VOLTAIRE Francois – Marie Arouet (1694-1778

Transcript

VOLTAIRE Francois – Marie Arouet (1694-1778
VOLTAIRE
Francois – Marie Arouet (1694-1778), meglio conosciuto con lo pseudonimo di Voltaire, è
sicuramente uno tra gli illuministi più famosi. Filosofo, storico, drammaturgo, polemista
straordinario, incarna alla perfezione l’ideale del philosophe, intellettuale che non è più
portatore di una cultura astratta, ma soprattutto di ideali etici e civili e di una coscienza
critica della realtà. Personalità colta e brillante, figlio di un notaio parigino (e dunque, di
estrazione borghese), egli seppe intrecciare tutta una rete di conoscenze negli ambienti
colti dell’intera Europa e propagandare efficacemente la cultura dei Lumi.
Trascorse in gioventù tre anni in Inghilterra e manifestò il suo entusiasmo per il sistema
britannico nelle Lettere filosofiche o inglesi, pubblicate nel 1734: oltre ad una cultura che è
interessata a conoscere i fenomeni e ha nell’esperienza una pietra di paragone, sulla
falsariga di Locke e Newton (contro l’astratta e sterile metafisica di derivazione
cartesiana), Voltaire esalta l’Inghilterra perché è il luogo della libertà di pensiero e del
pluralismo. “Entrate nella Borsa di Londra, quel luogo più rispettabile di tante corti; vi
troverete riuniti i deputati di tutte le nazioni per l’utilità degli uomini. Là l’ebreo, il
maomettano, il cristiano negoziano fra loro come se fossero della medesima religione, e
chiamano ‘infedeli’ soltanto coloro che fanno bancarotta (…). Se ci fosse in Inghilterra una
sola religione ci sarebbe da temere il dispotismo; se ve ne fossero due, si taglierebbero la
gola; ma ve n’è una trentina, e vivono contente e in pace”. Tale condizione, ideale per lo
sviluppo di una civiltà moderna, contrasta secondo il filosofo con il contesto francese,
viceversa intessuto di privilegi, intolleranza religiosa, conflitti tra potere centrale e vecchie
autonomie feudali che paralizzano la vita dello stato. Da questo punto di vista, Voltaire
criticherà sempre i corpi intermedi francesi, in particolare quei parlamenti che gli parevano
il covo autentico di privilegi anacronistici ed impedivano una seria riforma strutturale del
sistema francese. Montesquieu, invece, vede in essi un’istituzione positiva, in quanto
costituiscono un ostacolo all’imperversare di quell’assolutismo che per il teorico del
costituzionalismo incarna la radice di tutti i mali possibili.
Tuttavia, sebbene fosse un ammiratore del sistema inglese, Voltaire non crede possibile
l’esportazione in Francia della monarchia parlamentare, proprio in virtù della diversa storia
del suo popolo: a renderlo impossibile è l’ostinato permanere di quei privilegi e immunità ,
cui accennavamo sopra. Pertanto, l’unico sistema in grado di scardinarli è un
assolutismo illuminato, in cui ad essere centrale è la figura di un despota, che governi in
modo assoluto, imbevuto però dei capisaldi della cultura illuministica, in grado di riformare
profondamente la società del tempo. “Tutto per il popolo, niente attraverso il popolo”: per
Voltaire e per i sovrani illuminati il cambiamento deve venire dall’alto, senza il
coinvolgimento delle masse popolari, secondo una concezione decisamente elitaria della
politica. Non è un caso che, nel corso della sua lunga e movimentata vita, egli abbia
vissuto intorno alla metà del ‘700 alla corte di Federico II il Grande, re di Prussia, come
suo amico e consigliere (salvo poi lasciare Berlino per la più tranquilla Ginevra, essendosi
reso conto che la libertà degli intellettuali sotto un governo simile risultava fortemente
limitata). Proprio nel 1751 Voltaire pubblica a Berlino un’importante opera storica,
dedicata al Re Sole: Il secolo di Luigi XIV. Se in un testo dello stesso anno il polemista
francese aveva esaltato la figura di Pietro il Grande, perché era stato in grado di
modernizzare la Russia, sottoponendo al suo potere la Chiesa ortodossa, viceversa non è
altrettanto tenero nei confronti del suo vecchio sovrano: Luigi XIV è criticato sia per aver
precipitato la Francia sull’orlo della bancarotta, con innumerevoli guerre che ne avevano
dissestato le finanze, sia per l’abolizione dell’Editto di Nantes, in netta antitesi con la sua
concezione della tolleranza religiosa. Degno di nota il fatto che Voltaire non si occupa nel
1
suo libro solo di una storia politico – militare, ma anche di economia, cultura e società,
anticipando, fatti i dovuti paragoni, quanto la scuola di Les Annales farà nel XX secolo.
