modelli di class action a confronto

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“MODELLI DI CLASS
ACTION A CONFRONTO”
PROF.SSA GAETANA MARENA
Università Telematica Pegaso
Modelli di class action a confronto
Indice
1
TRATTI CARATTERIZZANTI LA CLASS ACTION STATUNITENSE ---------------------------------------- 3
2
ALTRI MODELLI A CONFRONTO: LA CLASS ACTION IN CANADA ED IN AUSTRALIA ------------ 9
3
LA DISCIPLINA EUROPEA DELLA CLASS ACTION IN GERMANIA, IN SVEZIA, NORVEGIA E
DANIMARCA ED IN FRANCIA E SPAGNA---------------------------------------------------------------------------------- 14
4
IL MODELLO DI CLASS ACTION INGLESE ------------------------------------------------------------------------ 18
5
L’AZIONE COLLETTIVA RISARCITORIA ITALIANA ---------------------------------------------------------- 21
BIBLIOGRAFIA --------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 30
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
(L. 22.04.1941/n. 633)
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1 Tratti caratterizzanti la class action statunitense
La legge finanziaria, dai commi 452 a 454 dell’art. 2, ha introdotto nel nostro ordinamento
la c.d. “azione collettiva risarcitoria a tutela dei consumatori”, presentata quale strumento generale
di tutela nel quadro delle misure nazionali volte alla disciplina dei diritti dei consumatori e degli
utenti.
La disciplina di questo peculiare tipo di azione, dotata di efficacia a far data dal 29 giugno
2007, si inserisce, sub art. 140 bis, dopo l’art. 140 del D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206 ( il Codice
del Consumo).
In realtà, l’approdo italiano all’azione collettiva risarcitoria1 è il frutto di un fenomeno
internazionale di circolazione dei modelli processuali, tutti funzionali, nonostante le sensibili
divergenze, a garantire a gruppi di persone delle forme di accesso collettivo alla tutela rimedialerisarcitoria dei propri rispettivi diritti, alternative alle classiche azioni individuali.
Significativa è stata l’influenza del modello di class action introdotta negli USA, che, da
decenni, detiene un ruolo primario nella gestione dei rapporti tra cittadini e soggetti giuridici,
pubblici e privati, operando su una vasta rete di settori, dai casi di prodotti nocivi ( farmaci e
tabacchi) ai casi di intossicazioni ( ad esempio, da mercurio) ai disastri aerei e ferroviari fino alle
controversie tra consumatori ed imprese.
Fermo restando che negli Stati Uniti non vi è un modello unico di class action, ma alla
disciplina federale si affiancano le diverse soluzioni a livello statale, rimane comunque, quale
autentico e fondamentale paradigma, l’impianto delineato dalla Rule 23 delle Federal Rules of Civil
1
Sull’argomento la bibliografia è ricca: M. Taruffo, La tutela collettiva: interessi in gioco ed esperienze a
confronto, in AA. VV., Le azioni collettive in Italia, ( a cura di ) C. Belli, Milano, 2007, 13 e ss.; A. Giussani, Modelli
extraeuropei di tutela collettiva risarcitoria, 72 e ss.; G. Resta, Azioni popolari, azione nell’interesse collettivo,
“class action”: modelli e prospettive di riforma in una recente riflessioni, in Riv. Crit. Dir. Priv., 2007, 2, 331 e ss.;
P. Fava, Class actions tra efficientismo processuale, aumento di competitività e risparmio di spesa: l’esame di un
contenzioso seriale concreto, in Corr. Giur., 2006, 535; V. Vigoriti, Impossibile la class action in Italia? Attualità
del pensiero di Mauro Cappelletti, in Rass. Forense, 2006, 95 e ss.; A. Carrata, Dall’azione collettiva inibitoria a
tutela dei consumatori ed utenti all’azione collettiva risarcitoria: i nodi irrisolti delle proposte di legge in
discussione, in Giur. It., 2005, 662 e ss.; S. Chiarloni, Appunti sulle tecniche di tutela collettiva dei consumatori, in
Riv. Trim. dir. Proc. civ., 2005, 385 e ss.; C. Consolo, Fra nuovi riti civili e riscoperta delle class actions, alla
ricerca di una giusta efficienza, in Corr. Giur., 2004, 5, 565 e ss.; P. Fava, L’importabilità delle class actions in
Italia, in Cont. Imp., 2004, 166 e ss.; P. Rescigno, Sulla compatibilità tra il modello processuale della class action ed
i principi fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano, in Giur. It., 2000, V, 2224-2228; A. Giussani, Studi sulla
class action, Padova, 1996; G. Ponzanelli, “Class action”, tutela dei fumatori e circolazione dei modelli giuridici, in
Foro it., 1995, IV, 305-310; C. Consolo, Class actions fuori dagli USA?, in Riv. Dir. Civi., 1993, 622 e ss.
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Procedure, norma adottata dalla Corte Suprema Federale degli Stati Uniti nel 1938 e
successivamente modificata nel corso dei decenni, che ha costituito ed ancora costituisce punto di
riferimento per le legislazioni e le corti statali2.
Il modello di class action statunitense si regge su un sistema di legittimazione, attiva e
passiva, diffusa e liberista: qualsiasi individuo, che appartenga ad una classe di portatori di interessi
omogenei, può assumere la veste di rappresentante della classe, facendosi carico di instaurare e di
condurre l’azione collettiva in nome ed in rappresentanza degli altri membri della classe, ove però a
risultare a tutti gli effetti parte attrice o parte convenuta è in realtà la classe stessa, soggetto
entificato e rappresentato dalla persona fisica o giuridica che ha assunto le vesti di rappresentante.
La legittimazione alla proposizione della class action, dunque, non è rimessa dal modello
statunitense, nelle mani dell’associazione o di altre figure similari.
La fattispecie dell’attore collettivo è aperta a qualsiasi soggetto- persona fisica o giuridicache, in quanto titolare di un interesse che presenta le stesse caratteristiche di quelli di altri individui,
possa rappresentarli nel loro insieme.
Ovviamente, l’instaurazione e la prosecuzione di una class action richiede notevoli sforzi
investigativi per delineare la responsabilità dei potenziali convenuti ed implica ingenti investimenti,
comportando altresi’ non pochi rischi. Ciò implica che i veri motori delle class actions non siano i
singoli cittadini colpiti da eventi plurioffensivi, bensi’ gli studi legali eventualmente collegati ad
associazioni rappresentative di determinate compagini sociali.
Da questo punto di vista, gli studi legali si rivelano essere i soggetti piu’ idoeni, proprio
quanto ad organizzazione e risorse, a contrapporsi ai grandi gruppi imprenditoriali, capaci di
resistere con stormi di avvocati.
La governance delle azioni collettive non è riposta nelle mani delle associazioni e, dunque,
non poggia sul rapporto dialettico tra queste ultime e le imprese.
E’ allora evidente che molti studi legali hanno acquisito un’esperienza notevole nella
materia, investendo notevoli risorse nella ricerca di illeciti di massa e contribuendo alla
2
Sul tema, A. Giussani, Azione collettiva, in Encicl. Dir., Milano, 2007, Annali I, 132 e ss.; R. Marengo,
Garanzie processuali e tutela dei consumatori, Torino, 2007; P. Fava, Class action all’italiana: “ paese che vai,
usanza che trovi”, Corr. Giur., 2004, 3, 398 e ss.; A. Giussani, Le “mass tort class action” negli Stati Uniti, in Riv.
Crit. Dir. Priv., 1988, 331 e ss..
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realizzazione dell’obiettivo piu’ nobile della professione forense, ovvero la promozione e la tutela
dei diritti degli individui.
La Rule 23 non circoscrive la class action ad un campo determinato oppure a particolari
figure di titolari di diritti o interessi ovvero a fattispecie particolari di responsabilità civile o
specifici convenuti, ma pone dei prerequisiti che devono essere soddisfatti affinchè la corte possa
ammettere l’azione di classe.
