutturazione e di una certa configurazione del
mondo e la cui ripercussione sull’individuo consisteva nel riconoscimento da parte sua delle
componenti irriducibili e inalienabili della sua
personalità, nella chiarificazione del ruolo che
egli avrebbe ricoperto entro le mura perimetrali
del suo ambiente e, infine, nell’acquisizione
della saggezza. A partire dal Gilgamesh dell’omonima epopea sumero-babilonese, la tradizione
vuole infatti che dopo tante sofferenze e dopo
tanti patimenti il viaggiatore si ritrovi invariabilmente un po’ più saggio e quindi più vicino
di quanto lo fosse prima alla carismatica figura
del filosofo.
Con il passare del tempo il viaggio ha subito
una radicale trasformazione. Ben lungi dall’apparire ancora come l’esplicazione della necessità
o un mandato del destino, oggi rappresenta
invece un’esperienza di libertà e una conquista
di autonomia a cui si accompagnano la scoperta
del proprio io e la definizione di una fisionomia
personale da riconoscere al di fuori dei limiti
imposti dalla matrice socioculturale di appartenenza. A partire dall’avvento dell’età moderna il
viaggio si configura come il frutto di una scelta
volontaria, caratterizzata dall’assenza totale di
scopi strettamente utilitaristici. Se le peregrinazioni cavalleresche, primo nucleo germinativo
del significato degli odierni viaggi, erano determinate principalmente dall’amore dell’avventura
in sé e per sé e affermavano quindi l’assoluta
emancipazione del soggetto viaggiante dall’ine-
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luttabilità e dalle costrizioni, dal Rinascimento
in poi viaggiare è il segno inequivocabile sia
della volontà di conoscere il mondo e di soddisfare la propria insaziabile curiosità che del desiderio di muovere alla scoperta di se stessi e di
mettere così in luce la propria individualità e la
libertà che la contraddistingue.
Viaggiare significa dunque confrontarsi e
riconoscersi. È opinione diffusa che i viaggi – o
almeno quelli, sempre più rari nell’era del turismo di massa, che non comportano l’acquisto di
una delle tante offerte reclamizzate dalle agenzie
turistiche e che da chi li intraprende pretendono
un coinvolgimento interattivo e non soltanto la
disponibilità a lasciarsi trasportare in una sorta
di capsula mobile avulsa da tutto quanto la circonda – è opinione diffusa, dicevamo, che tali
viaggi amplino e stimolino la mente e contribuiscano in larga misura alla formazione intellettuale e alla maturazione umana del soggetto,
che viene in questo modo a trovarsi immerso in
contesti culturali di cui non può non rilevare sia
le evidenti diversità che le inevitabili somiglianze e a cui dovrebbe prestare, se non è affetto da
una grave e patologica forma di provincialismo
etnocentrico, il suo incondizionato rispetto. Al
momento del distacco, inoltre, allorché, seppur
per un periodo di tempo limitato e circoscritto,
recide i legami protettivi con l’ambiente in cui è
nato e cresciuto e sul cui sfondo giorno dopo
giorno continua a essere inscritta e confermata
la definizione della sua personalità sociale, il
viaggiatore scatena un automatico meccanismo
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di ridefinizione del proprio io che, seppur non
sempre accompagnata da una piena consapevolezza di quanto sta accadendo, impegna a fondo
tutte le sue energie. A contatto con un mondo
sconosciuto e a volte intimorente e con un
altrettanto sconosciuto e intimorente campionario umano, nell’ineluttabile decontestualizzazione successiva alla partenza, a cui può eventualmente far seguito una progressiva ma lentissima
ricontestualizzazione all’interno delle nuove
strutture, egli prende sempre più coscienza della
realtà più profonda del suo essere, sulla quale è
costretto a concentrarsi, dando così, in quella
sorta di vacanza e di vacuum sociale che si sono
venuti a instaurare, pieno spessore e chiari e
nitidi contorni alla sua vera identità.
Chiunque ben sa che nella sua più semplice
definizione tecnica – uno spostamento da un
luogo a un altro, effettuato servendosi di un
qualsiasi mezzo di trasporto – il termine “viaggio” accetta come sinonimi vocaboli quali “cammino”, “itinerario”, “passaggio”, “percorso”,
“tragitto”, o “transito”, ma è grazie alle sue
implicite potenzialità trasformatrici che il viaggio si è potuto fare metafora dei momenti di
transizione esistenziale da uno stato a un altro,
da una condizione a un’altra, da un modo di
vivere e di essere a un altro. Non è certo casuale che su questo piano figurato si sia potuto
addirittura imporre come metafora archetipica
degli eventi fondamentali dell’esistenza, lasciando un segno indelebile della propria fertilità
semantica in una serie di eufemismi linguistici
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che fanno parte del vocabolario quotidiano.
