Biografia per sito - Archivi di Famiglia

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Biografia per sito - Archivi di Famiglia
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BIOGRAFIA DI GIANNI AMELIO
Gianni Amelio, per l’anagrafe Giovanni, nasce a San Pietro Magisano il 20 gennaio 1944 da
Giuseppe Amelio e da Audina Amelio. Ambedue i genitori del futuro regista, sposatisi giovanissimi (lui 17
anni lei 15), provengono da famiglie contadine. Il padre di Giuseppe era emigrato in Argentina e non aveva
più dato notizie di sé abbandonando la famiglia al suo destino; Audina, orfana di padre, è figlia di Carmela
Scorza, classe 1904, la mitica nonna di cui, in questi ultimi anni, parla spesso Amelio nelle sue interviste, e
che ha ispirato alcuni personaggi dei suoi film. San Pietro Magisano è un piccolo paese, un centinaio di abitanti, della provincia di Catanzaro che
sorge ai piedi della Sila Piccola, a una ventina di chilometri dal capoluogo. Un paese che, nel dopoguerra, e
per molti decenni successivi, è composto prevalentemente da contadini che quando riescono vanno a
lavorare come bracciantati nei pochi latifondi presenti nella zona o, visto il notevole spezzettamento della
proprietà, basano la loro sussistenza sulla coltivazione diretta di piccoli pezzi di terra appena sufficienti al
sostentamento di un nucleo familiare. In questa situazione di miseria, tipico del resto, all’epoca, della
maggior parte del territorio calabrese, l’emigrazione si presentava come l’unica soluzione possibile per
migliorare la propria condizione economica ed esistenziale.
Il padre di Amelio nel ’46, quando non ha ancora ventuno anni, spinto dalla mancanza di lavoro e dal
desiderio di andare in cerca di suo padre, che era partito quindici anni prima, lascia la moglie, il figlio e una
figlia, più piccola di Giovanni e che morirà all’età di due anni e mezzo, ed emigra in Argentina da cui farà
ritorno solo dopo quattordici anni. Amelio resta con la madre, che faceva la sarta; una zia, Edda, che era
maestra; la nonna materna la quale, con il suo lavoro di infermiera presso l’Ospedale Civile di Catanzaro,
dava un grosso contributo a mantenere tutta la famiglia. Questa lontananza-assenza del padre è un evento che
segnerà profondamente, come spesso lo stesso regista ha ricordato, sia la sua vita sia il suo cinema.
Amelio, che amichevolmente per tutto il periodo vissuto in Calabria veniva chiamato Nino,
frequenta le scuole elementari a San Pietro Magisano e, nel 1954, la prima Media a Taverna, un grosso paese
del circondario. Nel ’55 si trasferisce a Catanzaro, dove vive con la nonna Carmela e termina la scuola media
presso un istituto cittadino. Già in questi anni esplode la passione per il cinema. Inizialmente accompagnato
dalla nonna, poi da solo, diventa un assiduo frequentatore delle tre maggiori sale cinematografiche della
città: Il Politeama «Italia», il Comunale e il Masciari. Inizia anche a leggere tutto ciò che riesce a procurarsi e
che ha a che fare con la «settima arte» (libri, riviste di critica, cineromanzi ecc.). Dal ’55 al ’59, su dei
quaderni, tiene l’elenco di tutti i film che vede, e per ognuno di essi scrive una piccola scheda tecnica e dà
una valutazione espressa, come ricorda lo stesso regista, con un voto da uno a dieci. Risale a questo periodo
l’incontro con «Cinema Nuovo», la storica rivista di critica cinematografica diretta da Guido Aristarco.
Amelio era destinato a fare il maestro, come la zia Edda, ma, all’ultimo momento, e senza dire niente ai suoi,
invece di iscriversi all’Istituto Magistrale si iscrive, nel 1957, al Liceo-ginnasio «P. Galluppi», la scuola
catanzarese riservata per lo più ai figli della buona borghesia cittadina e ai rampolli delle famiglie più in
vista. Questi sono anni decisivi per Amelio, dal punto di vista della sua formazione umana e intellettuale.