La norma precisa che uno o piu’ membri di una classe ( i class representatives) possano
agire in giudizio oppure essere convenuti quali parti rappresentative di tutti i componenti la classe
solo laddove siano soddisfatti i seguenti prerequisiti di ammissibilità:
La classe annoveri un cosi’ elevato numero di membri tale da rendere impraticabile la via di
un cumulo di azioni individuali in un unico giudizio;
Ricorrano questioni di diritto o di fatto comuni alla classe;
Le pretese o le difese delle parti, che si presentano quali rappresentanti della classe, siano
dello stesso tipo di quelle che connotano la classe;
Le parti che rappresentano la classe garantiscono un’adeguata e corretta protezione degli
interessi della classe.
Si desume che l’ambito di operatività del modello di class action statunitense sembri
piuttosto aperto, ovvero senza limiti quanto alle fattispecie cui può applicarsi.
Tuttavia, il novero delle controversie collettive, che possono dar luogo ad azioni di classe,
risulta in realtà ben piu’ circoscritto di quanto possa far presupporre l’apertura denotata dalle lettura
della norma.
A questo riguardo, occorre sottolineare una caratteristica fondamentale del modello
statunitense: le corti, una volta poste dinnanzi alla prospettiva di una class action, devono subito
verificare se sia possibile procedere alla “certificazione della classe”, godendo in questo vaglio di
ampi margini di discrezionalità.
In particolare, in occasione della certificazione di classe, le corti si trovano a dover verificare
non solo la sussistenza dei prerequisiti minimi per la configurazione della class action, bensi’ anche
la convenienza stessa della prosecuzione dell’azione collettiva in forma di classe.
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Le corti, posto che siano soddisfatti i prerequisiti minimi di ammissibilità, possono pervenire
alla certificazione della classe solo se la prosecuzione separata di azioni individuali esercitate dai
singoli membri della classe ingeneri il rischio di giudicati inconsistenti o difformi con riferimento ai
singoli membri della classe; se la parte, che si contrappone alla classe, abbia tenuto condotte, attive
o omissive, che interessino la classe, rendendo conveniente che i rimedi finali riguardino l’intera
classe; se le questioni di diritto o di fatto comuni ai membri della classe predominino sulle questioni
dei singoli appartenenti alla classe ( regola della predominanza delle questioni comuni agli
appartenenti alla classe sulle questioni individuali).
La funzione dell’istituto della certificazione è quella di scongiurare abusi dello strumento
della class action ed utilizzi impropri dello stesso, tanto da dar luogo ad un netto ridimensionamento
della possibilità di accerdervi3.
Altra caratteristica sicuramente peculiare del modello statunitense si rinviene nell’estensione
degli effetti della sentenza resa in seno alla class action, sia essa favorevole ovvero sfavorevole a
tutti i memebri della classe, senza che questi ultimi, per tale efficacia, debbano manifestare la loro
adesione, cioè se debbano in qualche modo effettuare un opt in.
Questo sistema presenta l’indubbio vantaggio di non lasciare privi di tutela gli appartenenti
alla classe rimasti all’oscuro della tutela collettiva intrapresa.
Se, però, la sentenza che definisce il giudizio di classe è vincolante per tutti i soggetti che
soddisfino l’identikit del class representative, è comunque riconosciuta la possibilità per i membri
della classe di chiamarsi fuori dalla compagine ( opt out), laddove ricorrano i presupposti.
Altro profilo della class action statunitense è l’elasticità del processo.
La corte può determinare, caso per caso, le modalità di svolgimento del processo ed adottare
le misure idonee ad evitare inutili ripetizioni o complicazioni nella presentazione delle prove o delle
difese. In pratica, la corte può adattare il processo alle peculiarità della controversia, scongiurando
che gli schemi e le logiche che governano la procedura nelle azioni individuali possano di fatto
ostacolare l’efficiente gestione della class action.
3
La class action statunitense, nonostante i suo numerosi aspetti positivi, è stata oggetto di diverse critiche
da parte della dottrina.
Tra gli attacchi piu’ significativi si può menzionare la promulgazione il 18 febbraio 2005 del Class Action
Fairness Act del 3 febbraio 2005. Trattasi di una legislazione che è il frutto di una strategia chiaramente finalizzata a
ridimensionare l’impatto della class action sull’industria statunitense. Emerge una visione partigiana dell’istituto,
sino a colpire il commercio degli Stati Uniti.
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Occorre poi osservare che le peculiarità della discovery nordamericana, fase che precede il
dibattimento ed è caratterizzata da una notevole propensione alla trasparenza, incidono
sensibilmente sul processo di classe, sollevando le corti da una serie di incombenze istruttorie che
nelle class action sono significativamente amplificate.
In particolare, si può ricordare che, attraverso la discovery, si pervenga al trial con tutte le
carte sul tavolo, il che agevola la risoluzione di tutta una serie di questioni.
Non si può, poi, non fare cenno alla possibilità per la classe, attraverso il suo rappresentante,
di domandare che il dibattimento sia presidiato da una giuria (trial by jury), con tutte le implicazioni
di un giudizio, cui partecipa direttamente la cittadinanza.
Altro aspetto caratterizzante il modello statunitense è la possibilità di ottenere il risarcimento
dei danni punitivi, che si rinviene solo in un numero ristrettissimo di altri casi, come ad esempio il
Canada.
In primo luogo, la prospettiva del conseguimento di un danno punitivo costituisce un ottimo
incentivo alla promozione di azioni di classe, le quali si prestano piu’ di altri giudizi a logiche
risarcitorie di tipo sanzionatorio; piu’ specificamente, la metà dei danni punitivi offre una valida
ragione ai veri finanziatori delle classi ( gli studi legali) per sobbarcarsi ingenti spese di ricerca,
nonché per farsi carico dei rischi.
In secondo luogo, l’eventualità di una condanna al risarcimento dei danni punitivi incide non
poco sulle valutazioni, che i convenuti si trovano a dover svolgere in merito all’opportunità di
addivenire ad una soluzione transattiva della controversia, già di per sé costosa; le imprese sono
stimolate a non resistere fino alla fine.
Da questo punto di vista, lo spettro del danno punitivo, oltre ad incentivare i potenziali
convenuti a scongiurare situazioni di responsabilità, presenta una sua logica in termini di efficienza
delle dinamiche della class action.
Altra peculiarità del sistema statunitense, da ricondurre all’opportuna rivisitazione della
Rule 23 operata nel 2003, è il ruolo assegnato alle corti nel caso in cui le parti, in seguito alla
certificazione, trovino un accordo transattivo, oppure decidano di rinunciare a determinate pretese
ed eccezioni.
Mentre nel modello italiano, il giudice non svolge alcun controllo sulla transazione
raggiunta in seno alla camera di conciliazione, nella class action statunitense le pretese, le questioni
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e le eccezioni possono essere fatte oggetto di accordo transattivo, essere rinunciate o sottoposte a
compromessi arbitrali, solo previa approvazione della corte.
La corte, prima di esprimersi, deve informare tutti i membri della classe, che possano essere
interessati e vincolati dalla transazione o dalla rinuncia o dal compromesso, potendo pervenire
all’approvazione solo dopo aver tenuto un’udienza per svolgere le valutazioni caso per caso.
La corte può anche rifiutarsi di accordare la sua approvazione all’accordo transattivo
proposto, se questo non contempla per i singoli membri della classe, che non abbiano esercitato
l’opt out, una nuova possibilità di optare per l’uscita dalla classe. Questa impostazione si spiega con
l’intento di tutelare i membri della classe dalle decisioni assunte dai class representative e,
soprattutto, dagli avvocati. Ogni membro della classe, infatti, può benissimo opporsi alla proposta
soggetta allo scrutinio della corte.
Altro dato da sottolinea è la competizione cui sono soggetti gli avvocati che intendano
rappresentare la classe nella veste di class counsel.
