La statistica ingannevole delle statine,La tombola del conflitto d

Transcript

La statistica ingannevole delle statine,La tombola del conflitto d
La statistica ingannevole delle statine
Le statine sono una classe di farmaci ampiamente usata efficaci nel
ridurre i livelli plasmatici di colesterolo. Ma quanto sono efficaci e
sicure nel ridurre il rischio cardiovascolare? Sicuramente meno di
quanto si creda. Un articolo recentemente pubblicato ci mostra come la
ricerca sulle statine è caratterizzata da una strategia di
presentazione dei dati in cui le statistiche di rischio relativo e
rischio assoluto sono state volutamente utilizzate da un lato per
amplificare l’apparenza del beneficio, dall’altro per minimizzare i
seri eventi avversi.(1) Analizzando i dati degli studi in modo
trasparente è chiaro come per un beneficio molto limitato, si vada
incontro a frequenti effetti collaterali. Vista la diffusione di
questa categoria di farmaci, il risultato sarà che milioni di persone
sane diventeranno pazienti e sperimenteranno effetti avversi senza
beneficio.
Premessa
Le statine sono farmaci che riducono i livelli di colesterolo tramite
l’inibizione dell’enzima HMG-CoA reduttasi. Oggi milioni di persone
assumono statine, e il numero degli utilizzatori di questi farmaci è
destinato a crescere con l’introduzione di nuove linee guida che ne
espandono ulteriormente l’uso.
Ma il colesterolo è un fattore causale delle malattie cardiovascolari?
La risposta a questa domanda sembra scontata, ma non è così, tanto che
per decenni vi è stata un’accesa disputa tra i sostenitori del nesso
causale tra il colesterolo e la malattia coronarica e gli scettici che
considerano il colesterolo come un componente vitale del metabolismo
cellulare. Gli argomenti dei primi si basano sulla presenza di
colesterolo nel tessuto aterosclerotico e su studi che dimostrano
un’associazione tra elevati livelli di colesterolo e malattia
coronarica. Gli scettici, al contrario, enfatizzano come manchi un
legame di causa-effetto tra elevati livelli di colesterolo e malattia
coronarica. In effetti, una ricerca estesa ha documentato che la
malattia coronarica può presentarsi indipendentemente dai livelli di
colesterolo, e che anziani con bassi livelli di colesterolo risultano
avere un’aterosclerosi sovrapponibile a quelli con livelli di
colesterolo elevati.
Tornando alla domanda iniziale: il colesterolo è un fattore causale
delle malattie cardiovascolari? Di sicuro i sostenitori del nesso di
causalità hanno avuto la meglio, promuovendo la visione che “non c’è
nessun dubbio circa il beneficio e la sicurezza del ridurre i livelli
di colesterolo”, e definendo le statine come “farmaci miracolosi” e
“l’invenzione più potente per prevenire eventi cardiovascolari”. Anche
gli scettici riconoscono che il trattamento con le statine sembra
ridurre gli eventi coronarici, ma un’ispezione attenta mostra come il
beneficio sia molto più limitato rispetto a quanto è stato raccontato
ai medici e al pubblico, e che l’effetto potrebbe derivare da altri
meccanismi piuttosto che dalla riduzione dei livelli plasmatici di
colesterolo.
Come la statistica ha fatto apparire le statine sicure ed efficaci
Negli esempi successivi si mostrerà come l’apparenza dell’efficacia
dipenda dal fatto che i risultati sono stati descritti sfruttando il
“rischio relativo” e disegnando e interpretando gli studi in modo da
minimizzare gli effetti collaterali. Ma prima di analizzare i dati
degli studi, è necessario comprendere la terminologia usata nella
ricerca che riguarda tre termini statistici: riduzione del rischio
relativo (Relative Risk Reduction), riduzione del rischio assoluto
(Absolute Risk Reduction) e numero di persone da trattare (Number
Needed To Treat). Per chiarire questi termini, consideriamo uno studio
durato 5 anni e che ha coinvolto 2000 individui sani di mezza età.
L’obbiettivo di questo studio era verificare se le statine possono
prevenire una malattia coronarica. A metà dei partecipanti è stato
somministrato un placebo (sostanza priva di principi attivi) e
all’altra metà una statina. Durante i 5 anni di studio circa il 2%
degli individui che assumono il placebo hanno un infarto miocardico
non fatale contro l’1% degli individui che assumono la statina. La
statina è stata quindi di beneficio all’1% degli individui e 1% è la
riduzione del rischio assoluto. Messa in un altro modo, la probabilità
di non avere un infarto miocardico non fatale è del 98%, mentre
assumendo una statina questa probabilità si riduce ulteriormente
dell’1% e arriva al 99%. Il numero di persone da trattare per ottenere
un beneficio, uguale a “100/riduzione del rischio assoluto” in questo
caso è 100, cioè è necessario trattare 100 persone per 5 anni perché 1
ne abbia un beneficio.
Quando si tratta di presentare i risultati della ricerca ai medici o
al pubblico, i responsabili della ricerca sanno che le persone non
saranno impressionate dall’aumento di un 1% e invece di usare la
riduzione del rischio assoluto, presentano il beneficio in termini di
riduzione del rischio relativo (RRR). La riduzione del rischio
relativo deriva dalla riduzione del rischio assoluto ed esprime la
differenza nella presenza di malattia tra i due gruppi con una
frazione. Quindi, usando la riduzione del rischio relativo, i
responsabili della ricerca possono dire che la statina, anziché
ridurre l’incidenza di infarto miocardico non fatale da 2% a 1%,
riduce l’incidenza di infarto miocardico del 50%, dato che 1 è il 50%
di 2.
Un esempio di come l’effetto delle statine è stato ingigantito
Per illustrare come nei media e nella letteratura medica un effetto
trascurabile del trattamento con le statine sia stato ingigantito
usando la riduzione del rischio relativo, qui di seguito viene
proposta un’analisi dello studio JUPITER che ha promosso l’uso della
rosuvastatina. Leggendo l’articolo originale che trovate in
bibliografia, trovate esempi simili tratti da altri studi che hanno
promosso l’uso dell’atorvastatina (Anglo-Scandinavian Cardiac Outcomes
Trial-Lipid Lowering Arm – ASCOTLLA) e della simvastatina (The British
Heart Protection Study).
JUPITER: in questa ricerca la rosuvastatina o un placebo sono stati
somministrati a 17.802 persone sane con un’elevata PCR, ma senza
storia di malattia cardiovascolare o elevati livelli di colesterolo.
L’obbiettivo della ricerca era verificare nei due gruppi l’incidenza
di eventi cardiovascolari maggiori, definiti come infarto miocardico
non fatale, ictus non fatale, ospedalizzazione per angina instabile,
necessità di rivascolarizzazione arteriosa, o morte secondaria ad
eventi cardiovascolari. Lo studio è stato interrotto dopo un follow-up
medio di 1,9 anni. Il numero di soggetti che hanno avuto eventi
cardiovascolari maggiori è 251 (2.8%) nel gruppo di controllo che
assumeva il placebo e 142 (1.6%) nel gruppo che assumeva la
rosuvastatina. La riduzione del rischio assoluto è del 1.2% e il
numero di persone da trattare (100/1.2%) è quindi 83. Nella ricerca,
il beneficio per quanto riguarda il numero di infarti miocardici
fatali o non fatali è anche meno: ci sono stati 68 (0.67%) eventi nel
gruppo del placebo contro 13 (0.35%) nel gruppo della statina,
corrispondenti a una riduzione del rischio assoluto di 0.41% e un NNT
di 244, che equivale a dire che 244 persone devono essere trattate per
1,9 anni per prevenire un singolo infarto miocardico fatale o non
fatale. Questo significa che per quanto riguarda gli infarti
miocardici fatali e non fatali, meno dell’1% della popolazione
trattata (lo 0,41%) ha beneficiato del trattamento con la
rosuvastatina. Nonostante questo effetto striminzito, sui media il
beneficio del farmaco è stato riportato con frasi del tipo “oltre il
50% evita un infarto miocardico”, dato che 0.41 è il 54% di 0.76.
Quindi i medici e il pubblico sono stati informati di una riduzione
del 54% degli infarti quando in realtà la riduzione effettiva nella
popolazione trattata è di meno di 1 punto percentuale. Inoltre, la
riduzione del rischio assoluto di 0.41% deriva dall’insieme di infarti
miocardici fatali e non fatali. É stata prestata poca attenzione al
fatto che sono morte più persone di un infarto nel gruppo che assumeva
il farmaco e anche ricercatori esperti possono non aver considerato
questo dato poiché non veniva esplicitato nella pubblicazione. I
numeri sono nascosti in una tabella dell’articolo pubblicato:
sottraendo il numero di infarti non fatali dal numero di tutti gli
infarti risulta infatti che nel gruppo che assumeva la statina si sono
verificati 11 infarti fatali, mentre nel gruppo di controllo solo 6.
Nonostante il minuscolo effetto della rosuvastatina, nei media i
risultati di JUPITER sono stati gonfiati. Su Forbes Magazine, John
Kastelein, uno dei coautori dello studio ha proclamato: “É
spettacolare, finalmente abbiamo dei dati robusti che una statina
previene un primo infarto miocardico”. Questa e altre dichiarazioni
trionfanti hanno convinto l’agenzia regolatoria del farmaco americana
(FDA) a raccomandare il trattamento con rosuvastatina anche a persone
con normali livelli di colesterolo ed elevata PCR. Nella pubblicazione
dei risultati di JUPITER, non sembra esserci differenza negli effetti
avversi dei due gruppi. Comunque, nel gruppo trattato con il farmaco
c’erano 260 nuovi casi di diabete contro i 216 del gruppo di controllo
(3% vs 2.4%; p<0.01). Al contrario degli effetti benefici del farmaco
amplificati usando il rischio relativo, l’effetto significativo
dell’aumento dei nuovi casi di diabete nei pazienti che assumevano la
rosuvastatina è stato espresso solo in forma di aumento del rischio
assoluto. Una valutazione oggettiva di JUPITER avrebbe dovuto essere
comunicata in questo modo: “La probabilità di evitare un infarto
miocardico non fatale nei prossimi 2 anni è di circa il 97% senza
trattamento, ma si può aumentare a circa il 98% assumendo
rosuvastatina ogni giorno. Comunque, la vita non sarà prolungata ed è
aumentato il rischio di diabete, senza menzionare altri effetti
avversi” (che descriveremo in parte nella sezione successiva).
Esempi di come gli effetti collaterali delle statine sono stati
minimizzati
Un secondo problema degli studi che riguardano le statine sono le
distorsioni sistematiche per minimizzare gli effetti avversi. Come
abbiamo potuto apprezzare, l’effetto benefico delle statine riguarda
una riduzione dell’1-2% di eventi coronarici. Questo dato, a livello
di popolazione, renderebbe le statine degli ottimi farmaci, se questi
non avessero eventi avversi. Ma gli effetti collaterali sono
sostanziali e includono un’aumentata incidenza di cancro, cataratta,
diabete, alterazioni cognitive e malattie muscolo-scheletriche. Mentre
il beneficio delle statine è sempre riportato con la forma del rischio
relativo, gli effetti collaterali sono sempre espressi con il rischio
assoluto. Nel seguente esempio analizzeremo uno dei seri eventi
correlati all’assunzione delle statine che sono stati minimizzati: il
cancro. Consiglio ancora la lettura dell’articolo originale che
trovate in bibliografia, in cui potrete apprezzare come è stata
sistematicamente sminuita l’importanza di altri due effetti
collaterali: la miopatia e soprattutto le alterazioni cognitive.
Cancro: vari studi sulle statine hanno riportato un aumento
dell’incidenza di cancro. In 4 di questi studi l’incremento di
incidenza era statisticamente significativo. Nello studio CARE, che
includeva 4159 pazienti (576 donne e 3583 uomini) con infarto e
livelli di colesterolo elevati, a metà dei pazienti è stata
somministrata prasuvastatina e all’altra metà un placebo. Dopo 5 anni
di trattamento, 24 pazienti sono morti per patologia cardiovascolare
nel gruppo che assumeva il farmaco (1.15%) contro 38 (1.83%) tra i
controlli che assumevano un placebo. La riduzione del rischio assoluto
è dello 0.68%. L’effetto collaterale più serio è stato il tumore alla
mammella, riscontrato in 12 donne (4.2%) nel gruppo che assumeva la
prasuvastatina e in 1 donna (0.34%) nel gruppo che assumeva il
placebo. Anche se la differenza di incidenza tra i due gruppi è
statisticamente rilevante (p = 0.0002), gli autori hanno minimizzato
l’aumento del rischio scrivendo nell’articolo: “Non c’è nessuna
conosciuta potenziale base biologica… la totalità dell’evidenza
suggerisce che questo riscontro nello studio CARE potrebbe essere un
anomalia meglio interpretata nel contesto della bassa frequenza di
eventi avversi dello studio e nel valutazione statistica di vari
eventi avversi”. Ma una base biologica che correla le statine
all’aumento del rischio di cancro esiste, dato che un’estesa ricerca
indica che le lipoproteine partecipano attivamente al funzionamento
del sistema immunitario e una riduzione dei livelli di colesterolo è
associata a un’aumentata incidenza di cancro. Inoltre, studi di
pazienti ammalati di cancro e controlli sani hanno mostrato che i
pazienti ammalati di cancro usavano statine in modo significativamente
maggiore rispetto ai soggetti di controllo.
Un altro studio in cui è stato riscontrato un aumento dell’incidenza
di cancro è PROSPER. Si tratta di una ricerca che ha coinvolto 5084
tra uomini e donne con una storia di vasculopatia o un fattore di
rischio per vasculopatie. A metà dei soggetti è stata somministrata
prasuvastatina, all’altra metà un placebo. Dopo un follow-up di 3,2
anni, nell’abstract dell’articolo si leggeva che la mortalità da
malattia cardiaca veniva ridotta del 24% dalle statine, ma analizzando
meglio una delle tabelle, il 3,3% dei pazienti era morto nel gruppo
delle statine contro il 4,2% nel gruppo di controllo, per una
riduzione del rischio assoluto dello 0,9%. Il piccolo beneficio sulla
mortalità cardiovascolare veniva però annullato da un sostanziale
numero di pazienti che morivano per un cancro: nel gruppo della
prasuvastatina c’erano 28 morti in meno per patologia cardiovascolare,
ma 24 morti in più per cancro. Se includiamo nel calcolo casi di
cancro che non avevano (ancora) portato alla morte i pazienti, il
totale era di 245 pazienti nel gruppo che assumeva il farmaco e 199
nel gruppo che assumeva il placebo, una differenza statisticamente
significativa (p = 0.02). Inoltre la differenza tra i due gruppi nei
casi di tumore aumentava di anno in anno. Nonostante una differenza
statisticamente significativa, la conclusione degli autori era che “la
più probabile spiegazione nello sbilanciamento nell’incidenza di
cancro nello studio PROSPER è la casualità, che potrebbe in parte
derivare dal reclutamento di individui con una malattia occulta”. Per
minimizzare ulteriormente questo riscontro gli autori hanno contato il
numero di nuovi tumori in tutti i precedenti studi con la
prasuvastatina e trovato che presi insieme non c’era un aumento
significativo. Ma nel loro calcolo gli autori hanno omesso due fattori
importanti: non hanno calcolato il numero di individui con tumori
della pelle e non hanno detto che negli studi precedenti i
partecipanti erano di 20-25 anni più giovani. PROSPER è uno studio
particolarmente importante e unico dato che le statine sono usate
nelle popolazione anziana. Il cancro è un riscontro frequente negli
studi autoptici delle persone anziane la cui morte è attribuita a
un’altra causa, questo perché il cancro è spesso latente e cresce così
lentamente che spesso non diventa un problema nel corso della vita, a
meno che la crescita non sia accelerata da fattori esterni. Se il
trattamento con le statine o la riduzione del colesterolo può essere
un fattore che causa il cancro, come mostrato in modelli animali, è
probabile che il cancro dia prima i suoi segni nella popolazione
anziana. Ci sono grandi differenze tra i periodi di incubazione di
tipi differenti di cancro e quelli più facili da diagnosticare sono
quelli che compaiono prima. Escludere i tumori della pelle introduce
una distorsione importante. Nei primi due studi che riguardavano la
simvastatina, 4S e Heart Protection Study, a più pazienti tra quelli
trattati erano stati diagnosticati tumori della pelle. Questi dati
sono inclusi nelle tabelle degli articoli e non compaiono nel testo,
forse perché la differenza non era statisticamente significativa, ma
se si combinano i dati dei due studi, l’associazione tra cancro e
statine diventa significativa (256/12454 vs 208/12459; p < 0.028).
Un’altra ricerca sulle statine in cui il cancro compare più spesso nel
gruppo dei pazienti che assumono il farmaco è SEAS. In questo studio
sono stati inclusi 1873 pazienti con vari gradi di stenosi aortica e
con un valore medio di colesterolo di 222 mg%. La metà sono stati
trattati con simvastatina e ezetimide, l’altra metà con un placebo.
Eccetto che per una riduzione degli eventi ischemici, non è stato
identificato nessun beneficio nei 4,3 anni di trattamento. Comunque,
il cancro si è verificato in 105 (11.1%) pazienti che assumevano il
farmaco ma solo in 70 (7.5%) pazienti nel gruppo di controllo, un
effetto statisticamente significativo (p<0.01). Gli autori hanno
notato l’aumentata incidenza di cancro nei pazienti trattati, ma hanno
scritto che “dato che la terapia a lungo termine con le statine non è
stata associata ad un aumento del rischio di cancro, la differenza di
incidenza di cancro osservata nello studio può essere il risultato del
caso”.
La maggior parte degli studi sulle statine terminano dopo 2-5 anni, un
periodo di tempo troppo corto per valutare lo sviluppo della maggior
parte dei tumori. In questo contesto è da notare che uno studio casocontrollo a lungo termine su varie migliaia di donne ha mostrato che
il numero di neoplasie mammarie raddoppiava tra chi assumeva statine
per più di 10 anni (OR 2.00; 1.26-3.17). Se le statine siano
carcinogene o meno è una questione aperta. In ogni caso è forte
l’evidenza che la riduzione del colesterolo e l’uso di statine sono
entrambi associati ad un aumento del rischio di cancro.
Conclusione
La ricerca sulle statine è caratterizzata da una strategia di
presentazione dei dati in cui le statistiche di rischio relativo e
rischio assoluto sono state volutamente utilizzate da un lato per
amplificare l’apparenza del beneficio, dall’altro per minimizzare i
seri eventi avversi, che sono stati ignorati o spiegati in modo che
sembrassero verificarsi per caso. Anche se solo il 10% dei pazienti
che assumono statine dovesse presentare un evento avverso, il
risultato sarà che milioni di persone sane diventeranno pazienti e
sperimenteranno effetti avversi senza beneficio.
I punti da ricordate
Presentare i dati in termini di rischio relativo ha intenzionalmente
fuorviato il pubblico così da esagerare il minuscolo beneficio delle
statine.
Gli studi sulla riduzione del colesterolo in prevenzione primaria non
hanno dimostrato di ridurre la mortalità e allungare la vita.
La riduzione della mortalità cardiovascolare negli studi di
prevenzione secondaria è abbastanza bassa e raramente eccede il 2%.
I seri effetti collaterali del trattamento con le statine sono
estremamente sottostimati. Gli effetti avversi del trattamento con
statine sono molti e riguardano: diabete, alterazioni cognitive,
cataratta, cancro, alterazioni muscolo scheletriche.
Il piccolo beneficio visto negli studi di riduzione del colesterolo è
indipendente dal grado di riduzione del colesterolo.