Approfondisce il suo amore per il cinema, non solo da spettatore ma anche come «critico», stringe amicizie
destinate a durare fino ad oggi. Si delineano quelli che saranno i suoi due amori cinematografici, da un lato il
cinema hollywoodiano dall’altro quello d’«autore» sia italiano che francese; basta ricordare Antonioni,
Bresson, Fellini, Visconti, Hitchcock, Ford. Amelio conserva nella memoria questo periodo in modo
contraddittorio, un periodo non del tutto felice, ma anche fondamentale per la sua formazione umana ed
intellettuale. Della frequenza al liceo Amelio ricorda soprattutto due professori quello di Filosofia, Giovanni
Mastroianni e quello di greco, Francesco Procopio, riservando al primo un ruolo importante nella sua
formazione. Agli inizi degli anni ’60 il padre ritorna dall’Argentina, e nasce un secondo fratello, Erminio, di
diciassette anni più giovane di lui. Nel 1961 scrive la sua prima recensione, dedicata al film di Renato
Castellani Il brigante, su «il Sentiero», il giornale degli studenti del Liceo Classico «Galluppi». Sullo stesso
foglio catanzarese compariranno altre quattro recensioni nel 1963.
Nel 1962 si iscrive alla facoltà di Filosofia di Messina. Continua a vivere a Catanzaro e si reca nella
città siciliana solo per dare gli esami. Fino all’ottobre del ’64 sostiene regolarmente gli esami (ne supera sei e
tutti con ottimi voti), poi, prima di abbandonare definitivamente gli studi universitari, nel ’68, sostiene solo
altri tre esami. In questo periodo insegna come supplente in alcune scuole della provincia calabrese e dà
anche lezioni private. Partecipa all’esperienza del Circolo culturale «Piero Gobetti», una associazione in cui
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confluivano giovani che con diverse motivazioni avevano deciso di intervenire sui problemi politici e
culturali della città. Amelio è spesso presente ai dibattiti organizzati dal gruppo e diventa ben presto
l’animatore di un cineclub collegato al Circolo. Intorno al «Piero Gobetti» nasce, ben presto, la rivista
mensile «il manifesto», su cui Amelio, nel ’64 pubblica l’articolo Epica d’intrattenimento e impegni solitari.
Antifascismo e Resistenza dell’ultimo cinema italiano. Negli stessi anni frequenta, a Catania, il gruppo di
giovani intellettuali che ruotano intorno alla rivista «giovane critica» (organo del Centro Universitario
Cinematografico di Catania). Diventa collaboratore della rivista, e sul finire del ’64 pubblica una recensione
di un libro dedicato al cinema di Michelangelo Antonioni. In questo periodo, esattamente nel 1963, realizza,
insieme ad alcuni suoi ex compagni di liceo tre brevi cortometraggi in Super8: Luci d’estate, Risacca e Il
viadotto.
Nel ’65 il grande salto: durante le vacanze di Pasqua, senza dire niente ai suoi, si reca a Roma, dove
è ospitato da Nicola Siciliani de Cumis, un suo ex compagno di liceo che studia all’università e con cui
resteranno sempre legati da una profonda amicizia. Leggendo un articolo su «l’Unità» viene a sapere che
Vittorio De Seta è in procinto a girare il film Un uomo a metà. Ben presto riesce a convincere il regista a
farlo lavorare nella troupe, in qualità di assistente alla regia e segretario di edizione. Da questo momento in
poi lavora come aiuto accanto a vari registi: Gianni Puccini, Anna Gobbi, Andrea Frezza, Ugo Gregoretti e
Liliana Cavani. Attraversa così, i diversi itinerari percorsi, in quegli anni, dal cinema italiano: dai film
d’autore agli «spaghetti western», alla pubblicità. In questo periodo, Amelio, per mantenersi, attraversa molti
dei mestieri del cinema, fa anche il «negro», scrive soggetti e sceneggiature sotto falso nome o per conti di
altri, cosa che continuerà a fare anche in anni successivi, anche dopo che, avendo deciso di non far più
l’aiuto regista, esordisce nella regia. Sono gli anni della gavetta, in cui egli, caso abbastanza raro fra gli
autori italiani, si forma sul campo, impara quelle che sono le tecniche e le regole della produzione
cinematografica direttamente sul set e nel variegato mondo del sottobosco cinematografico.