Del 1753 è la stesura del Dizionario filosofico (sebbene esso sia stato pubblicato solo nel
1765), in cui egli consolida il concetto di Deismo, con cui aveva iniziato a prendere
confidenza sin dagli anni trascorsi in Inghilterra. Questa concezione filosofica si sviluppò
infatti oltre Manica e fu poi fatta propria dalla cultura francese, che ne esasperò i contenuti
polemici in chiave anticristiana: già anticipato da Newton e Locke, esso ebbe in Toland e
Hume due tra i suoi principali interpreti. Secondo i deisti (e lo stesso Voltaire), le religioni
positive (cioè, storicamente determinate) conducono al fanatismo (l’esasperazione del
sentimento religioso): infatti, ogni religione storica crede di detenere la verità, perché
questa è stata rivelata da Dio agli uomini. Voltaire propugna invece una concezione laica:
siccome la ragione non può conoscere la verità assoluta, allora teoricamente il mio
avversario potrebbe avere anche ragione rispetto alla mia posizione e le sue idee sono
perciò degne di rispetto quanto le mie. L’unica religione possibile è quindi quella naturale
(che è sinonimo di razionale): i suoi aspetti principali sono quelli che non contraddicono la
pura razionalità: un Dio architetto del mondo, che lo crea e gli dà ordine, l’aldilà come
luogo di beatitudine, l’immortalità dell’anima. Sono questi gli attributi accettabili dal lume
della ragione universale, che tutti gli uomini sono in grado di usare. Compito della ragione
e dunque della religione naturale è passare al vaglio le varie religioni positive, esaminarle
accuratamente e rifiutare di esse tutto quanto la ragione non è in grado di concepire: molti
contenuti biblici, ad esempio, andranno interpretati in modo allegorico, visto che prenderli
alla lettera condurrebbe all’assurdità. Tutto quanto la ragione non può accettare è
superstizione, in primo luogo i miracoli, che vanno rifiutati: Dio, supremo architetto del
cosmo, non avrebbe mai potuto violare quelle leggi da lui stesso fondate e infuse nella
grande macchina dell’Universo. Una natura, pertanto, vista in senso meccanicistico,
concepita cioè solo sulla base di cause efficienti: l’unico fine del cosmo è l’ordine e
l’armonia interna che l’Architetto supremo ha determinato in esso. Se non occorre una
Rivelazione per credere in Dio, il fatto che egli esiste “è la cosa più verosimile che gli
uomini possono pensare”, mentre l’affermazione contraria “una delle più assurde”: i Deisti
rigettano così altrettanto aspramente l’ateismo filosofico. La posizione di Voltaire è, come
quella degli altri deisti prima di lui, assai ottimistica: l’armonia che possiamo ravvisare
nell’Universo è il prodotto di una Mente intelligente, come ottimistica è la possibilità del
progresso morale e civile degli uomini.
Tuttavia, nel 1755 accade qualcosa che mette in crisi le certezze e l’ottimismo volteriano,
così come di molti intellettuali del tempo: lo spaventoso terremoto che rade al suolo
Lisbona, con decine di migliaia di morti. Le violente scosse innalzarono le acque del fiume
Tago, che inondarono la città. L’anno successivo, il filosofo francese pubblica il Poema sul
disastro di Lisbona, che incontrò subito un notevole successo. Esso proclama la morte
dell’ottimismo e porta Voltaire a sentenziare: “Bisogna confessarlo, il male è sulla terra”.