Non è, infatti, scontato che l’avvocato che sia il promotore di fatto dell’azione sia poi il suo
leader; la corte certificante, laddove piu’ avvocati si propongano per il ruolo di class counsel, dovrà
scegliere il legale piu’ idoeno a rappresentare gli interessi della classe, per una migliore tutela dei
suoi membri.
In particolare, la corte che certifica l’azione di classe è tenuta a nominare l’avvocato che
rappresenti la classe, considerando diversi profili, quali l’impegno profuso dal legale
nell’identificazione o nella ricerca delle potenziali pretese confluite nella class action; l’esperienza
dell’avvocato nella conduzione della class action ovvero di altri tipi di controversie di una certa
complessità; il grado di conoscenza da parte del difensore del diritto applicabile all’azione; le
risorse che il legale s’impegnerà ad investire nel rappresentare la classe; la capacità dell’avvocato a
rappresentare adeguatamente e correttamente gli interessi della classe.
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2 Altri modelli a confronto: la class action in
Canada ed in Australia
Il modello base della class action canadese, ridefinito ed affinato sotto molteplici aspetti
dalla Supreme Court of Canada in tre importanti decisioni del 2001, si caratterizza per una serie di
peculiari profili.
Anche in questo modello, al pari di quello statunitense, un individuo, persona fisica o
giuridica, agendo quale rappresentante di una classe di soggetti accomunati da interessi convergenti,
può dar luogo ad un’azione collettiva per il risarcimento dei danni, oltre che per altri eventuali
rimedi. E’ parimenti ammessa la class action passiva.
Non sono state poste limitazioni soggettive quanto alla tipologie di persone che possono
avviare o condurre una class action; l’ambito operativo non è circoscritto a determinati settori e, se
ciò corrisponde sulla carta al modello americano, tuttavia l’instaurazione di class action non
incontra nelle province canadesi le resistenze poste negli ultimi anni dalle corti statunitensi in una
serie di campi di particolare importanza per la tutela collettiva risarcitoria.
Come nel sistema statunitense risulta centrale la certificazione della classe ed i criteri per
l’ammissione della classe sono meno rigidi ed impeditivi rispetto alla class action statunitense.
E’ anzitutto richiesto che sia identificabile una classe composta da due o piu’ persone, senza
che però sia previsto un numero minimo. Le pretese o le difese dei membri della classe devono
presentare semplicemente delle questioni comuni. Difetta però nella fattispecie canadese la regola
del predominio delle questioni comuni su quelle individuali. Occorre che, ai fini della soluzione
delle questioni comuni, la via processuale della class action risulti preferibile rispetto ad altri
percorsi. Questo è il requisito della preferebility.
Il soggetto che si propone quale rappresentante della classe non deve dimostrare che la
propria posizione è quella tipica dei membri della classe, ma solo di poter adeguatamente
rappresentare quest’ultima, di non avere interessi contrapposti agli appartenenti alla classe e di aver
predisposto, presentandolo conseguentemente alla corte, un vero e proprio piano per la gestione
della class action che individui anche le linee guida per la comunicazione della stessa ai vari
membri della classe.
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L’introduzione della class action interrompe il decorso della prescrizione per tutti i membri
della classe, sino all’eventuale esercizio del diritto dell’opt out.
Sotto il profilo strettamente processuale, si segnala, analogamente al modello statunitense, la
notevole flessibilità; le corti godono di ampia discrezionalità nella gestione processuale della class
action.
E’ anche possibile richiedere che il dibattimento si svolga davanti alla giuria, allorchè le
questioni da affrontare non risultino esclusivamente di diritto.
E’ necessaria l’autorizzazione della corte sia per il caso in cui le parti si determinino, anche
solo per inattività, a rinunciare al processo e sia per l’ipotesi della conciliazione, dovendo in
quest’ultimo caso la corte valutare, con riferimento agli interessi dei membri della classe, la
ragionevolezza della transazione, considerando l’ammontare del risarcimento dei danni, le prove a
disposizione acquisite nella fase della discovery; le clausole e le condizioni dell’accordo; i costi e la
durata del processo; il numero dei membri della classe e l’assenza di collusioni.
La sentenza che definisce il giudizio collettivo vincola tutti gli appartenenti alla classe, a
prescindere dai suoi esiti, ad eccezione di coloro che abbiano optato per la propria esclusione con il
meccanismo dell’opt out.
Questo è il motivo per cui anche nel modello canadese si dedica attenzione alla
comunicazione dell’intervenuta certificazione ai membri della classe; forma e contenuti della notice
sono assoggettati all’approvazione della corte che ha certificato la classe, in alcune legislazioni
provinciali, poi, l’onere della comunicazione non grava sull’attore,ma sul convenuto.
Per ciò che concerne il risarcimento dei danni, le corti, oltre a riconoscere i danni punitivi,
detengono un certo qual margine di discrezionalità sui criteri da applicarsi nella distribuzione dei
risarcimenti tra i vari membri della classe; le eventuali somme, che non vengono reclamate dai
danneggiati, possono essere restituite al convenuto oppure essere attribuite ai fondi governativi (
questo è ad esempio il caso della Columbia Britannica).
Quanto al discorso sul finanziamento della class action, ci sono delle sfumature simili al
modello statunitense.
Gli avvocati possono stipulare patti quota-lite, ancorchè questi accordi, diversamente dal
modello nordamericano, siano sottoposti all’approvazione della corte che certifica la classe ed in
alcune province debbano fare i conti con la regola della soccombenza.
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Ad esempio, in Ontario, la parte soccombente è tenuta a corrispondere alla parte vittoriosa le
spese di giudizio, ma va altresi’ dato atto come si preveda a favore degli attori l’intervento di un
fondo- il Class Proceedings Fund- che li assiste nell’assolvere a questo incombente, oltre che al
pagamento degli onorari dei propri legali.
Nella Columbia Britannica, invece, gli attori, che si vedano rigettata l’azione, sono esonerati
dal pagare i costi della parte vittoriosa.
In Quebec, le spese legali del rappresentante di classe sono coperte da un’agenzia
governativa.
Da questa disamina emerge che allora il modello canadese riproduce gran parte delle
caratteristiche tipiche della class action statunitense, ma presenta anche aspetti di originalità
decisamente interessanti, che s’inseriscono in un contesto giurisprudenziale meno restrittivo, tanto
che l’istituto in questione ha conosciuto una rapida diffusione nelle province canadesi.
Per quanto concerne il modello australiano, vige un approccio piu’ liberale alla class action.
In realtà, il diritto australiano, sia a livello federale che statale, già possedeva dei
meccanismi per la gestione di multi-party actions, ma questi, essendo assoggettati a criteri
decisamente restrittivi, erano inadeguati e caddero in disuso.
Fu cosi’ che, dopo anni di studio, in Australia sono approdati all’approvazione di un nuovo
regime per i procedimenti imperniati sul meccanismo della rappresentanza, con l’inserimento nel
Federal Court of Australia Act 1976 di una nuova sezione dedicata ai representative proceedings,
entrata in vigore nel marzo 1992 e largamente ispirata al modello statunitense.
Il modello australiano presenta delle peculiarità che per alcuni aspetti lo distinguono dal
modello canadese per altri da quello statunitense.
Quanto ai requisiti per la configurabilità della classe difettano restrizioni particolari.
La classe deve essere composta da almeno sette persone, non necessariamente identificate,
che rechino nei confronti dello stesso soggetto pretese, afferenti a circostanze simili o connesse ed a
questioni di fatto o di diritto comune.
La class action può essere intrapresa anche nei casi in cui le pretese dei singoli membri della
classe abbiano per oggetto il risarcimento dei danni che richiedano una valutazione individuale; può
aver luogo anche laddove le pretese dei membri della classe non abbiano origine da un medesimo
rapporto contrattuale oppure da una medesima condotta, attiva o passiva.
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Non è necessario poi che l’atto introduttivo identifichi esattamente i singolo membri della
classe, essendo sufficiente che siano delineati i criteri per la loro individuazione; non è
analogamente richiesto il consenso dei singoli membri della classe.