Nascendo “veniamo alla luce” o “al mondo”,
morendo compiamo un “trapasso”: l’intero ciclo
vitale, dalla condizione prenatale del feto
immerso nel liquido amniotico al bambino che
giorno dopo giorno cresce e diventa uomo avvicinandosi così al momento della morte, non è
che una transizione, nella spazio-temporalità
esistenziale, da un qui a un là e da un adesso a
un poi. La vita è insomma un viaggio.
Date queste premesse, è allora naturale che
nel corso del tempo il viaggio sia sempre stato
oggetto di un’attenzione privilegiata sia nel
campo degli studi storici, geografici e antropologici che nell’ambito specifico della letteratura
intesa, in tutta la sua ricca varietà di forme,
come “finzione”. Se l’antichità, ad esempio, ci
ha tramandato dettagliate descrizioni di tante
spedizioni militari – basti qui ricordare
l’Anabasi di Senofonte o il De bello gallico di
Giulio Cesare – con il quindicesimo secolo,
momento cruciale della storia della civiltà occidentale a cui può essere fatta risalire la nascita
della mentalità scientifica moderna e l’inizio
della celebrazione dello spirito di curiosità che
caratterizzano la nostra epoca, diventa pressoché normativa la stesura di un resoconto delle
spedizioni compiute via mare o via terra. Da
una parte abbiamo così le relazioni delle navigazioni portate a termine da Magellano (grazie
alla redazione fattane da Antonio Pigafetta), da
Cristoforo Colombo, da Giovanni da
Verrazzano, da Vasco de Gama, da James Cook
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e da tanti altri più o meno insigni navigatori –
testi, tutti questi, a cui, per giungere a tempi a
noi più vicini, è doveroso aggiungere il Voyage
of the Beagle di Charles Darwin; dall’altra
abbiamo quelle delle esplorazioni effettuate da
spiriti intrepidi e avventurosi tra i quali spiccano i nomi e il ricordo di Mungo Park, David
Livingstone e
Sir Henry Morton Stanley3.
Accanto ad esse, poi, si situano le esposizioni
tramandateci da quei letterati curiosi che hanno
voluto lasciare un ricordo indelebile dei loro
transiti e dei loro passaggi, ricordo spesso contrassegnato, e dal punto di vista scientifico con
ogni probabilità irrimediabilmente viziato, dai
loro idiosincratici umori. Rimanendo circoscritti
al fronte anglosassone e senza nessuna pretesa di
completezza, vale la pena di citare le incursioni
sul continente di Joseph Addison, William
Beckford e Tobias Smollett, risalenti al momen-
3
Per un’esauriente trattazione delle spedizioni intraprese
dall’antichità fino ai giorni nostri cfr., sempre di Eric J.
Leed, Shores of Discovery: How Expeditionaries Have
Constructed the World, New York, Basic Books, 1995 [tr. it.,
Per mare e per terra. Viaggi, missioni, spedizioni alla scoperta del mondo, Bologna, Il Mulino, 1996]. Sugli effetti
determinati in particolare dalla scoperta del Nuovo Mondo
cfr. Tzvetan Todorov, La Conquête de l’Amérique. La question de l’autre, Paris, Seuil, 1982 [tr. it., La conquista
dell’America. Il problema dell’ “altro”, Torino, Einaudi,
1984] e Stephen Greenblatt, Marvellous Possessions: The
Wonder of the New World, Oxford, Clarendon Press, 1991
[tr. it., Meraviglia e possesso. Lo stupore di fronte al Nuovo
Mondo, Bologna, Il Mulino, 1994].
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to della massima fioritura dell’iniziatica istituzione del Grand Tour e in seguito protratte, tra
gli altri, da personalità del calibro di Charles
Dickens, John Ruskin, James Fenimore Cooper,
Nathaniel Hawthorne, William Dean Howells,
Mark Twain, Henry James e D. H. Lawrence.
Gli esotici sconfinamenti lawrenciani al di fuori
della vecchia Europa, ora in America ora in
Australia, vanno poi di pari passo, tanto per
portare qualche esempio, con quelli di Robert
Byron, Evelyn Waugh, Denton Welch, E. M.