Tale frase è lo specchio di una crisi intellettuale ed esistenziale, dove il male è connaturato
al mondo e l’uomo è vittima dello strapotere di una natura che lo sovrasta. Egli ebbe
parole sarcastiche nei confronti di Leibniz, che aveva definito questo “il migliore dei mondi
possibili”. La ragione, secondo Voltaire, è impotente a capire questo evento così
tremendo, non potendo rintracciare in esso nessun segno della Provvidenza: Dio non può
volere il male (essere cioè malvagio), né può essere impotente di fronte ad esso, se no
non sarebbe Dio. Allora, se Egli vuole e può, perché non interviene? La ragione non è in
grado di fornire risposte. Rousseau, a cui Voltaire aveva inviato una copia dell’opera, non
condivise le tesi del filosofo francese, destando l’irritazione e lo sconcerto di quest’ultimo: il
ginevrino ricondusse alle responsabilità umane la causa della tragedia: se ventimila case
di sei o sette piani non fossero state costruite, e se gli abitanti fossero stati distribuiti più
equamente sul territorio, il disastro sarebbe stato molto meno violento, o forse non ci
2
sarebbe stato affatto. La prospettiva di Rousseau è molto più concreta e ‘sociale’ e molto
meno filosofica, pur minimizzando forse eccessivamente la portata di una tragedia non
interamente imputabile al volere umano. Nel 1759 Voltaire scrisse un piccolo romanzo,
Candido, nel quale il protagonista paragona gli uomini a topi nella stiva di una nave: essi
non sanno perché parte il vascello e dove sia diretto, il che sta a testimoniare l’incapacità
umana di cogliere il senso complessivo dell’esistenza. Tra un dolore e l’altro l’uomo deve
dunque dedicarsi alle piccole gioie della vita, tralasciando i discorsi astratti che non hanno
soluzione.
L’ultimo aspetto della filosofia di Voltaire di cui ci dobbiamo occupare è la tolleranza. Il
Trattato sulla tolleranza è del 1763. Sorto in ambito religioso nel XVI secolo, nel contesto
del dibattito successivo allo sviluppo della Riforma protestante, tale concetto si amplia
prima con Locke e poi con lo stesso Voltaire, fino a coinvolgere non solo la religiosità, ma
più in generale mentalità ed atteggiamenti tipici delle comunità umane. “Detesto la tua
opinione, ma mi batterò fino alla morte per difenderla”: con queste parole il filosofo
francese vuol dire che, pur non essendo d’accordo con una determinata concezione, la
posizione coerentemente tollerante deve battersi per far sì che idee diverse dalle proprie
possano venir professate, in nome di un pluralismo e di un rispetto per l’altro, che Voltaire
aveva lodato già nelle Lettere inglesi. Sappiamo che, anche con Locke, la base di
partenza di tale discorso è laico e fortemente critico: la consapevolezza di non poter in
alcun modo detenere la verità (e dunque la relatività delle certezze umane) conduce al
rispetto dell’avversario, che può rivendicare, sul piano teorico, la mia stessa percentuale di
ragioni. Nel 1762 Voltaire, a testimonianza del ruolo di guida della coscienza collettiva da
parte dei philosophes, condusse una battaglia che fece scalpore all’epoca, in relazione al
cosiddetto caso Calas: Jean Calas era un protestante francese che, dopo orribili torture,
fu ritenuto colpevole dal tribunale (o parlamento) di Tolosa e di conseguenza giustiziato,
per aver impiccato il figlio che intendeva convertirsi al cattolicesimo. Gli “assassini in toga
nera”, come li chiamò Voltaire, in realtà avevano agito non sulla base di prove ma di
pregiudizi religiosi. Il filosofo iniziò una sferzante campagna polemica che mobilitò
l’opinione pubblica del tempo e che condusse alla revisione del processo e alla
riabilitazione di Calas: fu infatti dimostrato che il figlio si era suicidato senza alcuna
responsabilità da parte paterna e la vedova risarcita finanziariamente. Un caso
significativo, dunque, che vide protagonista Voltaire, il cui avversario in questa vicenda era
proprio il fanatismo cattolico, da lui definito ‘l’infame’ (Ecrazes l’Infame, schiacciate
l’infame, fu infatti il motto di Voltaire in questa battaglia.