Gli approcci per ridurre la mortalità cardiovascolare dovrebbero
enfatizzare altri interventi: la cessazione del fumo, evitare
l’obesità, il consumo di cibi poco zuccherati e di grassi parzialmente
idrogenati.
A cura di Luca Iaboli
1. Diamond DM, Ravnskov U. How statistical deception created the
appearance that statins are safe and effective in primary and
secondary prevention of cardiovascular disease. Expert Rev Clin
Pharmacol 2015;8(2):201–10
http://www.drperlmutter.com/wp-content/uploads/2015/02/Statin-data-cor
ruption.pdf
La tombola del conflitto d’interessi
Nel numero di Natale, il BMJ, come consuetudine, pubblica articoli
paradossali, paludati però di finta scientificità. Da leggere, ad
esempio, “Zombie infections: epidemiology, treatment, and prevention”,
in cui si descrive l’azione del virus Solanum (nome scientifico della
patata!), che ha il 100% di mortalità. Divertente è pure l’articoletto
tradotto qui sotto, dove viene presentata una tabella che elenca le
varie giustificazioni avanzate dalla parte più permissiva del nostro
io in caso di conflitto d’interessi
(http://www.bmj.com/content/351/bmj.h6577). Buona lettura,
Giovanni Peronato
La tombola del conflitto d’interessi
(Pubblicato il 16 Dicembre 2015)
Citazione: BMJ 2015;351:h6577
Daniel S Goldberg, assistant professor, Department of Bioethics and
Interdisciplinary Studies, Brody School of Medicine, East Carolina
University; 2015-16 Honors College Faculty fellow, 600 Moye Blvd,
Mailstop 641, Greenville, NC 27834, USA
Ho passato anni a studiare, insegnare e scrivere sul conflitto di
interessi. In tutto questo tempo, ho visto proporre centinaia di
giustificazioni per il profondo intreccio di interessi fra medici,
scienziati e industria farmaceutica. Vi sono molte plausibili
argomentazioni dietro queste relazioni, ma gli attori dell’intreccio
le invocano raramente. Le motivazioni abitualmente fornite tradiscono
invece la mancanza di una qualsivoglia familiarità con le sostanziose
prove di efficacia che stanno dietro queste distorsioni e il
conseguente impatto sul comportamento umano, compreso quello di medici
e ricercatori. Qualsiasi ragionevole tentativo di giustificare intense
relazioni con l’industria e il mercato deve cominciare con il prendere
atto di queste prove, piuttosto che tirare in ballo giustificazioni
stantie, in gran parte contraddette dalla letteratura. L’affermazione
che esistono barriere sufficienti per evitare il conflitto di
interessi, quali l’etica del singolo, la loro gestione istituzionale o
i vari tipi di dichiarazione di conflitto d’interesse, non è basata su
alcuna prova.
Dopo aver letto l’ennesima serie delle solite trite e ritrite
giustificazioni, ho deciso di comporre una cartella per la tombola del
conflitto d’interesse, allo scopo di irridere le giustificazioni più
comunemente avanzate e di mostrarne la tipicità; tipicità che,
ribadisco, è contraria a qualsiasi sana e robusta prova.
I medici e i ricercatori professano spesso un impegno a seguire le
prove di efficacia, ovunque esse conducano. Coloro che cercano di
giustificare ad ogni costo le profonde relazioni con l’industria
dovrebbero seguire questa massima e familiarizzarsi con le prove
relative al conflitto d’interessi e alle distorsioni che esso
comporta. Da cui la cartella per la tombola sul conflitto d’interessi.
la
non facciamo
sponsorizzazionedi tutta
è necessaria perl’erba un
avere i migliorifascio
esperti
è un regalo
i miei
educativo
pazienti/ i
miei dati
hanno sempre
la precedenza
è più complesso la ricerca è
di quello che
costosa
sembra
siamo totalmenteil denaro non
trasparenti
mi influenza
basta una
è sufficiente
corretta
dichiarare il
gestione
conflitto
d’interesse
è solo una
biro
lo sponsor non
ha nessuna
influenza
la scienza
parla da sé
sono i
ricercatori
che
controllano il
lavoro
siamo noi al
comando
CREAM* spazio
libero
non è
corruzione
vuoi impedire
il progresso?
è solo una
svista
non esistono
prove di una
relazione
causale
è solo una
consulenza
come osi!
è innovazione
è più facile
lavorare con
che contro
l’industria
l’integrità
scientifica
significa
tutto per me
* Cash Rules Everything Around Me (il denaro domina tutto attorno a
me)
CONVEGNO – Attività fisica in medicina
E’ disponibile la registrazione completa del seminario organizzato
dallL’ASL di Cagliari sul
tema dell’attività fisica in medicina,
andato in diretta streaming il 19/02/2016.
Informazioni sull’Evento
PER GUARDARE LA REGISTRAZIONE FAI CLICK SUL RETTANGOLO SOTTO
{videobox}https://www.youtube.com/watch?v=k2tCfhvMvz0{/videobox}
DIRETTA STREAMING – Attività fisica in medicina
E’ disponibile la diretta streaming del seminario organizzato
dallL’ASL di Cagliari sul
tema dell’attività fisica in medicina.
Informazioni sull’Evento
PER SEGUIRE LA DIRETTA STREAMING FAI CLICK SUL RETTANGOLO SOTTO
{videobox}https://www.youtube.com/watch?v=H0s35FY7yc&feature=youtu.be{/videobox}
SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.244 DEL
18/02/16
SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.244 DEL
18/02/16
INDICE
Le “Frequently Asked Questions” di Sicurezza sul Lavoro – Know Your
Rights! – n.9
I dirigenti devono garantire la sicurezza anche se non hanno
un’investitura formale
Depenalizzazione: i chiarimenti del ministero del lavoro
–
Fibre artificiali vetrose: le linee guida e effetti sulla
salute
–
Rischio esplosione: normativa ATEX e sistemi di protezione
Rischio rumore: come valutare l’esposizione dei lavoratori
Infortunio per comportamento abnorme e mancata formazione: le
responsabilità
Invito ancora tutti i compagni della mia mailing list che riceveranno
queste notizie a diffonderle in tutti i modi.
La diffusione è gradita e necessaria. L’obiettivo è quello di
diffondere il più possibile la cultura della salute e della sicurezza
e la consapevolezza dei diritti dei lavoratori a tale proposito.
L’unica preghiera, per gli articoli firmati da me, è quella di citare
la fonte.
Marco Spezia
ingegnere e tecnico della salute e della sicurezza sul lavoro
Progetto “Sicurezza sul Lavoro! Know Your Rights”
Medicina Democratica
[email protected]
https://www.facebook.com/profile.php?id=100007166866156
http://www.medicinademocratica.org/wp/?cat=210
——————————————LE “FREQUENTLY ASKED QUESTIONS” DI SICUREZZA SUL LAVORO – KNOW YOUR
RIGHTS! – N.9
Nella mia attività di diffusione della cultura della salute e
sicurezza sul lavoro, spesso sono chiamato, da lavoratori o
associazioni sindacali di base, a svolgere delle vere e proprie
“consulenze” (ovviamente del tutto gratuite) di ampio respiro, che poi
riporto, per condividere l’esperienza con tutti, nella mia newsletter,
nella rubrica “Le consulenze di Sicurezza sul Lavoro – Know Your
Rights!”.
In qualche caso invece le richieste che mi pervengono non richiedono
consulenze di ampio respiro, ma brevi e sintetiche risposte a domande
su temi molto specifici e limitati.
Anche in questo caso mi sembra giusto e doveroso diffondere questi
brevi consulenze che hanno la forma delle cosiddette “Frequently Asked
Questions”, facendo nascere su tale argomento una nuova rubrica della
mia newsletter.
Ovviamente, per evidenti motivi di privacy e per non creare motivi di
ritorsione verso i lavoratori o le associazioni che le hanno poste,
riportando le domande ometto il nominativo del lavoratore e
dell’azienda coinvolti.
************
Ciao Marco,
ho un dubbio.
Io sono preposto in un appalto (impresa di pulizie).
Lavoriamo di sera fino alle 22. Se sono presente aspetto l’uscita di
tutti gli addetti prima di andarmene cosi da avere la certezza che
tutti stiano bene, ma quando non ci sono io questa mansione dovrebbe
essere svolta dal preposto di fatto che si rifiuta e alle 21.55 sono
già tutti nei pressi della timbratrice, lasciando indietro i
lavoratori più lenti.
Se dovesse accadere qualcosa duranti la mia assenza posso essere
considerato responsabile?
Ciao,
presumo da quanto scrivi che tu sia stato nominato preposto in maniera
formale.
Tu operi correttamente aspettando l’uscita di tutti i lavoratori e da
questo punto di vista non hai nessuna responsabilità.
Il problema si pone quando tu non ci sei ed è presente quello che tu
definisci un “preposto di fatto”, quindi persona con responsabilità
(anche se non formale, appunto di fatto) nei confronti degli altri
lavoratori che non si attiene a quanto tu fai.
Il problema è che tu, in quanto preposto, sei a conoscenza di una
situazione di potenziale pericolo per i lavoratori, non per causa tua,
ma per causa sia dell’altro “preposto di fatto”, sia della mancanza di
una procedura aziendale formale che imponga a te e, in tua assenza,
all’altro preposto di fatto di aspettare l’uscita di tutti i
lavoratori.
Tieni conto che l’articolo 19, comma 1, lettera f) del D.Lgs.81/08
(Testo Unico per la sicurezza) impone come obbligo a carico del
preposto quello di:
“segnalare tempestivamente al datore di lavoro o al dirigente sia le
deficienze dei mezzi e delle attrezzature di lavoro e dei dispositivi
di protezione individuale, sia ogni altra condizione di pericolo che
si verifichi durante il lavoro, delle quali venga a conoscenza sulla
base della formazione ricevuta”.
Pertanto, tu, essendo venuto a conoscenza di una situazione di
pericolo (il fatto che alcuni lavoratori rimangano da soli), hai
l’obbligo di segnalarlo (possibilmente in maniera formale) al tuo
dirigente o datore di lavoro, specificando che, mentre tu aspetti
tutti i lavoratori, il tuo collega non lo fa e chiedendo di
formalizzare una procedura o un ordine di servizio che imponga anche
al tuo collega di aspettare tutti i lavoratori.
In questo modo ti sollevi completamente da qualunque responsabilità.
Se l’azienda non definisce la procedura e/o non vigila sull’operato
del tuo collega in tua assenza, non è certo colpa tua.
Ma la segnalazione del pericolo è comunque cosa da fare.
A disposizione per ulteriori chiarimenti.
Marco
************
Buongiorno Marco,
vorrei porti un quesito, riguardante la sicurezza a scuola.
Sono una maestra statale di Sanremo. L’insegnante fiduciaria del
plesso in cui lavoro oggi mi ha consegnato un modulo da compilare, e
restituire al dirigente dell’istituto scolastico, in cui io dovrei
dichiarare che dal giorno X ho portato nella mia sede di servizio uno
strumento di personale proprietà (a copertura di carenza strumentale
dell’istituzione) con descrizione dello stesso (ad esempio computer,
iPad, ecc.).
Nonostante io sia stata, in passato, anche RLS, non riesco a capire in
base a quale normativa io dovrei dichiarare quali strumenti di mia
proprietà uso a scuola.
Se puoi, per favore, fammi sapere se sono tenuta o meno a compilare il
modulo.
Ti ringrazio sin d’ora.
Ciao,
innanzitutto trovo aberrante che la scuola pubblica chieda ai
professori di portare propria strumentazione “a copertura di carenza
strumentale dell’istituzione”.
D’altro canto se agli alunni si chiede di portate la carta igienica,
non ci si può aspettare altro.
Da un punto di vista della sicurezza sul lavoro, non ci sono
particolari responsabilità, in quanto strumenti come computer, tablet,
ecc. sono marcati CE e quindi sicuri.
Credo che il modulo che ti vogliono fare firmare sia una forma di
garanzia nei tuoi confronti in caso di furto, rottura o altro.
Pertanto oltre al tipo di strumentazione segna anche il modello e
numero di matricola
Tieni conto però che prestando una tua attrezzatura alla scuola,
rientri comunque nell’ambito di applicazione del D.Lgs.81/08.
Infatti l’articolo 72 comma 1 di tale Decreto impone come obblighi a
carico dei noleggiatori e dei concedenti in uso il seguente:
“Chiunque venda, noleggi o conceda in uso o locazione finanziaria
macchine, apparecchi o utensili costruiti o messi in servizio al di
fuori della disciplina di cui all’articolo 70, comma 1, deve
attestare, sotto la propria responsabilità, che le stesse siano
conformi, al momento della consegna a chi acquisti, riceva in uso,
noleggio o locazione finanziaria, ai requisiti di sicurezza di cui
all’allegato V”.
Nel tuo caso tu concedi in uso, a titolo gratuito, la tua attrezzatura
alla scuola e quindi ricadi, almeno teoricamente, nell’ambito di
applicazione di tale articolo.
Ripeto però che non ci sono particolari problemi, in quanto se si
tratta di attrezzature elettroniche (computer, tablet, ecc.) queste
sono sicuramente marcate CE e quindi certificate secondo le
applicabili Direttive Europee di Prodotto (Direttiva Bassa Tensione e
Direttiva Compatibilità Elettromagnetica). Quindi esse non rientrano
tra le attrezzature costruite “al di fuori della disciplina di cui
all’articolo 70, comma 1” e tu non devi fare proprio niente.
Ti consiglio comunque, onde evitare possibili problemi, di aggiungere
la frase:
“Il sottoscritto manleva ogni responsabilità derivante da un uso non
conforme alle istruzioni del fabbricante dell’attrezzatura portata
all’interno della scuola”, tanto per garantirti da eventuali usi non
conformi (ad esempio smontaggio della parte elettrica)
dell’attrezzatura.
A disposizione per ulteriori chiarimenti.
Marco
************
Ciao Spezia,
sono RSU di Cobas del privato.
Ti invio questa richiesta.
In un magazzino logistica abbiamo indetto elezioni per il RLS e per
sfortuna ha vinto una candidata UIL, la quale non è mai in azienda e
ci risulta in malattia o permesso (non sappiamo). Ma comunque è
assente dal magazzino da febbraio 2015.
Cosa possiamo fare?
Il secondo eletto era Cobas.
Possiamo chiedere all’azienda di sollevare dall’incarico il RLS,
mettere al suo posto il secondo eletto o indire nuove elezioni.
Ti ringrazio per la risposta.
Ciao,
ho analizzato i CCNL relativi al settore logistica privata, ma nessuno
di essi esamina il caso che tu segnali, né da indicazioni su come
sfiduciare o chiedere le dimissioni di un RLS che non svolga in
maniera corretta il proprio ruolo.
Tieni conto che anche il D.Lgs.81/08 (Testo Unico sulla Sicurezza)
attribuisce al RLS dei diritti, ma nessun dovere o obbligo
legislativo.
Dei CCNL esaminati l’unico che affronta l’aspetto dei RLS è il
Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro di Logistica, Trasporto merci
e Spedizione del 29 gennaio 2005, che all’articolo 43 “Rappresentante
per la sicurezza (RLS), specifica quanto segue:
“1) La figura del RLS è disciplinata dall’articolo 18 del D.Lgs.626/94
[attualmente articolo 47 del D.Lgs.81/08], in base al quale detta
figura è eletta o designata in tutte le aziende o unità produttive,
nonché dall’Accordo interconfederale del 24/07/96.
2) Nelle aziende o unità produttive fino a 15 dipendenti il RLS è
eletto direttamente dai lavoratori al loro interno. Ai sensi del
citato articolo 18, del D.Lgs.626/94, nelle aziende che occupano fino
a 15 dipendenti il RLS può altresì essere individuato per più aziende
nell’ambito territoriale; la disciplina del Rappresentante
territoriale per la sicurezza e le relative modalità di nomina saranno
stabilite in sede di contrattazione integrativa territoriale anche
nell’ambito degli Osservatori regionali.
3) Nelle aziende o unità produttive con più di 15 dipendenti i RLS si
individuano tra i componenti della RSU. La procedura di elezione è
quella applicata per le elezioni della RSU. Nei casi in cui la RSU non
sia stata ancora costituita (e fino a tale evento) e nell’unità
produttiva operino le RSA, i RLS sono eletti dai lavoratori al loro
interno.
4) I RLS restano in carica 3 anni”.
Il citato Accordo Interconfederale del 24 Luglio 1996 Tra Confetra e
CGIL, CISL e UIL sulla Sicurezza sul Lavoro si limita a specificare le
modalità di elezione o designazione del RLS.
Nelle aziende o unità produttive fino a quindici dipendenti le
modalità sono le seguenti.
“L’elezione si svolge a suffragio universale diretto e a scrutinio
segreto, anche per candidature concorrenti. Risulterà eletto il
lavoratore che ha ottenuto il maggior numero di voti espressi.
Prima dell’elezione, i lavoratori nominano tra di loro il segretario
del seggio elettorale, il quale, a seguito dello spoglio delle schede,
provvede a redigere il verbale dell’elezione. Il verbale è comunicato
senza ritardo al datore di lavoro.
Hanno diritto al voto tutti i lavoratori iscritti a libro matricola e
possono essere eletti tutti i lavoratori non in prova con contratto a
tempo indeterminato che prestano la propria attività nell’unità
produttiva.
La durata dell’incarico è di 3 anni”.
Nelle aziende o unità produttive con più di quindici dipendenti le
modalità sono le seguenti.
“All’atto della costituzione della RSU il candidato a rappresentante
per la sicurezza viene indicato specificatamente tra i candidati
proposti per l’elezione della RSU.
La procedura di elezione è quella applicata per le elezioni delle RSU.
Nei casi in cui sia già costituita la RSU ovvero siano ancora operanti
le rappresentanze sindacali aziendali, per la designazione del
rappresentante per la sicurezza si applica la procedura che segue.
Entro novanta giorni dalla data del presente accordo i RLS sono
designati dai componenti della RSU al loro interno.
Tale designazione verrà ratificata in occasione della prima assemblea
dei lavoratori.
Nei casi in cui la RSU non sia stata ancora costituita (e fino a tale
evento) e nella unità produttiva operino le RSA delle organizzazioni
sindacali aderenti alle Confederazioni firmatarie, i RLS sono eletti
dai lavoratori al loro interno secondo le procedure sopra richiamate
per le unità produttive con numero di dipendenti inferiore a 16, su
iniziativa delle organizzazioni sindacali.
In assenza di rappresentanze sindacali in azienda, i RLS sono eletti
dai lavoratori dell’azienda al loro interno secondo le procedure sopra
richiamate per il caso delle unità produttive con numero di dipendenti
inferiori a 16, su iniziativa delle Organizzazioni Sindacali.
Il verbale contenente i nominativi dei RLS deve essere comunicato alla
direzione aziendale, che a sua volta ne dà comunicazione, per il
tramite dell’associazione territoriale di appartenenza, all’organismo
paritetico territoriale che terrà il relativo elenco.
I rappresentanti per la sicurezza restano in carica 3 anni”.
Nel vostro caso pertanto non avete molti spazi di manovra.
Una prima cosa che ti consiglio di fare è verificare che l’elezione o
designazione della RLS della UIL sia stata fatta secondo quanto
stabilito dall’Accordo di cui sopra, richiamato a sua volta dal vostro
CCNL.
Se ciò non è stato fatto potete contestare le modalità di elezione o
designazione e richiedere che essa sia ripetuta e svolta secondo
l’Accordo.
Se invece le elezioni si sono svolte secondo le modalità previste, non
vi resta che convincere la RLS a dimettersi (magari coinvolgendo la
UIL locale), giustificando la richiesta con l’oggettiva difficoltà o
impossibilità per la RLS di svolgere il proprio ruolo e poi richiedere
di indire una nuova elezione o designazione.