Possono essere membri della classe anche persone incapaci e la corte, in ogni fase del
procedimento, può autorizzare la parte che rappresenta la classe a rivedere la descrizione della
classe stessa.
Per la legittimazione attiva, non ricorrono requisiti particolari, essendo unicamente richiesto
che la persona o le persone che avviano una class action abbiano un interesse sufficiente ad
intraprendere questa iniziativa.
A livello processuale, difetta il filtro della previa certificazione della classe.
L’azione non necessita di una fase specifica per la certificazione della classe; in particolare,
la disamina delle questioni è solo eventuale, essendo circoscritta al solo caso in cui la corte ritenga
che l’azione non possa procedere come class action in quanto i costi del procedimento superino la
somma dei costi che ciascun singolo processo potrebbe comportare oppure se la tutela rimediale
possa essere conseguita per intero attraverso un altro tipo di procedimento.
La corte gode di ampi margini di discrezionalità nella determinazione di quali siano le
questioni da decidersi collettivamente e di quali siano quelle da affrontarsi individualmente.
Analogamente ai modelli statunitense e canadese, sono previsti esiti conciliativi, con la
previsione di accordi transattivi. Si prevede che il rappresentante della classe possa addivenire ad un
accordo transattivo che riguarda solo lui e non già la classe, ma tale possibilità è condizionata al
permesso della corte che deve preoccuparsi di garantire la sopravvivenza della classe.
Nel modello australiano, ben diversamente da quello statunitense, gli avvocati possono
cercare di addivenire ad accordi transattivi con i singoli membri della classe in costanza di
procedimento., alla duplice condizione che siffatta iniziativa avvenga in buona fede e sia data alla
corte la possibilità di ordinare ai convenuti di sottoporre agli avvocati la bozza dell’accordo per la
valutazione di eventuali scorrettezze.
L’inizio della class action, come nel modello canadese, produce automaticamente la
sospensione del decorso dei termini di prescrizione per ciascun membro della classe sino a quando
questi non eserciti l’opt out oppure il procedimento si chiuda senza aver disposto alcunché sulle
singole pretese.
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Anche il modello australiano contempla il diritto per gli appartenenti alla classe, che non
intendano essere assoggettai agli esiti del giudizio collettivo, di esercitare l’opt out.
La corte fissa la data entro la quale i membri della classe, una volta regolarmente notificati,
devono comunicare l’eventuale decisione di escludersi dall’azione; decorso tale termine anche
questi risulteranno destinatari della sentenza collettiva; spetta alla corte determinare forme e
modalità della comunicazione da inviare ai membri della classe; può anche accadere che sia il
convenuto a doversi fare carico di informare gli appartenenti della classe.
I singoli membri possono richiedere alla corte di partecipare personalmente al procedimento
per la determinazione di questioni che non riguardino altri appartenenti alla classe; gli eventuali
costi sono attribuiti al singolo membro della classe.
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3 La disciplina europea della class action in
Germania, in Svezia, Norvegia e Danimarca ed in
Francia e Spagna
Il legislatore tedesco solo nel 2005 ha compiuto un significativo passo in avanti verso lo
sviluppo della tutela collettiva risarcitoria, adottando il provvedimento che delinea un vero e proprio
modello di giudizio collettivo funzionale al risarcimento dei danni.
Il procedimento presenta delle peculiarità.
La domanda d’instaurazione del procedimento collettivo è proponibile dall’attore o dal
convenuto solo in seno ad un giudizio individuale; essa può essere formulata solo ad istanza di parte
in seno ad un giudizio individuale, correttamente instaurato dinnanzi ad un giudice competente.
Il giudice, investito del giudizio individuale e richiesto di avviare la procedura che conduce
alla decisione-modello, se accerta che sussistono i presupposti per il passaggio al procedimento
collettivo, individua le questioni comuni meritevoli di trattazione congiunta e provvede a far
iscrivere la domanda individuale nell’apposito registro pubblicato nella Gazzetta federale
elettronica.
Se nei quattro mesi successivi a tale forma di pubblicità vengono iscritte nel registro almeno
altre nove domande dirette alla risoluzione della questione individuata come comune, il giudice
emana il provvedimento che avvia in concreto la procedura, rimettendo la decisione-modello alla
Corte d’appello a lui sovraordinata, essendo la competenza individuata in capo a quest’ultima.
Siffatta rimessione ha l’effetto di sospendere tutti i giudizi pendenti e vale altresi’ quale
chiamata in causa, per ordine del giudice rimettente, delle parti dei vari giudizi individuali, che
diventano automaticamente parti del procedimento-modello a prescindere dalla loro volontà e senza
che possano chiamarsi fuori.
La Corte d’Appello, vincolata dal provvedimento di remissione del giudice a quo, individua
d’ufficio tra i membri della classe l’attore-modello ed il convenuto-modello, scegliendoli in base al
criterio della migliore convenienza.
Effettuate tali nomine, la Corte d’Appello procede alla trattazione della controversia.
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vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
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La decisione, che definisce il giudizio collettivo, è vincolante per i tribunali di primo grado
che hanno competenza a decidere il merito delle azioni individuali, potendo assurgere a giudicato
sostanziale solamente qualora disponga dell’oggetto della controversia.
In seguito alla decisione-modello, suscettibile d’impugnazione da parte di coloro che hanno
partecipato al procedimento collettivo, le pretese individuali riprendono il loro corso dinnanzi ai
giudici inizialmente aditi, che dunque definiscono le singole pretese risarcitorie.
I costi del giudizio sono divisi tra le parti in quote proporzionali al valore delle pretese
risarcitorie esperite e la soluzione transattiva può aver luogo solo ed esclusivamente con il consenso
di tutti gli intervenienti nel giudizio collettivo.
Da questo sintetico quadro si comprende come il legislatore tedesco sia stato cauto
nell’ammettere questo istituto. La class action è infatti circoscritta quanto ai suoi margini operativi
ed ai soggetti cui è destinata, ovvero gli investitori. Trova applicazione solo in relazione alle
controversie aventi ad oggetto, con riferimento al mercato finanziario, il risarcimento dei danni
causati dalla presentazione di informazioni false o ingannevoli oppure dall’omissione di
informazioni.
Decisamente piu’ risolute del cauto legislatore tedesco sono state la Svezia , la Norvegia e la
Danimarca.
Tutti questi tre ordinamenti, vinte le resistenze dei partiti piu’ conservatori, hanno
consapevolmente optato per l’adesione a modelli di tutela collettiva risarcitoria decisamente piu’
vicini al tipo di class action.
Hanno accolto l’idea del representative action, distinguendosi tra loro quanto alla scelta del
meccanismo partecipativo all’azione di classe, avendo da un lato Svezia e Norvegia aderito al
meccanismo dell’opt in e dall’altro essendo la class action danese imperniata sulla logica dell’opt
out.
Le azioni introdotte in questi Stati, oltre a presentare degli schemi di gestione del processo
collettivo piuttosto simili, condividono altresi’ un’impostazione aperta alla definizione dei
legittimati attivi; questi ultimi possono essere anche dei singoli soggetti privati e non già solo
associazioni oppure autorità pubbliche. Non sono richieste particolari qualificazioni di questi
soggetti.
Per ciò che concerne la Francia, questa presenta una disciplina alquanto scarna.
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L’azione collettiva risarcitoria francese, introdotta dalla legge n. 88 del 14 gennaio 1988, poi
confluita nel 1993 in seno all’art. 422-1 del Code de la Consommation, è infatti circoscritta al solo
caso di risarcimento dei danni, subiti da due o piu’ consumatori, in conseguenza dell’uso dello
stesso tipo di prodotto difettoso.
La legittimazione attiva, inoltre, spetta esclusivamente alle associazioni riconosciute,
impedite dalla legge ad effettuare qualsivoglia attività di promozione dell’azione e soggetta, inoltre,
alla duplice condizione di aver conseguito un autentico mandato da parte di almeno due
consumatori e che tutti gli altri danneggiati siano stati individuati. La sentenza finale ha effetto solo
per i consumatori rappresentati dall’attore collettivo.