Pertanto, sebbene assoluto, lo Stato deve farsi garante dei diritti individuali, in nome
dell’illuminismo. Tuttavia, anche un campione della tolleranza come lui è figlio del proprio
tempo. Noi abbiamo parlato qualche lezione fa dei limiti della tolleranza lockiana; è il caso
di farlo anche a proposito di Voltaire. Infatti, ci sono aspetti della sua concezione poco
conosciuti: egli condivise nei confronti dei neri un diffuso pregiudizio del tempo (purtroppo
vivo ancora oggi), sostenendo che essi si riproducevano come le scimmie. Essendo
perlopiù esseri semianimaleschi, potevano senza alcuno scrupolo venir trasportati come
schiavi in America e venduti. Gli stessi ebrei furono definiti “ popolo barbaro e crudele”, non
mostrò la minima comprensione verso le usanze giudaiche, definendole un insieme di
sciocche superstizioni. Li accusò infine di essere avidi e cinici finanzieri, affermando
addirittura: “E in effetti perché gli ebrei non avrebbero dovuto essere antropofagi?
Sarebbe stata la sola cosa a mancare al popolo di dio per farne il più abominevole tra i
popoli della terra.” Un grande intellettuale, dunque, con contraddizioni significative, che
vanno collocate in un contesto storico culturale non ancora liberatosi di pregiudizi
secolari.
In linea di massima, il razzismo e l’antisemitismo, che nel corso dell’800 trovarono piena
maturazione, non incontrarono nell’illuminismo un freno adeguato; va peraltro ricordato
3
come un altro significativo intellettuale illuminista, Guillame – Thomas – Francois Raynal,
abbia criticato aspramente l’istituto della schiavitù e la tratta degli schiavi neri.
MONTESQUIEU
Charles – Louis de Secondat, barone di Montesquieu (1689-1755), ritiene che una giusta
organizzazione politica debba garantire le libertà e impedire il dispotismo. A tal riguardo,
egli ha una visione dei parlamenti diversa da quella di Voltaire, così come decisamente
differente è la sua concezione politica, a riprova che l’illuminismo non è certamente un
blocco omogeneo. Secondo lui, i parlamenti sono qualcosa di positivo, in quanto argine
nei confronti del problema principale, l’assolutismo regio. Ne Lo spirito delle leggi (1748),
sostiene che il potere del monarca deve essere limitato da leggi e organismi costituzionali,
come nel regime inglese, a cui egli guarda come modello: “La libertà è il diritto di fare tutto
ciò che leggi permettono (…). Un’esperienza di secoli mostra come qualsiasi uomo che si
trovi ad avere il potere sia portato ad abusarne, finché non gli vengano posti dei limiti.
Perché non si possa abusare del potere, bisogna che, per la disposizione delle cose, il
potere argini il potere. Tutto sarebbe perduto se un’unica persona, o un unico corpo di
notabili, di nobili o di popolo esercitasse questi tre poteri: quello di fare le leggi, quello di
eseguire le risoluzioni pubbliche e quello di punire i delitti o decidere sulle controversie dei
privati”. La divisione e l’equilibrio tra i poteri come argine al dispotismo: questa la ricetta di
Montesquieu. Tale concezione verrà chiamata costituzionalismo: è infatti una
costituzione scritta che prevede la divisione dei poteri demandandoli ai tre fondamentali
organi dello Stato, parlamento, governo e magistratura, che si controllano reciprocamente
in un sistema di pesi e contrappesi, come di lì a pochi anni mostrerà la Costituzione
americana. Una monarchia costituzionale era, secondo Montesquieu, la forma istituzionale
che meglio avrebbe potuto esprimere tale concezione politica.