Nel 1967 realizza due servizi per la rubrica settimanale della RAI «Sprint»: Undici immigrati, in cui
intervista i calciatori della squadra di calcio del Catanzaro, che crea molte polemiche nell’ambiente politico
della città, e Il campione, un servizio che riguarda l'incontro di pugilato tra Nino Benvenuti e Emil Griffith
che si scontrano, il 17 aprile 1967, sul ring del Madison Square Garden di New York. Il ’67 è anche l’anno
della morte della madre che, come ricorda il regista, si spegne, a trentotto anni, dopo una breve degenza alle
Molinette di Torino, in cui era stata ricoverata per subire un intervento che, all’epoca, era impossibile fare a
Catanzaro. Il padre di si risposa, quasi subito, con una ragazza, Anna, quasi coetanea del regista, e da questo
matrimonio nscono, in seguito, altri due figli, Franco e Marco. Giuseppe Amelio, ritornato in Calabria,
svolge, come ricorda lo stesso regista, dei lavori precari, il principale dei quali è quello di autista di piazza,
ha il noleggio pubblico e fa la spola tra il paese e Catanzaro, prima con una vecchia 1100 con il muso lungo,
poi con una 600 multipla.
Il film d’esordio è del 1970: La fine del gioco, prodotto nell’ambito dei programmi sperimentali della
RAI. Realizzato in solo cinque giorni; costato 4 milioni di lire; ambientato, e girato, in parte, a Catanzaro,
ma soprattutto in treno, mette in scena quello che sarà uno dei temi ricorrenti in tutto il suo cinema
successivo: il confronto tra due caratteri, esemplificato attraverso l’incontro-scontro tra un adulto e un
bambino/adolescente.
Anche i suoi film seguenti nascono come produzioni televisive. Nel ’73 gira La Città del Sole,
ispirato all’opera del filosofo Tommaso Campanella, progetto che Amelio aveva maturato nel periodo
universitario. Il film è presentato alla Quinzaine des Realisateurs del festival di Cannes. Tra il 1973 e il 1979 scrive parecchie sceneggiature che propone sempre alla Rai, ma che non
diventeranno mai dei film: Politeama, il racconto della storia di una città vista dall’interno di una sala
cinematografica; L’Orsa Maggiore, trent’anni di storia italiana raccontati seguendo gli spostamenti di una
compagnia di attori girovaghi, ispirata a quella di Otello Sarzi che ebbe un ruolo nella tragico episodio della
Resistenza legato alla vicenda dei fratelli Cervi, e che Amelio conobbe durante le riprese di I sette fratelli
Cervi di Puccini; Il ladro di bambini, scritta insieme a Mimmo Rafele ed Enzo Ungari e che non ha niente a
che vedere con l’omonimo film del ’92, il cui protagonista principale doveva essere Jerry Lewis; insieme ad
Ungari, Il diavolo sulle colline, tratto dal romanzo di Cesare Pavese, ed infine Anonimo compagno; insieme a
Mark Peploe e Jon Halliday un copione ispirato a Reparto numero 6 di Čechov, che era attualizzato ed
ambientato nell’ospedale di Catanzaro.
Segue Bertolucci secondo il cinema del ’76, sulla lavorazione del film Novecento, documentario
«rubato» sul set dell’opera di Bernardo Bertolucci. Nel ’78 con La morte al lavoro ed Effetti speciali rivisita
il genere giallo, utilizzando la tecnica elettronica e le musiche di Bernard Herrmann. La morte al lavoro,
liberamente ispirato ad un racconto di Hanns H. Ewers, viene premiato ai festival di Locarno e di Hyères.
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Ancora in ambito televisivo gira nel ’79 Il piccolo Archimede, tratto dal omonimo racconto di Aldous
Huxley e ambientato nella Firenze degli anni ’30. Dello stesso anno è anche In cammino, un adattamento
televisivo tratto da quattro racconti di Anton P. Čechov, della durata di un’ora circa. Ad Amelio non piace
parlare di questo suo lavoro ed è, forse per questo che esso è assente da tutte le filmografie del regista fin qui
pubblicate. Eppure in esso sono contenute, fin dal titolo, molti temi presenti in tutta la sua opera.