Per questi motivi, l’azione collettiva risarcitoria francese non ha avuto particolare successo.
Per contro, in Spagna, la disciplina è ben piu’ articolata, anche se presenta evidenti lacune.
I suoi orizzonti applicativi sono circoscritti alla sola protezione dei consumatori e degli
utenti, come emerge dall’art. 1 della legge 2000 n. 1, che distingue tre tipi di azioni collettive, a
seconda della possibilità di individuare i singoli membri della classe, denotando una certa qual
propensione ad un modello di tutela collettiva affidato prevalentemente alle associazioni.
Se i destinatari della tutela sono direttamente gli associati ad un’organizzazione di
consumatori o di utenti, quest’ultima, senza alcun pregiudizio per la legittimazione individuale dei
singoli, può frasi promotrice dell’azione collettiva; se gli appartenenti alla classe sono perfettamente
individuati o agevolmente identificabili, l’iniziativa dell’azione collettiva non spetta solo ed
unicamente alle associazioni dedicate alla protezione dei consumatori, bensi’ anche al gruppo
formato dagli individui accomunati dai medesimi interessi; se non è possibile l’individuazione dei
singoli membri della classe, sono legittimate unicamente le associazioni individuate dalla legge.
Da questo breve quadro emerge che in Europa, con l’eccezione dei Paesi scandinavi ( Svezia
e Norvegia) e della Danimarca, l’approdo a modelli di tutela collettiva risarcitoria si è giocato
prevalentemente nei termini di una costante ricerca di vie sostanzialmente e processualmente
diverse dalla class action americana.
Questa indagine ha trovato varie giustificazioni, sia di tipo tecnico sia di natura politica.
Sotto il primo profilo, sono state evidenziate le difficoltà ad importare un modello costruito
intorno ad un sistema processuale connotato da fattori prevalentemente tipici del diritto statunitense
e non rinvenibili nelle altre tradizioni; in relazione al secondo versante si sono registrate, anche in
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Italia, delle vere e proprie avversioni alla class action, ossia una visione politica dell’esperienza
USA fortemente negativa, spesso condizionata da tutta una serie di vicende giudiziarie
d’oltreoceano.
Ma se i diversi Stati membri, sia pure con sfumature differenti rispetto al modello
statunitense, si sono attivati nella predisposizione di sistemi di gestione collettiva delle pretese
risarcitorie comuni a piu’ cittadini danneggiati, l’Unione europea si ritrova ancora in alto mare.
Diverse sono le ragioni di questo arretramento.
Anzitutto, la difficoltà concreta a realizzare un modello uniforme per tutti gli Stati. La
creazione di un modello unico a dimensione europea per le azioni collettive risarcitorie si
scontrerebbe inevitabilmente con le profonde diversità sussistenti tra i vari sistemi relativamente ad
una moltitudine di profili, quali l’organizzazione delle corti, le modalità di accesso alla giustizia, le
regole processuali, il diverso ruolo della classe forense.
Poi la stessa concorrenza tra i modelli nazionali di riferimento per la predisposizione di una
tutela collettiva risarcitoria oppure lo stesso ingresso nell’Unione Europea di Stati che potrebbero
incontrare non poche difficoltà ad armonizzarsi a sistemi di tutela collettiva risarcitoria.
Nonostante ciò qualche primo passo è stato compiuto con il Documento 2007-2013, con cui
la Commissione ha predisposto un intervento, a tutela dei consumatori, sul fronte del risarcimento
collettivo, con l’obiettivo di facilitare l’accesso alla giustizia negli small claims stante la ricorrente
sproporzione tra l’ammontare dei danni risarcibili in capo ai singoli danneggiati ed i costi che si
trovano a dover sopportare in seno alle azioni individuali.
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4 Il modello di class action inglese
Il diritto inglese detiene indubbiamente il primato storico dell’invenzione del modello del
representative suit, posto che sul finire del seicento la Chancery Court, facendo leva sui principi
dell’equity, fu ostile ad azioni caratterizzate dall’estensione dei limiti soggettivi dei giudicati ad
individui assenti nei giudizi.
Tali azioni caddero in disuso quanto al loro impiego sul fronte della tutela risarcitoria, ciò
soprattutto quando agli inizi del novecento, non ritenendosi soddisfatto il requisito della con
titolarità della situazione soggettiva azionata, si escluse la procedibilità, attraverso il modello del
representative suit, di domande finalizzate al risarcimento dei danni.
Il meccanismo del representative proceedings, pertanto, è sopravvissuto in Inghilterra, ma
senza lambire piu’ il campo del risarcimento dei danni.
L’evoluzione della tutela risarcitoria collettiva, venuta meno la strada del representative
proceedings, non si è piu’ giocata nel diritto inglese, bensi’ ha avuto luogo attraverso l’adattamento,
operato creativamente dalle corti, delle regole processuali alle esigenze delle multi-party actions o
group actions.
Tra gli anni ottanta e novanta, i giudici inglesi hanno posto rimedio all’assenza di
meccanismi processuali per la gestione di questo tipo di contenzioso, delineando, con notevole
pragmatismo, regole inedite, ma al contempo invitando il legislatore ad intervenire.
Questi approdi giurisprudenziali sono confluiti nella proposta di riforma di Lord Wolf,
incaricato di predisporre le basi per una riforma del processo inglese. Nel suo Final Report del 1996
sull’accesso alla giustizia, infatti, si è ragionato non già in termini di un’impostazione del modello
statunitense, ma nella diversa prospettiva della creazione delle regole processuali idonee a facilitare
l’amministrazione giudiziale di controversie collettive.
Le proposte di riforma di Lord Wolf sono confluite nella vigente disciplina dei Group
Litigation Orders.
Questa permette alle corti di dare discrezionalmente luogo, attraverso degli appositi orders,
ad una differente gestione del processo, laddove vi siano o possano esservi piu’ pretese che,
presentando questioni in fatto o in diritto comuni oppure anche solo tra loro connesse, siano da
risolversi in un medesimo giudizio.
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La corte, allora, può dar vita, d’ufficio o su istanza di parte, ad un vero e proprio giudizio
collettivo, proprio attraverso l’emanazione di un Group Litigation Order. In questo caso, anche
successivamente all’adozione dello stesso, possono accedere e costituirsi in giudizio altre parti, che
soddisfino i requisiti previsti dal Group. Per questi soggetti che abbiano deciso di entrare la
decisione finale ha effetto vincolante.
Si tratta, allora, di un meccanismo processuale che presenta delle peculiarità tutte proprie e
delle palesi diversità rispetto al modello statunitense: sono membri della classe solo le parti
originarie del procedimento e quei soggetti che abbiano esercitato l’opt in; le decisioni assunte in
seno al giudizio vincolano solo questi soggetti, senza estendersi a coloro che siano rimasti estranei,
difettando dunque il fenomeno rappresentativo tipico della class action statunitense.
Nel Group Litigation Order, che può essere emesso sia in seno ad un giudizio individuale sia
all’interno di un giudizio litisconsortile, la corte delinea una vera e propria classe e fornisce le
indicazioni per la formazione del registro ( il group register), in cui vengono successivamente
iscritte le proprie pretese da gestire collettivamente; definisce le questioni identificative delle
pretese da gestirsi secondo il modello dell’azione di gruppo; individua discrezionalmente la corte (
la management court), che si occuperà di amministrare le varie pretese iscritte nel registro.
La management court costruisce, con ampi margini di discrezionalità, uno specifico
processo collettivo per la gestione del contenzioso sottopostole e può fissare una data entro la quale
i soggetti interessati alla partecipazione all’azione di gruppo possono essere aggiunti al group
register senza necessità del permesso della corte. Può fissare i criteri che le parti devono osservare
per far parte del giudizio.