ROUSSEAU
Jean – Jacques Rousseau (1712-1778) è sicuramente un illuminista ‘atipico’. Compose le
sue opere tra il 1761-62 ed entrò in aperto contrasto con gli intellettuali che avevano
contribuito alla nascita dell’Encyclopédie, per cui Voltaire lo definì addirittura “traditore,
rinnegato e Giuda della filosofia”: non proprio una coerente professione di tolleranza per
l’autore delle Lettere filosofiche. L’elemento di maggior contrasto tra il pensatore ginevrino
e i philosophes è soprattutto il tema del progresso: in tale ambito, già nel Discorso
sull’origine della disuguaglianza Rousseau aveva sostenuto, nel 1754, che l’uomo nasce
buono, ma è corrotto dal progresso, ossia dalla civilizzazione tipica del mondo occidentale,
che lo conduce alla inevitabile decadenza morale. “Il primo che, avendo cinto un terreno,
pensò di affermare: questo è mio, e trovò persone abbastanza semplici per crederlo, fu il
vero fondatore della società civile. Quanti delitti, guerre, omicidi, quante miserie ed orrori
(…) avrebbe risparmiato al genere umano colui che, strappando i pioli e colmando il
fossato, avesse gridato ai suoi simili: ‘guardatevi dall’ascoltare questo impostore; siete
perduti se dimenticate che i frutti sono di tutti, e che la terra non è di nessuno”.
Con l’invenzione della metallurgia e la scoperta dell’ agricoltura, avviene il passaggio dallo
stato di natura alla civiltà: la prima ha provocato la divisione del lavoro, la seconda la
4
proprietà privata, causa primaria, come evidenzia tale testo, della disuguaglianza tra gli
uomini. “Il ferro e il grano hanno reso civili gli uomini, ma hanno perduto il genere umano”.
Riguardo allo stato di natura, Rousseau non risparmia critiche ai giusnaturalisti di stampo
classico: il loro errore è stato quello di vedere questo ipotetico periodo della vita umana
(visto che anche per lui è un ideale della ragione) come un possibile (per Locke) o
necessario (per Hobbes) stato di guerra, anziché, come Rousseau ritiene, una proiezione
indebita della caratteristiche dell’uomo contemporaneo e del suo lato peggiore.
L’uomo, secondo il filosofo di Ginevra, è un essere naturale e amorale: egli vive in
equilibrio con se stesso e con i suoi bisogni fondamentali (sussistenza e riproduzione). Il
contesto in cui egli opera, non ancora regolato dalle leggi positive, è quello
dell’uguaglianza e del comportamento pacifico, che sono frutto non della razionalità,
bensì dell’istinto, in cui si radica il naturale sentimento della pietà, impulso che ci induce
ad aiutare chi soffre e che ci fa provare ripugnanza nel far del male (cosa, dunque,
indipendente dall’educazione). Anzi, azzarda Rousseau, il genere umano non esisterebbe
già da lungo tempo se la sua conservazione fosse dipesa dai ragionamenti, come pensava
invece Socrate. Peraltro, gli uomini hanno in sé la caratteristica della perfettibilità:
vogliono migliorarsi continuamente, per cui questo suo impulso dà origine alla proprietà
privata e alla civilizzazione, che lo portano come sappiamo alla corruzione morale.
Pertanto Rousseau ribalta la tesi classica dei contrattualisti: il patto che dà vita allo stato e
che serve per far uscire l’uomo dallo stato di natura (in cui i suoi diritti naturali rischiavano
di venire meno, a causa della legge del più forte) è inficiato e condizionato alla radice dalla
negatività che pervade la civilizzazione e il modo in cui questa si è fatta strada nel corso
della storia dell’Occidente. Perciò, con quei presupposti, il patto dà vita ad uno stato
essenzialmente negativo, perché è solo la legittimazione di interessi privati. Egli allora
si domanda: è possibile l’edificazione di un contratto, tale da ricreare le condizioni dello
stato di natura, in modo che l’uomo ponga rimedio ai mali del suo tempo e conservi la
libertà e l’uguaglianza originaria?