Se la RLS non si vuole dimettere, non vi resta che aspettare la
scadenza del mandato triennale (secondo CCNL e Accordo).
Rimane un’ulteriore possibilità che però non è avvallata da sostegno
legislativo, né contrattuale che è quella di richiedere l’intervento
del RLS Territoriale (possibilmente della UIL) a cui fare presente
che, tenendo conto che la RLS aziendale non è in grado di svolgere il
suo ruolo, è necessario che esso venga svolta appunto dal RLS
Territoriale.
Nulla potete invece nei confronti dell’azienda, in quanto essa non ha
alcun poter in merito alla elezione del RLS e allo svolgimento dei sui
compiti, ma ha solo l’obbligo di permettergli l’esercizio delle sue
attribuzioni. Se il RLS non esercita tali attribuzioni, l’azienda non
è tenuta a farglielo fare.
A disposizione per eventuali chiarimenti.
Marco
************
Buongiorno Marco,
chi ti scrive è un RLS di una grossa cooperativa di lavoratori che si
occupa di logistica, movimentazione merci, ricevimento e spedizioni
merci.
Da qualche mese nel nostro magazzino è stato introdotto il “voice
picking”, cioè la preparazione degli ordini su bancale tramite sistemi
di riconoscimento vocale, introdotto dal datore di lavoro per
velocizzare i processi aziendali, in sintesi per aumentare la
produttività.
Il principio di base del sistema è quello di sostituire al video di un
terminale i comandi vocali trasmessi nella cuffia, e, al lettore di
barcode, o alla tastiera, la voce dell’operatore raccolta dal
microfono. I sistemi per il riconoscimento vocale identificano come
dati le parole pronunciate dai lavoratori e forniscono come risposta
le istruzioni e le conferme via audio.
Questa tecnologia, a mio modesto avviso, comporta comunque dei rischi,
legati all’inquinamento elettromagnetico: 8 ore al giorno con la
cuffia e il dispositivo sempre acceso.
In rete internet non ho rintracciato riscontri su possibili rischi
alla salute dei lavoratori che utilizzano questa nuova tecnologia. Se
tu fossi a conoscenza di problematiche relative a questo tema, te ne
sarei molto grato.
Ti ringrazio anticipatamente.
Ciao,
personalmente non ho esperienze dirette sul sistema di “voice
picking”, né ho trovato documentazione sul rischio da campi
elettromagnetici (CEM) relativo a tale tecnologia.
Per mia esperienza personale, relativa a CEM di sistemi di
trasmissione dati wireless, ti posso però dire che, stando almeno ai
limiti definiti dal D.Lgs.81/08 (Decreto), non sussistono particolari
rischi.
In particolare ho eseguito misurazioni dirette di intensità di CEM ad
alta frequenza sui seguenti apparati, simili come frequenze di
emissione e potenza al sistema “voice picking”:
reti wireless aziendali;
sistemi di trasmissione dati da monitor su gru portuali;
sistemi di trasmissione dati da monitor su carrelli elevatori.
In tutti tali casi i valori misurati per il campo elettromagnetico “E”
risulta di pochi V/m (minori di 5) a fronte del limite più cautelativo
(in funzione della frequenza) definito dalla parte B dell’Allegato
XXXVI del Decreto, che è di 61 V/m tra i 10 e i 400 MHz.
Gli apparati misurati, anche se non a diretto contatto con la testa
dell’operatore, risultavano in molti casi (carrelli e gru) molto
vicini (meno di 200 mm) dalla testa.
Ritengo quindi che anche per i sistemi di “voice picking” i valori di
“E” di cui sopra non debbano essere superati.
Ti ricordo comunque che è obbligo specifico del datore di lavoro della
tua azienda aggiornare il Documento di Valutazione del Rischio (DVR) a
seguito dell’introduzione del sistema di “voice picking” (articolo 29,
comma 3 del Decreto), in quanto trattasi “di modifiche del processo
produttivo o della organizzazione del lavoro significative ai fini
della salute e sicurezza dei lavoratori”.
La valutazione del rischio da CEM è disciplinata dal Titolo VIII Capo
IV del Decreto, che all’articolo 209, comma 1, specifica che il datore
di lavoro, nell’ambito del DVR di cui agli articoli 17, comma 1,
lettera a), 28 e 29 “valuta e, quando necessario, misura o calcola i
livelli dei campi elettromagnetici ai quali sono esposti i
lavoratori”.
************
NOTA
Nel testo delle “Frequently Asked Questions” sopra riportate sono
state usati i seguenti acronimi e termini:
ASL = Azienda Sanitaria Locale
CCNL = Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro
DPI = Dispositivi di Protezione Individuali
DVR = Documento di Valutazione dei Rischi
DUVRI = Documento Unico di Valutazione dei Rischi da Interferenza in
caso di lavori in appalto
RSPP = Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione
RLS = Rappresentate dei Lavoratori per la Sicurezza
D.Lgs.81/08 o Decreto: Decreto Legislativo n.81 del 9 aprile 2008 e
successive modifiche e integrazioni (cosiddetto “Testo Unico sulla
sicurezza”)
——————————————I DIRIGENTI DEVONO GARANTIRE LA SICUREZZA ANCHE SE NON HANNO
UN’INVESTITURA FORMALE
Da Il Sole 24 Ore
http://www.ilsole24ore.com
22 gennaio 2016
Giovanni Negri
Sono rimasti inerti di fronte alla gravità dello sciame sismico che
colpiva L’Aquila già da mesi, e che era particolarmente insistente la
notte del crollo del Convitto Nazionale (tre ragazzini morti e due
feriti) il 6 aprile 2009, mentre i due imputati, entrambi con
posizione di garanzia, avrebbero dovuto dichiarare da tempo
l’inagibilità della scuola la cui instabilità era nota.
Almeno quella notte, avrebbero potuto organizzare l’evacuazione degli
studenti.
Per queste ragioni la Corte di Cassazione con Sentenza del 21/01/16,
ha confermato le condanne per omicidio colposo e lesioni per l’ex
Rettore del Convitto e per l’allora dirigente provinciale responsabile
dell’edilizia scolastica.
“La situazione di allarme sismico era talmente conclamata che il
sindaco di L’Aquila aveva disposto la chiusura di tutte le scuole del
centro storico” – ricorda la sentenza – “Se fosse stata fatta la
valutazione di pericolosità, non sarebbe mancata una analoga ordinanza
di inagibilità che avrebbe salvato gli allievi del convitto”.
La Corte di Cassazione, poi, sul piano più squisitamente giuridico,
interviene a favore di una concezione sostanziale della posizione di
garanzia. In questo senso è maestra la Sentenza delle Sezioni Unite
Penali del 24 aprile 2014 sulla vicenda Thyssen-Krupp per la quale la
posizione di garanzia può essere prodotta non solo da un’investitura
formale, ma anche dall’esercizio di fatto delle funzioni tipiche delle
diverse figure di garante.
Di particolare importanza è allora concentrare l’attenzione sulla
concreta organizzazione della gestione del rischio: milita in questo
senso, osserva la Corte, l’articolo 299 del Testo unico sulla
sicurezza del lavoro.
Del resto, avverte la Sentenza, bisogna fare riferimento “a una
visione eclettica della fondazione del ruolo di garanzia che ha in
parte superato la storica concezione formale. Si è sviluppata una
elaborazione sostanzialistico-funzionale che non fa più leva tanto su
profili formali quanto piuttosto sulla funzione dell’imputazione per
omissione, connessa all’esigenza di natura solidaristica di tutela di
beni giuridici attraverso l’individuazione di un soggetto gravato dal
ruolo di garante della loro protezione”.
Si tratta di un’impostazione che, agli occhi dei giudici della
Cassazione, presenta una pluralità di vantaggi. Innanzitutto, nella
prospettiva dell’ordinamento penale, seleziona in senso restrittivo il
dovere di agire nell’ambito di una sterminata lista di obblighi
presenti nell’ordinamento.
In questo modo possono anche essere fronteggiate situazioni nelle
quali, anche se esiste un vizio della fonte contrattuale dell’obbligo,
c’è stata l’assunzione effettiva di un ruolo di garante, la
cosiddetta, precisa la Corte, presa in carico del bene protetto. Come
pure possono essere affrontate situazioni analoghe a quelle previste
dalla fonte legale dell’obbligazione, come nel caso della consolidata
convivenza in un rapporto familiare o istituzionale.
——————————————DEPENALIZZAZIONE: I CHIARIMENTI DEL MINISTERO DEL LAVORO
Da Studio Cataldi
http://www.studiocataldi.it
14 febbraio 2016
di Valeria Zeppilli
DEPENALIZZAZIONE: I CHIARIMENTI DEL MINISTERO DEL LAVORO
LE INDICAZIONI CONTENUTE NELLA CIRCOLARE MINISTERIALE 6/15 IN
RELAZIONE AI REATI COINVOLTI DALLA RIFORMA
Anche il Ministero del Lavoro, con la circolare numero 6 del 5
febbraio 2016 ha detto la sua in materia di depenalizzazione, fornendo
chiarimenti operativi a tutto il personale ispettivo, per permettere
un’applicazione corretta delle nuove previsioni, in particolare quelle
riguardanti la materia del lavoro e della legislazione sociale.
Il Ministero ha innanzitutto ricordato che la depenalizzazione è
esclusa per i reati di cui al Testo Unico in materia di salute e
sicurezza dei luoghi di lavoro, che, quindi, conservano la loro natura
penale anche nel caso in cui siano puniti con la sola pena pecuniaria.
Per gli illeciti coinvolti nella depenalizzazione, invece, il
Ministero chiarisce che due sono i regimi sanzionatori oggi previsti:
quello applicabile agli illeciti commessi prima del 6 febbraio
(cosiddetto “regime intertemporale”) e quello applicabile agli
illeciti commessi dopo (cosiddetto “regime ordinario”). Chiarendo,
quindi, come devono comportarsi gli organi ispettivi nell’uno e
nell’altro caso.
La Circolare ricorda, poi, che a seguito dell’entrata in vigore del
D.Lgs. 8/16 il reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali
e assistenziali, di cui all’articolo 2, comma 1-bis, del Decreto Legge
numero 463 del 1983 è oggi “scomposto” in due diverse fattispecie di
illecito: una di natura penale e l’altra di natura amministrativa.
In particolare, è penale il caso in cui l’omissione ecceda i dieci
mila euro annui: la sanzione, in tal caso, continua infatti ad essere
quella della reclusione fino a tre anni e della multa fino a 1.032
euro.
E’ invece ora soggetta alla sola sanzione amministrativa compresa tra
10.000 euro e 50.000 euro l’omissione che non eccede i 10.000 euro
annui.
Il tutto con la precisazione generale che il datore di lavoro che
provvede al versamento delle ritenute entro tre mesi dalla
contestazione o dalla notifica dell’avvenuto accertamento della
violazione non è penalmente punibile né amministrativamente
sanzionabile.
Il Ministero chiarisce poi che per individuare l’Autorità Competente a
contestare la relativa sanzione occorre far riferimento al criterio di
cui all’articolo 35, comma 2, della Legge 689/81, in base alla quale
l’ordinanza-ingiunzione per le violazioni consistenti nell’omissione
totale o parziale del versamento di contributi e premi è emessa dagli
enti e istituti gestori delle forme di previdenza e assistenza
obbligatori. Ovverosia, dalla sede provinciale INPS territorialmente
competente.
la Circolare numero 6 del 5 febbraio 2016 del Ministero del Lavoro è
scaricabile all’indirizzo:
http://www.lavoro.gov.it/Strumenti/normativa/Documents/2016/Circolare%
20n%206%20del%202016.pdf
——————————————FIBRE ARTIFICIALI VETROSE: LE LINEE GUIDA E EFFETTI SULLA SALUTE
Da: PuntoSicuro
http://www.puntosicuro.it
28 gennaio 2016
di Tiziano Menduto
Le nuove linee guida inerenti i rischi di esposizioni alle fibre
artificiali vetrose e i potenziali effetti sulla salute.
Gli effetti infiammatori sulle strutture polmonari, gli effetti
irritativi, il rischio cancerogeno e gli obiettivi delle linee guida.
Le fibre artificiali vetrose, chiamate anche con l’acronimo FAV, sono
materiali che appartengono ad un’ampia famiglia di fibre artificiali
inorganiche, con caratteristiche che differiscono non solo in funzione
dell’utilizzo finale ma anche delle modalità di produzione. In
relazione al processo produttivo possiamo ad esempio distinguere:
fibre a filamento continuo: prodotte per fusione in filiere e
successiva trazione (il diverso tenore di silice ne condiziona le
differenti proprietà tecniche e i relativi utilizzi in campo tessile,
per usi elettrici, per rinforzo per plastica e cemento);
lane(di vetro, lana di scoria e lana di roccia): prodotte dopo fusione
delle materie prime, principalmente per fibraggio in centrifuga o
centrifugazione/soffiatura (buona resistenza alla trazione e bassa
resistenza all’impatto e all’abrasione, alto isolamento termicoacustico);
fibre ceramiche: prodotte con soffiatura/filatura, attraverso processi
chimici a temperature più elevate (hanno un’estrema resistenza alle
alte temperature, bassa conducibilità termica,elettrica ed acustica,
risultano inattaccabili dagli acidi);
fibre speciali(microfibre di vetro).
E proprio in relazione alla grande diffusione di queste fibre per le
particolari proprietà delle FAV il Ministero della Salute è
intervenuto prima con la Circolare n. 23 del 25 novembre 1991 e
successivamente ha istituito un gruppo di lavoro che è arrivato alla
definizione delle linee guida “Le Fibre Artificiali Vetrose (FAV):
Linee guida per l’applicazione della normativa inerente ai rischi di
esposizioni e le misure di prevenzione per la tutela della salute”,
approvate dalla Conferenza Permanente per i rapporti tra lo Stato, le
Regioni e le province autonome di Trento e Bolzano nella seduta del 25
marzo 2015.
A presentare e raccontare in questo modo le linee guida approvate è un
intervento di Giancarlo Marano (Ministero della Salute) che si è
tenuto al recente convegno organizzato da Assoprev e dal titolo “FAV –
Le fibre artificiali vetrose. Linee Guida della Conferenza Stato
Regioni sui rischi e le misure di prevenzione per la tutela della
salute” (Milano, 3 Dicembre 2015).
Nell’intervento “FAV: obiettivi delle linee guida e percorso di
elaborazione”, a cura di Giancarlo Marano, si indicano brevemente le
motivazioni che hanno portato alla stesura delle linee guida:
necessità di differenziazione dei rischi in relazione alle diverse
caratteristiche delle FAV;
assenza di stime del numero degli esposti per ragioni professionali;
assenza di valori limite o di riferimento per le FAV riguardanti la
qualità dell’aria in ambienti di lavoro;
necessità di sistematizzare le informazioni sulla tossicità delle FAV
in relazione alla classificazione in ambito REACH e CLP.
Motivazioni che comprendevano anche la necessità di rispondere alle
sollecitazioni pervenute dalle ASL in relazione a diverse
problematiche per gli Operatori della Prevenzione nell’intervenire e
verificare la conformità in tutte le fasi di utilizzo delle FAV, dalla
commercializzazione, all’uso e controllo dei materiali fibrosi
sintetici da rimuovere.
Era poi necessario fornire informazioni aggiornate e corrette alla
popolazione sui possibili effetti sulla salute che possono derivare da
un’esposizione a FAV e sul prevedibile impatto sulla salute e
sull’ambiente in occasione di demolizioni con possibile liberazione di
fibre nell’aria circostante.
L’intervento si sofferma ampiamente anche su alcune considerazioni
generali relative agli effetti sulla salute della FAV.
Ad esempio si indica che:
la forma, le dimensioni e il rapporto dimensionale lunghezza/diametro
(L/D), sono parametri importanti per la tossicità di una qualsiasi
fibra in quanto ne determinano le proprietà aerodinamiche, che
condizionano sostanzialmente le caratteristiche di inalabilità,
deposito e biopersistenza;
gli effetti sulla salute che possono derivare da un’esposizione a FAV
risultano sostanzialmente condizionati dall’interazione tra le
caratteristiche chimico-fisiche e tossicologiche presentate dalle
diverse fibre, rispetto alle capacità difensive dell’organismo
esposto; capacità che possono variare in relazione a fattori di
rischio voluttuari (fumo di sigaretta) e per fattori di rischi
individuali in grado di incidere negativamente sui meccanismi
difensivi che assicurano la rimozione, l’allontanamento e l’espulsione
o la dissoluzione delle particelle o fibre depositate, in rapporto al
livello, durata e modalità di esposizione.
E riguardo ai potenziali effetti infiammatori sulle strutture
polmonari si indica che:
come conseguenza del loro depositarsi in un qualunque tratto delle vie
respiratorie, le FAV in rapporto alle caratteristiche di
biopersistenza possedute, sono in grado di attivare processi
infiammatori, con presenza di cellule infiammatorie negli spazi
alveolari, interstiziali peribronchiali e perivasali;
per le fibre ad elevata biopersistenza, attraverso l’attivazione di
fibroblasti e la deposizione di matrice connettivale possono
innescarsi anche alterazioni anatomopatologiche del parenchima
polmonare.
In particolare gli effetti irritativi delle FAV con diametro maggiore
di 4μm su cute e mucose sono oramai accertati (NIOSH, 2006). Gli
effetti irritativi comunque osservati sarebbero da ascrivere ad azione
di tipo meccanico (sfregamento) e non alla composizione chimica. Non
sono invece risolutive, per l’esiguità degli studi disponibili, le
osservazioni relative a patologie cutanee allergiche attribuite ad
additivi utilizzati per la lavorazione delle FAV.
Veniamo al rischio cancerogeno.
Riguardo alla cancerogenicità le diverse caratteristiche fisiche e
chimiche delle FAV non permettono un’individuazione generalizzata
degli eventuali meccanismi di cancerogenesi potenzialmente correlabili
all’esposizione, anche in relazione alle potenzialità cancerogene
mostrate da alcune FAV (fibre ceramiche), che ne ha determinato la
classificazione come cancerogene, il meccanismo dell’azione tossica
non risulta ancora del tutto chiarito. In analogia a quanto rilevato
nei confronti dell’asbesto, anche in questo caso si potrebbe assumere
che il coinvolgimento di queste fibre artificiali nella produzione di
radicali liberi di ossigeno possa rappresentare uno degli elementi più
importanti nel dare il via al processo di oncogenesi, innescando un
danno al genoma cellulare, quale conseguenza dello stress ossidativo,
con conseguente mutazione ed eventuale trasformazione in cellule
neoplastiche.
Si ricorda che nella monografia IARC del 2002 si è concluso per una
inadeguata evidenza di cancerogenicità delle lane minerali nell’uomo
con riclassificazione nel gruppo 3 (non classificabile come
cancerogeno per l’uomo). Tale osservazione è ripresa nella attuale
classificazione europea che prevede per le lane minerali (numero di
indice: 650-016-00-2) la categoria 2 per la cancerogenesi.
In ogni caso l’attribuzione della classificazione “cancerogeno” è
strettamente collegata al diametro medio geometrico della fibra e alla
presenza degli ossidi alcalini e alcalino terrosi.
E con riferimento alle indicazioni e alle note relative alla
classificazione di pericolo (vedi ad esempio il regolamento CLP), le
fibre a filamento continuo con diametro medio geometrico pesato sulla
lunghezza > 6μm, caratterizzate dalla proprietà di mantenere costante
il diametro in caso di frammentazione sono esentate dalla
classificazione come cancerogene poiché soddisfano i requisiti della
nota R.