Nello stesso periodo, collabora alla sceneggiatura di Hedda Gabler, un film di Maurizio Ponzi, tratto
dall’omonima opera di Ibsen e scrive, con Vincenzo Cerami, Fratelli, una storia che non diventerà, però, mai
un film.
L’opera successiva, Colpire al cuore del 1982, segna l’esordio di Gianni Amelio nel circuito
cinematografico. L’opera fa discutere a lungo, opinioni e riflessioni hanno ampio spazio sulla carta stampata,
soprattutto per quello che appare, ai più, il tema centrale del film: il terrorismo. In realtà, ad Amelio interessa
analizzare i rapporti generazionali, la dialettica e l’inevitabile senso di sconfitta generati accostando
l’infanzia e l’adolescenza all’età adulta, e più in generale il confronto fra «caratteri»; temi questi sempre
presenti nella sua opera. Il film è presentato al Festival di Venezia del 1982, ed è premiato con il Nastro
d’Argento per il miglior soggetto e col Premio Ischia per il migliore film italiano del 1982. Nel 1983 Amelio
dirigere un altro film per la televisione: I velieri, tratto dal omonimo racconto di Anna Banti. È ancora
un’opera sui rapporti fra genitori e figli, con al centro della vicenda lo scontro tra i sogni di libertà di un
bambino di dodici anni e l’oppressività della madre malata di nervi.
Il 1982, come ricorda lo stesso regista, è anche l’anno della morte del padre, che si spegne all’età di
59 anni.
Dal 1983 all’87, Amelio insegna regia presso il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. Tra
il 1984 e il 1985 realizza una serie di cortometraggi televisivi per la rubrica della RAI «3 Sette» (poi raccolti
insieme con il titolo La cinepresa di Gianni Amelio e trasmessi nell’85 da RAI Tre).
Nel 1988 ritorna al lungometraggio con I ragazzi di via Panisperna. L’attività del gruppo di fisici
italiani, raccolti intorno alla figura di Fermi, e il mistero del caso Majorana diventano, ancora una volta, il
pretesto per approfondire il confronto fra due caratteri, qui rappresentati dai personaggi di Enrico e di Ettore.
Il film viene montato in due versioni: una televisiva di tre ore e una cinematografica più corta. Nel 1990,
Amelio gira Porte aperte, tratto dall’omonimo libro di Leonardo Sciascia. La vicenda del giudice che nella
Sicilia del ventennio fascista combatte la sua personale battaglia contro la pena di morte segna un grande
successo del regista. Il film, interpretato da Gian Maria Volonté e da Ennio Fantastichini, è candidato al
premio Oscar come miglior film straniero per il 1991, viene premiato con l’Oscar Europeo (Felix), riceve 4
David di Donatello, 2 Nastri d’Argento, 3 Globi d’Oro, la Grolla d’oro a Saint-Vincent e 2 Ciak d’Oro.
Nel 1992 realizza Il ladro di bambini, il film che, ad oggi, è quello che ha avuto, a livello
internazionale, il maggior successo di critica e di pubblico. Esso racconta, attraverso un viaggio da Nord a
Sud di due bambini (Luciano e Rosetta) e di un giovane carabiniere (Antonio) che li deve «tradurre» in un
orfanotrofio, un certo degrado culturale dell’Italia degli anni Novanta. Degrado frutto dell’emigrazione, della
disintegrazione di alcuni valori che costituivano la base della società contadina e che vedevano nella famiglia
un punto fermo e sacro. Esso racconta come dalle ceneri della famiglia tradizionale, in modo utopistico, si
forma un altro e diverso nucleo familiare (in definitiva un altro tipo di rapporto tra gli esseri umani che
vivono in una determinata società) che però, proprio perché utopistico è condannato ad essere sopraffatto
dalle regole della realtà e a sopravvivere solo come desiderio, come consolazione provvisoria. Presentato al
Festival di Cannes nel maggio del 1992 il film ottiene il Gran Premio Speciale della Giuria. Vince inoltre 6
David di Donatello (tra i quali per il miglior film dell’anno e la migliore regia) e 2 Globi d’Oro.