La risposta è chiaramente affermativa: da qui si delinea la tesi contenuta nel Contratto
sociale. A differenza di quanto aveva fatto Montesquieu, che nello Spirito dei lumi aveva
preso in esame i diversi regimi esistenti per concludere che quello inglese era in grado di
garantire meglio i diritti dell’individuo, Rousseau delinea i fondamenti di uno Stato ideale,
in grado di garantire agli uomini quell’uguaglianza e quelle virtù morali perdute a seguito
del passaggio dallo stato di natura alla condizione di civiltà. Occorre dunque “trovare una
forma di associazione, che difenda e protegga con tutta la forza comune la persona ed i
beni di ciascun associato; e per la quale ognuno, unendosi a tutti, non obbedisca che a se
stesso, e resti altrettanto libero di prima”. In altri termini, ognuno di noi, pur cedendo la
propria sovranità, non obbedisce ad altri che a se stesso, in quanto parte di quell’Io
comune, di quella volontà collettiva su cui si fonda l’idea stessa di sovranità. Qui è
chiaramente espresso il concetto di alienazione totale dei propri diritti da parte
dell’individuo alla comunità. La differenza che vi è tra questa posizione e quella di Hobbes
è comunque netta: con il filosofo inglese si ha la cessione totale dei diritti ad un sovrano
assoluto (che, si badi bene, diviene esterno alla comunità solo una volta investito del
potere); con Rousseau la cessione è verso la collettività stessa, per cui il diritto che io
cedo agli altri è lo stesso che acquisisco su di loro. Ciò implica che ogni individuo è parte
inscindibile del tutto: rispetto al giusnaturalismo, allora, non c’è alcun pactum
subiectionis, una delega dei diritti ad un individuo o a un’assemblea, poiché lo stesso si
risolve nel pactum unionis tra i suoi contraenti, i quali coincidono con l’intero corpo
collettivo. Tale volontà è detta Volontà generale, obbedendo alla quale l’individuo non fa
che obbedire a se stesso. Essa non va tuttavia confusa con la volontà di tutti, in quanto
somma di interessi particolari, unione aritmetica delle singole volontà: la Volontà generale,
essendo propria dell’intero corpo politico, vuole necessariamente il bene generale, mentre
5
la volontà di tutti potrebbe anche indirizzarsi verso un obiettivo che incontra il favore di
ogni singolo, ma non risponde al bene comune. La Volontà generale è impersonale e
astratta, proprio in quanto non coincide con interessi di parte, è infallibile, visto che
guarda all’utilità comune; è inoltre inalienabile, nel senso che non può essere
rappresentata da altri e indivisibile, poiché i vari poteri non sono indipendenti dalla
Volontà generale, bensì sue emanazioni. Ora, gli ultimi due concetti sono strettamente
collegati tra di loro: la sovranità (concetto che nasce con la formazione dello stato
moderno, che concentra in sé quel potere prima distribuito nelle fasce gerarchiche o ceti
della società, tipici della struttura feudale) è l’esercizio della Volontà generale e appartiene
esclusivamente al popolo: “Dico dunque che la sovranità, non essendo che l’esercizio
della volontà generale, non può mai alienarsi, e che il sovrano, essendo solo un ente
collettivo, non può essere rappresentato che da se stesso; il potere può, sì, essere
trasmesso, ma non la volontà”. Quest’ultima frase è illuminante: Rousseau distingue qui
sovranità (espressa dalla Volontà generale) e potere o governo: nella prima risiede la
facoltà, la prerogativa di promulgare le leggi e ciò avviene solo quando il popolo è
fisicamente riunito nell’assemblea convocata a tale scopo. Il potere esecutivo può essere
demandato al governo, che è una mera emanazione della Volontà generale, nel senso che
si limita ad applicare le leggi volute da quest’ultima. Perciò, il governo è un potere
distinto, ma non separato dalla sovranità: è una sua articolazione, non qualcosa di
diverso, non un potere autonomo. Prova ne sia che secondo Rousseau esso può essere
tranquillamente composto da un’oligarchia di saggi.