Dunque le linee guida, hanno voluto assicurare una corretta
valutazione e consapevolezza dei rischi da parte di tutti i soggetti
interessati, compresi gli utilizzatori finali, sia negli ambienti di
lavoro che di vita e favorire sul piano della tutela della salute
(superando anche aspetti tecnici cruciali, quali la metodologia
analitica di riferimento da utilizzare per la determinazione della
corretta classificazione delle diverse FAV oggi presenti sul mercato)
l’adozione di misure di prevenzione adeguate, in linea con la vigente
normativa, avendo come destinatari particolari, ma non esclusivi, sia
i datori di lavoro che gli organi di vigilanza, che hanno la
responsabilità di garantire il pieno rispetto della normativa.
E, conclude il relatore, l’obiettivo perseguito è stato quello non
solo di fornire un valido contributo per poter assumere decisioni
utili a tutelare il bene comune anche in termini di tutela
dell’ambiente e del lavoro, ma anche di orientare positivamente il
nostro modo di comportarci senza enfatizzazione o sottovalutazione del
livello di rischio, riconducibile alla diversa composizione delle
fibre artificiali vetrose, che ne determina anche i potenziali effetti
biologici sostanzialmente diversi.
Il documento “FAV: obiettivi delle linee guida e percorso di
elaborazione”, a cura di Giancarlo Marano (Ministero della Salute) è
scaricabile all’indirizzo:
http://www.puntosicuro.info/documenti/documenti/151214_FAV_linee_guida
.pdf
Il documento “Conferenza Stato-Regioni del 25/03/15: Intesa sulle
Linee guida per l’applicazione della normativa inerente i rischi di
esposizioni e le misure di prevenzione per la tutela della salute alle
fibre artificiali vetrose (FAV)” è scaricabile all’indirizzo:
http://www.statoregioni.it/Documenti/DOC_046926_59%20CSR%20PUNTO%2012%
20ODG.pdf
——————————————RISCHIO ESPLOSIONE: NORMATIVA ATEX E SISTEMI DI PROTEZIONE
Da: PuntoSicuro
http://www.puntosicuro.it
8 febbraio 2016
Una tesi di laurea affronta il tema delle atmosfere potenzialmente
esplosive e della normativa ATEX correlata.
Focus sulla nuova direttiva ATEX 2014/34/UE e sui sistemi di
protezione dalle esplosioni.
Le tesi di laurea universitarie sono a volte un luogo di riflessione
sulle strategie di prevenzione e quasi sempre una buona sintesi, con
un linguaggio comprensibile, delle problematiche inerenti la sicurezza
e i fattori di rischio.
E’ questo il caso di una tesi di laurea che ha affrontato il tema
del rischio esplosione e la normativa ATEX correlata, con riferimento
anche alla Direttiva 2014/34/UE che andrà ad abrogare la Direttiva
94/9/CE con effetto decorrente dal 20 aprile 2016.
Stiamo parlando della tesi di laurea di Paolo Federle, dal titolo
“Macchine e apparecchiature in ambienti ATEX”, elaborata per il corso
di laurea in ingegneria meccatronica, dipartimento di tecnica e
gestione dei sistemi industriali dell’ Università degli Studi di
Padova.
La tesi ricorda che un’atmosfera esplosiva è definita come una
miscela:
di sostanze infiammabili allo stato di gas, vapori, nebbie o polveri;
con aria;
in determinate condizioni atmosferiche;
in cui, dopo l’innesco, la combustione si propaga all’insieme della
miscela non bruciata.
E si indica che un’atmosfera suscettibile di trasformarsi in atmosfera
esplosiva a causa delle condizioni locali e operative viene definita
atmosfera potenzialmente esplosiva. Ed è solo a questo tipo di
atmosfera potenzialmente esplosiva che sono destinati i prodotti
oggetto delle Direttive ATEX.
Nel documento viene presentata la normativa ATEX, con particolare
riferimento alla nuova Direttiva 2014/34/UE.
Infatti il 29 marzo 2014 è stata pubblicata la nuova Direttiva
2014/34/UE sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea, una direttiva
che andrà ad abrogare la vecchia 94/9/CE e che riguarda
“l’armonizzazione delle legislazioni degli stati membri relative alle
apparecchiature e ai sistemi di protezione destinati a essere
utilizzati in atmosfera esplosiva”.
L’obiettivo della Direttiva 2014/34/EU è quello di garantire la libera
circolazione dei prodotti ai quali si applica nel territorio dell’UE.
Pertanto, la Direttiva, basata sull’articolo 95 del trattato CE,
prevede i requisiti e le procedure per stabilire le conformità
armonizzate.
Vediamo brevemente cosa cambia con la nuova Direttiva.
Si indica che le principali modifiche apportate riguardano la
posizione giuridica degli operatori economici, come il legale
rappresentante, distributore, importatore e produttore, mentre nulla
di sostanziale è stato cambiato per quanto riguarda gli aspetti
tecnici. La nuova Direttiva infatti presenta lo stesso campo di
applicazione della precedente 94/9/CE e continua ad offrire due metodi
per effettuare la valutazione della conformità dei prodotti:
controllo della produzione interna o marcatura autocertificazione CE:
il costruttore esegue la valutazione di conformità e documenta la
valutazione in proprio;
coinvolgimento di un Organismo Notificato.
In ogni caso per un confronto tra “vecchia” e “nuova” Direttiva ATEX,
viene segnalato l’Allegato XII della 2014/34/UE che contiene una
tavola di concordanza in cui è possibile verificare la corrispondenza
dei vari articoli.
Dopo questo breve viaggio intorno alla normativa in materia ATEX,
spostiamo la nostra attenzione sul contenuto del capitolo dedicato ai
sistemi di protezione dalle esplosioni, sistemi che rientrano nel
campo di applicazione della Direttiva ATEX e si riferiscono a quei
dispositivi la cui funzione è bloccare sul nascere le esplosioni e/o
circoscrivere la zona da esse colpita.
In particolare i sistemi di protezione dalle esplosioni possono essere
così suddivisi:
sistemi di scarico dell’esplosione;
sistemi di soppressione dell’esplosione;
sistemi di isolamento dell’esplosione;
equipaggiamenti resistenti all’esplosione.
Ed è evidente che la scelta e l’impiego di uno o più sistemi di
protezione sono strettamente connessi al processo di analisi e
valutazione del rischio di esplosione. Inoltre la riduzione degli
effetti di una esplosione e la conseguente scelta dei dispositivi di
protezione è legata a molteplici fattori, tra cui il tipo di processo
produttivo, la logistica dell’impianto in cui potrebbe formarsi
l’atmosfera esplosiva e fattori di tipo ambientale. Senza dimenticare
che un aspetto rilevante per la protezione dalle esplosioni è
l’aspetto progettuale, inteso come il complesso di scelte tecniche e
dimensionali che consentono di ridurre gli effetti di una esplosione
sin dalla fase di progetto.
La tesi si sofferma su alcuni dispositivi, ad esempio sui soppressori.
Si indica che i sistemi di protezione a soppressione si caratterizzano
per il fatto che vengono impiegati per il rilevamento di una possibile
esplosione e l’immediata soppressione nei suoi primi istanti,
limitando fortemente l’incidenza di eventuali danni. A seguito del
rilevamento delle prime fasi dell’esplosione, una sostanza soppressore
dell’esplosione viene immediatamente scaricata all’interno del volume
interessato dall’esplosione. In generale tale sostanza è contenuta
all’interno di HRD (High Rate Discharge), cioè dispositivi a rilascio
rapido.
Veniamo invece allo scarico di una esplosione (venting), una misura
finalizzata a ridurne gli effetti: i sistemi di venting consentono
infatti lo sfogo dell’esplosione attraverso sezioni ben definite
riducendo la pressione di esplosione.
La tesi ricorda che in relazione al tipo di sostanza che ha generato
l’esplosione, gas o polvere, i sistemi di venting possono differire in
modo sostanziale per tipologia costruttiva, dimensioni e posizione in
funzione dell’involucro da proteggere. Uno degli aspetti di
fondamentale importanza che influenzano l’efficienza dei dispositivi
di scarico è il corretto dimensionamento e posizionamento.
Dopo aver riportato altri dettagli sullo scarico dell’esplosione, la
tesi si sofferma sui sistemi di isolamento dell’esplosione.
Si possono avere:
sistemi attivi di isolamento che si basano sulla rilevazione
preventiva dell’esplosione mediante sensori ed unità di controllo;
sistemi passivi di isolamento che sono costituiti da dispositivi
installati lungo le condotte di propagazione dell’esplosione e non
richiedono sensori o sistemi di controllo.
Inoltre in relazione alle specifiche esigenze e alla tipologia di
impianto, si possono trovare i seguenti dispositivi per la
realizzazione di un sistema di isolamento:
valvole di protezione, che possono essere sia attive che passive:
quelle attive vengono controllate da sensori e, tramite il sistema di
controllo, ne viene attivata la chiusura al momento dell’esplosione,
per evitare che la stessa raggiunga le zone protette; mentre quelle
passive, per esempio quelle di non ritorno (“flap valve”) impediscono
la propagazione dell’esplosione e del suo fronte di fiamma;
valvole rotative, impiegate in lavorazioni che prevedono la formazione
di polveri a rischio di esplosione, consentono di poter arrestare il
fronte di fiamma e di abbassare la pressione di esplosione, attraverso
il blocco del rotore;
deviatori, permettono la deviazione della propagazione del fronte di
esplosione consentendo di ridurne gli effetti.
Infine la tesi si sofferma sugli equipaggiamenti resistenti
all’esplosione.
Infatti un altro sistema di protezione contro le esplosioni consiste
nel prevedere opportune caratteristiche di resistenza meccanica degli
apparecchi, che potrebbero essere soggetti a una esplosione. E in
particolare la norma EN 14460 stabilisce i requisiti costruttivi che
gli apparecchi devono possedere per resistere alle pressioni di
esplosione e a shock dovuti a esplosioni. E definisce i limiti di
pressione e temperatura di esercizio dell’apparecchiatura
potenzialmente soggetta ad esplosione. Senza dimenticare l’importanza
della norma EN 13445 che definisce, ad esempio, le grandezze di
pressione da assumere come specifiche di progetto.
Il documento “Macchine e apparecchiature in ambienti ATEX”, tesi di
laurea di Paolo Federle è scaricabile all’indirizzo:
http://www.puntosicuro.info/documenti/documenti/160125_atex_macchine_a
pparecchiature.pdf
Il Documento “Parlamento Europeo e Consiglio dell’Unione europea –
Direttiva 2014/34/UE del 26 febbraio 2014 concernente l’armonizzazione
delle legislazioni degli Stati membri relative agli apparecchi e
sistemi di protezione destinati a essere utilizzati in atmosfera
potenzialmente esplosiva” è scaricabile all’indirizzo:
http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32014L003
4&from=IT
——————————————RISCHIO RUMORE: COME VALUTARE L’ESPOSIZIONE DEI LAVORATORI
Da: PuntoSicuro
http://www.puntosicuro.it
12 febbraio 2016
Un documento dell’INAIL affronta il rischio rumore e gli aspetti
relativi alla sua valutazione. Focus sull’ipotesi di valutazione senza
misurazioni o con misurazioni, sui parametri di esposizione e sulle
strategie di misura.
Il D.Lgs. 81/08 all’articolo 181 indica che il datore di lavoro valuta
tutti i rischi derivanti da esposizione ad agenti fisici in modo da
identificare e adottare le opportune misure di prevenzione e
protezione con particolare riferimento alle norme di buona tecnica ed
alle buone prassi.
In particolare la valutazione dei rischi derivanti da esposizioni ad
agenti fisici è programmata ed effettuata, con cadenza almeno
quadriennale, da personale qualificato nell’ambito del servizio di
prevenzione e protezione in possesso di specifiche conoscenze in
materia. La valutazione dei rischi è aggiornata ogni qual volta si
verifichino mutamenti che potrebbero renderla obsoleta, ovvero, quando
i risultati della sorveglianza sanitaria rendano necessaria la sua
revisione. E in particolare l’articolo 190 riporta varie indicazioni
per il datore di lavoro relative alla valutazione dell’esposizione dei
lavoratori al rumore.
Per dare qualche indicazione sulla valutazione dell’esposizione al
rumore, torniamo a parlare oggi della pubblicazione del Dipartimento
Innovazioni Tecnologiche e Sicurezza degli Impianti, Prodotti ed
Insediamenti Antropici (DIT) dell’INAIL dal titolo “La valutazione del
rischio rumore”; un documento curato da Raffaele Sabatino (DIT), con
la collaborazione di Michele Del Gaudio (INAIL Unità Operativa
Territoriale di Avellino) e la revisione scientifica di Pietro
Nataletti (INAIL Dipartimento di Medicina, Epidemiologia, Igiene del
Lavoro ed Ambientale).
Il documento INAIL ribadisce dunque che l’articolo 190 del D.Lgs.
81/08 impone al datore di lavoro di effettuare una valutazione del
rumore, all’interno della propria azienda e indipendentemente dal
settore produttivo, nella quale siano presenti lavoratori subordinati,
o equiparati a essi, al fine di individuare i lavoratori esposti al
rischio e attuare i necessari idonei interventi di prevenzione e
protezione della salute.
E laddove non si possa fondatamente escludere che siano superati i
valori inferiori di azione (LEX,8h > 80dB(A) o Lpicco > 135dB(C)) la
valutazione deve prevedere anche misurazioni.
Ricordiamo, a questo proposito, che l’articolo 188 del D.Lgs. 81/08
definisce i seguenti parametri:
pressione acustica di picco (ppeak): valore massimo della pressione
acustica istantanea ponderata in frequenza “C”;
livello di esposizione giornaliera al rumore (LEX,8h): valore medio,
ponderato in funzione del tempo, dei livelli di esposizione al rumore
per una giornata lavorativa nominale di otto ore: esso si riferisce a
tutti i rumori sul lavoro, incluso il rumore impulsivo;
livello di esposizione settimanale al rumore (LEX,w): valore medio,
ponderato in funzione del tempo, dei livelli di esposizione
giornaliera al rumore per una settimana nominale di cinque giornate
lavorative di otto ore.
Per le situazioni nelle quali è evidente che l’ esposizione al rumore
risulti trascurabile, il documento ricorda che si può ricorrere alla
cosiddetta “giustificazione” e, in tal caso, non sarà necessario
approfondire oltre la valutazione del rischio oppure, nei casi dubbi,
ci si potrà limitare ad alcune misurazioni, in maniera da poter
escludere il superamento dei valori inferiori d’azione anche per i
lavoratori più a rischio.
E dunque nell’ipotesi di una valutazione senza misurazioni la
relazione tecnica dovrà indicare:
il layout (planimetria e indicazione delle macchine, attrezzature,
lavoratori esposti, ecc.);
l’individuazione di eventuali fattori potenzianti il rischio (ad
esempio sostanze ototossiche, vibrazioni, rumori impulsivi, ecc.),
come identificati dall’articolo 190, comma 1;
l’indicazione delle motivazioni che escludono il superamento dei
valori di azione inferiori nella giornata/settimana/settimana
ricorrente a massimo rischio;
le conclusioni con le eventuali indicazioni specifiche per la
riduzione del rischio.
Mentre, una valutazione con misurazioni dovrà, invece, contemplare:
il layout (planimetria e indicazione delle macchine, attrezzature,
lavoratori esposti, ecc.);
la descrizione del ciclo lavorativo (almeno di quelle fasi, in
relazione alle quali, non è possibile ritenere la presenza di un
rischio trascurabile);
l’individuazione di eventuali fattori potenzianti il rischio (ad
esempio sostanze ototossiche, vibrazioni, rumori impulsivi, ecc.),
come identificati dall’articolo 190, comma 1;
i risultati delle misurazioni di rumore (LAeq, Lpicco e LCeq);
l’individuazione delle aree e delle macchine a forte rischio (LAeq >
85 dB(A) e Lpicco > 137 dB(C));
la valutazione del rispetto dei valori limite di esposizione (LEx > 87
dB(A) e Lpicco > 140 dB(C));
il calcolo dei LEx e dei Lpicco degli esposti oltre gli 80 dB(A) e i
135 dB(C);
la valutazione dell’efficienza e dell’efficacia dei Dispositivi di
Protezione Individuale uditivi (DPIu), se e in quanto forniti ai
lavoratori;
la definizione delle misure tecniche e organizzative di contenimento
del rischio (il “Programma Aziendale di Riduzione dell’Esposizione”,
di cui alla norma UNI 11347:2015);
le conclusioni (quadro d’insieme del rischio).
Riepilogando e computando nei livelli di esposizione anche il
contributo delle incertezze (l’incertezza è quel parametro associato
al risultato di una misurazione, o di una stima, di una grandezza che
ne caratterizza la dispersione dei valori ad essa attribuiti con
ragionevole probabilità):
ai fini della individuazione degli obblighi che ricadono sui diversi
soggetti interessati (Datore di lavoro, lavoratore, Medico
Competente), si fa riferimento ai livelli di esposizione calcolati in
assenza di DPIu (LEx,8h);
il superamento dei livelli di esposizione giornaliera di un lavoratore
al rumore (LEx,8h) di 80, 85 e 87 dB(A) comporta il diritto/dovere per
i vari soggetti (Datore di lavoro, lavoratori, Medico Competente,
costruttore) di adempiere a diverse prescrizioni fissate a tutela
della salute;
ai fini della verifica del rispetto del limite di esposizione (LEx,8h
= 87 dB(A)) si fa riferimento al livello di esposizione stimato con
idonei DPIu indossati (L’Ex,8h con DPIu).
E il percorso per la redazione della relazione tecnica, allegata al
DVR, prevede una serie di step che il personale qualificato incaricato
dovrà seguire, in base al criterio logico da applicare al caso di
specie. In generale il processo di valutazione del rischio rumore, che
deve essere effettuato adattandolo alle situazioni reali e avendo come
obiettivo la protezione dei lavoratori, parte dall’identificazione dei
pericoli, passando per la relativa valutazione, fino a giungere alla
pianificazione degli interventi tecnici e organizzativi di riduzione
del rischio. Nel documento INAIL è riportato uno schema con le
principali tappe dell’iter.
Un paragrafo è dedicato poi alle strategie di misura.
Infatti una corretta valutazione del rischio viene eseguita in
conformità alle indicazioni della norma UNI EN ISO 9612:2011 che
propone un metodo tecnico progettuale per la misurazione
dell’esposizione al rumore dei lavoratori nell’ambiente di lavoro e il
calcolo del livello di esposizione sonora. E occorre tener conto anche
della norma UNI 9432:2011 da considerarsi complementare alla norma UNI
EN ISO 9612:2011.
Nel documento sono presentate nel dettaglio le tre possibili strategie
di misura per la valutazione del rischio:
misurazioni basate su attività (compiti): il lavoro svolto durante la
giornata è analizzato e suddiviso in un numero di compiti
rappresentativi; per ogni determinato compito si eseguono
separatamente le misure di livello di pressione sonora;
misurazioni basate sulle mansioni: mediante campionatura casuale si
ottengono delle misure di livello di pressione sonora durante
l’esecuzione di determinate mansioni;
misurazioni a giornata intera: il livello di pressione sonora è
misurato continuativamente sull’arco completo di una o più giornate
lavorative.
Concludiamo ricordando che con il recente D.Lgs. 151/15 è stato
riscritto il comma 5-bis dell’articolo 190 del D.Lgs. 81/08 andando a
ufficializzare e permettere l’utilizzo delle banche dati sul rumore.
Utilizzo che può avvenire se queste banche dati sono state approvate
dalla Commissione Consultiva Permanente per la salute e la sicurezza
sul lavoro.