Può, altresi’, stabilire quali questioni siano da trattarsi unitariamente per tutti i membri del
gruppo e quali da risolversi a carattere individuale; può decidere di affrontare preliminarmente uno
o piu’ casi; può approvare la redazione di un questionario per la raccolta delle circostanze che
riguardano ogni singola posizione e può dettare criteri per la ripartizione dei costi, distinguendo
eventualmente tra costi comuni e costi individuali.
Il modello inglese presenta, poi, una caratteristica specifica, ovvero la previsione di un
meccanismo per dare pubblicità all’instaurazione del giudizio collettivo. La corte, infatti, che emana
un Group Litigation Order, deve inviarne una copia all’organismo centrale dell’avvocatura inglese,
presso la quale è istituito un ufficio cui ci si deve rivolgere prima di avviare un’azione di gruppo.
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Siffatta forma di pubblicità, tuttavia, si presenta alquanto limitata rispetto al modello
statunitense: in Inghilterra, l’allargamento del gruppo è affidato all’iniziativa di quegli studi legali,
che si impongono quali laeders delle azioni di gruppo e che si sobbarcano i rischi economici
dell’azione processuale.
Questi hanno poi la possibilità di stipulare accordi, solitamente accompagnati dalla
pattuizione di un premio in caso di successo, che è a sua volta calcolato, non già come nel sistema
statunitense, sull’ammontare del risarcimento accordato ai propri clienti, ma, con prospettive di
profitto ben circoscritte, in una percentuale degli onorari calcolati secondo i criteri concordati.
Senza dubbio, il profilo dei costi del giudizio collettivo presenta delle peculiarità nel sistema
inglese.
Opera il principio della soccombenza, che espone gli attori ad evidenti rischi, solo in parte
attenuati dalla prospettiva della condivisione dei costi comuni e dal potere discrezionale delle corti
di considerare le particolari circostanze del caso. In appoggio agli attori, può poi intervenire il legal
Aid Board, ancorchè, nei casi di danni alla persona, i margini di operatività del suo supporto siano
stati circoscritti negli ultimi anni alle sole controversie d’interesse pubblico.
Questo aspetto del fattore dei costi ha inciso non poco sul ricorso da parte dei danneggiati e
dei loro legali, contribuendo a determinare lo scarso successo delle controversie gestite con il
sistema dei Groups Litigation, insieme ad altri fattori, quali il ritardo nella redazione dei criteri
operativi nonché le difficoltà interpretative incontrate dalla classe forense inglese.
La disciplina inglese, nonostante la completezza della regolamentazione, presenta pur
tuttavia qualche lacuna, sia nella parte in cui difetta una disciplina sui profili relativi alla
prescrizione, posto che l’apertura di un group register non interrompe il decorso dei termini
prescrizionali per i danneggiati che non siano costituiti; sia nella parte in cui è del tutto carente
qualsivoglia previsione circa la possibilità per la management court di esprimere il proprio consenso
alle eventuali soluzioni transattive raggiunte tra le parti.
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5 L’azione collettiva risarcitoria italiana
Il Governo italiano, con l’approvazione della legge finanziaria 2008, ha presentato l’istituto
dell’ “azione collettiva risarcitoria a tutela degli interessi dei consumatori”come una forma di class
action.
Senza dubbio, l’innovativo strumento processuale, nonostante presenti qualche affinità con
il modello statunitense, ha delle caratteristiche decisamente tipiche che ne qualificano la struttura e
la funzione e che la distinguono nettamente rispetto ai modelli di common law.
Anzitutto, la legittimazione attiva è circoscritta, nel pieno stile del modello consumeristico,
ad un novero ristretto di soggetti, ovvero le associazioni di cui al comma 1 dell’art. 139 del Codice
del Consumo ed i comitati che siano adeguatamente rappresentativi degli interessi collettivi fatti
valere), senza annoverare come protagonisti diretti i singoli danneggiati, i quali possono o soltanto
aderire oppure intervenire nel procedimento collettivo, ma mai divenire diretti promotori.
Il comma 1 dell’art. 139 del Codice del Consumo si riferisce alle associazioni inserite
nell’apposito elenco di cui all’art. 137, istituito presso il Ministero delle attività produttive.
L’iscrizione nell’elenco è subordinata alla sussistenza di una serie di requisiti.
Le associazioni devono essere state costituite da almeno tre anni, con atto pubblico o con
scrittura privata autenticata, in virtu’ di uno statuto che sancisca un ordinamento interno a base
democratica e che preveda lo scopo esclusivo di tutela dei consumatori e degli utenti senza fine di
lucro; devono tenere un elenco di iscritti, aggiornato annualmente, e devono avere un numero di
iscritti non inferiore allo 0,5 per mille della popolazione nazionale ed essere presenti in almeno
cinque regioni o province autonome.
Devono elaborare un bilancio annuale delle entrate e delle uscite e svolgere attività
continuativa. I loro rappresentanti legali non devo aver subito alcuna condanna definitiva in
relazione all’attività dell’associazione da loro rappresentata. Alle associazioni dei consumatori e
degli utenti è preclusa ogni attività di promozione e pubblicità commerciale avente per oggetto beni
o servizi prodotti da terzi ed ogni connessione di interessi con imprese di produzione e
distribuzione.
Il requisito di maggior rilievo è senza dubbio quello della esclusività dello scopo di tutela
dei consumatori che devono perseguire per essere iscritte nell’elenco.
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Per quanto concerne i comitati, ciò che, invece, acquista incidenza è il criterio dell’adeguata
rappresentatività degli interessi collettivi, il cui vaglio preliminare compete al Tribunale in sede di
verifica dell’ammissibilità della domanda.
Anche l’ambito operativo è piuttosto limitato, riguardando soltanto i consumatori e gli
utenti.
La nozione di consumatore è stata importata nel nostro ordinamento per effetto della
normativa comunitaria. Si pensi all’art. 38 della Carta dei diritti fondamentali, che prescrive che
nelle politiche dell’Unione è garantito un livello elevato di protezione dei consumatori; all’art. 153
del Trattato il quale stabilisce come le politiche comunitarie debbano promuovere gli interessi dei
consumatori ed assicurare un livello elevato di protezione dei consumatori; alla direttiva 855/77
relativa ai contratti negoziati fuori dai locali commerciali; alle direttive 87/102 e 90/88 in materia di
credito al consumo nonché alla direttiva 90/314 concernente i viaggi tutto compreso.
La ratio è evidente: la tutela apprestata in favore del consumatore si fonda sul rilievo e sul
presupposto per cui il consumatore sia parte debole rispetto all’imprenditore, in considerazione
dell’enorme differenza sia in termini di minore potenzialità economico-finanziaria sia in termini di
difetto di conoscenze specifiche afferenti alle condizioni economiche del mercato nonché alle
regole giuridiche ad esso sottese.
Tutta questa esigenza di protezione comunitaria è refluita nel codice del consumo, che,
all’art. 3, definisce il consumatore o utente come la persona fisica che agisce per scopi estranei
all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta.
Il codice parla di consumatori ed utenti. In realtà l’espressione polisensa non è certo quella
di utenti bensi’ quella di servizi.
In particolare, ci si deve chiedere se possa sussistere qualche tipologia di servizio che non
sia suscettibile di costituire oggetto di un rapporto di consumo.
La dottrina è unanime nel ritenere che qualsiasi tipologia di servizio, in quanto sia oggetto di
fruizione per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta, ricada
nell’ambito applicativo della legislazione di tutela del consumatore.
Il legislatore italiano ha, poi, delimitato ulteriormente l’ambito oggettivo, restringendolo ai
soli eventi dannosi plurioffensivi rilevanti.
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Le azioni collettive risarcitorie, nel dettaglio, sono attivabili, ai sensi del comma 1 dell’art.
140 bis, solo in quattro fattispecie, ovvero i rapporti giuridici relativi a contratti stipulati ai sensi
dell’art. 1342 c.c.; gli atti illeciti extracontrattuali; le pratiche commerciali scorrette; i
comportamenti anticoncorrenziali; e se sussista il requisito imprescindibile della plurioffensività,
vale a dire che un medesimo evento cagioni simultaneamente danno a piu’ persone.