Si nota qui tutta la distanza che separa il filosofo ginevrino dal liberalismo: “Ogni legge,
che il popolo non abbia ratificato, non è una legge. Il popolo inglese crede bensì di essere
libero, ma si sbaglia di grosso; non è tale che durante l’elezione dei membri del
parlamento: appena questi siano eletti, esso è schiavo, non è più niente”. Parole chiare e
inequivocabili (che sembrano in effetti anticipare, seppur in un contesto molto diverso, ciò
che sosterrà Marx alla metà dell’800): quello di Locke e di Montesquieu è lo Stato dei
cittadini proprietari, di quei ceti agiati, di quegli interessi particolari, al di sopra dei quali
per Rousseau sta l’interesse generale. In quest’ottica, gli stessi partiti risultano puri
rappresentanti di interessi parziali, in disaccordo con l’interesse generale (sulla proprietà
egli conclude sostenendone la convenzionalità e non l’abolizione, bensì la
regolamentazione tramite leggi, che evitino lo sfruttamento dell’uomo).
Ecco la necessità di non dividere e di non alienare la sovranità. Viene in tale ambito a
cadere la distinzione tra il bourgeois e il citoyen, tra l’individuo privato e il cittadino:
l’individuo non ha più una propria personale libertà, poiché la vera virtù consiste
nell’imparare a sottomettere i propri impulsi egoistici alla superiore volontà collettiva. A tal
fine, i cittadini debbono partecipare a feste civiche, che educhino all’autentica virtù, proprio
per rafforzare lo spirito patriottico e rinsaldare il senso della patria e della collettività. Non
solo, ma è anche lecito costringere un individuo a conformarsi alla Volontà generale: non
un atto di violenza, a suo parere, bensì un gesto che forza ad essere libero,
nell’interesse suo e della comunità. I limiti di tale concezione sono di duplice valenza: da
un lato, il fatto che questa posizione di democrazia diretta possa essere applicata a piccoli
stati, come la repubblica ginevrina (o le stesse poleis greche, a cui il filosofo guarda come
modello); dall’altro, il rischio di democrazia totalitaria, come ha evidenziato Talmon, visto
che il giacobinismo vedrà in Rousseau il modello per eccellenza della sua esperienza
politica.
6
L’ATEISMO MATERIALISTICO
Concludiamo questo documento ritornando brevemente sulla questione religiosa. Non tutti
gli illuministi sono deisti: esiste anche una corrente minoritaria che ha peraltro una certa
importanza, facente capo a pensatori come Meslier, D’Holbach, Helvetius e la Mettrie,
sostenitori di un ateismo materialistico e meccanicistico. Essi partono sostanzialmente dal
rifiuto di una causa prima, il Dio architetto del mondo, in quanto semplicemente
indimostrabile: perché la natura non dovrebbe potersi regolare da sé, sulla base di mere
leggi meccaniche? In particolare Meslier e D’Holbach vedono nella religione un fenomeno
patologico e irrazionale, causato dalla paura che ha l’uomo nei confronti degli eventi
naturali, oltre che dall’interesse: la religione è lo strumento attraverso cui i governanti
tengono soggiogati i sudditi ed è perciò strumento di consenso. Rifacendosi la filosofo
francese Pierre Bayle (1647-1706), essi sostennero che una società di atei è possibile e
che essi non sono moralmente ingiusti, come affermava Locke: gli uomini posseggono la
ragione e dunque l’antidoto per poter tenere a freno le passioni negative che deteriorano
la società e questo vale, ovviamente, anche per chi non crede in Dio. Per quanto
concerne la concezione del cosmo, esso, uomo compreso, ha nella materia la sua
essenza: l’universo è una grande macchina, fondata su cause efficienti, studiando le quali
noi possiamo comprendere il suo funzionamento. Secondo tale prospettiva, nulla si crea e
nulla si distrugge ma tutto si trasforma. Tutto quanto ha a che fare con la metafisica, come
Dio e l’anima, viene semplicemente respinto da questo filosofi. La loro posizione, che
scandalizzò all’epoca molte coscienze, rappresenta tuttavia una concezione filosofica che
nella storia del pensiero avrà comunque un certo seguito.
7