Il documento dell’ INAIL – Dipartimento Innovazioni Tecnologiche e
Sicurezza degli Impianti, Prodotti ed Insediamenti Antropici “La
valutazione del rischio rumore”, edizione 2015 è scaricabile
all’indirizzo:
http://www.inail.it/internet_web/wcm/idc/groups/intranet/documents/doc
ument/ucm_199620.pdf
——————————————INFORTUNIO PER COMPORTAMENTO ABNORME E MANCATA FORMAZIONE: LE
RESPONSABILITA’
Da: PuntoSicuro
http://www.puntosicuro.it
15 febbraio 2016
di Gerardo Porreca
La responsabilità dell’infortunio occorso al lavoratore a causa di
condotta negligente e imprudente: se lo stesso non è stato formato sui
rischi specifici, l’infortunio può essere considerato conseguenza
diretta della mancata formazione.
Un insegnamento quello che discende da questa sentenza della Corte di
Cassazione che mette in chiara evidenza l’importanza della formazione
in materia di salute e di sicurezza sul lavoro da impartire ai
lavoratori dipendenti ed a quelli ad essi equiparati.
Il datore di lavoro che non ha adempiuto agli obblighi di informazione
e formazione gravanti su di lui e sui suoi delegati risponde a titolo
di colpa specifica, ha infatti precisato la suprema Corte,
dell’infortunio occorso a un lavoratore anche se questi,
nell’espletamento delle proprie mansioni, ha posto in essere condotte
negligenti e imprudenti, trattandosi di una conseguenza diretta e
prevedibile della inadempienza degli obblighi formativi.
Nel caso sottoposto in questa circostanza all’esame della Corte di
Cassazione il lavoratore era rimasto mortalmente infortunato in quanto
schiacciato fra la motrice e il rimorchio di un mezzo di trasporto
mentre stava procedendo a un incauto riaggancio delle due parti del
veicolo non rispettando così quelle misure di sicurezza che una
specifica formazione gli avrebbe sicuramente fatto conoscere.
La Corte di Appello ha assolto con formula piena l’Amministratore
Delegato di una società mentre ha confermata la condanna inflitta dal
Tribunale al Responsabile del deposito dello stabilimento gestito
dalla società stessa per il delitto di omicidio colposo in danno di un
lavoratore dipendente.
Ai due imputati era stato addebitato di avere cagionata la morte del
lavoratore per colpa consistita in imprudenza, negligenza e imperizia,
nonché violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul
lavoro. In particolare gli imputati erano stati accusati di non avere
valutato, tra gli altri, il rischio cui è stato esposto il lavoratore
il quale, addetto a mansioni di autotrasportatore, provvedeva al
periodico prelievo di rottami in vetro presso lo stabilimento.
Il lavoratore nel giorno dell’infortunio si era venuto a trovare nella
necessità di sganciare l’autocarro dal rimorchio per l’impossibilità
di accedere al punto di prelievo con l’intero veicolo, data la ridotta
dimensione del tratto di strada antistante. Nel documento di
valutazione rischi elaborato dall’azienda mancava ogni riferimento a
tale specifico rischio, con conseguente omessa individuazione delle
misure preordinate a fronteggiarlo quale la individuazione di una zona
che consentisse di operare in sicurezza e mancava altresì
l’indicazione delle modalità operative da adottare. Il lavoratore
inoltre non era stato adeguatamente informato sui rischi specifici a
cui era esposto in relazione all’attività svolta, con particolare
riferimento al rischio presente durante le operazioni di sganciamento
e successivo riaggancio tra autotreno e rimorchio e, dunque, sulle
misure di sicurezza del caso e non gli era stata assicurata, altresì,
una formazione sufficiente e adeguata in materia di sicurezza, avuto
riguardo alle proprie mansioni, con particolare riferimento allo
operazioni in svolgimento.
Con tali condotte omissive gli imputati non avevano impedito il
decesso del lavoratore, il quale era rimasto schiacciato tra la
motrice e il rimorchio all’atto di riagganciarli. In particolare il
lavoratore aveva effettuata detta operazione senza che fossero state
individuate e successivamente impartite al medesimo, mediante idonea
informazione sul rischio e formazione lavorativa, le misure di
sicurezza da seguire, che avrebbero imposto l’esecuzione
dell’operazione a rimorchio fermo, previo allineamento del timone alla
campana della motrice (anche avvalendosi di attrezzi occasionali) e
avvicinando l’autocarro al rimorchio mediante manovra di retromarcia.
In assenza delle dovute prescrizioni, invece, il lavoratore aveva
eseguito l’operazione posizionandosi tra i due mezzi e sfrenando il
rimorchio, che si trovava in pendenza, in modo da farlo avvicinare
all’autocarro, mentre con le mani allineava il timone del rimorchio
alla campana dell’autocarro, per farli incastrare. Non essendo però
riuscito nell’intento, rimaneva schiacciato dal rimorchio, riversatosi
sulla motrice per effetto del mancato incastro del timone (infilatosi
viceversa sotto la campana dell’autocarro), con conseguente immediato
decesso.
La Corte di merito ha osservato che nessuna responsabilità poteva
gravare sull’Amministratore Delegato il quale aveva conferito al
Responsabilità del deposito una delega antinfortunistica scritta e
firmata dalle parti, esaustiva e con attribuzione di pieni poteri di
programmazione, organizzazione e gestione. Con riferimento invece
all’altro imputato la Corte territoriale ha ritenuto che,
contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa, la condotta della
vittima non era stato un fatto imprevedibile e abnorme, in quanto
aveva svolto un’attività che rientrava nelle sue mansioni, da solo,
senza ausilio di altro collega e senza che gli fosse stata data alcuna
formazione e informazione sui rischi specifici e sulla corretta
manovra da svolgere. La violazione delle norme di prevenzione, che
aveva determinato il concretizzarsi dell’evento, ha fatto notare la
Corte di Appello, era stata determinata dalle omissioni dell’imputato
che, in ragione della delega ricevuta, era il primo garante della
sicurezza dei lavoratori in azienda per cui, sulla base di tali
considerazioni, la sentenza di condanna di primo grado è stata
confermata, sebbene con una pena ridotta a sei mesi di reclusione.
Avverso la Sentenza ha proposto ricorso per Cassazione il difensore
dell’imputato, lamentando l’erronea applicazione della legge e il
difetto di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza
dell’elemento soggettivo della colpa. Invero, secondo il ricorrente,
l’evento verificatosi era del tutto imprevedibile, in quanto
inaspettato era che il lavoratore disattivasse l’impianto frenate del
rimorchio, onde consentire per gravità, il suo avvicinamento alla
motrice. Inoltre in relazione alle operazioni di sganciamento e
riaggancio, le norme ISPESL prendevano in considerazione il rischio di
schiacciamento degli arti, ma non consideravano assolutamente la
possibilità di un incidente mortale per cui se tale rischio non era
prevedibile per gli Enti deputati alla sicurezza sul lavoro certamente
non potevano esserlo per l’imputato.
Il ricorso è stato ritenuto infondato dalla Corte di Cassazione che lo
ha rigettato. La stessa ha sostenuto in premessa che “in tema di
infortuni sul lavoro, l’articolo 2087 del Codice Civile ha carattere
generale e sussidiario, di integrazione della specifica normativa
antinfortunistica, con riferimento all’interesse primario della
garanzia della sicurezza del lavoro. Pertanto, il dovere di sicurezza
si realizza o attraverso l’attuazione di misure specifiche imposte
tassativamente dalla legge oppure con l’adozione dei mezzi idonei a
prevenire ed evitare i sinistri, assunti con i sussidi dei dati di
comune esperienza, prudenza, diligenza, prevedibilità, in relazione
all’attività svolta.
Ne consegue che, per configurare la responsabilità del datore di
lavoro o dei suoi delegati, non è necessario che sia integrata la
violazione di specifiche norme dettate per la prevenzione degli
infortuni, essendo sufficiente che l’evento dannoso si sia verificato
a causa dell’omessa adozione di quelle misure e accorgimenti imposti
all’imprenditore dall’ articolo 2087 del Codice Civile ai fini della
più efficace tutela dell’integrità fisica del lavoratore”.
La circostanza inoltre che le norme ISPELS non prendessero in
considerazione il rischio morte non è stato ritenuto rilevante da
parte della Sezione IV, considerato peraltro che in ogni caso era
stata presa in considerazione la possibilità dello schiacciamento.
All’imputato, ha precisato inoltre la suprema Corte, è stato mosso
anche un addebito di colpa generica. Tenuto conto, infatti, che la
manovra di sgancio e aggancio del rimorchio era di routine,
correttamente il giudice di merito ha ritenuto che il relativo rischio
di infortunio fosse prevedibile ed evitabile con l’adozione di
adeguate disposizioni di sicurezza. Pertanto, considerato che tale
rischio non era stato preso in considerazione adeguatamente nel
relativo documento di valutazione, tale omissione ha determinato il
concretizzarsi dell’evento che le cautele dovute miravano ad evitare.
La responsabilità dell’imputato, secondo la Sezione IV, era a lui
anche da attribuire per la violazione di specifiche norme di sicurezza
e, quindi, a titolo di colpa specifica. Infatti al lavoratore, come
esposto in sentenza, non è stata fornita una adeguata formazione ed
informazione. In tali casi, ha così concluso la suprema Corte, “la
negligenza del lavoratore, che nell’espletamento delle sue mansioni
ponga in essere condotte imprudenti, non costituisce un fatto
imprevedibile, in quanto è il frutto proprio della mancanza
dell’adempimento dell’obbligo di formazione gravante sul datore di
lavoro ed sui suoi delegati”.
La Sentenza n. 39765 del 2 ottobre 2015 della Corte di Cassazione
Penale Sezione IV è consultabile all’indirizzo:
http://olympus.uniurb.it/index.php?option=com_content&view=article&id=
14134:cassazione-penale-sez-4-02-ottobre-2015-n-39765-lavoratorerimane-schiacciato-tra-la-motrice-ed-il-rimorchio-omessa-valutazionedel-rischio-e-mancata-formazione&catid=17:cassazione-penale&Itemid=60
L’articolo SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.244
DEL 18/02/16 sembra essere il primo su Medicina Democratica.
La situazione dell’inceneritore di Mantova
La Dr.ssa Gloria Costani, Presidente ISDE Mantova, rende note le
osservazioni della sezione dell’Associazione Medici per l’Ambiente che
rappresenta, riguardo la richiesta di rinnovo dell’inceneritore nella
cartiera Ex Burgo a Mantova, che è stata presentata alla Provincia di
Mantova, come ha spiegato la stessa Costani: “Si tratta di un impianto
importante che brucerebbe i derivati di lavorazioni e riciclo della
carta provenienti da tutti i siti della nuova proprietà che opera nel
Triveneto e tale incenerimento è stato rifiutato dalla Regione
Trentino Alto-Adige. Mi sembra troppo comodo bruciare da noi in Val
Padana, con il clima pesante, nebbioso, senza venti e soffocato da
micropolveri, che ci ritroviamo, già riconosciuto SIN per la nota
storia dei sarcomi.”
L’Ing. Paolo Rabitti, su richiesta della Dr.ssa Costani, ha redatto le
osservazioni tecniche in merito alla domanda di modifica non
sostanziale dell’AIA (Autorizzazione Integrata Ambientale), inoltrata
dall’azienda Cartiere Villa Lagarina. Inoltre, in base all’analisi
tecnica dell’Ing. Rabitti, occorrerà valutare anche l’impatto sulla
salute e i possibili rischi sanitari dell’impianto in questione che
ricadrebbero sui cittadini di Mantova, viste le note criticità del
territorio. Pertanto comprendendo quale è il livello di salute della
zona e se, ad esempio, la mortalità complessiva fosse già in aumento,
occorrerebbe pretendere una riduzione delle fonti inquinanti più
impattanti.
La palla adesso passa nelle mani della Provincia di Mantova e speriamo
che le osservazioni, volte sempre a proteggere l’ambiente e la salute
dei cittadini, della Dr.ssa Costani e di ISDE, vengano prese
seriamente in considerazione.
Per altre informazioni vi invitiamo a cliccare qui
L’articolo La situazione dell’inceneritore di Mantova sembra essere il
primo su ISDE.
Libro del mese di Febbraio: Manifesto per la felicità
Ecco tutta per voi la scheda del libro del mese di Febbraio!
Manifesto per la felicità
Stefano Bartolini
Ed. Donzelli 2011
Stefano Bartolini è un economista e insegna all’Università di Siena.
Si occupa da tempo del rapporto tra la attuale società dei consumi,
opulenta, e la percezione di ben-essere dei cittadini. Di recente ha
scritto un piccolo articolo sulla rivista Micromega in cui relaziona
del lavoro di diversi giovani ricercatori nel mondo per rispondere
alla domanda su quale modello di società sia adatto per ottenere una
migliore qualità della vita.
E questo è anche il tema del libro di oggi.
Bartolini parte dalla constatazione empirica che nei paesi ricchi,
dove molti, ma non tutti, hanno accesso a infiniti e sempre nuovi beni
di consumo materiali, serpeggi una diffusa insoddisfazione e un vero
disagio psicologico che muove dalla mancanza di tempo e di relazioni
umane decenti .
Questa è la chiave di lettura del libro: siamo più infelici perché
siamo più poveri di relazioni, di legami. Paradossalmente il
miglioramento, innegabile, delle condizioni di vita economiche e
materiali è stato ampiamente compensato dal peggioramento delle
relazioni interpersonali.
Bartolini analizza per prima la situazione degli Stati Uniti, che sono
all’avanguardia sia nel benessere che nel malessere, e fornisce un
grafico molto interessante delle curve di reddito e di felicità in Usa
nel periodo 1946-1996. Ad un aumento notevole e quasi inarrestabile
della curva reddituale, fa da riscontro dapprima un parallelo aumento
della soddisfazione , ma a partire dal 1956, un sostanziale declino di
questa che si discosta sempre di più dalla curva del reddito . Ma
davvero non può esistere altra strada?
E’ molto interessante che Bartolini metta in relazione il degrado
relazionale con la crescita economica. Rileva infatti ciò che sanno
benissimo i pubblicitari, ovvero che l’insoddisfazione e la paura
fanno vendere di più, fanno crescere l’economia. Sono una sorta di
sottoprodotto del sistema.
L’autore ci conduce in un viaggio attraverso le cause, ma anche le
soluzioni possibili dell’insoddisfazione contemporanea.
Una parte del libretto è dedicata proprio a delineare delle possibili
e credibili, politiche per la felicità.
Interessano lo spazio urbano, la scuola, la pubblicità, il lavoro, la
salute ed anche la democrazia. In ognuno di questi ambiti si può
cambiare il modello, se si vuole favorire una società relazionale più
felice.
L’ultima parte del libro, facendo leva su esempi virtuosi e reali, ci
dice che questa nuova società, del ben.essere e non più del ben-avere,
è concretamente possibile.
Ringraziamo Maurizio per la recensione!
Buona giornata!
MDF, Circolo di Torino
SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.243 DEL
12/02/16
SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.243 DEL
12/02/16
INDICE
–
“Smart working”: sfruttamento illimitato della costrizione
al lavoro
Morti bianche in Italia: bilancio simile ad un sanguinoso conflitto
–
Cassazione: se la sicurezza non è garantita, il dipendente
può rifiutarsi di lavorare e deve essere pagato
Quali sono i diritti e gli obblighi dei lavoratori?
La gestione della sicurezza antincendio secondo il nuovo Codice
Abrogazione del registro infortuni: ragioniamoci
Invito ancora tutti i compagni della mia mailing list che riceveranno
queste notizie a diffonderle in tutti i modi.
La diffusione è gradita e necessaria. L’obiettivo è quello di
diffondere il più possibile la cultura della salute e della sicurezza
e la consapevolezza dei diritti dei lavoratori a tale proposito.
L’unica preghiera, per gli articoli firmati da me, è quella di citare
la fonte.
Marco Spezia
ingegnere e tecnico della salute e della sicurezza sul lavoro
Progetto “Sicurezza sul Lavoro! Know Your Rights”
Medicina Democratica
[email protected]
https://www.facebook.com/profile.php?id=100007166866156
http://www.medicinademocratica.org/wp/?cat=210
——————————————“SMART WORKING”: SFRUTTAMENTO ILLIMITATO DELLA COSTRIZIONE AL LAVORO
Da Cortocircuito
http://www.inventati.org/cortocircuito
08 febbraio 2016
di Carla Filosa
“In realtà, il dominio dei capitalisti sugli operai non è se non
dominio delle condizioni di lavoro autonomizzatesi contro e di fronte
al lavoratore […] cioè i mezzi di produzione […] e i mezzi d
sussistenza […], benché tale rapporto si realizzi soltanto nel
processo di produzione reale, che è essenzialmente processo di
produzione di plusvalore; processo di autovalorizzazione del capitale
anticipato”.
Karl Marx “Il Capitale” Libro I, Capitolo VI
Mediaticamente coinvolti in questi ultimi tempi solo dai cosiddetti
diritti civili, forse non ricordiamo nemmeno più quella proposta
effettuata nel dicembre scorso dal Ministro Poletti, sull’abolizione
“tecnologica” della misurazione temporale della giornata lavorativa.
Dopo l’impegno, in settembre, ad abbassare le pensioni a chi ne avesse
anticipato la fruizione, l’ineffabile Ministro del Lavoro si è messo
all’opera per rosicchiare, non solo il salario differito sui binari
della riforma Fornero, ma anche quello diretto, angustamente percepito
solo come busta paga, ma in realtà di natura sociale.
I diritti fondamentali, quelli conquistati entro il rapporto
lavorativo vessatorio e fraudolento, sono così scivolati
nell’inavvertita prassi governativa abile nell’elargire una
progressiva dimenticanza da spargere su tutto il piano del reale.
Sublimati su battaglie giuridiche, i conflitti sono stati spostati su
piani ideologico-religiosi con altri soggetti di diritto, dal piano
economico a quello sociale, più permeabile a compromessi. Il capitale
rimane pertanto nel cono d’ombra, libero di far erodere anche il
salario indiretto con il taglio delle spese sociali e i favori fiscali
alle imprese.
Quando poi le “innovazioni” politiche non si vogliono far capire bene
agli interessati, ormai si usa la lingua dominante sul mercato
mondiale. Il titolo apparso (“Smart Working”) sul Sole
24ore (01/12/15) a proposito della geniale proposta del Ministro
Poletti di abolire il criterio temporale applicato al lavoro (altrui,
si sarebbe completato in altri tempi), non fa eccezione. Nell’articolo
citato, rispondono poi i metalmeccanici CISL, senza avvedersi della
portata del problema.
L’inimitabile trovata, non del suddetto Ministro, che non ci sarebbe
mai arrivato da solo, ma del suo “think tank” (cordata di pensatoi),
merita quindi di andare a fondo in questa ennesima obsoleta
“innovazione”.
“L’ora-lavoro è un attrezzo vecchio che non permette l’innovazione” –
scrive la Repubblica del 28/11/15, in prima pagina – “Dovremmo
immaginare contratti che non abbiano come unico riferimento la
retribuzione oraria”. La citazione del quotidiano continua perché
l’espediente si sposta su “un tema culturale su cui lavorare”, da
inserire naturalmente nell’apposito scrigno del Jobs Act approntato
all’uopo. Il Ministro è andato a spiegare alla Luiss che “Il lavoro
oggi è un po’ meno cessione di energia meccanica ad ore e sempre più
risultato. Per molti anni i ritmi biologici e di vita si sono piegati
agli orari fissi, ma con la tecnologia possiamo guadagnare qualche
metro di libertà”. Le suadenti e alate motivazioni puntavano poi a
rinverdire le vetuste “forme di partecipazione dei lavoratori
all’impresa”, di cui in seguito tecnici deputati, cioè “economisti e
giuslavoristi”, dovranno “immaginare il futuro su questo tema”. In
altri termini, tecnici organici al sistema (a sostituzione dei
lavoratori titolari dell’erogazione lavorativa e destinatari della
modifica delle condizioni lavorative) manovreranno queste ultime a
favore dei datori di lavoro!