Il 1994 è l’anno di Lamerica, un film che raccontando una storia ambientata nell’Albania postcomunista e la vicenda degli emigranti albanesi che sognano di vivere in Italia di oggi, parla della situazione
italiana del dopoguerra. Esso si presenta come un grande affresco storico del nostro mondo contemporaneo
colto nelle sue molteplici contraddizioni. Il film riceve numerosi riconoscimenti: l’Osella d’oro al festival di
Venezia; il Premio Felix (miglior film europeo); il Premio Goya 1996; la candidatura al premio Oscar per il
miglior film straniero 1995. Durante la realizzazione di Lamerica, conosce in Albania un ragazzo, Luan Ujkaj, che lavora come
comparsa nel film. Il regista gli si affeziona talmente tanto che lo porta con sé a Roma e presto lo adotta,
dandogli così anche il suo cognome, e lo avvia verso la professione di operatore cinematografico. Luan, che
sarà presente, da questo momento in poi, nella troupe di tutti i film del regista, intanto si sposa ed
attualmente ha tre figlie.
Nel 1995 cura, presso il Teatro Carlo Felice di Genova, la regia di due opere liriche, Il tabarro di
Puccini e Pagliacci di Leoncavallo.
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Nel 1996 realizza un documentario, Non è finita la pace, cioè la guerra, in cui alcuni bambini e
ragazzi di Sarajevo raccontano la loro vita quotidiana durante i quattro anni di guerra dell’ex Jugoslavia.
Prodotto dalla RAIUNO con il patrocinio dell’UNICEF. Contemporaneamente realizza, per Radio Tre Rai,
Storie alla radio, venti racconti a sfondo autobiografico narrati dallo steso Amelio. Nello stesso anno
l’Università degli Studi di Arcavacata (CS) gli conferisce la Laurea honoris causa in Discipline delle Arti
Musica e Spettacolo. Nel 1997, sempre per Radio Tre, adatta e dirige, per la serie «Teatri alla radio», Anna
Christie di Eugene O’Neill.
Frattanto, Amelio lavora intorno ad un soggetto che si presenta come una specie di sequel di Colpire
al cuore, ed inizia a lavorare al trattamento con Vincenzo Cerami. Il progetto, però, si arena anche perché
Cerami ha altri impegni cui non può rinunciare. Dopo un periodo di infruttuosi abbozzi di altri progetti,
come racconta lo stesso regista, all’improvviso mette da parte tutto ciò a cui stava lavorando e scrive il
soggetto di quello che sarà la sua opera successiva: Così ridevano. Il film, che esce nel 1998, consacrerà
Amelio quale vincitore del Leone d’oro al Festival di Venezia. La pellicola, ambientata negli anni compresi
tra il ’58 e il ’64, racconta le vicende di due fratelli siciliani emigrati a Torino. Sullo sfondo degli anni del
boom e della massiccia emigrazione interna di quegli anni che vede il definitivo tramonto dell’economia e
della cultura contadina, Amelio racconta la storia di una magnifica ossessione: «Un emigrato siciliano
analfabeta, [Giovanni], ha portato a Torino il fratello minore adolescente, [Pietro]. Vuole che studi, che
prenda il diploma di maestro, che viva con i libri in un ambiente adatto ai libri, tra gente che parla italiano: il
suo sogno è la cultura, il sapere che ti cambia e ti fa progredire. Ma il ragazzo è quasi costituzionalmente
inadatto al banco di scuola e alla vita da studente, vorrebbe lavorare, stare con altri siciliani. Il fratello
maggiore fa tutti i lavori possibili per guadagnare e per mantenere agli studi il minore senza accorgersi che i
confini di questa impresa gli si confondono, che perde il senso dei limiti del sacrificio e della legalità. Le
cose non vanno come nei desideri: nel corso del tempo i due fratelli cambiano, e al termine dei sei anni si
ritrovano in un’Italia pure cambiata, dove il sogno del progredire attraverso la cultura s’è perduto».