Forster ed Ernest Hemingway, che hanno fermato sulla carta le impressioni dei loro viaggi in
Afghanistan, in Abissinia, in Cina, in India e in
Africa, o in tempi recentissimi con quelli, tra i
tanti, dell’inquieto Bruce Chatwin in Patagonia
e in Australia4.
Nel momento in cui ci allontaniamo da queste testimonianze, caratterizzate da una maggiore o minore pretesa di scientificità, ci rendiamo comunque subito conto che anche nel campo
4
Tra i numerosissimi studi critici dedicati al Grand Tour
si segnalano il volume di Attilio Brilli, Quando viaggiare era
un’arte. Il romanzo del Grand Tour, Bologna, Il Mulino,
1995 e il catalogo, curato da Andrew Wilton e Ilaria
Bignamini, Grand Tour: The Lure of Italy in the Eighteenth
Century, London, Tate Gallery Publishing, 1996 [tr. it.,
Grand Tour. Il fascino dell’Italia nel XVIII secolo, Milano,
Skira, 1997]. Sui viaggiatori inglesi del nostro secolo cfr.
Paul Fussell, Abroad. British Literary Traveling between the
Wars, Oxford, Oxford University Press, 1980 [tr. it.,
All’estero. Viaggiatori inglesi tra le due guerre, Bologna, Il
Mulino, 1988].
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della letteratura meno legata a tali presupposti
di oggettività e di referenzialità il viaggio è da
sempre un topos ricorrente, rivestito di un’infinita varietà di forme e caricato di valenze di
volta in volta diverse. Possiamo così passare dal
viaggio epico di Gilgamesh, dell’Ulisse omerico e
dell’Enea virgiliano a quello eroico dei cavalieri
della Tavola Rotonda, e da questo alle imprese
cavalleresche dell’Orlando ariostesco, agli scontri parodici di don Chisciotte e alle disavventure del cavaliere inesistente di Italo Calvino.
Abbiamo poi il viaggio allegorico di Dante e del
pellegrino di John Bunyan, entrambi alla ricerca della salvezza cristiana della propria anima,
i travels filosofico-satirici di Gulliver, con i loro
continui rovesciamenti delle proporzioni e delle
angolazioni visive, e le navigazioni dai risvolti
metafisici di Gordon Pym e del capitano Ahab
con la loro esperienza dell’ineffabile mistero del
bianco. Al loro fianco, e su un terreno più ancorato al tessuto del reale, prendono posto le peregrinazioni avventurose ma intrise di una robusta
etica mercantile e borghese di Robinson Crusoe,
imprenditoriale homo economicus, e della sua
consanguinea Moll Flanders, altrettanto abile
gestrice di se stessa, nonché quelle picaresche di
Lazarillo di Tormes, e dopo di lui e su altro
suolo del trovatello Tom Jones, o quelle delicatamente ironico-sentimentali del reverendo
Yorick. La lista potrebbe continuare all’infinito
e includere il viaggio fantastico alla Jules Verne
verso altri pianeti o quello alla H. G. Wells da
altri pianeti, le apocalittiche o per lo meno assai
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poco confortanti odissee da terzo millennio che
nell’odierna fantascienza ci conducono su astronavi spaziali fino alle soglie dell’infinito, i frenetici spostamenti scanditi dal bop che in On the
Road portano da una costa all’altra degli Stati
Uniti i disillusi personaggi di Kerouac guidati da
Dean Moriarty, o ancora, su un piano metaforico di altissima suggestività, il viaggio introspettivo, così frequente nella letteratura del
Novecento, volto, da James Joyce a Virginia
Woolf e da Thomas Mann a Italo Svevo, a scandagliare l’insostenibile profondità dell’essere o a
esplorare gli insidiosi labirinti della memoria
aperti dalla Recherche di Marcel Proust.