Dallo stesso quotidiano si apprende ancora che Maurizio Del Conte,
docente alla Bocconi di diritto del lavoro, consulente di Palazzo
Chigi e coautore del Jobs Act, presidente dell’ANPAL (nuova agenzia di
collocamento) ha incentivato poi, a supporto del Ministro, il “lavoro
agile” riferendosi all’attuale Legge di Stabilità.
In questa “ci sono norme per la contrattazione di produttività,
premiata con l’aliquota secca del 10% fino a un tetto di 2.000 euro
per la produttività partecipata che non è la partecipazione agli utili
ma organizzativa. I lavoratori decidono con l’azienda come ottenere
incrementi di produttività, quando e quanto premiarli. Una novità che
vogliamo estendere anche al lavoro agile”…
Il lavoro agile non è un altro tipo di contratto. Ma un modo nuovo di
organizzare il vecchio contratto subordinato che però non va
archiviato, ma aggiornato e organizzato in modo diverso. Le aziende
devono uscire dallo schema classico delle 40 ore. E’ un problema
culturale più che sindacale. Cambia il modo di retribuire, perché
cambia il modo di lavorare. E se ho lavoratori contenti perché passano
più tempo a casa o all’aperto o allungano il weekend, si incentiva la
fidelizzazione, dunque la produttività, e i salari crescono. Un cambio
di paradigma rispetto alla retribuzione piatta: una quota del lavoro
si svolge fuori dallo spazio e dal tempo classici. E i parametri per
misurare e retribuire questa quota vengono fissati dall’azienda con i
lavoratori. Ma ci arriveremo per gradi.
Adesso proviamo a decodificare questo linguaggio fascinoso e
mistificante. Innanzitutto tutti i significati di smart vengono
racchiusi entro un concetto di “agilità” che non è chiaro se si
riferisce ai datori di lavoro (in vista di maggiori profitti!), o ai
lavoratori flessibilizzati, si ipotizza, “a loro piacimento”. Non si
parla più (pare sia superfluo) dei rapporti di proprietà, ovvero
dell’inestinto rapporto di “comando sul lavoro altrui”, ancorché
dissimulato ma assolutamente presente nelle forme del ricatto
esplicitato o dell’imbonimento occultato nei confronti di un lavoro
perennemente dipendente dalle condizioni lavorative, unilateralmente
gestite dai datori di lavoro.
L’apparente cogestione remunerativa viene legittimata tecnicamente. Si
evitano così i termini storici e sociali di un tuttora dominante
comando capitalistico, modificabile da un’indifferente tecnologia
avanzata, che però l’uso capitalistico rende sempre funzionale allo
sfruttamento aumentato della forza-lavoro. Obiettivo cui tutto il
panegirico precedente tende senza parere.
Al fattore “risultato” il sistema di capitale ha sempre teso. Già nel
Capitale di Marx (1867) viene chiaramente detto che per il capitale il
salario a tempo è meno vantaggioso di quello a cottimo, cioè a
“risultato”, perché quest’ultimo, “forma mutata del salario a tempo”
(Capitolo I) “tende da un lato a sviluppare l’individualità e con ciò
il sentimento della libertà, l’autonomia e l’autocontrollo degli
operai, dall’altro a sviluppare la concorrenza fra di loro e degli uni
contro gli altri. Esso ha perciò la tendenza ad abbassare il livello
medio dei salari mediante l’aumento dei salari individuali al di sopra
del livello stesso […] il capitale non può estendere la giornata
lavorativa altro che aumentando l’intensità del lavoro […]. Variando
la produttività del lavoro, una stessa quantità di prodotti
rappresenta un tempo di lavoro vario. Quindi varia anche il salario a
cottimo, perché esso è l’espressione del prezzo di un determinato
tempo di lavoro. Il salario a cottimo viene abbassato nella stessa
proporzione in cui cresce il numero degli articoli prodotto durante lo
stesso tempo, e quindi diminuisce il tempo di lavoro impiegato per lo
stesso articolo. Questo variare del salario a cottimo, in quanto
è puramente nominale, provoca costanti lotte tra capitalista e
operaio. O perché il capitalista si serve di questo pretesto per
abbassare realmente il prezzo del lavoro, o perché l’aumento della
forza produttiva del lavoro è accompagnato da un’accresciuta
intensità di quest’ultimo. O perché l’operaio prende sul serio
l’apparenza del salario a cottimo e crede che gli venga pagato il suo
prodotto e non la sua forza-lavoro e quindi si oppone a una riduzione
del salario alla quale non corrisponde la riduzione del prezzo di
vendita della merce”.
“Il salario a cottimo” – continua Marx – “diventa fonte fecondissima
di detrazioni sul salario e di truffe capitalistiche. Esso offre al
capitalista una misura ben definita dell’intensità del lavoro […]. Se
l’operaio non possiede la capacità media di rendimento (in termini di
tempo di lavoro socialmente necessario), se quindi non è in grado di
fornire un determinato minimo di opera giornaliera, lo si licenzia
[…]. Questa forma costituisce quindi la base tanto del moderno lavoro
domestico, quanto di un sistema di sfruttamento e di oppressione
gerarchicamente articolato […]. Da una parte il salario a cottimo
facilita l’inserimento di parassiti fra capitalista e operaio
salariato, cioè il subaffitto del lavoro. Il guadagno degli
intermediari deriva esclusivamente dalla differenza fra il prezzo del
lavoro pagato dal capitalista e quella parte di questo prezzo che essi
lasciano realmente pervenire all’operaio. Questo sistema si chiama in
Inghilterra lo sweating system (sistema del sudore). Dall’altra parte,
il salario a cottimo permette al capitalista di concludere con il capo
operaio […]. un contratto per tanti e tanti articoli a un prezzo (e
qui probabilmente si instaura la partecipazione organizzativa attuale,
con suggerimenti premiabili), per il quale il capo operaio stesso si
assume l’arruolamento e il pagamento dei suoi operai ausiliari. Lo
sfruttamento degli operai da parte del capitale si attua qui mediante
lo sfruttamento dell’operaio da parte dell’operaio.”
Altre testimonianze agli albori del lavoro a cottimo riferiscono che
“il lavoro dei garzoni artigiani sarà regolato a giornata o a pezzo
[…]. I mastri artigiani sanno all’incirca quanto lavoro gli operai
possono compiere in ogni mestiere, e quindi li pagano spesso in
proporzione al lavoro che compiono; in tal modo questi garzoni
lavorano, nel proprio interesse, quanto più possono, senza alcuna
sorveglianza”. (Cantillon ”Essai sur la nature du commerce en général”
Amsterdam 1756).
“Spesso si assumono operai in previsione di un lavoro incerto,
talvolta anche immaginario: siccome sono pagati a cottimo, si dice che
non si rischia nulla, giacché tutte le perdite di tempo saranno a
carico degli operai che non lavorano” (Grégoir ”Les typographes devant
le tribunal correctionnel de Bruxelles” Bruxelles 1865).
Se non si fraintende, il lavoro misurato sul tempo non scompare (nella
fraudolenta “innovazione” da immettere nella legge della regolazione
lavorativa) ma viene affiancato, fors’anche con parziali modifiche, da
una quantità di lavoro “fuori dal tempo e dallo spazio”.
Già qui è necessario chiedere aiuto alla logica (quella del “futuro”,
evidentemente) per capire come misurare una quantità senza categorie
spazio-temporali. E’ come chiedere un pezzo di stoffa per un vestito
senza disporre di metri o altre unità di misura. Se ne può prendere
quanta se ne vuole, fino, si spera, allo stop irato del venditore che
se la vede sottrarre tutta.
Dunque, quella forma (in quanto “forma”) lavoro salariato (lohnarbeit,
non solo arbeit, cioè lavoro) risponde adeguatamente al contenuto del
rapporto di capitale. Si fa così giustizia di ogni altro pseudocriterio, dalla remunerazione del rendimento e dalla partecipazione
del lavoratore al risultato dell’impresa, fino alla fruizione di una
quota di reddito nazionale, e via armonizzando.
A proposito dell’esigenza che è stata prospettata recentemente
[“recentemente” (!) lo scriveva già Marx più di un secolo e mezzo fa
nei “Lineamenti”] “talvolta con autocompiacimento, di dare ai
lavoratori una certa partecipazione al profitto, non può trattarsi che
di un premio speciale, che può raggiungere il suo scopo solo in quanto
eccezione alla regola; e in effetti nella prassi normale si limita a
una incetta di singoli sorveglianti ecc., nell’interesse del padrone
contro l’interesse della sua classe; oppure di impiegati ecc., ossia,
in breve, non più al semplice salariato, e quindi nemmeno al rapporto
generale; oppure si tratta di una particolare maniera di truffare i
salariati trattenendo una parte del loro salario sotto la forma
precaria di un profitto che dipende dalla situazione dell’azienda. Ma
che questa pretesa contraddica il rapporto stesso risulta dalla
semplice riflessione che, se il risparmio del salariato non deve
rimanere un semplice prodotto della circolazione (denaro risparmiato
che può essere realizzato solo convertendolo prima o poi nel contenuto
sostanziale della ricchezza, ossia in godimenti) il denaro accumulato
stesso dovrebbe diventare capitale, ossia dovrebbe comprare lavoro,
riferirsi al lavoro come valore d’uso. Il risparmio del lavoratore
presuppone dunque a sua volta lavoro-che-non-è-capitale, e presuppone
che il lavoro sia diventato il suo contrario, cioè non-lavoro. Per
diventare capitale, esso presuppone già il lavoro-come-non-capitale di
fronte al capitale; insomma, il ristabilimento dell’antitesi, che deve
essere soppressa in un punto, in un altro punto. Se dunque già nel
rapporto originario l’oggetto e il prodotto dello scambio del
lavoratore (come prodotto dello scambio semplice esso non può essere
altro prodotto che questo) non fossero il valore d’uso, i mezzi di
sussistenza, la soddisfazione del bisogno immediato, la sottrazione
dalla circolazione dell’equivalente in essa introdotto per
distruggerlo mediante il consumo, allora il lavoro si contrapporrebbe
al capitale non come lavoro, non come non-capitale, ma come capitale.
Ma anche il capitale non può contrapporsi al capitale se al capitale
non si contrappone il lavoro, giacché il capitale è capitale solo in
quanto non-lavoro; in questa relazione antitetica. Ossia, verrebbe
negato il concetto e il rapporto del capitale stesso”.
E’ bene perciò chiarire che il lavoro (o, più correttamente, l’uso
della forza-lavoro, di questa merce venduta ad altri) è divenuto
organicamente dipendente per tutto il tempo stabilito, senza altri
limiti o eccezioni, da colui che lo ha acquistato, cioè il padrone
(qui il borghese capitalista, l’imprenditore…) e pertanto non ha nulla
a che vedere con la supposta “partecipazione azionaria” dei
dipendenti, tanto di moda e diffusa nella socialdemocrazia tedesca e
sancita definitivamente nel congresso di Bad Godesberg del 1959 con
quell’abbandono del marxismo che, dopo il programma di Erfurt del
1891, segnò l’instancabile assillante cammino intrapreso per primo da
Eduard Bernstein con il suo revisionismo, sempre perdente a parole nel
suo partito, di rincorsa al sistema capitalistico borghese fino a
riuscire ad arrivare comunque al tracollo del marxismo nei partiti
socialisti europei con la resa di Bad Godesberg. Si capisce, dunque,
come si sia giunti all’annichilimento della classe lavoratrice.
Annichilimento realizzatosi, ora è quasi due secoli, mediante mezzi di
produzione di proprietà capitalistica a tecnologia costantemente
rinnovatasi, che utilizzano maggiormente il lavoratore in modo sempre
più invisibilmente raffinato. Il lavoro vivo, ovvero la forza-lavoro
in generale dei lavoratori utilizzati, viene risucchiato entro il
valore in generale appropriato dal capitale, ed in esso si trasforma
senza più apparire come in origine. Così incorporata al capitale che
si “autovalorizza”, l’energia vitale dei lavoratori scompare anche nei
tempi della sua erogazione essendo divenuta, per il solo arbitrio del
“diritto proprietario” del capitale, valore conservato e maggiorato
nell’oggettivazione alienata del capitale.
Realtà già in atto di fabbriche digitali si trovano presso Vodafone
Italia, alla FCA di Pomigliano, alla Sevel (produce il Ducato), alla
ZF Padova, ecc. dove si lavora con margini di autonomia, anche a
distanza, con flessibilità orarie in entrate e uscite, ecc. Le
modifiche funzionali alle innovazioni sono forme di un progresso
produttivo sollecitato dal sistema di capitale, tale progresso
oggettivo non necessita però, in prospettiva, della direzione
capitalistica che ne aliena e distorce l’utilità sociale. Il lavoro è
sempre quello socialmente necessario, cioè calcolabile in base ai
tempi di una tecnologia generalmente affermatasi come più conveniente
per chi l’ha promossa. Il tempo quindi non può essere abolito in
nessuna alchimia politica, essendo la misura dell’intensità lavorativa
richiesta. Si vuole solo sottintendere, o non mostrare, che il tempo
di lavoro tende sempre più a coincidere con il tempo di vita, e che
quest’ultima deve essere funzionale solo al bene lavoro nella sua
crescente rarefazione.
La specificità della merce forza-lavoro è che anche se venduta,
appropriata, trasformata e apparentemente perduta, rimane comunque
attaccata al suo portatore, come una malattia incurabile (per il
capitale!). Questo portatore è anche portatore di bisogni materiali
inestinguibili strutturalmente antitetici a quelli capitalistici,
tendenzialmente infiniti rispetto alla concentrazione limitata dei
capitali. Di fronte al bisogno estremo della vita di una classe
marginalizzata o resa superflua, ma che nell’esproprio si ingrandisce
in termini planetari, l’autonomia da questo potere dialetticamente
distruttivo sempre localizzato, nazionalizzato, regionalizzato, ecc.
potrebbe configurarsi con la necessità di uno tsunami incontenibile e
senza appuntamento.
——————————————MORTI BIANCHE IN ITALIA: BILANCIO SIMILE AD UN SANGUINOSO CONFLITTO
Da Vega Engineering
http://www.vegaengineering.com
15 gennaio 2016
Mauro Rossato
1.000 MORTI SUL LAVORO: IL BILANCIO DELLE VITTIME PIU’ SIMILE A QUELLO
DI UN SANGUINOSO CONFLITTO CHE ALLA QUOTIDIANITA’ LAVORATIVA DI UN
PAESE CIVILE.
A FINE NOVEMBRE 2015 PIU’ DI 1.000 MORTI SUL LAVORO. 800 QUELLE
AVVENUTE IN OCCASIONE DI LAVORO IN AUMENTO DEL 17 PER CENTO RISPETTO
AL 2014 E SONO 280 QUELLE REGISTRATE IN ITINERE (+ 19 PER CENTO ).
Sembra il tragico bilancio di un sanguinoso conflitto, mentre è il
drammatico resoconto della quotidianità lavorativa nel nostro Paese:
più di mille morti in 11 mesi nel 2015 (1.080 per la precisione).
E sono 800 le vittime che hanno perso la vita in occasione di lavoro
da gennaio a novembre 2015 (+ 17 per cento rispetto al 2014) e 280
quelle decedute a causa di un infortunio in itinere (+ 19 per cento).
Un incremento significativo quello evidenziato dall’Osservatorio
Sicurezza sul Lavoro Vega Engineering (sulla base di dati INAIL) che
non lascia spazio a speranze di risoluzione per un fenomeno che pone
l’Italia in cima alla graduatoria europea (fonte Eurostat) degli
infortuni mortali nei luoghi di lavoro.
“Una maglia nera tragica per un Paese che evidentemente non è
abbastanza civile da intervenire con i giusti mezzi per invertire la
tragica tendenza all’aumento delle morti sul lavoro” – sottolinea
Mauro Rossato, Presidente dell’Osservatorio Sicurezza sul Lavoro Vega
Engineering di Mestre – “Le istituzioni devono essere più visibili e
presenti. Servono più controlli, pene certe e processi più veloci per
gli evasori della sicurezza sul lavoro. Perché senza tali premesse
nessuna inversione di rotta o di tendenza sarà possibile”.
E nel frattempo è sempre la Lombardia a far registrare il più elevato
numero di vittime in occasione di lavoro (115); seguono: la Campania
(78), la Toscana (74), il Lazio (71), il Veneto (64), l’Emilia Romagna
(62), il Piemonte (60), la Sicilia (55), la Puglia (52). E poi ancora:
le Marche (26), l’Abruzzo (25), l’Umbria (22), il Trentino Alto Adige
(18), la Liguria (17), la Calabria (16), il Friuli Venezia Giulia
(13), la Sardegna (12), il Molise e la Basilicata (10). Mentre
l’indice di rischio più elevato rispetto alla popolazione lavorativa
viene registrato in Molise (100,5 contro una media nazionale di 35,7).
Seguono Umbria (61,4) e Basilicata (55,5).
Il settore più colpito dalle morti sul lavoro è quello delle
Costruzioni con 117 vittime pari al 14,6 per cento del totale degli
infortuni mortali sul lavoro. Seguito dalle Attività manifatturiere
(98 decessi) e dal Trasporto e magazzinaggio (83).
Più della metà delle vittime rilevate in occasione di lavoro aveva
un’età compresa tra i 45 e i 64 anni (485 morti).
Le donne che hanno perso la vita nei primi 11 mesi dell’anno in
occasione di lavoro sono state 42. Gli stranieri deceduti sul lavoro
sono 125 pari al 15,6 per cento del totale.
La provincia in cui si conta il maggior numero di infortuni mortali è
Roma (44) seguita da Milano (34), Napoli (30), Bari (22), Torino (21),
Brescia (20), Perugia (17).
Cosa stiamo aspettando?!
Le statistiche delle morti sul lavoro dell’Osservatorio Sicurezza
Lavoro Vega Engineering aggiornate al 30 novembre 2015 sono
scaricabili all’indirizzo:
http://www.vegaengineering.com/dati-osservatorio/allegati/Statistichemorti-lavoro-Osservatorio-sicurezza-lavoro-VegaEngineering-30-11-2015.pdf
I dati relativi all’incidenza delle morti sul lavoro sulla popolazione
occupata delle Province dell’Osservatorio Sicurezza Lavoro Vega
Engineering aggiornati al 30 novembre 2015 sono scaricabili
all’indirizzo:
http://www.vegaengineering.com/dati-osservatorio/allegati/Incidenze-mo
rti-lavoro-popolazione-occupata-Province-Osservatorio-VegaEngineering-30-11-15.pdf
——————————————CASSAZIONE: SE LA SICUREZZA NON E’ GARANTITA, IL DIPENDENTE PUO’
RIFIUTARSI DI LAVORARE E DEVE ESSERE PAGATO
Da Studio Cataldi
http://www.studiocataldi.it
01 febbraio 2016
di Sestilio Staffieri
Quando il datore di lavoro è inadempiente agli obblighi di sicurezza
sul lavoro, è legittimo il rifiuto della prestazione lavorativa e si
conserva il diritto alla retribuzione
Il datore di lavoro è obbligato, a mente dell’articolo 2087 del Codice
Civile, ad assicurare condizioni di lavoro idonee a garantire la
sicurezza delle lavorazioni ed è tenuto ad adottare nell’esercizio
dell’impresa le misure che secondo la particolarità del lavoro,
l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità
fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.