Nonostante il film non abbia un grande successo di botteghino, i produttori Vittorio e Cecchi Gori
offrono ad Amelio un contratto per tre film. Amelio si mette subito al lavoro, e realizza cinque sceneggiature
che non diventeranno mai dei film: Cent’anni, su una maestrina napoletana che, dopo la Grande guerra,
insegna in una scuola serale in Calabria per distribuire velocemente licenze elementari ai potenziali elettori
di un politico locale; Il paradiso all’ombra delle spade, storia di un agronomo inviato in Libia ai tempi della
colonizzazione e il suo ritorno in Italia negli anni ’70; Il banchiere dei poveri, tratto dal libro di Muhammad
Yunus riguardante l’esperienza del suo istituto di microcredito sorto in Bangladesh e, in seguito, adottato in
moltissimi Paesi del mondo; La lista nera, scritta insieme a Rulli e Petraglia e tratto dal romanzo postumo di
Friedrich Dürrenmatt, che racconta la storia delle ultime indagini di un commissario che sta per andare in
pensione. Per quest’ultimo, che in seguito prenderà il titolo di Numeri, Amelio, volendolo realizzare ai
confini tra l’America e il Messico, si reca a fare dei sopralluoghi nella zona compresa tra Venice e San
Diego. Nell’intenzione del regista esso doveva raccontare i rapporti tra il mondo americano e quello italiano.
Questi progetti non saranno mai realizzati perché proprio questo è il periodo in cui la casa di produzione
Cecchi Gori entra in uno stato di crisi irreversibile che la porterà al fallimento. Amelio, come altri registi,
chiede che il contratto che ha firmato con la società sia sciolto, ma tale richiesta gli viene rifiutata, e così,
prima di tornare a realizzare un film per il grande schermo dovrà attendere circa sei anni.
Dal mese di giugno del ’99 inizia una collaborazione con la rivista «Film Tv», diretta da Emanuela
Martini, che si protrarrà fino alla fine del 2007 (dal n. 26 del 27 giugno 1999, al n. 52 del 31 dicembre 2007).
Ogni settimana, nella rubrica «Collezione grande schermo», è pubblicato un breve scritto di Amelio (della
lunghezza di una pagina) che ha come pretesto un film, di cui, sulla rivista, è riprodotta, nelle due pagine
centrali, la locandina. Tali film, per lo più, appartenenti agli anni della formazione del regista, sono
strettamente legati al suo mondo poetico e alla sua concezione del cinema. Alla fine del ’99, realizza, per
Radio Tre RAI, Quaderni e colori. Racconti di bambini di alcune scuole elementari di Roma, che è
trasmesso il 1° gennaio, all’interno della trasmissione radiofonica «Il mondo salvato dai bambini: 24 ore per
interrogare il futuro». Tra il 1999 e il 2000, vedono la luce una serie di documentari. Poveri noi (1999)
utilizzando materiali degli archivi RAI, immagini dal vero, interviste, cronache tratte da programmi della
nascente televisione, racconta l’Italia tra la fine degli anni ‘50 e i primi anni ‘60, gli stessi in cui è ambientato
Così ridevano. Uno schermo sull’acqua (2000) realizzato su commissione del Comune di Reggio Calabria,
racconta la città calabrese dello Stretto attraverso la voce dei suoi abitanti. L’onore delle armi (2000)
costruito anche esso con i materiali degli archivi RAI, si concentra sulle atrocità di chi fabbrica armi, insegna
ad usarle e, in fine le usa; parla del servizio militare in Italia, dal dopoguerra fino a oggi, dell’obiezione di
coscienza, le inquietudini dei ragazzi in divisa; e si chiede, tra le altre cose, cosa sta cambiando nelle regole
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che impone la difesa dal «nemico», e quali misteri e speculazioni stanno dietro agli strumenti della morte. La
terra è fatta così (2000) è commissionato da Legambiente per ricordare, a vent’anni di distanza, il terremoto
che devastò Irpinia. Esso è realizzato sia utilizzando materiale di repertorio, sia riprese girate da Amelio oggi
sui luoghi del terremoto. Il filmato, partendo dall’oggi e dai problemi solo in parte risolti, cerca di indagare
sia sul passato terrore sia sulla «ricostruzione» del dopo il terremoto per cercare di capire cosa sia stato