Il viaggio, dunque, costituisce un panorama
così vasto che non permette di tracciare nessuna facile linea di demarcazione e questo libro,
di conseguenza, non vuole certo né offrire un
contributo all’analisi della sua dinamica strutturale, né ripercorrere la storia delle relazioni
che ne sono state fatte, né, infine, tentare di stilare una tassonomia delle forme specifiche che
esso ha assunto e potrà assumere nel campo letterario. Vuole soltanto leggere tre testi contemporanei che, sotto la loro innegabile diversità,
sono accomunati da sorprendenti affinità. In
tutti e tre i casi abbiamo infatti un personaggio
– l’anonima, giovane narratrice di Heat and
Dust di Ruth Prawer Jhabvala, la ben più matura Etsuko di A Pale View of Hills di Kazuo
Ishiguro e il Bruce dalle mille curiosità che si fa
voce narrante di The Songlines di Bruce
Chatwin – che in qualche modo tenta di scopri-
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re e di definire se stesso a contatto con un
ambiente straniero, con un altrove lontano che
fa da sfondo alla sua difficile e delicata quest
interiore. Straniera, infatti, è l’India di Heat
and Dust per l’inglese che vi si reca all’inizio
degli anni Settanta per ripercorrervi le orme e
ricostruirvi l’esistenza della prima moglie di suo
nonno – l’enigmatica Olivia – e straniera è
l’Australia aborigena di The Songlines per il
Bruce che vuole arrivare a comprendere il significato delle sfuggenti e affascinanti Vie dei Canti
che costituiscono il fulcro della religione indigena. Straniero, infine, o almeno ormai tanto
distanziato dal tessuto connettivo della quotidianità da avere bisogno forse non di una conquista ma senza dubbio di una riconquista, è
anche il Giappone postbellico per la Etsuko che
da tanti anni ha abbandonato la città in cui
viveva, la Nagasaki devastata dalla bomba atomica, per trasferirsi con la figlia e un nuovo
marito in un’imprecisata località dell’Inghilterra,
tagliando poi in maniera definitiva qualsiasi
contatto con il paese natale, contro il quale però
si proietta in un tentativo solo parzialmente
riuscito di definire e comprendere se stessa ricorrendo a un viaggio, questa volta metaforico,
condotto da cima a fondo sul filo spesso ingannevole della memoria.
Aggiungerei, per amore di precisazione, che
nessuno dei tre autori parla del proprio paese di
origine. Australiano non era certo Bruce
Chatwin, inglese, come vedremo, malgré lui.
Sebbene in genere annoverata tra gli esponenti
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della letteratura postcoloniale, nonostante il suo
matrimonio con un architetto indiano e la sua
lunga permanenza a New Delhi scrittrice indoinglese come Anita Desai o Nayantara Sahgal,
Bharati Mukherjee o Arundhati Roy non può
essere considerata Ruth Prawer Jhabvala, che,
figlia di padre polacco e di madre tedesca, alla
vigilia dello scoppio della Seconda Guerra
Mondiale si è trasferita insieme alla famiglia in
Inghilterra per sfuggire alle persecuzioni dei
nazisti contro gli ebrei e trascorre oggi la maggior parte del suo tempo negli Stati Uniti, dove
scrive romanzi e sceneggiature cinematografiche
in stretta collaborazione, nonostante gli esiti
alterni, con il regista James Ivory e il produttore Ismail Merchant. Giapponese, infine, non
può essere ritenuto nemmeno Kazuo Ishiguro,
che dal Giappone è stato portato via all’età di
sei anni, ha trascorso solo brevi periodi nel paese
natale, è stato quindi educato in Inghilterra ed
è oggi più vicino alla tradizione del romanzo
europeo che a quella del romanzo nipponico.
In coda al libro, passando dalla letteratura al
cinema, ho posto alcune pagine su The Truman
Show, il bel film dell’australiano ma ormai da
tempo americanizzato Peter Weir incentrato su
un’ipotesi fantascientifica, ma al tempo stesso
chiaramente metaforica, dell’inquietante condizionamento che può essere imposto a qualsiasi
essere umano da parte dei vari mass media culturali e soprattutto dalle potenti network televisive. In contrasto con gli effetti benefici che ai
fini del riconoscimento dell’identità personale
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possono essere esercitati sull’individuo dal processo che si instaura nel momento in cui si stabilisce un contatto con l’altrove, qualunque esso
sia, in The Truman Show assistiamo alla negazione totale di un qualsiasi spazio contro il quale
il protagonista, Truman Burbank, si possa confrontare, con l’inevitabile conseguenza che si
impone per lui la necessità di compiere un gesto
di aperta, decisa e positiva ribellione che gli permetta finalmente di cominciare a vivere, moderno e ottimistico eroe, genuinamente americano,
di un mondo immiserito che riesce a sfuggire
una volta per tutte alle manipolazioni di cui,
fino a quel momento, è stato solo una vittima
inconsapevole.
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