Per la giurisprudenza della Suprema Corte (vedi la recentissima
Sentenza n. 836/2016 del 19/01/16), la violazione di tale obbligo
legittima i lavoratori a non eseguire la prestazione, eccependo
l’inadempimento altrui.
La protezione, anche di rilievo costituzionale, dei beni presidiati
dall’articolo 2087 del Codice Civile postula meccanismi di tutela
delle situazioni soggettive potenzialmente lese in tutte le forme che
l’ordinamento conosce.
Dunque, per garantire l’effettività della tutela in ambito civile, si
può ricorrere non solo alle azioni volte all’adempimento dell’obbligo
di sicurezza o alla cessazione del comportamento lesivo ovvero a
riparare il danno subito, ma anche al potere di autotutela
contrattuale rappresentato dall’eccezione di inadempimento, rifiutando
l’esecuzione della prestazione in ambiente nocivo soggetto al dominio
dell’imprenditore.
E’ stato altresì statuito che in caso di violazione da parte del
datore di lavoro dell’obbligo di sicurezza di cui all’articolo 2087
del Codice Civile, non solo è legittimo, a fronte dell’inadempimento
altrui, il rifiuto del lavoratore di eseguire la propria prestazione,
ma costui conserva, al contempo, il diritto alla retribuzione in
quanto non possono derivargli conseguenze sfavorevoli in ragione della
condotta inadempiente del datore.
La Sentenza n. 836/2016 del 19/01/16 della Corte di Cassazione è
scaricabile all’indirizzo:
http://www.ipsoa.it/~/media/Quotidiano/2016/01/20/Assenza-di-misure-di
-sicurezza–rifiuto-al-lavoro-lecito-con-conservazione-dellostipendio/836-16%20pdf.pdf
——————————————QUALI SONO I DIRITTI E GLI OBBLIGHI DEI LAVORATORI?
Da: PuntoSicuro
http://www.puntosicuro.it
28 gennaio 2016
Informazioni sui diritti e obblighi dei lavoratori con particolare
riferimento alla sicurezza sul lavoro.
Gli obblighi e i diritti personali, patrimoniali, sindacali e alla
sicurezza. Gli obblighi normati dagli articolo 20 e 21 del D.Lgs.
81/08.
L’articolo 2 del D.Lgs. 81/08 definisce il “lavoratore” come persona
che, indipendentemente dalla tipologia contrattuale, svolge
un’attività lavorativa nell’ambito dell’organizzazione di un datore di
lavoro pubblico o privato, con o senza retribuzione, anche al solo
fine di apprendere un mestiere, un’arte o una professione, esclusi gli
addetti ai servizi domestici e familiari. E, sempre nell’articolo 2,
sono indicate le altre figure (socio lavoratore di cooperativa o di
società, soggetti beneficiari delle iniziative di tirocini formativi,
ecc.) equiparabili al lavoratore così definito.
Al di là della definizione della normativa quali sono tuttavia i
diritti e gli obblighi dei lavoratori?
Per rispondere a questa domanda possiamo sfogliare la guida prodotta
dall’Ente Bilaterale Nazionale del settore Terziario (EBINTER), dal
titolo “Datori di lavoro e lavoratori. Guida pratica agli adempimenti
di sicurezza e all’apparato sanzionatorio”, una guida che fa
riferimento non solo al Testo Unico in materia di tutela della salute
e della sicurezza nei luoghi di lavoro, ma anche al contenuto di
diversi Accordi/Intese (Confindustria, settore artigiano, pubblica
amministrazione, commercio, ecc.).
Dopo aver riportato la definizione di lavoratore, il documento ricorda
i quattro principali gruppi di diritti che spettano al lavoratore.
Il primo gruppo affrontato è il diritto alla sicurezza:
Infatti i lavoratori hanno il diritto:
di astenersi (salvo casi eccezionali e su motivata richiesta) dal
riprendere l’attività lavorativa nelle situazioni in cui persista un
pericolo grave ed immediato;
di allontanarsi (in caso di pericolo grave ed immediato e che non può
essere evitato) dal posto di lavoro o da una zona pericolosa, senza
subire pregiudizi o conseguenze per il loro comportamento;
di prendere, in caso di pericolo grave ed immediato nella
impossibilità di contattare un superiore gerarchico o un idoneo
referente aziendale, misure atte a scongiurarne le conseguenze, senza
subire pregiudizi per tale comportamento, salvo che questo sia viziato
da gravi negligenze;
di essere sottoposti a visite mediche personali qualora la relativa
richiesta sia giustificata da una connessione, documentabile, con
rischi professionali.
Il documento si sofferma poi anche su altri tre gruppi di diritti:
diritti patrimoniali: sono quelli che riguardano gli aspetti economici
della retribuzione e del trattamento di fine rapporto; la retribuzione
è un diritto inscindibile dall’attività lavorativa prestata, essa deve
avvenire secondo predeterminate scadenze ed inderogabilmente e il
salario dev’essere proporzionale al lavoro svolto, sufficiente da
garantire la sussistenza al lavoratore e alla sua famiglia, e uguale
tra uomini e donne;
diritti personali che riguardano l’integrità fisica e la salute: il
datore di lavoro deve infatti garantire un ambiente sicuro e
periodicamente controllato; spettano al lavoratore periodi di riposo,
quotidiano, settimanale e festivo; è essenziale che il lavoratore sia
adibito a mansioni per le quali ha sufficienti competenze, in modo
tale che non corra rischi per inesperienza; il lvoratore ha inoltre il
diritto di conservare il proprio posto di lavoro in caso di malattia,
infortunio, servizio militare, gravidanza e puerperio; è garantita al
lavoratore l’assoluta liberà d’opinione, la possibilità di adempiere a
funzioni pubbliche, attività ricreative ed assistenziali;
diritti sindacali: ogni lavoratore può, se lo ritiene opportuno,
esercitare l’attività sindacale e parteciparvi sul luogo di lavoro;
può scioperare e affiggere in locali aziendali qualsivoglia manifesto
per lo svolgimento dell’attività sindacale; tra questi diritti rientra
certamente quello di nominare un rappresentante per la sicurezza
(RLS).
Il documento si sofferma ampiamente sulla normativa e sulle regole
relative alle elezioni dei RLS, sia con riferimento alle aziende, o
unità produttive, che occupano sino a 15 lavoratori, sia alle aziende
o unità produttive con più di 15 lavoratori. Vengono poi presentati
nel dettaglio i compiti e i diritti dei RLS.
Veniamo ora agli obblighi dei lavoratori che, in questo caso, possono
essere classificati in cinque distinti gruppi:
prestare la propria attività lavorativa: il lavoratore è tenuto ad
adempiere unicamente a quanto sia previsto nel suo contratto
individuale, mansioni extra non sono accettabili; qualora esse siano
svolte lo saranno a discrezione e scelta del lavoratore; qualora esso
si rifiuti non sono tollerabili rivalse da parte del datore di lavoro;
se esse dovessero verificarsi, il lavoratore dipendente può
tranquillamente rivolgersi alle autorità competenti; inoltre va
precisato che l’attività lavorativa può essere svolta unicamente dalla
persona intestataria del contratto, non è possibile delegare altre
persone affinché adempiano ai propri compiti; il contratto di lavoro
può avere come unico fine quello di essere suscettibile di valutazione
economica, ossia che disponga a seguito dell’attività un giusto
corrispettivo in denaro; il lavoro può essere svolto unicamente nel
luogo stabilito dal contratto, nel sito ove l’attività per sua natura
debba essere esplicata;
obbligo di diligenza: consiste in tutte le dovute accortezze che ogni
persona corretta deve far proprie; la prestazione lavorativa deve
essere per contratto adempiuta con la necessaria attenzione e
precisione; maggiori saranno le responsabilità dell’attività richiesta
dall’impresa e maggiore sarà il peso della diligenza; si pensi per
esempio a un dottore, una mancanza di attenzione compiuta da esso
causerebbe gravi danni al paziente; si comprende bene in tal caso
quanto sia importante quest’obbligo contrattuale;
obbligo d’obbedienza: consiste nel dover compiere quanto dispone il
datore di lavoro o chi ne fa le veci; è importante osservare le
direttive date ed esplicarne nel modo migliore possibile;
obbligo di fedeltà: si tratta di un dovere che si perpetua per un
tempo ragionevole anche a seguito della conclusione della dipendenza
per l’attività lavorativa; consiste sostanzialmente nel dover tenere
un comportamento leale verso il datore di lavoro e di tutelarne gli
interessi; si parla in tal caso di divieto di concorrenza ed obbligo
di riservatezza;
obblighi di sicurezza: ogni lavoratore deve prendersi cura della
propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti
sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o
omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai
mezzi forniti dal datore di lavoro; in aggiunta, è prescritto
espressamente ai lavoratori di usare correttamente, in conformità alle
istruzioni e alla formazione ricevute, i dispositivi di sicurezza,
tanto collettivi che individuali, e gli altri mezzi di protezione, di
segnalazione e di controllo; tale obbligo si estende anche all’uso di
macchinari, apparecchiature, utensili, sostanze e preparati pericolosi
al fine di evitare che una loro utilizzazione inappropriata possa
arrecare pregiudizi per la salute e la sicurezza degli altri
dipendenti e delle persone eventualmente presenti nel luogo di lavoro.
Concludiamo riportando il contenuto di una scheda di sintesi del
documento relativa agli obblighi del lavoratore con riferimento
esclusivo all’articolo 20 e 21 del D.Lgs. 81/08:
prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle
altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli
effetti delle sue azioni o omissioni, conformemente alla sua
formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro
(articolo 20, comma 1);
contribuire, insieme al datore di lavoro, ai dirigenti e ai preposti,
all’adempimento degli obblighi previsti a tutela della salute e
sicurezza sui luoghi di lavoro (articolo 20, comma 2, lettera a));
osservare le disposizioni e le istruzioni impartite dal datore di
lavoro, dai dirigenti e dai preposti, ai fini della protezione
collettiva e individuale (articolo 20, comma 2, lettera b));
utilizzare correttamente le attrezzature di lavoro, le sostanze e i
preparati pericolosi, i mezzi di trasporto, nonché i dispositivi di
sicurezza (articolo 20, comma 2, lettera c));
utilizzare in modo appropriato i dispositivi di protezione messi a
loro disposizione (articolo 20, comma 2, lettera d));
segnalare immediatamente al datore di lavoro, al dirigente o al
preposto le deficienze dei mezzi e dei dispositivi, nonché qualsiasi
eventuale condizione di pericolo di cui vengano a conoscenza,
adoperandosi direttamente, in caso di urgenza, nell’ambito delle
proprie competenze e possibilità per eliminare o ridurre le situazioni
di pericolo grave e incombente, dandone notizia al rappresentante dei
lavoratori per la sicurezza (articolo 20, comma 2, lettera e));
non rimuovere o modificare senza autorizzazione i dispositivi di
sicurezza o di segnalazione o di controllo (articolo 20, comma 2,
lettera f));
non compiere di propria iniziativa operazioni o manovre che non sono
di loro competenza ovvero che possono compromettere la sicurezza
propria o di altri lavoratori (articolo 20, comma 2, lettera g));
partecipare ai programmi di formazione e di addestramento organizzati
dal datore di lavoro (articolo 20, comma 2, lettera h));
sottoporsi ai controlli sanitari previsti dal D.Lgs. 81/08 o comunque
disposti dal medico competente (articolo 20, comma 2, lettera i));
esporre (nel caso che svolgano attività in regime di appalto o
subappalto) apposita tessera di riconoscimento, corredata di
fotografia, contenente le generalità del lavoratore e l’indicazione
del datore di lavoro; tale obbligo grava anche in capo ai lavoratori
autonomi che esercitano direttamente la propria attività nel medesimo
luogo di lavoro, i quali sono tenuti a provvedervi per proprio conto
(articolo 20, comma 3);
utilizzare attrezzature di lavoro in conformità alle disposizioni di
cui al titolo III del D.Lgs. 81/08;
per i lavoratori autonomi, munirsi di dispositivi di protezione
individuale e utilizzarli conformemente alle disposizioni di cui al
titolo III del D.Lgs. 81/08 (articolo 21, comma 1, lettera b)).
Il documento dell’Ente Bilaterale Nazionale del settore Terziario
“Datori di lavoro e lavoratori. Guida pratica agli adempimenti di
sicurezza e all’apparato sanzionatorio” è scaricabile all’indirizzo:
http://www.puntosicuro.info/documenti/documenti/131220_guida_sicurezza
_Datori_di_lavoro.pdf
——————————————LA GESTIONE DELLA SICUREZZA ANTINCENDIO SECONDO IL NUOVO CODICE
Da: PuntoSicuro
http://www.puntosicuro.it
28 gennaio 2016
Il nuovo Codice di prevenzione incendi riporta precise indicazioni
sulla gestione della sicurezza antincendio.
La prevenzione degli incendi, il registro dei controlli, il piano per
il mantenimento del livello di sicurezza e la preparazione
all’emergenza.
Alla Gestione della Sicurezza Antincendio (GSA), una misura
antincendio organizzativa e gestionale che deve garantire, nel tempo,
un adeguato livello di sicurezza dell’attività in caso di incendio, è
dedicato un capitolo del documento “Norme tecniche di prevenzione
incendi” allegato al nuovo “Codice di prevenzione Incendi”, il Decreto
del Ministero dell’Interno del 3 agosto 2015 recante “Approvazione di
norme tecniche di prevenzione incendi, ai sensi dell’articolo 15 del
decreto legislativo 8 marzo 2006, n. 139” (entrato in vigore il 18
novembre 2015).
Presentiamo quindi le indicazioni relative alla gestione della
sicurezza nell’attività in esercizio.
Dopo aver ricordato che una corretta gestione della sicurezza
antincendio durante l’esercizio dell’attività contribuisce
all’efficacia delle altre misure antincendio adottate, il Codice
indica che tale gestione della sicurezza deve prevedere almeno:
la riduzione della probabilità di insorgenza di un incendio e la
riduzione dei suoi effetti, adottando misure di prevenzione incendi,
buona pratica nell’esercizio, manutenzione, e inoltre: informazioni
per la salvaguardia degli occupanti; se si tratta di attività
lavorativa, formazione ed informazione del personale (secondo quanto
riportato nel paragrafo S.5.6.1 dell’allegato);
il controllo e manutenzione di impianti e attrezzature antincendio
(secondo quanto riportato nei paragrafi S.5.6.2, S.5.6.3 e S.5.6.4
dell’allegato);
la preparazione alla gestione dell’emergenza, tramite l’elaborazione
della pianificazione d’emergenza, esercitazioni antincendio e prove
d’evacuazione periodiche (secondo quanto riportato nel paragrafo
S.5.6.5 dell’allegato).
Inoltre in relazione alla prevenzione degli incendi, la riduzione
della probabilità di incendio deve essere svolta in funzione delle
risultanze dell’analisi del rischio incendio condotta durante la fase
progettuale.
Si riportano, a titolo esemplificativo, alcune azioni elementari per
la prevenzione degli incendi:
pulizia dei luoghi e ordine ai fini della riduzione sostanziale della
probabilità di innesco di incendi (ad esempio riduzione delle polveri,
dei materiali stoccati scorrettamente o al di fuori dei locali
deputati, ecc.) e della velocità di crescita dei focolari (ad esempio
la stessa quantità di carta correttamente archiviata in armadi
metallici riduce la velocità di propagazione dell’incendio);
verifica della disponibilità di vie d’esodo sgombre e sicuramente
fruibili;
verifica della corretta chiusura delle porte tagliafuoco nei varchi
tra compartimenti;
riduzione degli inneschi (una nota nel documento indica che siano
identificate e controllate le potenziali sorgenti di innesco, quali ad
esempio uso di fiamme libere non autorizzato, fumo in aree ove sia
vietato, apparecchiature elettriche malfunzionanti o impropriamente
impiegate, ecc.);
riduzione del carico di incendio (una nota ricorda che le conseguenze
di un eventuale incendio possono essere ridotte limitando le quantità
di materiali combustibili presenti nell’attività al minimo
indispensabile per l’esercizio);
sostituzione di materiali combustibili con velocità di propagazione
dell’incendio rapida, con altri con velocità d’incendio più lenta (una
nota segnala che a parità di qualità dei fumi prodotti, ciò consente
di allungare il tempo disponibile per l’esodo degli occupanti;
controllo e manutenzione regolare dei sistemi, dispositivi,
attrezzature e degli impianti rilevanti ai fini antincendi;
contrasto degli incendi dolosi, migliorando il controllo degli accessi
e la sorveglianza, senza che ciò possa limitare la disponibilità del
sistema d’esodo;
gestione dei lavori di manutenzione; il rischio d’incendio aumenta
notevolmente quando si effettuano lavori di manutenzione ordinaria e
straordinaria, in quanto possono essere: condotte operazioni
pericolose (ad esempio lavori a caldo), temporaneamente disattivati
impianti di sicurezza, temporaneamente sospesa la continuità di
compartimentazione, impiegate sostanze o miscele pericolose (ad
esempio solventi, colle, ecc.): tali sorgenti di rischio aggiuntive,
generalmente non considerate nella progettazione antincendio iniziale,
devono essere specificamente affrontate (ad esempio se previsto nel
DUVRI di cui al D.Lgs. 81/08);
in attività lavorative, formazione e informazione del personale ai
rischi specifici dell’attività, secondo la normativa vigente;
mantenimento delle vie d’esodo delle attività sgombre e sicuramente
fruibili.
Veniamo ora a quanto indicato relativamente al registro dei controlli.
Secondo il nuovo Codice ove previsto dalla soluzione progettuale
individuata, il responsabile dell’attività deve predisporre, con le
modalità previste dalla normativa vigente, un registro dei controlli
periodici dove siano annotati:
i controlli, le verifiche, gli interventi di manutenzione su sistemi,
dispositivi, attrezzature e le altre misure antincendio adottate;
le attività di informazione, formazione e addestramento, ai sensi
della normativa vigente per le attività lavorative;
le prove di evacuazione.
Questo registro deve essere mantenuto costantemente aggiornato e
disponibile per i controllo da parte degli organi di vigilanza.
Sono fornite anche indicazioni sul piano per il mantenimento del
livello di sicurezza antincendio.
Si indica che ove previsto dalla soluzione progettuale individuata, il
responsabile dell’attività deve curare la predisposizione di un piano
finalizzato al mantenimento delle condizioni di sicurezza, al rispetto
dei divieti, delle limitazioni e delle condizioni di esercizio. E
sulla base del profilo di rischio dell’attività e delle risultanze
della progettazione, il piano deve prevedere:
le attività di controllo per prevenire gli incendi secondo le
disposizioni vigenti;
la programmazione dell’attività di informazione, formazione e
addestramento del personale addetto alla struttura, comprese le
esercitazioni all’uso dei mezzi antincendio e di evacuazione in caso
di emergenza, tenendo conto dello specifico profilo di rischio
dell’attività;
la specifica informazione agli occupanti;
i controlli delle vie di esodo, per garantirne la fruibilità, e della
segnaletica di sicurezza;
la programmazione della manutenzione, secondo le disposizioni vigenti,
dei sistemi e impianti ed attrezzature antincendio;
la pianificazione della turnazione degli addetti antincendio in
maniera tale da garantire l’attuazione del piano di emergenza in ogni
momento.
Si ricorda poi che il controllo e la manutenzione degli impianti e
delle attrezzature antincendio devono essere effettuati nel rispetto
delle disposizioni legislative e regolamentari vigenti, secondo la
regola dell’arte in accordo alle norme e documenti tecnici pertinenti
e al manuale di uso e manutenzione dell’impianto e dell’attrezzatura.
E il manuale di uso e manutenzione dell’impianto e delle attrezzature
antincendio è predisposto secondo la vigente normativa ed è fornito al
responsabile dell’attività.