realmente fatto per ridare dignità non solo alle abitazioni ma anche alla vita degli individui. Nel gennaio del 2003 va in onda, sul terzo programma della Radio Rai, un adattamento radiofonico
del testo teatrale Billy il bugiardo di Keith Waterhouse e Willis Hall di cui Amelio ha curato l’adattamento e
la regia. Il protagonista è interpretato da Kim Rossi Stuart che sarà l’attore principale della sua prossima
opera: Le chiavi di casa, che è già in preparazione. Il film, liberamente tratto dal romanzo Nati due volte di
Giuseppe Pontiggia esce l’anno successivo ed è presentato al Festival di Venezia. La pellicola, racconta,
ancora una volta, la storia del rapporto tra un padre, Gianni, e suo figlio, Paolo, un quindicenne che, fin dalla
nascita, ha gravi problemi di disabilità. Durante il parto era morta la giovane moglie e da allora ha rifiutato di
vedere il figlio. Dopo quindici anni, Gianni fa ritorno per accompagnare Paolo a Berlino, dove il ragazzo si
sottopone periodicamente alle terapie di un centro specializzato. Il viaggio e la permanenza, prima in
Germania e poi in Norvegia, dove si recano sulle tracce della «fidanzatina» di Paolo, costituiscono per i due
l’occasione, pur tra tante difficoltà, per tentare di conoscersi e comprendersi. In definitiva, come lo stesso
Amelio afferma, è «un film d’amore. Sulla capacità di volersi bene. L’handicap è quello di chi ha l’uso di
braccia gambe e testa ma non sa amare». Nello stesso anno pubblica, per la casa editrice Enaudi, il libro Il
vizio del cinema, in cui sono raccolti una parte degli scritti «critici-autobiografici» apparsi sulla rivista «Film
Tv».
Del 2006 è La stella che non c’è, film che si ispira ancora ad un romanzo, quello di Ermanno Rea,
intitolato La dismissione. Girato quasi tutto in Cina, il film, attraverso la storia di Vincenzo Buonavolontà,
un operaio specializzato, che intraprende, a proprie spese, un viaggio attraverso la Cina per sostituire una
centralina difettosa di un altoforno che è stato acquistato dai cinesi, affronta i temi essenziali della nostra
epoca. Una Cina, entrata di prepotenza tra le superpotenze del nostro tempo, ricca e invadente in cui è forte il
dislivello tra ricchi e poveri, tra zone super industrializzate e zone agricole arretrate, e in cui sono stati quasi
del tutto cancellati i sentimenti e i diritti umani. Il mondo diviso tra miseria e consumismo. La mescolanza,
non più evitabile, di culture e identità diverse. L’occidente che esporta all’oriente il suo modello e i suoi
guasti. La fine di quel «lavoro ben fatto» che ha rappresentato l’orgoglio, universale operaio; finito perché,
oramai, la quantità sconfigge la qualità. Il film oltre ad essere un viaggio «geografico e sociale» è,
soprattutto, un percorso interiore: Buonavolontà viaggiando nei territori immensi della Cina, viaggia anche
alla scoperta di sé, nel tentativo a trovare risposte che riguardano l’esito della propria vita. Un’opera, per
molti versi, pessimista, ma in cui si racconta anche, forse per la prima volta in Amelio, dell’amore che vince
tutto, del «vero» amore, di «un amore che non uccide».
Il regista accetta di realizzare un film tratto dal libro Senza Patricio, di Walter Veltroni, una raccolta
di cinque racconti incentrati sullo stesso personaggio e ambientato in Argentina. A settembre, Amelio
dichiara che la sceneggiatura è già pronta, che esso sarà girato in Argentina e che racconterò la storia
d’amore tra una ragazza di 18 anni e un uomo di 40. Il film, però, ad oggi, non è stato ancora realizzato.
Nel dicembre del 2008, è nominato direttore del Torino Film Festival, e la prima edizione del
festival, sotto la sua guida è quella svoltasi nel novembre del 2009. Il regista annunciando quelle che
saranno le linee guida della sua direzione dichiara, tra l’altro che il «festival sarà povero ma bello, più
popolare e meno radicale, nel tentativo di allargare la comunità dei cinefili che lo seguono. Una
manifestazione senza divi e passerelle e con un unico scopo: mettere i film al centro di tutto».