Il Tribunale, allora, in una fase preliminare, deve verificare non solo che l’attore collettivo
soddisfi i requisiti che lo legittimano alla proposizione dell’azione collettiva in questione, ma
altresi’ che i soggetti rappresentati dall’attore siano effettivamente qualificati come consumatori o
utenti; che le pretese risarcitorie o restitutorie siano riconducibili ad una delle quattro fattispecie
summenzionate; che sussista, rispetto ai membri della classe, la plurioffensività delle condotte
scritte all’impresa convenuta.
Questo è il vaglio di ammissibilità che il giudice deve compiere in una fase preliminare,
come imposto dall’art. 140 bis, che al comma 3 stabilisce che alla prima udienza il tribunale, sentite
le parti ed assunte quando occorre sommarie informazioni, pronuncia sull’ammissibilità della
domanda.
La realizzazione dell’obiettivo finale è il risarcimento del danno o la restituzione delle
somme. E’ esclusa categoricamente la risarcibilità di qualsivoglia danno punitivo.
Questo obiettivo non si consegue in seno alla sentenza che definisce il giudizio collettivo,
ma attraverso due tappe fondamentali.
La prima fase giudiziale, rimessa nelle mani del magistrato, che non chiude il cerchio sul
quantum debeatur; la seconda di tipo conciliativo, affidata per intero alle capacità ed alle logiche
conciliative di associazioni ed imprese, dovrebbe chiudersi con la liquidazione effettiva dei danni.
Se ne desume che l’esito della fase giudiziale del contenzioso collettivo non concretizzi
direttamente l’obiettivo finale, ma, quale passaggio imprescindibile, ne crei soltanto le premesse,
affidando alla fase negoziale-conciliativa la liquidazione effettiva dei danni e la concreta
restituzione delle somme ai singoli aderenti ed intervenienti.
Questa singolare strutturazione della tutela risarcitoria collettiva si evince dalla lettura
congiunta di una serie di disposizioni normative.
Il comma 1 dell’art. 140 bis prevede espressamente che la fase giudiziale risarcitoria
collettiva abbia quale obiettivo L’accertamento del diritto al risarcimento del danno ed alla
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restituzione delle somme spettanti ai singoli consumatori o utenti; non c’è il riferimento ad una
sentenza di condanna al risarcimento dei danni, bensi’ solo quella dell’accertamento
dell’obbligazione risarcitoria; il comma 4 stabilisce che il giudice, con la sentenza che accoglie la
domanda di accertamento, determina solo le linee guida sul quantum, cioè dei criteri parametrici,
che serviranno poi a guidare l’impresa e la camera di conciliazione nella liquidazione dei singoli
crediti.
Pertanto, la sentenza che chiude il giudizio collettivo risolve unicamente il profilo dell’an
debeatur, dettando, laddove accolta la domanda di accertamento di responsabilità dell’impresa, una
serie di criteri e di principi con i quali affrontare il quantum debeatur nella successiva fase
conciliativa.
Analizzando qualche aspetto ulteriore, la sentenza conclusiva si articola in tre parti, di cui
due necessarie ed una eventuale.
La prima consiste nell’accertamento della natura illecita di un certo comportamento o di una
serie di comportamenti contrattuali, precontrattuali o extracontrattuali o della natura abusiva ovvero
illecita di una o piu’ clausole di un contratto di massa o di una serie di contratti di massa.
La seconda determina i criteri in base ai quali liquidare la somma da corrispondere o da
restituire ai singoli consumatori o utenti che hanno aderito all’azione collettiva o che sono
intervenuti nel giudizio.
La terza, meramente eventuale, è quella con cui il giudice, se possibile allo stato degli atti,
determina la somma da corrispondere a ciascun consumatore o utente.
I primi due capi si risolvono in altrettante pronunce di mero accertamento; problemi sorgono
per la qualificazione dell’ultimo.
Il dato letterale sembrerebbe far propendere per la natura di mero accertamento anche di tale
ultima statuizione giudiziale.
In realtà, la sentenza può contenere statuizioni di condanna in favore di tutti gli aderenti, dal
momento che con la domanda introduttiva si richiede non solo l’accertamento della natura illecita di
un certo contegno dell’impresa convenuta, ma anche la condanna dell’impresa convenuta a
corrispondere ai singoli consumatori le somme minime spettanti agli stessi.
Gli effetti della sentenza collettiva si estendono ai consumatori intervenuti nel giudizio
collettivo ed ai soli danneggiati, che abbiano aderito all’azione con il meccanismo dell’opt in.
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Il problema che si pone qui è l’inquadramento della figura dell’opt in nelle categorie
giuridico-processuali vigenti nel nostro ordinamento.
L’adesione non dà luogo ad alcuna forma di intervento nel processo né ad alcuna forma di
domanda giudiziale né ad alcuna assunzione di un ruolo da parte formale. Non è un atto processuale
né può definirsi un atto extraprocessuale con immediati effetti causativi nel processo, giacchè
l’adesione prestata da singolo all’azione collettiva si rivolge solo all’associazione o comitato e
neppure è indirizzata all’avvocato dell’associazione promotrice.
Viene, invece, concepita dalla legge come una peculiare manifestazione di volontà di
inclusione nel gruppo, che l’attore collettivo rappresenta in giudizio.
E’ una richiesta rivolta all’attore di sostituirsi a sé nel far valere il proprio credito in seno
all’azione collettiva, secondo il parametro di cui all’art. 81 c.p.c.
Trattasi allora di un negozio proveniente da terzi rivolto all’attore.
E’, precisamente, una dichiarazione di accettazione di una sua proposta di accordo, rivolta al
pubblico dei consumatori, con cui il consumatore o utente conferisce all’ente associativo la
legittimazione non già ad agire, ma a dedurre additivamente in giudizio il proprio credito
risarcitorio quale componente del petitum sostanziale finale.
Di ciò deve tener conto la sentenza, che dovrà contemplare, non come singoli litisconsorti,
ma solo come partecipanti sostanziali alla res iudicata, tutti gli aderenti, quelli cioè la cui iscrizione
nel petitum di classe sia stata allegata nel processo fino all’udienza.
Di questo il Tribunale dovrà tener conto, sia in vista della condanna del convenuto a versare
a ciascuno una provvisionale sia con riguardo agli effetti di accertamento della responsabilità
dell’impresa convenuta verso soggetti ben definiti.
Questo negozio di adesione cosi’ delineato può benissimo essere assimilato ad un negozio di
mandato atipico, dove l’oggetto è una complessa attività quale quella difensiva del diritto in ogni
stato e grado.
Diverso è, altresi’, il ruolo degli avvocati rispetto al modello statunitense, dal momento che i
veri protagonisti saranno i legali delle associazioni dei consumatori, potendo gli altri avvocati
costituire dei comitati.
Del tutto peculiare la disciplina della prescrizione nell’azione collettiva risarcitoria.
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L’ultima parte del comma 2 dell’art. 140 bis stabilisce che l’esercizio dell’azione collettiva
produce gli effetti interruttivi della prescrizione ai sensi dell’art. 1945 c.c. ed anche l’adesione
all’azione collettiva, se successiva alla promozione del giudizio collettivo, dà luogo all’interruzione
del decorso dei termini prescrizionali.
E’ evidente che il legislatore abbia voluto prevedere due distinte fattispecie produttive degli
effetti interruttivi della prescrizione; la prima contestuale alla proposizione dell’azione; la seconda
successiva alla fase iniziale.
Nella prima fattispecie dell’interruzione della prescrizione per effetto dell’esercizio
dell’azione, il regime prescrizionale pare conservare una dimensione collettiva: l’attore collettivo,
nell’esercitare collettivamente il rimedio risarcitorio, interrompe il decorso dei termini di
prescrizione, con automatico beneficio per tutta la serie di consumatori ed utenti, che abbiano
precedentemente comunicato per iscritto al proponente la propria adesione all’azione collettiva.