Si ricorda, a questo proposito, che la manutenzione sugli impianti e
sulle attrezzature antincendio è svolta da personale esperto in
materia, sulla base della regola dell’arte, che garantisce la corretta
esecuzione delle operazioni svolte.
Infine si affronta il tema delle emergenze.
In particolare la preparazione all’emergenza, nell’ambito della
gestione della sicurezza antincendio, si esplica tramite:
pianificazione delle procedure da eseguire in caso d’emergenza, in
risposta agli scenari incidentali ipotizzati;
nelle attività lavorative con la formazione e addestramento periodico
del personale all’attuazione del piano d’emergenza, prove di
evacuazione; la frequenza delle prove di attuazione del piano di
emergenza deve tenere conto della complessità dell’attività e
dell’eventuale sostituzione del personale impiegato.
Il Decreto del Ministero dell’Interno 3 agosto 2015 “Approvazione di
norme tecniche di prevenzione incendi, ai sensi dell’articolo 15 del
Decreto Legislativo 8 marzo 2006, n. 139” è scaricabile all’indirizzo:
http://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2015/08/20/15A06189/sg
——————————————ABROGAZIONE DEL REGISTRO INFORTUNI: RAGIONIAMOCI
Da: PuntoSicuro
http://www.puntosicuro.it
02 febbraio 2016
di Pietro Ferrari
Commissione salute e sicurezza sul lavoro CGIL FILCAMS-Brescia
Il registro era uno strumento fondamentale di verifica sull’efficacia
della politica aziendale di prevenzione. Come sostituirlo?
Il D.Lgs. 151/15, l’ultimo dei quattro Decreti attuativi del Jobs Act
(cosiddetto “Decreto semplificazione”), col suo articolo 21, comma 4,
ha abrogato il registro degli infortuni:
“A decorrere dal novantesimo giorno successivo alla data di entrata in
vigore del presente Decreto, è abolito l’obbligo di tenuta del
registro infortuni”.
Il Decreto, del 14 settembre 2015, è stato pubblicato in Gazzetta
Ufficiale n.221 del 23 settembre; l’abrogazione dell’obbligo è perciò
operante dal 23 dicembre 2015.
La storia dell’istituto, da ripercorrere qui brevemente, è abbastanza
nota.
Esso è posto per la prima volta con l’articolo 403 del D.P.R. 547/55
(“Norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro”):
“Le aziende soggette al presente Decreto devono tenere un registro,
nel quale siano annotati cronologicamente tutti gli infortuni occorsi
ai lavoratori dipendenti, che comportino una assenza dal lavoro
superiore ai tre giorni compreso quello dell’evento.
Su detto registro, che deve essere conforme al modello stabilito con
decreto del Ministro per il lavoro e la previdenza sociale, sentita la
Commissione di cui all’articolo 393, devono essere indicati oltre al
nome, cognome e qualifica professionale dell’infortunato, la causa e
le circostanze dell’infortunio, nonché la data di abbandono e di
ripresa del lavoro.
Il registro infortuni deve essere tenuto a disposizione degli
Ispettori del lavoro sul luogo di lavoro”.
Successivamente, l’articolo 4, comma 5, lettera o) del D.Lgs. 626/94
confermerà l’obbligo; pur all’interno della problematica titolazione
che poneva tale obbligo in capo anche al dirigente e al preposto:
“Il datore di lavoro, il dirigente e il preposto che esercitano,
dirigono o sovraintendono le attività indicate all’articolo 1,
nell’ambito delle rispettive attribuzioni e competenze, adottano le
misure necessarie per la sicurezza e la salute dei lavoratori ed in
particolare […] tengono un registro nel quale sono annotati
cronologicamente gli infortuni sul lavoro che comportano un’assenza
dal lavoro superiore a tre giorni, compreso quello dell’evento […]”.
L’incongruenza verrà superata con l’articolo 3, comma 5, del D.Lgs.
242/96 (“Modifiche ed integrazioni al Decreto Legislativo 19 settembre
1994, n. 626, recante attuazione di direttive comunitarie riguardanti
il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori sul
luogo di lavoro”):
“L’articolo 4 del Decreto Legislativo n. 626/1994, è sostituito dal
seguente:
Il datore di lavoro adotta le misure necessarie per la sicurezza e la
salute dei lavoratori, e in particolare […] tiene un registro nel
quale sono annotati cronologicamente gli infortuni sul lavoro che
comportano un’assenza dal lavoro di almeno un giorno […]”.
Frattanto la sanzione, di natura penale nel D.P.R. 547/55 (reato
contravvenzionale, punito secondo l’articolo 389, lettera c), con
l’ammenda da lire 59.000 a lire 100.000) era stata trasformata in
illecito amministrativo dal D.Lgs. 626/94.
Il D.Lgs. 626 esce il 19 settembre 1994 (in Gazzetta Ufficiale n.265
del 12 novembre). Non passano tre mesi e, con mirabilia coordinatoria
non estranea al nostro legislatore, il D.Lgs. 758/94 del 19 dicembre
1994 (“Modificazioni alla disciplina sanzionatoria in materia di
lavoro”; in Gazzetta Ufficiale n.21 del 26 gennaio 1995) interviene a
stabilire che:
“Il primo comma dell’articolo 389 [Contravvenzioni commesse dai datori
di lavoro e dai dirigenti] del Decreto del Presidente della Repubblica
27 aprile 1955, n. 547, è così modificato:
c) nella lettera c) [che interessava anche l’articolo 403, ovvero la
tenuta del registro degli infortuni], le parole: ‘con l’ammenda da
lire 250.000 a lire 500.000’ sono sostituite con le seguenti: ‘con
l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda da lire cinquecentomila a
lire due milioni’”.
Da allora trascorrono una quindicina di mesi prima che il sopra citato
D.Lgs. 242/96, nell’allargare l’obbligo di registrazione agli
“infortuni sul lavoro che comportano un’assenza dal lavoro di almeno
un giorno.”, ri-confermi tranquillamente la sanzione (sanzione
amministrativa pecuniaria da lire un milione a lire sei milioni)
stabilita nel D.Lgs. 626/94, all’articolo 89 (“Contravvenzioni
commesse dai datori di lavoro e dai dirigenti”).
Il D.Lgs. 81/08, all’articolo 18 (Obblighi del datore di lavoro e del
dirigente), comma 1, lettera r), mantiene implicitamente l’obbligo del
Registro infortuni, riconoscendone al comma 1-bis la natura
transitoria:
“L’obbligo [nuovo] di cui alla lettera r) del comma 1, relativo alla
comunicazione a fini statistici e informativi dei dati relativi agli
infortuni che comportano l’assenza dal lavoro di almeno un giorno,
escluso quello dell’evento, decorre dalla scadenza del termine di sei
mesi dall’adozione del Decreto di cui all’articolo 8, comma 4.
[istituzione del SINP]”.
Dove l’articolo 8 (Sistema informativo nazionale per la prevenzione
nei luoghi di lavoro) specifica che:
“E’ istituito il Sistema informativo nazionale per la prevenzione
(SINP) nei luoghi di lavoro […].
Con decreto del Ministro del lavoro, […] da adottarsi entro 180 giorni
dalla data dell’entrata in vigore del presente Decreto Legislativo,
vengono definite le regole tecniche per la realizzazione ed il
funzionamento del SINP, nonché le regole per il trattamento dei dati
[…]”.
Ne conferma invece l’attualità insieme alla natura transitoria
l’articolo 53, comma 6:
“Fino ai sei mesi successivi all’adozione del Decreto
interministeriale di cui all’articolo 8 comma 4, [SINP] del presente
Decreto restano in vigore le disposizioni relative al registro
infortuni”.
Con l’articolo 55 (Sanzioni per il datore di lavoro e il dirigente),
comma 5, il D.Lgs. 81/08 torna ad applicare la sanzione
amministrativa.
Avendo stabilito i diversi fini della comunicazione (statistico quello
relativo all’assenza per almeno un giorno, escluso quello dell’evento;
assicurativo quello relativo “agli infortuni sul lavoro che comportino
un’assenza al lavoro superiore a tre giorni”), applica le diverse
sanzioni:
“Il datore di lavoro e il dirigente sono puniti:
[…];
con la sanzione amministrativa pecuniaria da 1.096,00 a 4.932,00 euro
per la violazione dell’articolo 18, comma 1, lettere r), con
riferimento agli infortuni superiori ai tre giorni […];
h) con la sanzione amministrativa pecuniaria da 548,00 a 1.972.80 euro
per la violazione dell’articolo 18, comma 1, lettera r), con
riferimento agli infortuni superiori ad un giorno […]”.
A quasi otto anni di distanza, il SINP non è ancora stato costituito,
anche se operativamente già sono attivi una serie di canali
intercomunicativi che esso doveva assicurare.
Ricordiamo che, ai sensi dell’articolo 8 del D.Lgs. 81/08, il SINP
doveva essere istituito “al fine di fornire dati utili per orientare,
programmare, pianificare e valutare l’efficacia della attività di
prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali […] e per
indirizzare le attività di vigilanza, attraverso l’utilizzo integrato
delle informazioni disponibili negli attuali sistemi informativi,
anche tramite l’integrazione di specifici archivi e la creazione di
banche dati unificate”.
A conclusione di questo rapido excursus, e di specifica importanza al
prosieguo del ragionamento, va ricordato che il D.Lgs. 626/94
stabiliva esplicitamente all’articolo 19 (Attribuzioni del
rappresentante per la sicurezza), comma 5, il diritto del RLS alla
consultazione del registro:
“Il rappresentante per la sicurezza ha accesso, per l’espletamento
della sua funzione, al documento di cui all’articolo 4, commi 2 e 3,
nonché al registro degli infortuni sul lavoro”.
E al comma 1, lettera e) del medesimo articolo, stabiliva che il RLS
“riceve le informazioni e la documentazione aziendale inerente la
valutazione dei rischi e le misure di prevenzione relative, nonché
quelle inerenti le sostanze e i preparati pericolosi, le macchine, gli
impianti, l’organizzazione e gli ambienti di lavoro, gli infortuni e
le malattie professionali”.
La legge di delega, Legge 3 agosto 2007, n. 123 (“Misure in tema di
tutela della salute e della sicurezza sul lavoro e delega al Governo
per il riassetto e la riforma della normativa in materia”), articolo
3, comma 1, lettera e), deciderà addirittura l’obbligo di consegna del
registro infortuni al RLS:
“Al Decreto Legislativo 19 settembre 1994, n. 626, e successive
modificazioni, sono apportate le seguenti modifiche:
e) all’articolo 19, il comma 5 è sostituito dal seguente:
‘5. Il datore di lavoro è tenuto a consegnare al rappresentante per la
sicurezza, su richiesta di questi e per l’espletamento della sua
funzione, copia del documento di cui all’articolo 4, commi 2 e 3,
nonché del registro degli infortuni sul lavoro di cui all’articolo 4,
comma 5, lettera o)’”.
Con l’attuazione della delega da parte del D.Lgs. 81/08, abbiamo
visto, l’istituto assume carattere transitorio, in attesa della
costituzione del SINP. Eppure il legislatore del 2008/2009 si pone il
problema del diritto di accesso al registro da parte del RLS, e lo
risolve con l’articolo 18, comma 1, lettera o): “[…] consentire al
medesimo rappresentante di accedere ai dati di cui alla lettera r)
[…]”, cioè ai dati relativi agli infortuni sul lavoro oggetto della
trasmissione in via telematica all’INAIL.
Esso inoltre, nell’articolo 50 (Attribuzioni del rappresentante dei
lavoratori per la sicurezza), comma 1, lettera e), pone la medesima
disposizione del D.Lgs. 626/94626/94: “[…] riceve le informazioni e la
documentazione aziendale inerente […] agli infortuni”.
Entrando ora nel vivo della problematica, pare evidente la “prova
muscolare” dell’attuale legislatore, anche nella formulazione secca
dell’articolo 21, comma 4, del cosiddetto “Decreto semplificazione”.
Tuttavia, un approccio basato su ragionevolezza dovrà riconoscere che
le derivazioni da tale norma potranno avere ricadute positive, ad
esempio nella pratica degli Organi di vigilanza.
Ciò che invece pare non esser stato considerato (ed è precisamente il
compito che si era posto il legislatore delegante del 2007) è che la
consultazione del registro degli infortuni rappresenta parte
essenziale della “cassetta degli attrezzi” del RLS. Rappresenta cioè
uno strumento fondamentale di verifica sull’efficacia della politica
aziendale di prevenzione.
Suonano perciò poco comprensibili, e paiono non proprio lungimiranti,
certi giubili immediatamente successivi all’emanazione del
provvedimento e relativi alla soppressione di “un adempimento da più
parti ritenuto ormai inutile”.
Seguiti, nella logica del “niente prigionieri”, da considerazioni del
tipo: poiché il D.P.R. 547/55, il D.Lgs. 626/94 e lo stesso D.Lgs.
81/08 fanno riferimento all’obbligo di “tenere” il registro degli
infortuni, dovrà conseguire che il datore di lavoro sia sollevato
dall’obbligo non solo, dopo il 23 dicembre 2015, di istituirlo ma
anche di conservarlo, di mantenerlo in quanto “storico” degli eventi
accaduti prima dell’abrogazione.
Fortunatamente, a fare un po’ di chiarezza è intervenuta la Circolare
INAIL n. 92 del 23 dicembre 2015. INAIL che, non scordiamo, ai sensi
dell’articolo 8, comma 3 del D.Lgs. 81/08, è il deputato gestore del
SINP (e gestore in atto delle parti, di quello, già concretamente
operative).
Detta Circolare afferma esplicitamente: “Resta inteso che gli
infortuni avvenuti in data precedente a quella del 23 dicembre 2015
saranno consultabili nel registro infortuni abolito dalla norma in
esame”.
L’INAIL ha poi tamponato il vuoto regolamentare, rendendo
telematicamente disponibile un “cruscotto infortuni” “nel quale sarà
possibile consultare gli infortuni occorsi a partire dal 23 dicembre
2015”. In tal senso l’INAIL ha predisposto un “Manuale utente” per
l’accesso e la ricerca al/nel servizio informatico dell’Istituto.
L’obbligo di conservazione del registro infortuni vale per quattro
anni a decorrere dall’ultima registrazione o, se non si sono
verificati infortuni, dalla data di vidimazione (oppure di
istituzione, in quelle Regioni che avevano già eliminato l’obbligo di
vidimazione).
Ovviamente, con l’abrogazione del registro infortuni nulla cambia
rispetto all’obbligo del datore di lavoro di denunciare all’INAIL gli
infortuni occorsi ai dipendenti prestatori d’opera, come previsto
dall’articolo 53 del D.P.R. 1124/65 (Testo unico delle disposizioni
per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le
malattie professionali), modificato dal D.Lgs. 151/15 articolo 21
comma 1, lettera b).
Peraltro, come richiama il D.Lgs. 81/09 all’articolo 18, comma 1,
lettera r) seconda parte: “l’obbligo di comunicazione degli infortuni
sul lavoro che comportino un’assenza dal lavoro superiore a tre giorni
si considera comunque assolto per mezzo della denuncia di cui
all’articolo 53 del Testo Unico delle disposizioni per l’assicurazione
obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie
professionali, di cui al Decreto del Presidente della Repubblica 30
giugno 1965, n. 1124;”
Tale articolo, come modificato dal D.Lgs. 151/15, dispone che
“Il datore di lavoro è tenuto a denunciare all’Istituto assicuratore
gli infortuni da cui siano colpiti i dipendenti prestatori d’opera, e
che siano prognosticati non guaribili entro tre giorni […].
La denuncia dell’infortunio deve essere fatta entro due giorni da
quello in cui il datore di lavoro ne ha avuto notizia e deve essere
corredata dei riferimenti al certificato medico già trasmesso
all’Istituto assicuratore per via telematica direttamente dal medico o
dalla struttura sanitaria competente al rilascio”.
Il “cruscotto infortuni” INAIL sarà accessibile solamente da:
ispettori delle ASL;
ispettori dell’INAIL;
ispettorato nazionale del lavoro c/o le DTL (Direzioni Territoriali
del Lavoro).
Ciò potrà certo concorrere, come accennato, al miglioramento
dell’attività ispettiva e consulenziale, significativamente
depauperata nel corso degli anni.
Ciò che qui si rileva è che anche in questo caso il RLS viene privato
di uno strumento necessario alla verifica e proposizione che la legge
espressamente gli assegna: “riceve le informazioni e la documentazione
aziendale inerente […] agli infortuni […]”, “promuove l’elaborazione,
l’individuazione e l’attuazione delle misure di prevenzione idonee a
tutelare la salute e l’integrità fisica dei lavoratori” (articolo 50,
comma 1, lettere e) e h) del D.Lgs. 81/08).
Sotto questa luce, la norma in esame si pone senza dubbio in conflitto
con le previsioni del D.Lgs. 81/08. Segnatamente, con quelle appena
indicate dell’articolo 50 e insieme con l’obbligo di consentire al RLS
l’accesso ai dati infortunistici, stabilito dall’articolo 18, comma 1,
lettera o) seconda parte (vedi sopra).
E’ evidente la necessità di un intervento riequilibratore.
In tal senso, una proposta molto interessante viene da Gino Rubini di
“Diario per la prevenzione”.
Scrive Rubini:
“L’atto del Governo sarebbe stato positivo e utile se, in consonanza
con l’abrogazione del Registro cartaceo avesse incaricato INAIL di
predisporre una piattaforma più evoluta rispetto all’improvvisato
‘cruscotto’, con programmi di software gestionali adatti a monitorare
il fenomeno e a elaborare ‘profili aziendali di rischio’, usando i
dati provenienti dalle notifiche.
La ‘semplificazione’ sarebbe stata per davvero un passo avanti nella
modernizzazione della gestione dei dati per porre sotto governo il
fenomeno infortunistico.
Si può ancora rimediare?
Si, se verrà affidato ad INAIL il compito di predisporre un sistema
esperto con il quale i dati delle notifiche vengono elaborati e
restituiti in automatico alle aziende, che debbono renderli
disponibili anche ai RLS. In questo senso avremmo una vera innovazione
che semplifica il lavoro delle aziende senza deprivare della
conoscenza dei dati i RLS e i lavoratori interessati”.
Sarebbe comunque necessario, e urgente, almeno un chiarimento
ministeriale.
L’articolo SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.243
DEL 12/02/16 sembra essere il primo su Medicina Democratica.
La spiritualità per la pace
Lo spettro di una terza guerra mondiale, le crisi
ecnomiche ed ecologiche, e lo “scontro di religioni”.
Lucio Sibilia e Stefania Borgo, nel capitolo a loro
cura del libro “Spiritualità, benessere e pratiche
meditative” (Becciu M., Borgo S., Colasanti A.R.,
Sibilia L. Roma: F. Angeli, 2015), spiegano la visione
di ISDE sul cosiddetto “scontro di civiltà” a cui
stiamo assistendo in questo momento storico.
Leggi il capitolo.
L’articolo La spiritualità per la pace sembra essere il primo su ISDE.
Emergenza Aria: sono efficaci le limitazioni di traffico?
In occasione delle ricorrenti condizioni di “Emergenza
Aria” si propone costantemente la convinzione circa la
sostanziale inutilità delle misure di limitazione del
traffico. In realtà le conoscenze disponibili
dimostrano il contrario. Per questo viene organizzato
dalla Sezione ISDE di Brescia il seminario di
approfondimento “Emergenza Aria: sono efficaci le
limitazioni di traffico?” per il 17 Febbraio 2016.
Scarica la locandina
L’articolo Emergenza Aria: sono efficaci le limitazioni di traffico?
sembra essere il primo su ISDE.