Nel giugno del 2009, Amelio si reca in Algeria per i sopralluoghi del suo nuovo film, Il primo uomo,
tratto dall’omonimo romanzo incompiuto e postumo di Albert Camus. Tra i rottami dell’auto sulla quale
Camus trovò la morte, il 4 gennaio del 1960, fu trovato un manoscritto con correzioni, varianti e
cancellature: la stesura originaria e incompiuta di Il primo uomo (titolo originale: Le premier homme), sulla
quale la figlia Catherine, dopo un meticoloso lavoro filologico, ricostruì il testo e lo pubblicò, nel 1994,
presso l’editore Gallimard. Stando alle dichiarazioni dello stesso regista, il primo progetto per realizzare il
film, risale addirittura, a subito dopo la pubblicazione del libro quando, nel 1995, glielo aveva proposto
Bruno Pesery, quello che poi produrrà effettivamente il film, (ad oggi, Pesery ha già coprodotto tre film di
Amelio: Il ladro di bambini, Lamerica e Le chiavi di casa). Il progetto, però, si arenò quasi subito, perché la
figlia di Camus non volle cederne i diritti. Finalmente, nel 2003, il produttore, dopo essere riuscito a
comprare i diritti, ripropone l’idea ad Amelio che accetta ed inizia a scrivere la prima stesura della
sceneggiatura nel dicembre 2006. Le riprese erano previste per metà luglio dello stesso anno, ma sono
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rimandate al 2010 (e dureranno un po’ più di nove settimane) a causa, sembra sia del suo impegno al Festival
di Torino sia a difficoltà produttive.
Nel 2010, pubblica, sempre per i tipi Enaudi, Un film che si chiama desiderio (una sorta di
continuazione del precedente Il vizio del cinema), in cui sono raccolti altri suoi scritti apparsi sulla rivista
«Film Tv». Nel febbraio del 2012, al Teatro San Carlo di Napoli, va in scena, per la regia di Amelio, la Lucia
di Lammermoor, di Donizetti.
Finalmente nell’aprile del 2012, dopo varie e alcune volte spiacevoli vicissitudini produttive, di
esclusioni dai grandi Festival cinematografici e di ritardi sul piano della distribuzione, esce Il primo uomo, in
cui il regista affronta, per la prima volta in modo abbastanza esplicito e diretto, la sua autobiografia,
(«impastandola» con quella di Camus), che sempre ha sotteso tutti i suoi film. Nonostante, però, i numerosi
innesti che Amelio trae dalla propria vita, la trama è abbastanza fedele al romanzo e ci racconta il ritorno, nel
1957, dello scrittore Jean Cormery (alter ego di Camus) nella sua patria d’origine, l’Algeria, che ormai da tre
anni si trova immersa in una vera e propria guerra civile tra l’esercito francese e gli indipendentisti algerini.
Durante il suo soggiorno ad Algeri, Comery, in alcune occasioni sia pubbliche sia private, sostiene la sua
idea di un paese in cui francesi e musulmani possano convivere in pace. Lo scrittore approfitta del viaggio
per ritrovare sua madre e rivivere parte della propria vita, concentrate essenzialmente in due periodi: il 1913
(anno della sua nascita) e, soprattutto, il 1924. Proteso verso la ricerca del padre, morto durante la Prima
Guerra Mondiale (un anno dopo la sua nascita), e delle sue radici, rivive parte della sua fanciullezza
costellata da vicende dolorose di un bambino la cui famiglia poverissima è retta da una nonna spesso arcigna
e dispotica. Gli anni ‘20 sono, però, per il piccolo Jean anche il momento della formazione, delle scelte più
difficili, come quella di voler continuare a studiare nonostante tutte le difficoltà, in cui gioca un ruolo
fondamentale, l’insegnante Bernard, il suo maestro della scuola elementare. In definitiva il film si presenta
come la ricerca interiore della figura di un uomo ideale, quel «primo uomo» che forse potrebbe essere in
ciascuno di noi.