L’atto introduttivo del proponente, cioè, interrompe collettivamente il decorso della
prescrizione.
Il legislatore, poi, delinea una seconda fattispecie interruttiva della prescrizione, riferita
all’adesione, pur se successiva, all’azione collettiva.
La previsione di questa seconda ipotesi costituisce una conferma di quanto sia circoscritta la
dimensione collettiva del regime prescrizionale.
Proprio in considerazione dell’inciso “o, se successiva, l’adesione all’azione collettiva”,
diviene assolutamente inequivocabile come la promozione dell’azione collettiva risarcitoria non
produca i benefici interruttivi della prescrizione, se non per i soggetti che abbiano già aderito prima
dell’instaurazione del contenzioso collettivo.
La dimensione collettiva, cioè, si arresta alla prima fattispecie, mentre la fattispecie in esame
è a dimensione individuale, giacchè l’adesione successiva, quale meccanismo interruttivo della
prescrizione, è esclusivamente atto interruttivo del singolo consumatore o utente.
Qualche problema può porsi per il caso di adesione successiva tardiva, effettuata cioè ad
intervenuta prescrizione del credito vantato dal singolo aderente all’azione.
Il legislatore non si pronuncia sul punto, dal momento che non indica neanche le modalità
con cui il proponente debba veicolare la successiva adesione entro il processo e portarla a
conoscenza di controparte, cioè del titolare dell’eccezione di intervenuta prescrizione.
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vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
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Si prospettano due soluzioni.
Secondo una prima interpretazione, si potrebbe ipotizzare che sulla tempestività
dell’adesione successiva da parte del singolo consumatore possa svolgersi in seno al processo
collettivo una qualche forma di scrutinio su ogni singola adesione.
Maggiormente conforme alla lettera della norma ed alla stessa impostazione dell’azione
collettiva risarcitoria è l’altra soluzione per la quale il giudice, anche per ragioni di efficienza
processuale, non debba interessarsi della questione della tempestività e che l’eventuale tardività di
siffatte adesioni possa venire in rilievo solo in seno alla fase che segue la notificazione della
sentenza di accoglimento della domanda risarcitoria collettiva.
Altro profilo problematico che potrebbe venire in rilievo e che non è stato affrontato dal
legislatore riguarda le sorti dei singoli aderenti all’azione risarcitoria collettiva nell’eventualità in
cui questa non sia riconosciuta come ammissibile.
Nello specifico, atteso che nel modello elaborato dal nostro legislatore non è stato previsto,
diversamente da altri ordinamenti, alcun meccanismo processuale che operi il passaggio dall’azione
collettiva non ammessa, cioè non certificata come azione di classe, all’azione di gruppo, occorre
prendere atto di come la posizione di chi ha aderito all’azione collettiva non sia riprometta su altre
vie.
Dichiarata l’inammissibilità, la tutela risarcitoria apprestata collettivamente a beneficio dei
singoli aderenti crolla come vero e proprio castello d’arte.
C’è poi da chiedersi se la mancata ammissione dell’azione in esame travolga gli effetti
interruttivi dei termini prescrizionali discendenti dalla promozione del giudizio collettivo o dalle
successive adesioni.
In buona sostanza, il problema è se il singolo consumatore, che, venuta meno l’azione
collettiva e non premunitosi, pendente l’azione collettiva, di continuare ad interrompere la
prescrizione per suo conto, decida di agire singolarmente o in gruppo con altri, possa beneficiare
dell’interruzione prodottasi per effetto dell’azione collettiva risarcitoria.
La soluzione preferibile induce a ritenere che l’adesione all’azione collettiva risarcitoria, a
prescindere che questa sia stata operata prima dell’instaurazione del giudizio o successivamente, sia
una forma di attivazione del diritto dotata di efficacia interruttiva ai fini della successiva tutela
individuale, con prospettazione di tre diverse ricostruzioni.
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O che la stessa sia assimilabile alla domanda giudiziale o che sia configurabile quale atto
interruttivo a carattere speciale o, per quanto concerne la sola adesione precedente all’instaurazione
del giudizio collettivo, sia assimilabile all’atto di cui al comma 4 dell’art. 2943 c.c.
Un ultimo approfondimento merita la fase della transazione individuale o della conciliazione
collettiva.
Per quanto riguarda la prima, l’ultima parte del comma 4 dispone che nei sessanta giorni
successivi alla notificazione della sentenza, l’impresa propone il pagamento di una somma, con atto
sottoscritto, comunicato a ciascun avente diritto e depositato in cancelleria.
La proposta in qualsiasi forma accettata dal consumatore costituisce titolo esecutivo.
E’ evidente la diversa forma che il legislatore prescrive per la proposta e l’accettazione, dal
momento che la proposta segue un rigorismo formale eccessivo, che invece difetta
nell’accettazione.
Al contrario, sembra che il legislatore abbia ecceduto nel deformalizzare completamente
l’accettazione.
Come forma alternativa a quella di composizione individuale delle pretese risarcitorie e
restitutorie, il legislatore ha previsto una forma peculiare di conciliazione collettiva.
Se, allora, nella possibile fase transattiva, l’associazione promotrice esce di scena ed i
singoli consumatori tornano a gestire in prima persona i loro diritti sostanziali, nella fase
conciliativa, invece, è l’associazione che nomina l’avvocato che partecipa alla conciliazione per
tutti i consumatori.
Questa fase denota una certa utilità pratica rispetto all’altra, dal momento che possono
essere prese in considerazione e trattate le singole pretese dei consumatori nella loro intera
estensione, a differenza che nella fase immediatamente successiva all’emanazione della sentenza.
In quest’ultima, infatti, l’imprenditore non avrà ancora a disposizione elementi concreti per
formulare proposte transattive.
Il comma 6 dell’art. 140 bis stabilisce che se l’impresa non comunica la proposta entro il
termine di cui al comma 4 o se non vi è stata accettazione nel termine di sessanta giorni dalla
comunicazione della stessa, il presidente del Tribunale costituisce un’unica camera di conciliazione
per la determinazione delle somme da corrispondere o da restituire ai consumatori ed utenti.
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La camera di conciliazione è composta da un avvocato indicato dai soggetti che hanno
proposto l’azione collettiva e da un avvocato indicato dall’impresa convenuta ed è presieduta da un
avvocato nominato dal presidente del Tribunale tra gli iscritti all’albo speciale per le giurisdizioni
superiori.
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• Giussani, Modelli extraeuropei di tutela collettiva risarcitoria, 72 e ss.;
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prospettive di riforma in una recente riflessioni, in Riv. Crit. Dir. Priv., 2007, 2, 331 e ss.;
• P. Fava, Class actions tra efficientismo processuale, aumento di competitività e risparmio di
spesa: l’esame di un contenzioso seriale concreto, in Corr. Giur., 2006, 535;
• V. Vigoriti, Impossibile la class action in Italia? Attualità del pensiero di Mauro Cappelletti,
in Rass. Forense, 2006, 95 e ss.;
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collettiva risarcitoria: i nodi irrisolti delle proposte di legge in discussione, in Giur. It., 2005,
662 e ss.;
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• Consolo, Fra nuovi riti civili e riscoperta delle class actions, alla ricerca di una giusta
efficienza, in Corr. Giur., 2004, 5, 565 e ss.;
• P. Fava, L’importabilità delle class actions in Italia, in Cont. Imp., 2004, 166 e ss.;
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• Giussani, Studi sulla class action, Padova, 1996;
• G. Ponzanelli, “Class action”, tutela dei fumatori e circolazione dei modelli giuridici, in
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• Consolo, Class actions fuori dagli USA?, in Riv. Dir. Civi., 1993, 622 e ss.
• Giussani, Azione collettiva, in Encicl. Dir., Milano, 2007, Annali I, 132 e ss.;
• R. Marengo, Garanzie processuali e tutela dei consumatori, Torino, 2007;
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• Giussani, Le “mass tort class action” negli Stati Uniti, in Riv. Crit. Dir. Priv., 1988, 331 e
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